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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 104377 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Dicembre 03, 2010, 04:11:19 pm »

IL DOCUMENTO DI WIKILEAKS

L'obiettivo: banalizzare le rivelazioni per difendere un potere grottesco

Quei cablo americani su un premier fragile e squalificato.

Letta e Cantoni non sono entità neutre dell'establishment berlusconiano: braccio destro e vecchio amico.

Il Cavaliere non si preoccupa del bene comune: mai nelle carte svelate c'è l'iniziativa di un uomo di Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO

L'obiettivo: banalizzare le rivelazioni per difendere un potere grottesco Gianni Letta e Silvio Berlusconi
Gianni Letta e Giampiero Cantoni. Bisogna cominciare da qui, dalle fonti dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, dalla loro qualità, dai loro nomi. La strategia diversiva organizzata dagli uomini di Berlusconi nelle prime ore della "crisi WikiLeaks" è nota: l'ambasciata di via Veneto  -  ripetono ugole obbedienti  -   invia al Dipartimento di Stato niente di più e niente di meno che una miserabile "rassegna stampa" con un "copia e incolla" delle cronache dei giornali più ostili al Cavaliere.

Giornali come Repubblica, per capirci. Che volete che sia? Vi aspettate una bomba? Avrete un petardo bagnato!
Questa filastrocca è stata ripetuta a mo' di giaculatoria in questi giorni e c'è ancora chi, come l'infelice avvocato Niccolò Ghedini, ha da ripeterlo in queste ore, per contratto e per passione. Si comprende la trama: il premier deve trasformare le rivelazioni dei cablogrammi diplomatici in fuffa; banalizzarne il significato; minimizzarne gli esiti politici interni; limitare i catastrofici effetti internazionali per la sua reputazione e per la credibilità dell'Italia.

Bene, in questo teatro di cartapesta irrompono ora i nomi delle fonti della diplomazia americana. Gianni Letta e Giampiero Cantoni non sono identità neutre dell'establishment berlusconiano. Letta è il braccio destro, l'alter ego di Silvio Berlusconi, l'effettivo capo del governo nei lunghi periodi in cui al Cavaliere viene a noia o non può affrontare la
fatica del governare. Giampiero Cantoni è meno conosciuto ma, non per questo, meno rilevante. Amico di lunga data di Berlusconi, è stato presidente di Efibanca e della Banca nazionale del lavoro. Caduto nella polvere nella stagione di Mani Pulite (patteggia una condanna per corruzione e bancarotta fraudolenta), rinasce con Forza Italia. Oggi è il presidente della commissione Difesa del Senato. Sono Letta e Cantoni - e quindi fonti dirette, informate dei fatti, non ostili al capo di governo, anzi a lui devote - a spiegare all'ambasciatore David Thorne il declino di Silvio Berlusconi, i suoi incubi, l'angosciante decadenza fisica, le ragioni di un crepuscolo politico che lo abbandonano, prigioniero, a patologiche ossessioni: il sesso, il denaro, l'angoscia di vedersi sottratto il potere.

D'altronde, Letta e Cantoni non possono offrire all'ambasciatore il racconto vanaglorioso dell'ininterrotto rosario di successi del Cavaliere. Possono mica ripetergli che se le truppe di Mosca si sono fermate alle porte di Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l'inizio di una nuova Guerra Fredda. O ricordargli che se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito "l'avvicinamento" della Casa Bianca al Cremlino. O ancora, che se l'Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen o ripetergli che se "l'Europa non resterà mai più al freddo", il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Queste sono bubbole pronte per il "mercato" nazionale.

Questo racconto fantasioso, standardizzato, senza incrinature è buono per l'Italia del Tg1 di Minzolini. Nelle conversazioni tra le "due personalità personalmente e professionalmente vicine a Berlusconi" e David Thorne si scorgono accenni di un sincera ansia per le sorti del Paese, una schietta preoccupazione per l'incapacità del capo del governo di far fronte alle sue responsabilità. O, per dirla in altro modo, la convinzione che la sua fragilità privata - e fisica e psicologica - gli impedisca con evidenza di far fronte al suo impegno pubblico. Non affiora nessun biasimo o denigrazione.
Soltanto l'inquietudine di chi deve prendere atto del declino di uomo che è stato una volta vigoroso, vitale e ammirato. È questo il messaggio che l'ambasciata di Roma invia allora a Washington: Berlusconi è un uomo debole, reso instabile dalla satiriasi: una sexual addiction che lo debilita fisicamente. È politicamente fragile, un intralcio anche per i suoi che se ne vogliono liberare presto e hanno già preso a pensare come farlo e quando e come. Tormentato da difficoltà finanziarie, guai giudiziari, scandali sessuali, egli non appare in grado di decidere, di fare il suo lavoro.

Appaiono lontani i tempi in cui Berlusconi era capace di giocare sempre la sua partita e sempre border line con grande spregiudicatezza, come racconta l'ambasciatore Ronald Spogli in un cable del 26 ottobre 2005. I sondaggi lo danno sotto di otto punti e il Cavaliere, preoccupato per la vicina campagna elettorale che lo opporrà a Prodi, chiede "specificamente" di poter incontrare George W. Bush a Washington e di parlare prima di una sessione congiunta del Congresso "per migliorare le sue prospettive, prima delle elezioni di aprile 2006". Spogli ricorda che Berlusconi "pianifica" il viaggio e butta giù una "lista della spesa". Chiede una dichiarazione presidenziale a sostegno di valori condivisi; il supporto per estendere nel 2005 il mandato delle Nazioni Unite in Iraq; progressi concreti del piano per migliorare la sicurezza dell'Iraq e permettere una riduzione delle truppe italiane.

Il Berlusconi del 2009 è un altro. L'email inviata al Dipartimento di Stato a Washington ha una data, 27 ottobre, e un titolo chiarissimo: "Italia: gli scandali fanno pagare un prezzo sulla salute personale e politica di Berlusconi".
Il sottosegretario Gianni Letta, ricorda l'ambasciatore, dice il 23 ottobre che Berlusconi è "fisicamente e politicamente debole". Era normalmente iperattivo, oggi è "privo d'energia" e addirittura "depresso" dopo l'aggressione subita in piazza Duomo a Milano. Il giorno prima, il 22 ottobre, Giampiero Cantoni è stato più esplicito. "Siamo tutti preoccupati per la sua salute" dice a un funzionario dell'ambasciata e osserva che Berlusconi è svenuto tre volte in pubblico e che "i suoi test medici sono risultati un gran pasticcio".
"Cantoni - si legge nel dispaccio - ha detto che le frequenti nottate di Berlusconi e la tendenza per feste scatenate non gli concedono riposo a sufficienza". Sveglio di notte e insonnolito di giorno. L'ambasciata lo conferma al Dipartimento di Stato con qualche ricordo diretto: "Berlusconi si è addormentato brevemente durante una visita di cortesia dell'ambasciatore a settembre, ed è apparso distratto e stanco in un evento del 19 ottobre cui ha partecipato l'ambasciatore".

Ancora Cantoni garantisce come "Berlusconi sia dominato da preoccupazioni private. Osserva che si è sentito allontanato dalla sua famiglia da quando sua moglie Veronica Lario ha provocato uno scandalo pubblicando una lettera aperta e chiedendo il divorzio e accusando il premier settantaquattrenne di frequentare minorenni". Teme che la Lario possa dimezzare le sue ricchezze con il divorzio: "A quel che si dice, (lei) chiede il 50 per cento del patrimonio personale di Berlusconi più 100 milioni di pensione annuale".
Soldi e timori. Ancora soldi, ancora timori. La vita di Berlusconi pare oscillare come un pendolo tra l'incubo maniacale di vedere assottigliare il proprio tesoro e il proprio potere e il panico di chi, in forma paranoica, si sente assediato da mondo. Non è soltanto la moglie a dargli fastidi finanziari. Secondo Cantoni, "Berlusconi teme che sarà necessario liquidare importanti "attivi" dei suoi affari per affrontare la multa di 750 milioni di euro ordinata dal tribunale civile", scrive l'ambasciata e intende la sanzione inflitta alla Fininvest come indennizzo dei danni causati alla Cir di Carlo De Benedetti con la corruzione del giudice che ha deciso la controversia Mondadori.

Sorpreso a festeggiare Noemi Letizia, il premier non pensa di aver deciso una mossa inopportuna. Non crede di dover dare ordine alla sua vita e decenza alle sue frequentazioni. Immagina un intrigo. Cantoni confida: "Il premier pensa che i servizi di intelligence italiani gli abbiano teso una trappola". La Corte Costituzionale boccia la legge che dovrebbe immunizzarlo (il "lodo Alfano") e il premier - racconta Gianni Letta - ha "uno scoppio d'ira". Accusa "il presidente della Repubblica di lavorare contro di lui e reagisce in modo emotivo contro il sistema giudiziario in generale". Ancora un complotto, insomma. Gianni Letta riferisce che "lo scoppio d'ira di Silvio Berlusconi provoca relazioni gelide con il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: un episodio che fa apparire debole", il capo del governo.

Il premier vede macchinazioni in ogni passaggio. Dimentica quanto gli sia abituale cedere alla tentazione dell'intrigo. Con Piero Marrazzo gioca come il gatto con il topo, si scopre.
Il funzionario americano ricorda e scrive nel cablogramma che, mentre conversa con Cantoni, questi riceve una telefonata di Berlusconi che "lo informa dell'imminente arresto di quattro carabinieri sospettati di aver incastrato con un ricatto sessuale il governatore regionale del Lazio". Il caso, osserva l'ambasciatore nella nota, "venne alla luce sulla stampa qualche giorno dopo". I furfanti furono arrestati il 21 ottobre, quanti giorni prima Berlusconi ha saputo dell'arresto dei ricattatori? E da chi, dai carabinieri del Ros o in linea diretta dalla Procura di Roma? E perché imbroglia Marrazzo fino al giorno dell'arresto dei quattro furfanti invitandolo a comprarselo in fretta, il video del ricatto, magari rivolgendosi "a Giampaolo Angelucci, che ti libererà dai guai"?
I cablogrammi diplomatici sono un affresco e il disegno che si scorge squalifica l'uomo che ha preteso di stringere una maiestas, un di più di potere rispetto a qualsiasi altro potere. Nella sua persona, nelle sue angosce shakespeariane, nella sua realtà fisica, nei suoi gesti, nel suo corpo, nelle sue trame, nelle sue fantasie, nella sua sessualità, nel suo modo di essere, appare un personaggio grottesco, mai preoccupato del bene comune, sempre del suo personale bene, sempre di se stesso, del suo denaro, della sua fortuna, del suo potere. Mai che nelle carte finora svelate ci sia l'iniziativa, la parola, la vita di un uomo di Stato.

(03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/03/news/d_avanzo_letta-9786211/?ref=HREA-1
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« Risposta #181 inserito:: Dicembre 15, 2010, 04:21:47 pm »

IL COMMENTO

Una violenza annunciata

di GIUSEPPE D'AVANZO

La violenza, alla fine, è diventata l'unica realtà di una giornata che ha visto manifestare a Roma gli aquilani senza ricostruzione, i napoletani senza diritto alla salute, minacciati da tonnellate di rifiuti, e soprattutto  -   in decine e decine di migliaia  -  gli studenti senza futuro, agitati dalla riforma Gelmini. Una rappresentazione dunque del disagio, dell'insicurezza di un Paese che non riesce più a farsi ascoltare, che non trova più alcuna linea di condivisione tra se stesso e chi lo governa; un Paese abbandonato, dimenticato, smarrito nelle nebbie di un illusionismo mediatico che riscrive la realtà reinventandola con una narrazione spettacolare dove l'Aquila è stata già ricostruita. Napoli è stata già pulita; scuola, università e ricerca sono state già risanate dalle innovazioni del ministro. Il racconto autocelebrativo e bugiardo semina in chi lo subisce - e, subendolo, è ridotto al silenzio - rancore, risentimento, rabbia. Sentimenti che in questi lunghi mesi - per Napoli e L'Aquila, anni - sono rimasti freddi, sotto controllo e non hanno mai prodotto brutalità perché lucida è la consapevolezza che la violenza cancella ogni ragione e ogni possibilità di averne.

Non è stato così ieri, quando la violenza si è fatta assoluta. Come sempre accade quando diventa assoluta, la violenza ha raschiato via gli obiettivi futuri dei movimenti che erano in piazza - le loro speranze, le loro ragioni - e si è
fatta padrona della giornata. Ha dominato la situazione nella ellittica spirale dove la violenza della polizia reagisce alla violenza dei dimostranti e c'è posto soltanto per la tensione, la paura, le urla, il fuoco, il ritmo dei colpi, le bastonature.

Che cosa è accaduto? Quel che si sapeva da giorni sarebbe accaduto. Un gruppo di black bloc o anarchici, chiamateli come volete, si sono impossessati della protesta e del "cuore" della Capitale. Con logiche e organizzazione "militari" hanno cercato e ottenuto lo scontro diretto con le forze dell'ordine. Hanno costruito barricate. Hanno sistematicamente bruciato auto, vandalizzato "i simboli del capitalismo" come agenzie bancarie e bancomat e distrutto l'intera area del Tridente - via del Corso, via del Babuino, via di Ripetta - a ridosso dei palazzi della Repubblica, a Monte Citorio la Camera dei Deputati; a Palazzo Madama, il Senato; a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio; a Palazzo Grazioli, la residenza privata del capo del governo. Con operazioni diversive, che hanno ingannato i "reparti mobili", sono riusciti a far esplodere tre bombe carta agli Uffici del Vicario, a pochi metri dalla Camera; a minacciare Palazzo Grazioli, a "conquistare" per lungo tempo via del Corso e poi, per più di un'ora, piazza del Popolo.

Come è potuto accadere? E' quel che il governo dovrebbe spiegare. Si sapeva che il "blocco nero" ci sarebbe stato. Si sapeva che con loro ci sarebbero state frange dei movimenti anarco insurrezionalisti greci e tedeschi, come poi è davvero stato. E allora? Perché si è accettato di subire la loro prepotenza con lo stesso fatalismo con cui si accetta che piova e faccia freddo? Ora naturalmente ci sarà l'intelligence che dirà "l'avevamo detto", le polizie che diranno: "l'allarme era troppo generico e sommario per intervenire". Il risultato non cambia: sotto gli occhi delle forze dell'ordine, un paio di centinaia di "neri" hanno potuto devastare il centro storico di Roma, il "cuore" politico e istituzionale della Capitale e imbruttire movimenti di protesta responsabili che finora hanno fatto leva soprattutto su parole, analisi, ragionevoli argomenti. Soltanto gli irresponsabili corifei del Sovrano possono sovrapporre le violenze dei black bloc al voto di fiducia. Soltanto un Gasparri può vedere nelle "violenze di piazza, la conseguenza della predicazione violenta di troppi apprendisti stregoni". Quale predicazione violenta? Quella paziente e pacata degli aquilani? Quella ostinata e mite degli studenti e dei ricercatori universitari che, con la più violenta delle scelte, salgono su un tetto per "farsi vedere"? La verità è che nel governo, nella maggioranza c'è chi valuta come un'occasione politica - non disprezzabile con i tempi che corrono - il ritorno a una stagione di violenza. Consente di invocare "repressione", come fa Sacconi, ancor prima di comprendere e giudicare. Permette di inaugurare una nuova emergenza e ancora uno "stato d'eccezione". Soprattutto concede di nascondere, tra i fumi delle auto bruciate e le grida contro il "nuovo terrorismo", il fallimento di un governo incapace di dare risposte a un'Italia sofferente e fragile. E' quella che ieri, con Roma, ha pagato il maggior prezzo a tre ore di violenza annunciata.

(15 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/15/news/d_avanzo_scontri-10213487/?ref=HRER3-1
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« Risposta #182 inserito:: Dicembre 18, 2010, 11:01:54 am »

L'ANALISI

La speranza e i manganelli

di GIUSEPPE D'AVANZO


ASCOLTATO Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un'ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la "riforma Gelmini". Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell'università o agli studenti e ai ricercatori.

È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell'indifferenza dei governanti per i governati, dell'incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l'allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.

Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e - poi - la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l'esasperazione di chi parla di "guerriglia") ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato "da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento", come documenta Marco Revelli nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi - e delle soluzioni preparate dal governo - cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l'Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l'Italia è al penultimo posto per l'occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D'altronde - dice Marco Revelli - "l'80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l'informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato".

Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o "cane sciolto", vuole "stare in piazza" con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa - come il "blocco nero" - che "la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l'illegalità".

Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un'operazione che può avere un esito positivo soltanto se - in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze - si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.

Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come "questione di ordine pubblico", Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l'emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del "garantismo" che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell'Utri, Verdini, Bertolaso l'accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell'attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all'ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l'altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un'idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano di allargare il "divieto di accedere alle manifestazioni sportive" (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.

È l'avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con "la repressione", invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.

(18 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/18/news/speranza_manganelli-10343062/?ref=HRER1-1
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« Risposta #183 inserito:: Dicembre 20, 2010, 02:29:36 pm »

IL COMMENTO

Diritto di polizia

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL DISEGNO, ogni ora che passa, si fa chiaro e non sorprende. Il governo, politicamente debole, sordo alle difficoltà del Paese, lontano da una società che umilia, vuole rilanciare se stesso inventando una nuova emergenza. Addirittura un'emergenza "terrorismo". Secondo una leadership politica che fa vanto di essere stata fascista (La Russa, Gasparri, Alemanno), "terrorismo" sarebbero le manifestazioni di protesta contro la "riforma Gelmini" e potenziali "terroristi" chi vi partecipa.

Quindi, sostenuta dal ministro dell'Interno, prima ha escogitato lo sciagurato trucco di far valere per i manifestanti più ostinati  -  scelti come? selezionati da chi?  -  il divieto di accedere alle manifestazioni sportive (D. a. spo.) di fatto ipotizzando un ritorno al Testo di Pubblica Sicurezza in vigore, dal 1926, nel ventennio fascista. Quel testo, che definiva misure di prevenzione in base al solo sospetto, non imponeva di accertare la responsabilità diretta per fatti considerati dalla legge reati. Per sottoporre il "soggetto pericoloso" a una severa vigilanza e lontano da casa, riteneva sufficiente un ipotetico "pericolo alla sicurezza pubblica e all'ordine politico". Sono più o meno  -  non vi pare?  -  le ragioni che hanno convinto in coro il ministro dell'Interno (Maroni) e della Giustizia (Alfano) a dare sulla voce ai giudici che, in attesa del processo, hanno rimandato a casa i giovani e giovanissimi arrestati il 14 dicembre a Roma.

Già poteva bastare per dirsi impensieriti dai giorni che verranno, ma eravamo soltanto all'inizio di una progressione autoritaria. Maurizio Gasparri  -  chi altro?  -  chiede ora "arresti preventivi". Il presidente dei senatori della destra dice: "Serve una vasta e decisa azione preventiva. Si sa chi c'è dietro la violenza scoppiata a Roma. Tutti i centri sociali i cui nomi sono ben noti città per città. Qui ci vuole un "7 aprile". Mi riferisco al giorno in cui furono arrestati tanti capi dell'estrema sinistra collusi con il terrorismo".

Sorprendersi? Le parole di Gasparri  -  non smentito da quel capo di governo che, amante dei trucchi, chiama a sé i "moderati" per difendere il suo malfermo potere  -  confermano quel che già avevamo capito da tempo, in verità. Innanzitutto che, ammesso e non concesso che non sia stata una trovata da marketing politico, la "rivoluzione liberale" promessa da Berlusconi fallisce per l'incapacità politica di progettarla e per la cultura di un'élite che non si è allontanata di molto dalle celebrazioni del fascismo delle leggi razziali e della Repubblica di Salò. Due. Il "garantismo" della destra italiana non è altro che la difesa di un diritto del privilegio e dell'esclusione che dovrebbe assicurare indulgenze ai Potenti e rigido e inflessibile castigo ai Deboli. Lo abbiamo già visto in azione contro rom e migranti. Ora Gasparri lo pretende contro gli avversari politici richiamando, con la storia del "7 aprile" del 1979, il momento forse più limpido di quel che un filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli, ha definito la "crisi della ragione giuridica" che ha attraversato per decenni le emergenze del terrorismo e della mafia.

Anche se oggi non si scorge alcun pericolo, alcuna urgenza, alcun terrorismo, nessun terrorista, la destra di governo chiede che siano attive le stesse prassi di quella stagione: prassi in cui prevalgono le ragioni dell'efficienza coniugate alla facile idea, propria del senso comune autoritario, che la giustizia "deve guardare al reo dietro al reato, alla sua pericolosità dietro la sua responsabilità, all'identità del nemico più che alla prova dei suoi atti d'inimicizia" (Ferrajoli). Tre. In coerenza con la propria cultura politica, la destra di governo invoca uno Stato etico dove morale e diritto si confondono e la salvaguardia del principio di stretta legalità è sacrificato ai "poteri arbitrari che trovano il loro spazio naturale nella definizione non tassativa dei reati, nella flessibilità delle pene, nel potere dispositivo, e non cognitivo, del giudice" (Norberto Bobbio).

Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle polizie sospinte dalla volontà autoritaria del governo nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge (già "Genova 2001" ci ha detto che in uno Stato che si presenta come questurino c'è chi è disponibile a un'illegalità criminale quando il dissidente diventa un "nemico" da annientare). Oggi vale la pena soltanto rinnovare una preoccupazione che sarà opportuno che sia condivisa nelle prossime ore. Contro un movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale, che si oppone a un'eterna precarietà, alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza e chiede opportunità e futuro, il governo decide di rafforzare se stesso preparando il peggio. Evoca un "diritto di polizia" e un uso della violenza. Accende la rabbia. Eccita gli animi meno consapevoli. Cinicamente fa di conto: nuovi disordini gli fanno gioco, debole come è. È questa la funesta trappola che, a partire da oggi, i "movimenti" dovranno aggirare con lucidità e intelligenza.

(20 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/20/news/commento_d_avanzo-10402610/?ref=HREA-1
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« Risposta #184 inserito:: Gennaio 03, 2011, 06:24:33 pm »

I DOCUMENTI DI WIKILEAKS

Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

Chi è Valentino Valentini: nelle rivelazioni del sito di Assange sarebbe lui l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari del presidente del Consiglio in Russia.

Le altre figure dei "fedelissimi" del premier e il loro ruolo
 
da Roma GIUSEPPE D'AVANZO
da Milano ANDREA GRECO
da New York FEDERICO RAMPINI


"VALENTINO Valentini, fino a qualche anno fa, non parlava il russo: diciamo che lo balbettava...", ricorda chi glielo ha sentito parlare a Villa Abamelek, la residenza dell'ambasciata russa a Roma. "Era il russo di un bambino ai primi anni della scuola elementare". Eppure, nelle rivelazioni di WikiLeaks (leggi il documento) 1, sarebbe lui la shadowy figure, l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari di Silvio Berlusconi in Russia. Allevato da Publitalia, assistente del Cavaliere al parlamento europeo, deputato dal 2001, oggi segretario particolare del premier, Valentini si autodefinisce "consigliere speciale per le relazioni estere e tutor delle imprese italiane in Russia". Ci hanno detto, appunto: "Per la conoscenza di quella lingua". Che però - almeno fino al 2005 - non conosce.

Infatti, a palazzo Chigi ha lavorato in pianta stabile (in attesa che le performance di Valentini migliorassero) un interprete, l'armeno Ivan Melkumian, sempre presente negli incontri pubblici e privati del Cavaliere. C'è un primo arcano da sbrogliare, allora: perché, con una noiosa cerimonia a Villa Abamelek, Valentini è stato insignito proprio nel 2005 del prestigiosissimo ordine di Lomonosov con motivazioni che non sono mai state rese note? Quali sono i meriti che egli ha raccolto per la Russia di Putin? La domanda è intrigante anche perché è difficile trovare un capitano d'impresa attivo in Russia che abbia incontrato per motivi concretamente professionali Valentini o abbia soltanto avuto eco delle sue attività a vantaggio delle imprese italiane. Alcuni italiani a Mosca - per dimostrare l'assoluta estraneità del segretario particolare del premier agli interessi della comunità italiana - raccontano come si svolgono le sue visite nella città degli zar. "Valentini sbarca in uno degli aeroporti di Mosca. Lo attende un'auto messa a disposizione da Antonio Fallico. E' il presidente di Zao Banca Intesa (sussidiaria del gruppo Intesa San Paolo) e cugino di Marcello Dell'Utri o almeno così va dicendo da decenni. Valentini raggiunge l'albergo - il Metropol di fronte al Bolshoi in Teatralny Proiezd - o, in alternativa, direttamente il Cremlino da dove riemerge qualche ora o qualche giorno dopo per ripartire verso l'Italia. Nessuno lo vede. Nessuno lo incontra. Nessuno sa che cosa sia venuto a fare". Tra quanti non lo sanno, ci sono anche gli americani. L'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli, il 26 gennaio 2009, si chiede chi fosse davvero "l'uomo chiave di Berlusconi in Russia, che viaggia senza staff né segreteria diverse volte al mese. Non è chiaro cosa vada a fare a Mosca, ma ci sono pesanti indiscrezioni sul fatto che presidi gli interessi di Berlusconi in Russia". Bisogna dunque seguire il filo dei soggiorni moscoviti di Valentini per saperne di più. E' utile perché s'incontra un altro personaggio chiave degli imperscrutabili rapporti tra l'Italia di Berlusconi e la Russia di Putin: Antonio Fallico, una volta comunista, dal 1974 a Mosca dove lo chiamano "il professore" (titolo non usurpato, ha insegnato Letteratura barocca all'Università di Verona), anch'egli onorato il 21 aprile del 2008 da Putin con l'"Ordine dell'Amicizia dei Popoli", la più alta decorazione statale russa riservata ai cittadini stranieri.

Fallico può essere raccontato in modo speculare a Valentini. Se Valentini è l'uomo di Berlusconi a Mosca, Fallico è l'uomo di Putin in Italia. Cura gli interessi economici della Russia e quindi soprattutto gli affari energetici che rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia. La Zao Banca Intesa, che presiede, ha il mandato di advisory della Gazprom, il colosso energetico controllato direttamente dallo Stato, per tutta l'attività italiana, dalla vendita di gas al progetto di metanodotto South Stream. "Il professore" ha rapporti diretti con il Cremlino, con il premierato di Putin, con la presidenza di Dmitri Medvedev. E' console onorario della Russia a Verona (gli è stata concessa anche la possibilità di rilasciare visti). A Verona ha voluto che fosse inaugurata presto la sede della rappresentanza italiana della Gazprom. E' l'italiano più potente di Mosca.

Se si riuscisse a rendere trasparenti - di Fallico - le attività e - di Valentini - le missioni al Cremlino si potrebbe comprendere presto quanto siano legittimi o scorretti i sospetti di Hillary Clinton sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin. Non è l'unico enigma di questa storia, protetta quasi in ogni angolo e increspatura dal segreto. Segreto di Stato sono in Russia gli affari energetici (per chi sgarra c'è la pena di morte). Misteriosi sono gli effettivi proprietari della Centrex Group, società che vende in Europa occidentale il gas russo, la cui catena azionaria finisce in una palazzina di tre piani al 199 di via Arcivescovo Makarios III a Limassol, Cipro, senza una targa né una buca delle lettere. Commercial secret è il prezzo del metano che Eni corrisponde a Gazprom. Segreti i documenti dei giacimenti di Karachaganakh e Kashagan che Eni si rifiuta di esibire anche quando è chiamata a risponderne in tribunale. Impenetrabile è il segreto che protegge gli incontri di Berlusconi e Putin lungo il lago tra le colline di Valdai in Novgorod Oblast o a Punta Lada a Porto Rotondo, in Sardegna.

Se si vuole quindi verificare quanto "le scelte economiche e politiche dei due premier siano il frutto di comuni investimenti personali", come chiede il segretario di Stato americano ai suoi ambasciatori, bisogna esaminare se le decisioni politiche siano state deformate da privatissimi interessi economici. C'è troppa gente in giro - nelle cancellerie, nei quartieri generali della finanza, nella comunità economica - che avverte nelle scelte di politica energetica dell'Italia un'alterazione equivoca. Eni era autonoma dal governo nazionale quasi fino all'arroganza. Oggi appare sottomessa al presidente del Consiglio. Agiva con aggressività e libertà sui mercati internazionali. Oggi mostra di subire vincoli a favore di Putin. E' la prima deformazione. Ce n'è una seconda: Berlusconi trascura le relazioni europee e la tradizionale alleanza con Washington per rinchiudersi nell'eccentrica associazione con la Mosca di Vladimir Putin e la Tripoli di Mu'ammar Gheddafi. I "cable" del dipartimento di Stato sostengono che questo riposizionamento non abbia nulla di politico, ma sia soltanto business. "L'ambasciatore della Georgia a Roma - scrive Spogli - ci ha riferito che il suo governo ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale su ogni pipeline sviluppata da Gazprom in coordinamento con l'Eni". E ancora: "In Italia i partiti di opposizione e alcuni esponenti dello stesso Pdl credono che Berlusconi e i suoi intimi stiano approfittando personalmente e a mani basse dei molti accordi sull'energia con la Russia".

Dunque Washington non crede a un'alternativa trasparente che innova la tradizionale politica estera del nostro paese. Dubita che, al fondo della storia, ci siano soltanto gli affari personali di Silvio Berlusconi. L'accusa è gravissima e non è stata provata. E' un fatto che lo stato delle cose è custodito in un labirinto di segreti. Con l'aiuto di qualche persona informata dei fatti e alcuni testimoni diretti degli eventi, si può documentare però qualche coincidenza e più di un'incoerenza che dovrebbero convincere Berlusconi ed Eni a rompere il silenzio e a dare luce alle zone d'ombra. Ci sono perlomeno tre "casi" in cui si intravede, tra le opacità, una metamorfosi degli interessi nazionali.

1. Il biglietto del Cavaliere, dove si capisce a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin.

2. La "spartizione della refurtiva", dove questa volta è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi che non rimarrà a mani vuote.

3. I misteri di Karachaganakh, dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa a vantaggio di chi.

Sono "casi" che anticipano, come vedremo, un sorprendente finale e non riescono a nascondere una contraddizione: tutti gli affari che rendono sospettosa l'amministrazione di Washington sono stati approvati dal secondo governo Prodi. Tra il maggio 2006 e il maggio 2008, il governo di centrosinistra sottoscrive l'accordo che disciplina la fornitura di gas e le future collaborazioni nei giacimenti in Russia (14 novembre 2006); l'impegno per il gasdotto South Stream (23 giugno 2007); la disponibilità a "spogliare" la Yukos dei suoi asset (4 aprile 2007); i contratti per lo sfruttamento del giacimento di Karachaganakh (1 giugno 2007). Una stupefacente inabilità che oggi, col senno del poi, solleva qualche mugugno tra gli uomini del centrosinistra e la sensazione che alcuni risvolti si sarebbero dovuti curare in modo diverso. Meglio. Dice Pier Luigi Bersani, segretario del Pd e allora ministro dello Sviluppo Economico: "Premesso che dall'approvvigionamento del gas russo l'Italia non può prescindere, il governo Prodi adottò la strategia di spostare il quadro degli accordi energetici con la Russia in una dimensione europea. La differenza fondamentale tra il nostro approccio e quello di Berlusconi nei rapporti con Mosca è che noi operavamo sulla base di meccanismi trasparenti, non dei personalismi, delle relazioni particolari o della filosofia tipo ghe pensi mi".

Il biglietto del Cavaliere
(dove si apprende come e a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin)

Prima che questo signore, Bruno Mentasti Granelli, settantenne finanziere lombardo, apparisse in scena soltanto uomini vicini a Silvio Berlusconi si erano messi in testa di lucrare larghi utili dalla commercializzazione in Italia del metano russo. Se si esclude il tentativo del figlio di un mafioso (Ciancimino), un primo progetto era stato preparato da Ubaldo Livolsi, consulente del premier, nel 1991 direttore finanziario e nel 1996 amministratore delegato di Fininvest Spa, consigliere d'amministrazione di Mediaset, Mondadori, Medusa.... Per farla corta, un berlusconiano di stretta osservanza. Inutile dire quanto berlusconiano sia Marcello Dell'Utri l'uomo che gli commissiona il piano e trova il tempo per scaldare l'attesa presentando, alla Casa dell'Amicizia di Mosca, Effetto Berlusconi, un libro confezionato in esclusiva per il mercato russo.

Con l'Eni di Mincato ancora autonoma dal governo, l'iniziativa di Livolsi e Dell'Utri va per aria. Dopo il fallimento del primo approccio berlusconiano al problema, compare dal nulla Bruno Mentasti già socio di Berlusconi nella pay-tv Telepiù e in quell'anno, 2003, un rentier dopo aver venduto alla Nestlé la San Pellegrino per trecento miliardi di vecchie lire.

Il nome di Mentasti salta fuori nella sera del 30 ottobre del 2003. Al Westin Palace di Milano c'è una cena di lavoro. E' quasi un appuntamento di routine. Quattro persone intorno al tavolo: tre uomini di Eni e un alto dirigente di Gazprom. Si confrontano due ambizioni: Eni vuole prolungare di 25/30 anni i suoi contratti gas che scadono nel 2012; Gazprom aspira a fare utili non solo "a monte" producendo metano, ma anche "a valle" vendendolo e chiede di avere l'opportunità di commercializzarne in Italia attraverso una propria joint venture. L'Eni dovrebbe cedere 2-3 miliardi di metri cubi di metano all'anno dalle sue importazioni. "Abbiamo già un socio italiano, ecco il suo nome...", dice il russo. Dalla tasca, l'alto dirigente di Gazprom estrae un fogliettino come se fosse una santa icona che da sola avrebbe spazzato via ogni dubbio profano. Sopra c'è scritto: "Mentasti". Gli italiani cadono dalle nuvole. Quel nome non l'hanno mai sentito. Chi è? Il russo spiega: "Ma come non conoscete il patron della San Pellegrino?". Gli italiani sorridono: "Anche se gassata, l'acqua ha poco a che fare con il gas, bisogna che qualcuno glielo spieghi a questo Mentasti...". Il russo non ride, agita ancora il foglietto e dice: "Druzia, amici, ma davvero non riconoscete la grafia del vostro capo di governo?". Quelli di Eni fingono di non capire e chiedono: "... ma questo biglietto con questa grafia chi te l'ha dato?". Risposta: "Da dove volete che venga, dal Cremlino!". A conferma che la faccenda è molto seria perché molto voluta da Putin, gli uomini di Eni vengono invitati a stringere le sedie intorno al tavolo per far posto a un altro convitato che attende un cenno nell'albergo dall'altra parte di piazza della Repubblica, il Principe di Savoia. L'uomo si chiama Alexander Ivanovic Medvedev, è un amico d'affari del professor Fallico, è stato come Vladimir Putin un colonnello del Kgb, oggi è il numero due di Gazprom. Che bisogno c'è di un intermediario se non per creare comode rendite finanziarie a oscuri fortunati? Dietro questa volontà di lucrare gli utili di un'intermediazione superflua e molto favorevole (la Centrex di Mentasti e soci misteriosi avrebbe guadagnato una somma stimata in 280-320 milioni di dollari l'anno per 15-20 anni) si scorgono nell'ordine: un comando di Putin; la volontà di Berlusconi; l'obbedienza "militare" dei gasisti russi; gli amici di Berlusconi in sospetto di essere soltanto prestanomi come Bruno Mentasti o addirittura di essere la testa d'ariete di Berlusconi, se è vero che quel foglietto (che potrebbe essere attualmente nelle mani di un uomo dell'Eni) è stato scritto di suo pugno dal Cavaliere.

Questo caso sollecita qualche domanda: Berlusconi ha discusso con Putin - e concesso a Mosca - l'ingresso di Gazprom nel mercato italiano? In cambio di che cosa? Perché Berlusconi individua Mentasti come uomo adatto per la nascente partnership? Qual era l'interesse nazionale che, in questo caso, il capo del governo ha rappresentato al Cremlino?
(1. continua)

(08 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/08/news/wikileaks_berlusconi_putin-9950307/


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L'INCHIESTA

Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa"

Ecco l'analisi del Dipartimento di Stato sull'affare gas: la relazione personale del premier russo con quello italiano è funzionale a inoculare corruzione negli altri paesi e rendere il continente vulnerabile al ricatto energetico russo

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO, da Milano ANDREA GRECO, da New York FEDERICO RAMPINI


"LE risorse energetiche sono il piedistallo del potere da cui Vladimir Putin punta a condizionare la politica europea. La relazione personale con Silvio Berlusconi è funzionale a questo: inoculare corruzione negli altri paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia. Il semi-monopolista del gas russo Gazprom fa tutt'uno con Putin, nulla è trasparente in quella sfera, la corruzione è endemica". L'accusa dell'alto funzionario e massimo esperto del Dipartimento di Stato per "Eurasia e questioni energetiche", Jeffrey Mankoff, rende manifesta la gravità del rapporto tra i due premier italiano e russo.

"Rapporto personale". Così lo definisce il dispaccio da Roma dell'ex ambasciatore repubblicano Ronald Spogli, il 12 agosto 2008, reso pubblico da WikiLeaks. In un crescendo di allarme, Spogli segnala alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato l'ipotesi che fra i due vi siano "rapporti di guadagno personale" (novembre 2008). Infine in una lunga relazione del 26 gennaio 2009, l'ambasciatore evoca "una torbida connection"; chiama in causa l'intermediario d'affari Valentino Valentini; descrive il presidente del Consiglio come "il portavoce di Putin".
Sostiene Mankoff: "Poiché i libri contabili di Gazprom non sono di dominio pubblico, la società è in grado di fare affluire pagamenti ai politici nei paesi "a valle", perché assecondino i piani della Russia. I progetti dei gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". E' la chiave delle ripetute pressioni di Hillary Clinton sulle due ambasciate americane a Roma e Mosca (l'ultima il 28 gennaio 2010). Il segretario di Stato chiede di indagare su "quali investimenti personali" uniscano Berlusconi a Putin.

Sono quattro le ragioni che lo impongono: 1. Il ruolo dell'Eni ridotto a strumento. 2. I dubbi sull'investimento anti-economico nel gasdotto South Stream. 3. La vicenda del "portage finanziario" italiano sulla Yukos. 4. Lo sconcertante allineamento filo-russo di Berlusconi sulla guerra in Georgia. Ecco gli elementi che accrescono l'inquietudine americana. La Clinton è convinta che "sia in gioco un interesse strategico e vitale degli Stati Uniti, la sicurezza dell'Europa occidentale". Washington avverte il rischio che un alleato storico della Nato come l'Italia sia scivolato su una china pericolosa. Non siamo più alla fisiologica divergenza di stagioni passate della politica estera italiana. E' una distinzione fondamentale e il Dipartimento di Stato vuole che sia percepita e compresa. Dall'Eni di Enrico Mattei alla Fiat di Valletta (Togliattigrad), per finire con Giulio Andreotti alla Farnesina, gli americani ricordano che l'Italia ha sempre avuto spazi di autonomia nelle sue iniziative verso la Russia o il mondo arabo. Tutto comprensibile alla luce della nostra posizione geografica, e per i condizionamenti politici interni come l'esistenza del più forte partito comunista dell'Europa occidentale (lo ricorda anche l'ambasciatore Spogli nei suoi rapporti). Era un gioco che non spaventava l'America perché si poteva interpretare - e quindi governare - con i criteri della geopolitica e della geoeconomia. Oggi il quadro è diverso.

I sospetti che la relazione speciale Berlusconi-Putin abbia una dimensione extrapolitica, guidata dal "guadagno personale che fa premio", affiorano due anni fa. L'ambasciata di Via Veneto vi accende un faro. Il fatto che il presidente del Consiglio di un paese della Nato possa essersi fatto strumento del premier russo s'inserisce nello scenario disegnato da Mankoff di un "rischioso ritorno di Putin alla presidenza nel 2012", alla testa di un blocco di potere dominato da "esercito e servizi segreti anti-occidentali", sullo sfondo di una Russia che le informative dall'ambasciata Usa di Mosca descrivono come una "nazione mafiosa".

"Eurasian Energy Security", è il rapporto cruciale dove il Dipartimento di Stato suggerisce di cercare tutte le ragioni dell'allarme attorno al caso Berlusconi-Putin. Considerato come la Bibbia della strategia americana sui rapporti energetici tra la Russia e l'Europa, quel dossier è firmato da Jeffrey Mankoff per il Council of Foreign Relations, il think tank bipartisan che ha spesso ispirato la politica estera di amministrazioni repubblicane e democratiche. Mankoff lo mette a punto nel 2009 come Associate Director of International Security Studies all'università di Yale. In seguito torna a lavorare per il Dipartimento di Stato, con Hillary Clinton. Oggi si occupa proprio delle relazioni Europa-Russia.

L'analisi di Mankoff muove dal ruolo di Gazprom, "un'impresa che a tratti s'identifica con lo stesso governo russo, funzionale al disegno di Putin di gestire i rapporti con l'Europa giocando un paese contro l'altro". E' la strategia che Putin ha costruito pazientemente negli otto anni della sua presidenza, dal 2000 al 2008: "Il gas è diventato centrale come strumento di potere". Una strategia di cui l'Italia è un tassello decisivo perché "con la Germania rappresenta quasi la metà di tutte le importazioni di gas russo nell'Europa occidentale". Insieme, questi due paesi generano "il 40% dei profitti totali di Gazprom". Un colosso che, per la sua natura, si sottrae a "sistemi di regole trasparenti, controllo giudiziario e delle authority di vigilanza" dell'Unione europea.

Visto dall'America il pericolo è questo: "Per l'Europa la crescente dipendenza energetica da un singolo gruppo che coincide con un governo straniero solleva dei problemi di sicurezza, trasparenza, potenziale manipolazione politica". Chi, come l'Italia, finisce in una "intima relazione politica con Mosca rischia di assecondare i disegni di questa, a scapito dell'unità fra europei". Il sospetto che l'Eni sia stato trasformato in uno strumento nel rapporto tra Berlusconi e Putin, è legato ad alcuni passaggi decisivi nella "blindatura" del potere energetico in Russia. Mankoff ricorda come "durante il suo secondo mandato presidenziale, Putin ha accelerato in modo drammatico la concentrazione del business di petrolio e gas dentro i campioni nazionali Gazprom e Rosneft. Le imprese che appartenevano agli oligarchi privati, come la Yukos di Mikhail Khodorkovsky, sono state fagocitate". La stessa Yukos che fu oggetto di un portage finanziario da parte dell'Eni e dell'Enel. Pochi gruppi occidentali sono ammessi in questo gioco, osservano al Dipartimento di Stato, dove ricordano l'espulsione di Bp e Shell costrette a uscire dai loro maggiori investimenti energetici in Russia durante la presidenza Putin. Vedremo presto il ruolo che Berlusconi decide di assumere in questa spoliazione.

Una volta concentrato il suo impero energetico, dove politica e affari coincidono e solo gli stranieri docili sono ammessi, Putin passa alla seconda fase della strategia. "Si tratta - spiega Mankoff - di impedire l'accesso diretto dell'Europa alle risorse energetiche del Caspio, suddivise perlopiù tra Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan. Riservare alla Russia il controllo sui corridoi di transito verso il Caspio, accentua una dipendenza dell'Europa. Questo ha conseguenze strategiche sulle relazioni atlantiche, espone i nostri alleati europei all'influenza di Mosca".

Ancora una volta questa strategia è affidata a "un piccolo gruppo di colossi di Stato come Gazprom, sprovvisti di ogni trasparenza". Ecco il nodo che interessa la Casa Bianca e la Clinton. Ecco la ragione per cui si vuole veder chiaro nei rapporti Eni-Gazprom, come sono andati evolvendosi sotto i governi Berlusconi. Ecco la leva degli interrogativi sulla proliferazione di società di intermediazione, senza una vera razionalità economica, possibili paraventi per l'erogazione di tangenti. E' il passaggio che inquieta nell'analisi di Mankoff capace di alzare il livello di diffidenza del Dipartimento di Stato: "La corruzione sistemica nel settore energetico russo inocula corruzione nella politica europea".

Legittima la domanda: chi ha ceduto a queste lusinghe, in quali modi? A Washington ricordano il caso dell'ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, cooptato come presidente del consiglio d'amministrazione del consorzio Nord Stream: il sistema di gasdotti voluto da Mosca, gemello settentrionale del progetto South Stream. Per quest'ultimo, Romano Prodi ha di recente rifiutato un'offerta analoga che gli era stata rivolta dai russi. Il Dipartimento di Stato ribadisce l'accusa principale rivolta dagli Stati Uniti: "Nord Stream e South Stream sono funzionali a rafforzare l'influenza della Russia in Europa. La nostra paura è rafforzata dagli indizi di corruzione che partono dal Cremlino". South Stream è in diretta concorrenza con il progetto Nabucco: solo quest'ultimo consentirebbe di aggirare la Russia. Se la scelta fosse affidata a criteri puramente economici, sarebbe semplice: "South Stream costa fino al doppio, rispetto a Nabucco", osserva Mankoff. E allora perché il coinvolgimento dell'Eni in un progetto anti-economico, si chiedono gli americani? Visti da Washington, i conti non tornano. E non tornano, come vedremo, anche per Eni.

Un colpo duro all'affidabilità del Nabucco viene dato nell'estate del 2008 dalla guerra tra Russia e Georgia: quel gasdotto per operare ha bisogno di stabilità in Georgia ed altre repubbliche ex-sovietiche. Perciò un punto di svolta nell'attenzione del Dipartimento di Stato verso Berlusconi coincide proprio con la guerra del 2008, e la posizione filo-russa presa dal premier italiano in divergenza con gli altri governi della Nato. E' il 15 novembre 2008. L'ambasciata di Via Veneto segnala a Washington una nuova soglia nel livello di agitazione degli americani. Bisogna dire di un antefatto: tre giorni prima il premier italiano ha dato spettacolo a una conferenza stampa in Turchia. "Ha accusato gli Stati Uniti di avere provocato la Russia con il riconoscimento del Kosovo, lo scudo anti-missili, l'invito a Ucraina e Georgia ad avvicinarsi alla Nato". Il dispaccio al Dipartimento di Stato indica che siamo "al culmine di un'escalation di commenti incendiari e dannosi a favore della Russia da quando Berlusconi è tornato al governo". L'ambasciata descrive Gianni Letta e Franco Frattini "sgomenti", i fedelissimi del premier confidano alla diplomazia americana: "Non ci ascolta, sulla Russia fa da solo".

Il rapporto segreto raccoglie per la prima volta il sospetto che "Berlusconi e i suoi accoliti abbiano rapporti di guadagno personale con l'interlocutore russo". E' a questo punto che i sospetti sulla "torbida relazione" diventano un problema strategico di primaria importanza per Washington. La criticità della guerra in Georgia dovrebbe aumentare la compattezza degli europei e rendere evidenti i rischi connessi a un'eccessiva dipendenza energetica da Mosca. Al contrario, l'Italia si smarca. Rompe la solidarietà atlantica. Si avvicina alla Russia. Siamo a una svolta. Il primo effetto è l'imperativo di saperne di più su quei sospetti di "investimenti personali tra Berlusconi e Putin", che possono diventare il motore delle scelte della politica estera italiana. Il pericolo lo abbiamo sotto gli occhi: l'Italia può trasformarsi in una pedina del grande gioco di Putin; il grimaldello per dividere o tenere divisa l'Unione europea, per avvantaggiarsi della debolezza dei singoli partner nei rapporti bilaterali. Osserva Mankoff: "La dipendenza dal semi-monopolio russo nel gas può mettere i singoli governi europei in una posizione in cui diventa impossibile resistere alle richieste politiche di Mosca". "La Russia - è la linea del Dipartimento di Stato - va integrata in un quadro trasparente di sicurezza energetica. Con regole certe, che limitino la possibilità di estrarre vantaggi politici unilaterali". E' l'opzione a cui fanno ostacolo le reti di interessi invisibili, oscuri intermediari, società-ombra, e gli "investimenti personali" su cui la Clinton si ostina a volere fa luce. E' quello di cui ora ci si deve occupare.

(2, continua)

http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/09/news/berlusconi-putin_condanna_usa_si_esporta_corruzione_in_europa-9986509/?ref=HRER1-1


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L'INCHIESTA

Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

Gas connection, i segreti della spartizione. Quali i vantaggi per il Paese della relazione tra i due? Chi sono i reali beneficiari dell'intreccio?

Un esponente del board di Gazprom riferisce di un investimento del premier italiano in un giacimento kazako

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO,
da Milano ANDREA GRECO,
da New York FEDERICO RAMPINI


Si deve ricordarlo, parliamo della corruzione negli affari energetici. Di come, per usare le parole del Dipartimento di Stato, "la relazione tra Putin e Berlusconi sia funzionale a inoculare corruzione negli altri Paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia". Questo lo sfondo. Ora un dettaglio: c'è un biglietto autografo di Berlusconi. Il Cavaliere lo consegna nelle mani di Putin per indicare un "signor Nessuno" (Bruno Mentasti) come la testa di legno  -  di chi? di Berlusconi stesso? di una consorteria amica e quale?  -  che dovrà favorire l'ingresso dei russi nel mercato italiano. Quel biglietto autografo è un'impronta digitale. È il sigillo di un metodo che consiglia a Hillary Clinton di chiedere notizie della "torbida connection" tra Putin e Berlusconi segnalata dall'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli. Mostra abitudini costanti.

Gazprom "che fa tutt'uno con Putin" dirotta - denuncia il Dipartimento di Stato - "pagamenti ai politici nei paesi "a valle" perché assecondino i piani della Russia". Queste parole descrivono con cura l'"affare Mentasti". Fallito il colpo gobbo, condotto con troppa rozzezza, le grandi manovre non s'interrompono. Tracce di corruzione si avvistano, per lo meno, in altre due storie che vale la pena raccontare.


"La spartizione della refurtiva"
(dove, questa volta, è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi)

Se parliamo di politica energetica, si confrontano due argomenti tra Europa e Russia. Gli europei in coro chiedono ai russi di giocare con le stesse regole. I russi dicono a ciascuno degli europei: ti do il gas, se mi fai entrare nel tuo mercato. Berlusconi accetta le pretese di Putin. Se necessario, corre a dargli una mano. Sostiene, per esempio, il premier russo quando, nel novembre del 2003, Vladimir Vladimirovic caccia in galera Mikhail Khodorkovskij, l'uomo più ricco di Russia, proprietario della quinta compagnia petrolifera del mondo, la Yukos. Le accuse parlano di frode fiscale e appropriazione indebita - in pochi giorni gli sequestrano il suo 40 per cento di azioni Yukos - ma in realtà, come tutto il mondo sa, Khodorkovskij paga la decisione di finanziare la campagna dei partiti di opposizione a Putin. Berlusconi è l'unico leader occidentale a trovare legittimo l'agguato "sovietico" dell'amico del Cremlino. Un giudizio che ribadisce il 20 maggio 2004. Un paio di mesi ancora - è ormai novembre - e il Cavaliere accompagnato da tre ministri ritorna a Mosca per occuparsi ancora di energia. Come scrive Lorenzo Gianotti in una biografia di Putin di prossima pubblicazione, un quotidiano moscovita (Izvestija) svela (9 novembre 2004) che il possibile acquirente di Menatep (la società finanziaria cui fanno capo gli attivi di Yukos) è "il primo ministro e confidente di Putin, Silvio Berlusconi". È un fatto che il Cavaliere si dà molto da fare per convincere Vittorio Mincato (allora amministratore delegato di Eni) a partecipare all'affare. Mincato non ne vuole sapere, resiste, e oggi c'è chi può raccontare come tra Mincato e Stefano Cao (allora direttore generale di Eni) il motto in quei giorni fosse "non partecipiamo alla spartizione della refurtiva". Via Mincato e nel cono d'ombra Cao, il quadro cambia. Eni e Enel saranno le uniche società occidentali che acquisiranno asset della Yukos di Khodorkovskij e la fetta più grossa: il 20 per cento delle azioni di Gazpromneft' per 4,2 miliardi di dollari. Un caso da manuale di portage finanziario (Eni acquista asset a proprio nome, in realtà si impegna a cederli successivamente a Gazprom). Per dirla nel modo schietto dei testimoni di quell'affare, un classico di "spartizione della refurtiva" sottratta a Khodorkovskij. Con la grottesca appendice - emersa dai dispacci diplomatici pubblicati da WikiLeaks - di un appello in extremis di Berlusconi a Putin per garantire il riacquisto a prezzi adeguati da parte di Gazprom: nel 2009 il prezzo del gas è talmente basso che il braccio energetico del Cremlino è in difficoltà nell'esercizio di quell'opzione call.

Questi i fatti. Ora una domanda: che interesse ha l'Italia a prestarsi al saccheggio dell'impero Yukos, uno dei tanti, troppi episodi opachi dell'attività del Cane a sei zampe in Russia? Le malignità a Mosca nella comunità dei tecnici degli affari energetici si sciupano. Uno "scambio" ci sarebbe stato. Diverse fonti ritengono che proprio qui potrebbe risiedere, protetto dal segreto di Stato, l'interesse personale di Berlusconi. Un membro del board di Gazprom e un suo assistente hanno confessato a un interlocutore che Repubblica ritiene attendibile che, in cambio dell'appoggio all'espansione in Europa occidentale di Gazprom, Putin abbia aperto a Berlusconi la strada ai giacimenti di gas pre-caspici in Kazakistan; metano poi depurato nella vicina centrale russa di Orenburg e lì immesso nei tubi verso Occidente. E' una ricostruzione meticolosa che è impossibile verificare con fonti indipendenti e facilmente sarà smentita. Qui se ne dà conto per comprendere meglio il discredito che circonda - anche in Russia - l'"amicizia" tra Berlusconi e Putin. Dunque, a metà del decennio Duemila, il Cavaliere avrebbe investito, in uno dei giacimenti contigui al grande bacino di Karachaganakh oltre mezzo miliardo di dollari, per un rendimento annuo che, alle attuali (e calanti) valutazioni di mercato, potrebbe fruttargli tra i 100 e i 130 milioni di dollari l'anno di profitto. Il flusso di denaro finirebbe sul conto corrente di una banca russa, intestato a una fiduciaria locale appartenente a una società straniera. Se fosse davvero così, se davvero al Cavaliere fosse stato permesso di partecipare all'estrazione e alla vendita in Europa di quel gas, per Eni oltre al danno si aggiungerebbe la beffa, visto che in quell'area il gruppo italiano è padrone di miliardi di metri cubi di gas, ma non è mai riuscito a esportarlo nei ricchi mercati occidentali. Eni si è sempre dovuta accontentare di cederlo.


I misteri di Karachaganakh
(dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa perché)

La storia è più o meno questa. A sfruttare quest'immenso campo di gas condensato (petrolio leggero) e metano è un consorzio controllato per il 32,5 per cento a testa da Eni e British Gas; 20 per cento Chevron Texaco; 15 per cento Lukoil. In attesa del completamento del gasdotto Blue Stream (gioiello della maestria ingegneristica dell'italiana Saipem, che dalla Russia meridionale raggiunge Ankara sotto il Mar Nero), si pattuisce di cedere la materia prima semilavorata ai russi. Ma nel 2003 il "Blue Dream" - come lo chiamano, superbi, gli americani - diventa realtà, senza ospitare il gas "italiano" di Karachaganakh. Gli accordi sono riscritti nel giugno 2007: in base al nuovo dettato, Eni e il consorzio venderanno dal 2012 a una compartecipata russo-kazaka 16 miliardi di metri cubi l'anno di raw gas a un valore stimabile in 50 dollari per unità di mille metri cubi, mentre in Europa il prezzo del prodotto finale è sui 300 dollari. Ai 50 dollari vanno aggiunti i costi di depurazione e trasporto. Più o meno, altri 150 dollari. Dunque, mille metri cubi di gas costano 200 dollari circa. A conti fatti il minore introito è di 19 miliardi di dollari per il consorzio; e un terzo per l'Eni. Perché gli italiani rinunciano a questa montagna di quattrini? A vantaggio di chi? Mario Reali, per un paio di decenni l'uomo a Mosca dell'Eni, insieme al vice direttore generale Pietro Cavanna propone nel 2003 di costruire apposta una raffineria Eni in Kazakistan. Per due anni i manager italiani si scontrano con la feroce contrarietà dei russi, e anche l'ipotesi di cercare sbocchi nel futuro gasdotto Nabucco naufraga per il niet del Cremlino. Paolo Scaroni. amministratore delegato di Eni, forse dovrebbe spiegare ai suoi investitori perché ha ceduto su quegli accordi al ribasso. Reali già nel 2007 a Report dichiarava: "Quel gas che l'Eni svende potrebbe essere inviato in Italia tramite il gasdotto russo-ucraino-slovacco che arriva a Baumngarten (Tag). Perché si regalano ad altri quei soldi?".

Riepiloghiamo. Abbiamo appreso come ci siano molti modi per "inoculare corruzione" nell'Europa occidentale a vantaggio degli interessi russi. Sappiamo che qualche risvolto riguarda l'Italia, Berlusconi, Eni. Concessione di giacimenti metaniferi da sfruttare in proprio. Svendita del gas venduto a basso costo per concedere agli intermediari di tagliarsi una fetta di torta. E' ora di avviarsi a una conclusione.


Epilogo con sorpresa e qualche domanda
(dove si apprende che al Cremlino la parabola di Berlusconi è in declino)

Sono indizi, in fondo. I soli che è possibile, al momento, estrarre dal calderone di segreti che proteggono il business energetico. Ricordiamo i segnali e che cosa ci dicono. Un foglio scritto a mano da Berlusconi. Un suo amico, senza arte né parte, candidato ad arricchirsi senza muovere paglia, non si sa a nome di chi, ma si conosce grazie a chi. Ancora. Le chiacchiere intorno alle quote personali del Cavaliere in un giacimento in Kazakistan, i margini intascati dalla sua vendita in Occidente, curata dai russi. Infine, i cento dollari per ogni mille tonnellate di metri cubi di gas intascati lasciati misteriosamente ai russi e ai kazaki. Si potrebbero ricordare altre questioni: il progetto South Stream ad esempio perché, come ha spiegato a Repubblica un alto funzionario del Dipartimento di Stato, Jeffrey Mankoff, "i gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". South Stream, il gasdotto sotto il Mar Nero fortemente voluto dai russi, è talmente faraonico, costoso e - dopo i recenti ribassi del prezzo del gas - diseconomico che Eni s'è affrettata a cedere quote del consorzio costruttore (dove affiancava Gazprom con il 50%). Mercoledì sera, a cena con la stampa italiana a New York, il presidente dell'Eni Roberto Poli ha accennato alla possibilità di un dietrofront nel progetto, valutata la sua effettiva convenienza.

L'affare Mentasti, la spoliazione di Yukos, il progetto South Stream portano alla luce qualche filo: Berlusconi si muove a Mosca più come imprenditore di se stesso che come capo del governo anche se, come capo del governo, abusa della sua autorità politica per condizionare gli affari di Eni in Eurasia e coccolarsi così Putin, un alleato che per molti ragioni può essergli utile. Silvio e Vladimir Vladimirovic hanno in comune, con Winston Churchill, la convinzione politica che "la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato" e la certezza economica che "non esiste amicizia, esistono soltanto interessi comuni". È quest'ultimo convincimento che ha cominciato a erodere, al di là degli abbracci di convenienza, il loro sodalizio politico-economico.

Il premier russo comincia a credere che con Berlusconi nei dintorni i suoi interessi possano soffrirne. Putin - dice chi ha modo di frequentarlo - è infastidito dal clamore che accompagna Berlusconi nel mondo, contrariato dalle sue dichiarazioni pubbliche spesso maldestre, irritato dalla presunzione e dalla vanagloria dell'italiano che vanta un potere che non ha e successi che non sono i suoi. Come quando, scandalizzando il Cremlino e i media russi, Berlusconi promise in un'intervista in Olanda che "se Putin avesse lasciato la politica", lo avrebbe "preso a lavorare" con lui. O, appena ieri, quando il Cavaliere si è gloriato di aver ottenuto lui, per conto dei russi, i Mondiali di calcio del 2018 a Mosca. È il ruolo del mattatore che ormai i russi beffeggiano. Chiamano Berlusconi, dyadya, zio, che detto da un bambino a un estraneo è un segno di rispetto, detto dagli adulti a un uomo di settantaquattro anni e soprattutto primo ministro è quasi un dileggio. Il fastidio del Cremlino per Berlusconi è "destinato ad avere anche una consistenza pubblica - sostiene una qualificata fonte italiana che vive a Mosca - se il governo di Berlusconi dovesse avere difficoltà o addirittura cadere". Per comprendere come le azioni in Russia del Cavaliere siano in ribasso, bisogna ritornare da dove siamo partiti, a Valentino Valentini. Per anni "intermediario segreto" tra il Cavaliere e Putin, oggi il segretario particolare di Berlusconi appare agli osservatori italiani a Mosca "in disgrazia". Rivela un'autorevole fonte bancaria che "l'ultima volta che, tre settimane fa, Valentini è venuto al Cremlino per preparare il summit di Sochi non è stato ricevuto dall'omologo assistente di Putin anche se si è intrattenuto nella capitale per due-tre giorni". Non aiutano la fortuna dell'Italia da quelle parti i mediocri affarucci che, lungo le rive del Mar Nero, Valentini ha messo su con un personaggio italiano, Pier Paolo Lodigiani, come lui emiliano, già fallito in Italia e malvisto a Mosca ma, con il ritorno a Palazzo Chigi di Berlusconi, nominato nell'agosto del 2008 "console generale onorario della Repubblica italiana delle regioni di Krasnodar e Stavropol, della repubblica di Daghestan, Inguscezia, Cecenia". Sono circostanze che nuocciono a Berlusconi che ci mette del suo. Due esempi. Il Cavaliere pare che abbia "ossessivamente chiesto a Vladimir Vladimirovic di trovare un oligarca che gli compri il Milan allo strabiliante prezzo di un miliardo di euro e Villa Certosa per 50 milioni". Quando è diventato pubblico il cable che definisce il presidente Dmitri Medvedev "un apprendista di Putin", nessuno a Mosca si è meravigliato che la moglie Svetlana Vladimirovna Medvedeva non si sia curata della smentita del nostro capo di governo e abbia confessato ai suoi amici: "Usciranno presto dispacci molto più compromettenti sulle dichiarazioni di Berlusconi".

Il nostro capo di governo è riuscito a screditarsi agli occhi dell'alleato americano per gli affari, anche personali, intrecciati con Putin e, nello stesso tempo, a irritare Vladimir Vladimirovic per lo stesso motivo: una smania ossessiva di business che pare non trovare mai un limite. Impresa stupefacente.

Berlusconi, anche nella veste di maggior azionista di Eni attraverso il Tesoro, può chiudere questo caso in fretta rispondendo alle domande più elementari. Qual è la missione degli intermediari che rappresentano al Cremlino le sue volontà? Chi erano i veri beneficiari del "progetto Mentasti" e dov'era qui l'interesse nazionale? Quali sono gli interessi nazionali che ha curato e cura con Putin? Quali utili ne ha ricavato Eni? Quali benefici ne hanno ricevuto consumatori e imprese? Quali vantaggi, le nostre alleanze in Europa e in Occidente?
(3. fine)
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« Risposta #185 inserito:: Gennaio 13, 2011, 11:54:17 am »

IL COMMENTO

La fuga del sovrano

di GIUSEPPE D'AVANZO


Quale che sia oggi la decisione della Consulta sulla costituzionalità del "legittimo impedimento", Berlusconi può starsene tranquillo ché l'uso privatistico del Parlamento ha raggiunto il suo scopo. La prescrizione che si è acconciata da solo, azzopperà i tre processi che lo vedono imputato di corruzione (Mills), frode fiscale (diritti tv Mediaset), appropriazione indebita (Mediatrade). Intendiamoci, se fosse un imputato qualunque  -  "un imputato in scadenza termini", come dicono gli addetti  -  il tribunale stringerebbe i tempi e (per esempio) il "processo Mills", che ha davanti un anno di tempo prima di "morire", forse riuscirebbe a chiudersi anche in Cassazione. Così non sarà perché le intimidazioni del Sovrano, le aggressioni del sistema politico, governativo e mediatico che controlla lasciano il segno e provocano nelle toghe indecisioni e timidezze che attardano il cammino del processo più delle gimkane organizzate dagli avvocati. Dunque, il premier si salverà ancora, anche se i cinque giudici su sette che si occupano di lui, trasferiti ora ad altri incarichi, dovessero essere "applicati" (come probabilmente accadrà) fino alla fine dei processi. Da questo punto di vista, Berlusconi ha ragione ad essere, come dice, "indifferente" alla pronuncia della Corte Costituzionale.

Non gliene può venire un immediato danno giudiziario (quel che più temeva), ma gli si deve chiedere: davvero il premier può essere disinteressato a quel che accadrà alla sua immagine di padre, di tycoon di talento, di uomo di governo che ambisce a concludere il ventennio della sua éra politica al Quirinale, presidente della Repubblica, capo dello Stato? Se si guarda alla questione da questo punto di vista, i processi soffocati prima della sentenza lasciano il Cavaliere assai malconcio. Guardiamone soltanto uno, quello per la corruzione dell'avvocato David Mills che raccoglie interessanti tranches de vie e definisce quasi scandendoli gli eventi dell'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi.

Come si sa la Cassazione, condannandolo a risarcire il danno, ha già concluso che David Mills è stato corrotto. La corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è stato corrotto, il presidente del consiglio (coimputato) è il corruttore. Vediamo che cosa significa questo risultato ormai scolpito nella pietra e come l'esito ferisca irrimediabilmente la reputazione di Berlusconi, la narrazione di se stesso, il suo "mito".

La conclusione del "processo Mills" fa del Cavaliere innanzitutto uno spergiuro spietato perché fa voto - mentendo - sulla "testa dei suoi figli". Disse (lo ha ricordato anche ieri): "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia", (Ansa, 20 giugno 2008). Il processo ha dimostrato che egli ha conosciuto l'avvocato. La sentenza documenta quanto Berlusconi sia un bugiardo conclamato. Disse: "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza", (Ansa, 23 novembre 1999). I processi hanno dimostrato che Mills creò All Iberian con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere. La gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle Fiamme Gialle corrotte), mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità. Ancora. L'esito del processo Mills mostra quanto per Berlusconi siano vincolanti le pubbliche promesse. Si impegna a ritirarsi dalla politica, addirittura a lasciare l'Italia se si fosse dimostrato la sua conoscenza di Mills. L'avvocato ammette di averlo incontrato ad Arcore, Berlusconi non prepara le valigie. Quel che più conta, la sentenza Mills dimostra come la fortuna di Berlusconi, più che nel talento, ha le sue radici nel malaffare, nell'illegalità, nella corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo. Altro che homo novus e leader outsider.

Ora, può non uno statista o un tycoon di strepitoso successo, ma semplicemente un uomo che abbia rispetto di se stesso, del suo buon nome e del suo onore accettare che la sua storia sia avvilita a questi infimi livelli se non lo ritiene corretto? E che cosa intende fare quell'uomo per ripristinare quel che egli sostiene essere "la verità"? Questa responsabilità trova Berlusconi estremamente debole, quale che sia oggi la sentenza della Consulta. Il premier preferisce confondere l'opinione pubblica più che convincerla. Minaccia, come dice a Berlino, di "spiegare agli italiani". Repertorio abituale. Lo ha già promesso in agosto: "Andrò in tv a spiegare la mia odissea giudiziaria". E due anni e mezzo prima, mentre si riposava ai Caraibi, ad Antigua, meditava di fare un discorso in Parlamento sulla giustizia italiana. Anche in quest'occasione ha alla fine taciuto e ancora lo farà oggi (a meno che non si vada a votare).

Meglio così, perché c'è un solo posto dove Berlusconi può mettere in sesto la sua storia e documentare la sua "verità", se è in grado di farlo. È l'aula di un tribunale cui può chiedere di non curarsi dei tempi della prescrizione tanto più se ritiene le accuse "ridicole". Per un uomo che governa il Paese e vuole diventare capo dello Stato è un obbligo perché è una Repubblica senza futuro e in pericolo quella in cui il Presidente può essere apostrofato legittimamente da chiunque come un bugiardo, uno spergiuro, un corruttore.

(13 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/13/news/d_avanzo_fuga_berlusconi-11162090/?ref=HREA-1
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« Risposta #186 inserito:: Gennaio 14, 2011, 11:25:24 am »

L'ANALISI

Caduto il privilegio, il premier va alla guerra

di GIUSEPPE D'AVANZO

C'E' UNA confortante novità e un paio di pessime notizie. La buona nuova è questa: la Consulta demolisce la legge sul "legittimo impedimento". Berlusconi se l'era affatturata per il presente e per il futuro; per i processi in corso a Milano e per le tegole che (non si mai e chi meglio di lui può saperlo) gli potrebbero piovere sul capo. Il premier ha pensato, e non è un mistero per nessuno: quei processi mi spaventano, posso obiettare che devo governare, posso dire che è il compito che mi ha assegnato il popolo sovrano e quindi che non ho tempo per i processi  -  ma nemmeno un pomeriggio, neanche due ore, nemmeno il sabato o la domenica: la mia agenda non ha buchi  -  e quelli i giudici che possono fare?

Devono rinviare l'udienza. Può bastarmi? Posso fidarmi? No che non posso. Una legge deve obbligarli, vincolarli - sì, costringerli - altrimenti corro dei rischi.

Nasce così la legge sul "legittimo impedimento" che, in attesa della sospirata immunità costituzionale, assicura al Cavaliere di non essere processato. L'arnese scelto è il più prepotente. Si può definire autocertificazione: è lo stesso capo del governo che dirà, senza alcun possibilità di essere contraddetto, di avere molto da fare. Magari per i sei mesi che vengono perché non conta soltanto l'impegno pubblico che rende legittimo l'"impedimento", ma anche tutto il lavoro di prima e di dopo o comunque essenziale a far fronte a quell'appuntamento
istituzionale. Chi può sindacare quanto tempo sia necessario? Quindi, il giudice - comanda la legge - deve prenderne atto e rinviare l'udienza perché l'arresto del processo è automatico.

Ecco, è su questo punto decisivo (chi decide se l'impedimento è legittimo?) che la Corte costituzionale cancella oggi l'abusiva "prerogativa" che il Sovrano s'era cucinato nel suo esclusivo interesse e illegittimamente perché con legge ordinaria e non costituzionale. Come ha già scritto qui Franco Cordero: eliminato l'automatismo, la legge si squaglia. La Consulta, con la sua sentenza, annulla l'autocertificazione all'impedimento del Cavaliere (l'automatismo) e restituisce al giudice il dovere di accertare, caso per caso, di volta in volta, se le ragioni che ostacolano la presenza in aula dell'imputato siano concrete o fasulle, come accade a ogni cittadino della Repubblica. Si ripristina così ciò che la legge sul legittimo impedimento ha manomesso: l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 della Costituzione).

Fin qui la notizia che rincuora, ma ce ne sono anche di pessime. Per lo meno un paio. La prima è che Berlusconi non ha alcuna intenzione di difendere la sua onorabilità nel solo luogo appropriato, l'aula del tribunale. In quel luogo - e in modo definitivo con la "sentenza Mills" - è stato documentato che egli è un corruttore, un bugiardo e uno spergiuro anche quando fa voto della "testa di figli e nipoti". Un uomo, con un'altra idea della dignità personale e della responsabilità pubblica, filerebbe in quell'aula per dimostrare la sua correttezza e onestà. Non Berlusconi che si è fatto politico per scampare - e non è un mistero - da un passato di malaffare e come corruttore, bugiardo e spergiuro pretende di essere accettato dal Paese.

Il Cavaliere avrà buon gioco - altra pessima notizia - perché i processi che lo attendono a Milano presto diventeranno cenere. Tra le leggi che il Sovrano si è acconciato per farla franca (2001, rogatorie internazionali; 2002, legittimo sospetto; 2003, legge immunitaria Schifani; 2006, inappellabilità delle sentenze di proscioglimento; 2008, legge immunitaria Alfano), tutte sterili o cancellate dalla Corte Costituzionale, la più efficace per farla franca si è rivelata la riforma dei tempi della prescrizione (2005). È questa che soffocherà i processi di Milano. Cinque dei sette giudici che lo stavano giudicando a Milano per corruzione (Mills), frode fiscale (diritti tv Mediaset), appropriazione indebita (Mediatrade) sono stati trasferiti ad altro incarico. I dibattimenti dovranno dunque ricominciare di nuovo e daccapo e la possibilità che possano arrivare al verdetto definitivo della Cassazione è concreta come l'eventualità che Berlusconi accetti di farsi processare. Nelle prossime settimane e mesi assisteremo a uno spettacolo estenuante. Gli avvocati del Sovrano andranno in aula per sfruttare tutte le possibilità che la bocciatura parziale della legge sul legittimo impedimento lascia sul tavolo. La Consulta chiede ai giudici una leale collaborazione istituzionale e di accordare le necessità della giurisdizione con il dovere di governare. Il punto di equilibrio è difficile da trovare quando i diritti della difesa sono l'occasione non per fare luce nel processo, ma per tenersi lontano dal giudizio. Anche perché - facile previsione - Berlusconi non si farà mancare gli impegni soprattutto all'estero e i suoi legali useranno quell'agenda posticcia per scardinare i tempi del processo. È molto improbabile che i giudici del tribunale di Milano se la sentano di smascherare il gioco. Lo si è già detto. Se Berlusconi fosse un imputato qualunque, il tribunale stringerebbe i tempi e il "processo Mills", che ha davanti un anno di tempo prima di "morire", forse riuscirebbe a chiudersi anche in Cassazione. È il processo più sensibile e, in fondo, quello più limpido perché nei fatti si è già concluso quando anche dinanzi alla Cassazione - e quindi definitivamente - è stata accertato che l'avvocato inglese David Mills, architetto della galassia di società off-shore di Fininvest organizzata con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, è stato pagato per non dire la verità nei processi contro Craxi e gli ufficiali della Guardi di Finanza, corrotti dal tycoon di Arcore. La corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è stato corrotto, il presidente del consiglio (coimputato) è il corruttore. Per chiunque altro che non sia il capo del governo il processo, che ora ricomincerà a Milano, sarebbe una pura formalità. Tre e quattro udienze in primo grado. Un'udienza in appello. Un'udienza in Cassazione. Sentenza che passa in giudicato. Dodici mesi sono più che sufficienti perché nel caso degli "imputati in scadenza termini", come si dice, i tribunali hanno l'obbligo di fare presto e bene non fosse altro per garantire i diritti di chi è stato offeso dal reato. Potrebbe avvenire anche per il processo Mills? Difficile. Meglio, impossibile. Il clima di perenne aggressione all'ordine giudiziario un segno lo ha lasciato. Gli abusi del sistema politico, governativo e mediatico (un caso per tutti, l'agguato denigratorio al giudice Mesiano "colpevole" di aver indossato calzini viola) provocano nelle toghe qualche impaccio superfluo che rallenta il processo. Da questo punto di vista, la sentenza della Consulta non aiuta perché prepara ai giudici di Milano un percorso ricco di trappole e complicazioni. Per dirne una, con il costituzionalista Alessandro Pace: come si potrà "coniugare l'indifferibilità dell'impedimento con l'esistenza di un'attività preparatoria e consequenziale"? È quanto questo lavoro che predispone e segue l'impegno pubblico del capo del governo potrà essere legittimamente lungo?

A pensarci, l'annichilimento per prescrizione dei processi di Milano non è nemmeno la notizia peggiore. La nuova davvero pessima la si scorge nelle manifeste intenzioni del premier. Lo si vede già muovere i fili con attenzione. Clamorosamente fallito come uomo che governa e modernizza finalmente il Paese, il Cavaliere affida il suo destino al solo congegno che conosce e controlla: le elezioni. In queste ore, con queste mosse - ieri la sortita a Berlino contro "l'ordine giudiziario fuoriuscito dall'alveo costituzionale", oggi la catilinaria televisiva dalla tv di casa in compagnia di un dipendente - le sta preparando con cura mentre dice in pubblico - spudorato - di non volerle. Come sempre, ha bisogno di creare un "contratto emotivo" con gli elettori ricordando che la sua proposta politica è egli stesso. Che il suo destino è il destino di tutti. Che la sua persona e i suoi interessi privati sono gli interessi del Paese. È una strategia che funziona (in passato ha funzionato tre volte su cinque) quando ogni questione nazionale o espressione politica precipita in una conflittualità concreta che consente di dividere il Paese in amico e nemico. È un metodo che trasforma in una vuota astrazione ogni altro problema: il debito pubblico, il declino dell'Italia, il dramma delle giovani generazioni, il fallimento delle liberalizzazioni, lo Stato di diritto, i precetti della Carta costituzionale, la sovranità, il discredito dell'Italia nel mondo. Quel che conta è il Corpo mistico del Capo, al tempo stesso sovrano e popolo. Quel che conta è sapere qual è il nemico che minaccia il Capo e che quindi deve essere - dal popolo, dai membri del corpo mistico - contrastato e colpito.

Ecco la notizia pessima: Berlusconi si prepara al voto ed è intenzionato a far rotolare il Paese in un conflitto senza confini e il nemico da distruggere sarà la magistratura. Una magistratura che il Cavaliere vorrà rappresentare come nemica del popolo, della democrazia, dell'Italia, come appunto pare si chiamerà il suo nuovo partito. Se sei contro l'Italia (partito), sei contro l'Italia (nazione). "Quando si avoca a sé la piena rappresentatività della comunità nazionale e si disconosce la legittima cittadinanza dell'altro in quanto anti-nazionale è guerra civile", sostiene Marco Rovelli. Si può anche non sapere se ci attende davvero una moderna "guerra civile", è certo che Berlusconi sta preparando, a partire dai suoi contrasti con la giustizia, qualcosa di molto simile. 
 

(14 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #187 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:15:41 pm »

L'ANALISI

L'affanno del sovrano e la fiaba del complotto

di GIUSEPPE D'AVANZO

Claqueurs ripetono le solite mosse. Modificano il segno dei fatti accertati. Abitano lo stesso Palazzo lontano dal cuore del Paese. Appartengono alla stessa famiglia e sono feroci nella difesa dello status quo, ordinato intorno al Sovrano istupidito da una sexual compulsivity e dall'amore di sé, Nerone, Eliogabalo, maiestas indegna nel suo modo di essere, ridicola nelle sue fantasticherie, nei suoi gesti, nel suo corpo, grottesca nella sua sessualità.

Indifferenti alla meccanica del potere del Sovrano, maschere salmodianti organizzano quadri dove "vero/falso", "giusto/ingiusto", "corretto/improprio" sono qualifiche fluide e manipolabili. Vogliono che ogni figura logica svanisca nella nebbia e usano formule confusamente sonore, "accanimento", "deriva giustizialista", "attacco politico", addirittura "golpe". Ugole ubbidienti agitano addirittura il fantasma mentale del Complotto, fiaba degli impotenti, inganno degli irresponsabili che temono la realtà.

È comodo da ribaltare il vaniloquio. Non c'è alcuna "trappola". Nella gabbia Berlusconi s'infila da solo. Una puttana brasiliana lo avverte mentre è a Parigi in una cerimonia ufficiale: la sua Ruby è in Questura. Ruby è del Sovrano. Ha cominciato a vedersela intorno nel 2009: la fanciulla ha sedici anni. Balla la danza del ventre. Il Sovrano si diverte. Se ne incapriccia con l'anno nuovo, il 2010. Logico che si agiti quando lo allertano da Milano. Ruby è minorenne, è nelle mani dei poliziotti, ha la lingua lunga, può rovinarlo. Solo in apparenza è irragionevole che sia egli stesso - presidente del Consiglio - a metterci riparo. Deve farlo per evitare che altri conoscano il segreto della sua relazione. Chiama il capo di gabinetto della Questura di Milano intorno alle 23.45 del 27 maggio. Già quest'intromissione avrebbe dovuto segnare la fine politica di un homme d'Etat. È un dettaglio che le ugole del Sovrano ignorano nel frastuono che organizzano. È un particolare decisivo, al contrario. Questa telefonata è l'incipit della storia e l'iniziativa che configura il reato di concussione. Lo si rintraccia quando un pubblico ufficiale (Berlusconi lo è) abusa della sua qualità o dei suoi poteri per indurre altri a un comportamento indebito. In questura da quell'ora della notte si scatena un inferno sul capo della funzionaria di servizio (Giorgia Iafrate). Riceve in 134 minuti (dalle 23.59.27 alle 02.14.12) quindici telefonate dai suoi superiori (12 dal capo di gabinetto, 3 dal dirigente dell'ufficio prevenzione, il suo capo): una telefonata ogni nove minuti. Quest'esorbitante pressione produce un frutto avvelenato. Un soggetto debole, una minorenne senza famiglia, senza fissa dimora, senza reddito che abitualmente si prostituisce, è sottratta alla tutela dello Stato con l'intervento abusivo del capo del governo che impone un comportamento scorretto ai funzionari della Questura. Alle 2.00 Ruby viene affidata a Nicole Minetti, incaricata del capo del governo, e da questa di nuovo consegnata a una prostituta brasiliana nonostante le indicazioni vincolanti del pubblico ministero. Soltanto dopo, alle 2.20.43, Giorgia Iafrate chiede di accertare la volontà della famiglia di Ruby e soltanto alle 04.00 i poliziotti incontrano i genitori della ragazza, che quindi non saranno mai interpellati, contrariamente a quanto viene riferito al pubblico ministero (è un obbligo ineludibile, hanno la patria potestà).

Nel mondo di cartapesta dell'Italia berlusconiana, maschere salmodianti ripetono "dove sono le prove?"; qualche sempliciotto ne è influenzato mentre le anime fioche dell'informazione afferrano quella domanda come un naufrago il legno (non sia mai che debbano prendere posizione e contraddire il potere). La prova della concussione di Berlusconi è evidente, salda, indistruttibile. Chiunque può vederlo. Accorti, non lo contestano gli avvocati del premier. Si tengono lontano dai fatti. Discutono di forme: era competente la procura di Milano? Rispondono di no, l'inchiesta è quindi illegittima. Istigano alla rivolta le teste di turco che straripano nei talk-show dove sfogano l'angoscia (è davvero al capolinea il Sovrano?) menando fendenti forsennati. Ignorano una regoletta: la giurisprudenza sostiene che il pubblico ufficiale (membro del governo) colpevole di concussione deve essere giudicato dal Tribunale dei ministri se la concussione è funzionale (lo sarebbe stata se in Questura avesse telefonato il ministro dell'Interno). Al contrario, se il pubblico ufficiale abusa non dei suoi poteri, ma della qualità del suo incarico (come nel nostro caso, Berlusconi) niente tribunale dei ministri.

La concussione è un delitto molto grave (12 anni il massimo della pena). Lo è soprattutto se, come in quest'affaire, si mostra aggravato da alcune circostanze. Berlusconi manipola la volontà e le condotte dei funzionari della questura per occultare un altro reato, il favoreggiamento della prostituzione minorile, e nascondere il "puttanaio" sotto il tetto di Arcore, "suscettibile di arrecare nocumento alla sua immagine di uomo pubblico".

Anche qui per affogare nell'oblio quel che è accaduto, gli avvocati si avventurano in un'acrobazia. Dicono: ammesso e naturalmente non concesso, che il favoreggiamento alla prostituzione minorile ci sia stato, è stato commesso ad Arcore, Monza. Quindi, competente non è Milano. È una mastodontica grinza, tanto più sorprendente perché i due avvocati del premier sono parlamentari. Stupisce che non ricordino come sia stato proprio questo governo, la loro maggioranza, a reintrodurre la competenza dei reati di violenza sessuale per le procure distrettuali. Quindi, nel nostro caso, a Milano.

Prima che la memoria deperisca e i fatti siano travolti dal rumore, conviene ordinare quali sono "le prove evidenti" dello sfruttamento della prostituzione minorile. Per venirne a capo, è necessario dimostrare: (1) che Ruby si prostituisse; (2) che Berlusconi, consapevole della minore età di Ruby, ha compiuto con la ragazza "atti sessuali" (3) ricompensandola. Dicono: dove sono le prove? La domanda è una corvée d'ossequio. Se si sanno leggere le 389 dell'invito a comparire, le prove si scovano. Un rosario di testimonianze dirette e documenti acustici confermano il "mestiere" di Ruby. La ragazza vende il suo corpo occasionalmente, quando ha bisogno di denaro o quando qualche agiato semplicione le capita a tiro. Succede anche con Berlusconi. Ruby è introdotta alla corte del Sovrano lungo i canali predisposti per accontentarne la sexual compulsivity. Emilio Fede (mente a gola piena e, in prima battuta, dice di non conoscerla, poi di non ricordarla) la scopre tredicenne a Messina. La indirizza al suo braccio destro nella "fabbrica del bunga bunga", Lele Mora. Il prosseneta la istruisce, la prepara e l'avvia al suo lavoro autentico mascherato in modo maldestro dall'impegno di cubista buono per pagare appena le spese di un paio di giorni al mese. Quando finalmente è pronta viene offerta al Drago. Ruby ha sedici anni. Un carabiniere che l'ha conosciuta in quel periodo riferisce che, è vero, prima del gennaio 2010 - dunque nel 2009 - Ruby era già stata a Villa San Martino due volte. Con il nuovo anno, la relazione con il presidente si fa più intensa. Dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 Silvio Berlusconi e la teenager si vedono tredici volte. 14 (domenica), 20 (sabato), 21 (domenica), 27 (sabato), 28 (domenica) febbraio 2010; 09 (martedì) marzo 2010; 04 (domenica, Pasqua), 05 (lunedì dell'Angelo), 24 (sabato), 25 (domenica Festa della Liberazione), 26 (lunedì) aprile 2010; 01 (sabato, Festa del lavoro), 02 (domenica) maggio 2010. In settantasette giorni (dopo il fermo in questura del 27 maggio, sarà impossibile) il presidente pretende che la minorenne dorma sotto il tetto di Villa San Martino con una frequenza di una volta ogni sei giorni. È una prova solida della loro frequentazione. Bisogna ora dimostrare che ci siano stati "atti sessuali" tra il presidente e la ragazza. I caudatari chiedono come prova una fotografia, un video. Non è necessario.

È colpevole di favoreggiamento della prostituzione minorile "chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica". Gli atti sessuali possono anche non essere, nel caso dei minori, sesso tout court. Per giurisprudenza costante della Cassazione, è configurabile come "atto sessuale" anche una "palpazione concupiscente". Ecco allora perché in una sequenza logica ci si deve occupare delle malinconiche serate del Sovrano, di quei "bunga bunga" dove, secondo decine di testimonianze, "le ragazze si spogliano, si avvicinano al presidente disteso sul divanetto e a turno, o anche in gruppi di due o tre, si strusciano e si fanno toccare, assumendo un atteggiamento anche provocante e volgare con baci e strusciamenti". Le maledizioni dei corifei del Sovrano non riusciranno a cancellare quel che si vede. Ruby partecipa al sollazzo del premier. Quanto meno - e per la legge non occorre pretendere altro - subisce gli "strusciamenti" di quel signore di 76 anni, le sue "palpazioni concupiscenti". Sono "atti sessuali", Ruby è minorenne. Si comprende perché la procura di Milano creda di aver raccolto fonti di prova sufficienti per chiedere il giudizio immediato e chiudere presto questa triste vicenda. Appare addirittura un sovrappiù documentare il tentativo corruttivo di Berlusconi. Vuole chiudere la bocca alla ragazza. È in affanno e le promette di rivestirla d'oro. Ancora una volta è costretto a muoversi in prima persona e al telefono della ragazza arrivano nei mesi scorsi più o meno un centinaio di telefonate del presidente.

In qualsiasi altro Paese che abbia rispetto di se stesso e delle sue istituzioni, Berlusconi si sarebbe già dimesso. Se questo non avviene, non lo si deve alla tignosa "invincibilità" del grottesco Sovrano che ci governa, ma a una classe dirigente incapace di assumersi responsabilità civili, indifferente a un senso comune dell'appartenenza e all'onore. Lo si deve a una Nazione senza amor proprio. Le tracce di questa triste condizione, si scorgono nei co-protagonisti di quest'affare o nell'assenza di alcune corpi collettivi. È un bestiario dalle mille figure. Un ministro della Repubblica, Ignazio La Russa, apprende che Berlusconi si è inventato "una fidanzata" per uscire dall'angolo. Si precipita dinanzi alle telecamere di un telegiornale per giurare, senza arrossire, che "lui, lo sapeva da tempo". Un avvocato di grande reputazione a Milano, Massimo Di Noia, difende Ruby. Ruby è la parte lesa di un reato sessuale e appare assolutamente irrituale e anomalo (anche se non esplicitamente vietato) che egli si sia prestato a interrogare la sua assistita per conto dell'indagato. E bisogna escludere - perché vietato - che egli abbia richiesto per le investigazioni difensive dell'avvocato di Berlusconi "notizie sulle domande formulate o sulle risposte date" da Ruby ai pubblici ministeri che l'hanno interrogata.

Mostra l'esprit de société la quiete stagnante delle redazioni del Tg1 e del Tg4. Sono governate non da giornalisti, ma da reggicoda del Sovrano. Augusto Minzolini riscrive ogni sera la realtà del Paese governato dal Drago lisciandola da ogni increspatura, conflitto, notizia e accecando l'opinione pubblica. L'altro addirittura spande il denaro del suo giornale per far rientrare in tutta fretta dal Brasile due prostitute da accompagnare dal premier. Che cosa deve accadere perché le redazioni dei due giornali facciano sentire la loro voce, alzino la protesta per difendere il loro onore. Dove sono i sindacati di polizia? Perché non difendono quei funzionari di Milano, umiliati e vinti dall'arroganza del capo di governo. Perché tace la Chiesa? Perché è senza voce il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Mariano Crociata. Che già ebbe modo di dire (menava scandalo l'amicizia del Sovrano con la minorenne Noemi): "Assistiamo ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio". Esiste ancora un'Italia che abbia amor proprio?

(19 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #188 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:19:35 pm »

L'ANALISI

Il volto spietato del potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL berlusconismo arriva al suo compimento. Ci dovevamo arrivare prima o poi e ora - ecco - ci siamo. Quel che si scorge è l'inizio di un lungo tormento. Sapevamo di vivere in un Paese dove al governo c'è un uomo solo - un grottesco Egoarca - che altrove sarebbe già stato allontanato per la sua evidente inadeguatezza politica e insufficienza etica. Sapevamo che quell'uomo solo, che stringe nelle sue mani il filo del potere economico, politico e mediatico, non può permettersi di allontanarsi dal governo perché è il governare, è il potere, sono i dispositivi di dominio che proteggono l'opacità della sua storia, l'irresponsabilità dei suoi comportamenti, il suo futuro. Buona parte dei disordini istituzionali che hanno accompagnato la vita pubblica degli ultimi quindici anni - lo sappiamo - è figlia di questa anomala e umiliante condizione in cui viviamo; una condizione che sollecita in tanti o la rassegnazione o una depressione cinica. Ci aspettavamo giorni difficili, ci attendono lacrime e sangue. Non bisogna nasconderselo perché, dopo il videomessaggio di Berlusconi, c'è una circostanza che è diventata chiara come acqua di fonte: quell'uomo non vorrà mai lasciare il Palazzo, qualsiasi cosa accada, qualsiasi siano le sue responsabilità accertate, qualsiasi siano le urgenze del Paese.

Il Sovrano, accusato di concussione e di aver fatto sesso con una minorenne, non accetta di farsi processare. Esige di essere immune. Comunica che se l'impunità gli sarà
negata, spingerà la sua avventura autocratica fino alle estreme conseguenze, incurante di condurre l'Italia nel gorgo di un tragico conflitto e le istituzioni dello Stato al collasso con risultati oggi del tutto imprevedibili per il futuro del Paese.

La risolutezza annunciata dal capo del governo non è la caparbietà di un "combattente nato", come pure qualche anima fioca dirà. È la nascita di un potere postpolitico e neoautoritario. È postpolitico perché il processo del governare - che cosa è necessario al Paese? qual è l'agenda delle priorità? come affrontarla? - è ormai del tutto separato e scisso dallo spettacolo mediatico che diventa la più autentica rappresentazione del nostro destino pubblico. Questa scena di cartapesta, che impasta e mescola la realtà trasfigurandola, liquida del tutto i meccanismi democratici che diventano irrilevanti al punto che esprimono soltanto un vuoto. Il capo dello Stato, che ha chiesto appena 24 ore fa trasparenza, è sconfessato. Il Parlamento dei nominati mostra tutta la sua ininfluenza. L'opposizione non trova nemmeno il luogo per esercitare le sue prerogative.

È un potere neoautoritario perché Berlusconi è stato esplicito: "la magistratura sarà punita". Chi gli ha scritto il discorso aveva consigliato "adeguata reazione". Il capo del governo ha corretto "punizione". Perché gli è chiara la strada che intende esplorare: l'unificazione nella sua persona di tutti i poteri. C'è un ostacolo lungo questa via: l'indipendenza del potere giudiziario. Deve essere liquidata. È quel che reclama. Con animo da mercante, potrebbe ripensarci soltanto se gli sarà concessa l'impunità (già si ode il lavorio di chi crede alla possibilità di "ridurre il danno").

In ogni caso il capo del governo annuncia nuove misure graduali da stato di emergenza perché è un'emergenza l'autonomia della magistratura anche se il solo a sentirsi minacciato è lui. "State sereni", dice Berlusconi. È una frase chiave. Ci rassicura: la vita andrà avanti normalmente con le sue permissività, i suoi piaceri, i suoi sogni ma - purtroppo - per colpa di una magistratura che lavora con fini politici occorre qualche misura eccezionale necessaria per proteggere la cosiddetta "libertà" che nel lessico del Sovrano equivale a "piacere". Si avvera la profezia di Slavoj Zizek. Nel futuro dell'Italia appare una sorta di autoritarismo permissivo che ha per formula più divertimento e più misure straordinarie. Più "piacere" e meno libertà. Sapremo comprendere i principi eversivi di questo discorso? C'è ancora da qualche parte nella nazione un amor proprio che avverte come degradante, disonorevole, vergognoso per tutti la presenza di quest'uomo al vertice dello Stato? Ammesso che davvero esista nella nostra democrazia ipermediatizzata, si riuscirà a rendere consapevole l'opinione pubblica di che cosa è accaduto, di perché accaduto e per responsabilità di chi.

Nel suo monologo - mai che l'arrogante accetti un contraddittorio, una domanda, la contestazione di "un fatto" - Berlusconi ha truccato le carte come gli accade sempre. Come è possibile dimostrare, ha corrotto Ruby, l'ha costretta a tacere di aver fatto sesso con lui, minorenne. Si è fatto firmare una dichiarazione che lo scagiona. Berlusconi l'ha letta ieri in tv condendo la sua difesa con bubbole e fiabe: mi difenderei volentieri nel processo (questo è un falso indiscutibile), ma la procura di Milano è incompetente (altro falso); non ho mai toccato quella ragazza (ancora un falso). È un altro aspetto della nostra nascente democrazia neoautoritaria. Il Sultano pretende che il potere delle sue parole sulla realtà e sui nostri stessi ricordi sia, per noi, illimitato e indiscusso. È il paradigma che sempre il capo del governo oppone ai fatti nella convinzione che, in ogni occasione, la forza del suo triplice potere possa piegare la verità, ogni verità, tutte le evidenze. Corrompe i testimoni (già gli è capitato con David Mills, ora c'è ricascato con Ruby che dice: mi vestirà d'oro). Impone all'informazione che possiede e controlla di far deflagrare quelle "verità capovolte" nella mente e nei cuori degli italiani che, otto su dieci, s'informano dalla tv e dunque da fonti quasi esclusivamente sue. Trasforma un suo affare privato in un affare pubblico mobilitando le istituzioni (governo, parlamento) che considera cosa sua. Questo spettacolo nero ha un significato politico. Berlusconi ci dice che, al di fuori della sua "verità", non ce ne può essere un'altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. Si scorge oggi nell'affaire Ruby, come nella "crisi di Casoria" del 2009, un uso della menzogna come funzione distruttiva del potere che scongiura l'irruzione del reale e oscura i fatti. Si misura l'impiego dei media sotto controllo diretto o indiretto del premier come fabbrica di menzogne che finora ha preparato il castigo per chi dissente e da oggi annuncia la "punizione" delle istituzioni dello Stato che non si conformano. Quel che è abbiamo visto ieri in televisione è il nuovo volto di un potere che diventerà spietato, se politica e società non si uniranno per fermarlo. È il paradigma di una macchina politica che deve convincerci della pericolosità di Berlusconi. C'è ancora qualcuno che può pensare che questa sia la trama di un gossip o l'ennesimo episodio del conflitto tra politica e magistratura? Diffidate di chi vi racconterà queste favole. Berlusconi sta mettendo le mani sulla nostra democrazia e bisogna decidere soltanto che la misura è colma.

(20 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #189 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:33:20 pm »

Dalla questura al sesso con Ruby le dieci menzogne di Berlusconi

Ecco le prove che smentiscono l'autodifesa del Cavaliere sullo scandalo che lo ha investito

di GIUSEPPE D'AVANZO

CASO RUBY

Si contano dieci menzogne nell'intervento televisivo di Silvio Berlusconi. Qui di seguito dimostriamo come le parole del premier siano variazioni falsarie. Costruiscono per l'opinione pubblica una fiction che appare in gran parte fasulla anche alla luce di quel che è già emerso dai documenti dell'inchiesta di Milano. Le bugie nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio devono negare come e perché sia riuscito ad esfiltrare dalla questura, sottraendola alla tutela dello Stato, una minorenne accusata di furto. Una minorenne con la quale il capo del governo ha intrattenuto, per lo meno per tre mesi, una relazione molto intensa, al punto che ci sono tra i due 67 contatti telefonici in 77 giorni. Impossibilitato a raccontare la verità su quella relazione, il premier è costretto a mentire ancora: parla di persecuzione giudiziaria; inventa una violazione della sua privacy; accusa la polizia di aver maltrattato le sue amiche: è un'autodifesa che non accetta di essere verificata. "Non mi devo vergognare", dice Berlusconi. Le sue dieci bugie lo dovrebbero convincere non solo a vergognarsi, ma anche ad assumersi la responsabilità di fare chiarezza davanti ai giudici e dinanzi al Paese. Ecco dunque le dieci bugie che, se necessario, integreremo nel corso del tempo.

1. "Non ho minacciato nessuno"
Dice il premier: "Vi leggo le risposte del funzionario al pubblico ministero dove descrive la mia telefonata: "L'addetto alla sicurezza mi disse: dottore, le passo il presidente del Consiglio perché c'è un problema. Subito dopo il presidente del Consiglio mi ha detto che vi era in questura una ragazza di origine nord africana che gli era stata segnalata come nipote di Mubarak e che un consigliere regionale, la signora Minetti, si sarebbe fatta carico di questa ragazza. La telefonata finì così". Ma vi pare che questa possa essere considerata una telefonata di minaccia?".
Berlusconi sa di mentire perché non ci fu una sola telefonata con il capo di gabinetto. Come si legge nell'invito a comparire il funzionario riceve ripetute e "ulteriori chiamate dalla presidenza del Consiglio" (la procura ha escluso tutti i contatti telefonici di Berlusconi e non è ancora pubblico il numero esatto). Devono essere state così urgenti e incombenti da consigliare al capo di gabinetto di telefonare 24 volte al funzionario di servizio, al suo diretto superiore, al questore. La prima telefonata è delle 00.02.21, l'ultima addirittura delle 6.47.14. Non importa se il capo di gabinetto abbia o meno avvertito "una minaccia" nelle parole del presidente. E' indiscutibile che il funzionario si dà molto da fare. L'esito è l'affidamento di Ruby, di fatto, a una prostituta, Michele Coincecao, eventualità che il pubblico ministero per i minori, Anna Maria Fiorillo, aveva escluso. Questo è il risultato della pressione di Berlusconi: la polizia non rispetta le disposizioni del magistrato.

2. "Non ho fatto sesso con Ruby"
Dice il premier: "Mi si contestano rapporti sessuali con una ragazza minore di 18 anni, Ruby. Questa ragazza ha dichiarato agli avvocati e mille volte a tutti i giornali italiani e stranieri che mai e poi mai ha avuto rapporti sessuali con me".
E' utile ricordare come Ruby sia stata "avvicinata" dagli avvocati, da quali avvocati, in quale occasione. E' il 6 ottobre 2010, Ruby deve incontrare il suo avvocato non quello di oggi (Massimo Di Noja) che sarà nominato soltanto il 29 ottobre, ma Luca Giuliante, difensore anche di Lele Mora. Ruby raggiunge lo studio del legale accompagnata da un amico Luca Risso. Risso, via sms, fa a una sua amica il resoconto di quel che accade. Sono utili cinque messaggi. 1. "Sono nel mezzo di un interrogatorio allucinante... Ti racconterò, ma è pazzesco!". 2. "E' sempre peggio quando ti racconterò (se potrò...). 3. L'amica scrive: "Perché stanno interrogando Ruby?". 4. Scrive Risso: "C'è Lele (Mora), l'avv., Ruby, un emissario di Lui. Una che verbalizza. Sono qui perché pensano che io sappia tutto". 5. "Sono ancora qua. Ora sono sceso a fare due passi. Lei è su, che si sono fermati un attimino perché siamo alla scene hard con il pr... con la persona". Da queste informazioni si deducono un paio di scene. Ruby è stata protagonista di "scene hard" con il presidente. Lele Mora, un inviato di Berlusconi e l'avvocato Giuliante la "interrogano" per conoscere che cosa ha raccontato ai pubblici ministeri. E' un vero e proprio debriefing che può consentire di conoscere le accuse, prevedere le mosse dei pubblici ministeri, ribaltare i ricordi della ragazza con la dichiarazione giurata che oggi Berlusconi sventola. Inutilmente perché appare più il frutto o di una violenza morale o di una corruzione, se si prende per buono quel che Ruby dice al padre: "Sono con l'avvocato, Silvio gli ha detto: dille che la pagherò il prezzo che lei vuole. L'importante è che chiuda la bocca". E' il 26 ottobre 2010.

3. "Anche Ruby mi scagiona"
Dice il premier: "Vi leggo quello che ha detto la stessa Ruby in una dichiarazione firmata e autenticata dai suoi avvocati: "Non ho mai avuto alcun tipo di rapporto sessuale con l'onorevole Silvio Berlusconi. Nessuno, né l'onorevole Berlusconi né altre persone, mi ha mai prospettato la possibilità di ottenere denari o altre utilità in cambio di una disponibilità ad avere rapporti di carattere sessuale con l'on. Silvio Berlusconi. Posso aggiungere che, invece, ho ricevuto da lui, come forma di aiuto, vista la mia particolare situazione di difficoltà, una somma di denaro. Quando ho conosciuto l'on. Berlusconi, gli ho illustrato la mia condizione personale e famigliare nei seguenti termini: gli ho detto di avere 24 anni, di essere di nazionalità egiziana (non marocchina), di essere originaria di una famiglia di alto livello sociale, in particolare di essere figlia di una nota cantante egiziana. Gli ho detto anche di trovarmi in difficoltà per essere stata ripudiata dalla mia famiglia di origine dopo che mi ero convertita al cattolicesimo". Ecco perché vorrei fare il processo subito, con queste prove inconfutabili, ma con giudici super partes.
Più che inconfutabili, queste fonti di prova appaiono insincere. Abbiamo visto in quale clima e dinanzi a quali attori nasca lalettera di Ruby che assolve Berlusconi. La favola poteva essere congegnata meglio. Anche a dimenticare quelle "scene hard", ci sono almeno alcune rilevanti condizioni che la scompaginano e dicono quanto Berlusconi non racconti la verità. Il premier sapeva della minore età di Ruby e non ha mai creduto che fosse di "una famiglia di alto livello sociale" perché è Emilio Fede che la scrutina in un concorso di bellezza in Sicilia nel 2009. Il giornalista sa che è una "sbandata". C'è un video che lo mostra quando, in quell'occasione, dice: "C'è una ragazza di 13 anni, se non sbaglio egiziana, mi sono commosso, ho solidarizzato (perché) la ragazza non ha più i suoi genitori... ". Per "solidarietà", Fede indirizza la teenager da Lele Mora che la "svezza" e in quello stesso anno la destina alle serate di Berlusconi. Alcuni testimoni riferiscono che nel 2009 Ruby frequenta in due occasioni Villa San Martino. Lei lo conferma: "Frequento Berlusconi da quando avevo sedici anni". L'incontro con il Sovrano non sarà occasionale. Il Drago ne incapriccia. Dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 si contano 67 contatti telefonici tra Ruby e il presidente. Una telefonata al giorno, quasi.

4. "E' la 28esima persecuzione"
Dice il premier: "Ho avuto finalmente modo di leggere le 389 pagine dell'ultima vera e propria persecuzione giudiziaria, la ventottesima in 17 anni". Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso che cambia a seconda delle ragioni. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre 2009). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre 2009). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26". Ventotto, ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; frode fiscale per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade; e quest'ultimo per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Nei processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati). Più che persecuzione giudiziaria, siamo dinanzi a un'avventura fortemente segnata dall'illegalità.

5. "Mi spiano dal gennaio 2010"
Dice il premier: "Pensate che la mia casa di Arcore è stata sottoposta a un continuo monitoraggio che dura dal gennaio del 2010 per controllare tutte le persone che entravano e uscivano e per quanto tempo vi rimanevano. Hanno utilizzato tecniche sofisticate come se dovessero fare una retata contro la mafia o contro la camorra". "Sappiate che la Procura di Milano mi ha iscritto come indagato soltanto il 21 dicembre scorso, guarda caso appena sette giorni dopo il voto di fiducia del Parlamento, e quindi tutte le indagini precedenti erano formalmente rivolte verso altri ma sostanzialmente tenevano sotto controllo proprio la mia abitazione e la mia persona".
Dio solo sa che cosa c'entra il voto di fiducia. Che cosa avrebbe detto se quel voto fosse stato per lui negativo? Avrebbe detto che, caduto il governo, la magistratura avvia la sua vendetta. Berlusconi deve lasciarlo credere per politicizzare una malinconica storia di prostitute minorenni e abusi di potere che con la politica non c'entra nulla. E' falso sostenere che la sua casa di Arcore sia stata tenuta sotto controllo da un anno. Dopo le dichiarazioni di Ruby (3 agosto 2010), le indagini si muovono con molta cautela. Inizialmente contro Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Soltanto in autunno emergono le possibili responsabilità dirette del premier. Prima di iscrivere al registro degli indagati Berlusconi, i pubblici ministeri come sempre vagliano una prima e approssimata attendibilità delle accuse. Chiedono i tabulati delle telefonate di Ruby dal gennaio 2010: davvero conosce il capo del governo? Quindi gli accertamenti sono fatti a ritroso e non in tempo reale come maligna, mentendo, il capo del governo.

6. "Hanno violato la mia casa"
Dice il premier: "Nella mia casa da sempre svolgo funzioni di governo e di parlamentare, avendolo addirittura comunicato alla Camera dei deputati sin dal 2004, e la violazione che è stata compiuta è particolarmente grave perché va contro i più elementari principi costituzionali".
Da nessun atto dell'inchiesta si deduce che la dimora del presidente sia stata "violata". Si indaga su un prosseneta. Lo si tiene d'occhio. L'uomo si muove con prostitute al seguito. Lo si segue. Si scopre che il corteo di auto, spesso scortato da auto di Stato, varca il cancello di Villa San Martino. Il domicilio non viene oltraggiato. Piuttosto ci si deve chiedere se non lo oltraggia Berlusconi. C'è qualche buona ragione per sostenerlo. Pretende che la sua casa privata sia considerata residenza di Stato. Bene. Per questa ragione e per un elementare principio costituzionale (art. 54 della Carta: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore) Berlusconi non dovrebbe affollarla di prostitute (in forza del necessario "onore" che dovrebbe accompagnare la sua responsabilità pubblica). Dovrebbe con "disciplina" proteggere se stesso e non trascurare la sua personale sicurezza, come gli accade aprendo la porta di casa a qualsiasi ragazza italiana e straniera disponibile a trascorrere la notte con lui. La sua vita disordinata lo ha reso vulnerabile e ricattabile. Berlusconi era continuamente taglieggiato dalle sue ospiti, come si apprende dalle indagini. Viene da chiedere: questi sono piccoli ricatti, ma in quante e quali occasioni, magari internazionali, Berlusconi ha reso possibile anche grandi ricatti e chissà possono essere ancora "vivi"?

7. "Milano è incompetente"
Dice il premier: "Come prescrivono la legge e la Costituzione, entro 15 giorni dall'inizio delle indagini la Procura avrebbe dovuto trasmettere tutti gli atti al Tribunale dei ministri, l'unico competente per tutte queste vicende. È gravissimo, ancora, che la Procura voglia continuare a indagare pur non essendo legittimata a farlo. Tra l'altro la Procura di Milano non era neppure competente per territorio. Infatti il reato di concussione mi viene contestato come se fosse stato commesso a Milano. Questo è palesemente infondato poiché il funzionario della questura che ha ricevuto la mia telefonata in quel momento era, come risulta dalle stesse indagini, a Sesto San Giovanni. Quindi la competenza territoriale era ed è del Tribunale di Monza". E' bizzarro che Berlusconi si travesta da azzeccagarbugli e disputi sulla competenza della procura di Milano in un video televisivo e non in aula. Qui avrebbe più difficoltà ad avere ragione perché la giurisprudenza è costante. La concussione è un abuso. E' di "potere" se chi lo pratica fa leva sulle "potestà funzionali per uno scopo diverso da quello per il quale sia stato investito" (Cassazione). Per capire, sarebbe stata una concussione di potere se a telefonare in questura a Milano "consigliando" la liberazione di Ruby fosse stato il ministro dell'Interno. L'abuso può essere anche di "qualità". In questo caso "postula una condotta che, indipendentemente dalla competenze del soggetto (il concussore), si manifesta come una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta". E' il caso di Berlusconi. Abuso di potere o abuso di qualità presuppongono due competenze diverse. L'abuso di potere di un ministro impone la competenza del tribunale dei ministri. L'abuso di qualità prescrive la competenza territoriale: dove è stato commesso il reato? Il capo di governo lo sa che questa è la domanda che decide e prova a truccare le carte. Dice: è competente Monza perché qui abita il capo di gabinetto della questura che riceve la mia telefonata. Errore. La concussione è un reato d'"evento" e non di "condotta" e dunque la competenza si radica dove si materializza "il vantaggio". E' fuor di dubbio che il vantaggio (Ruby affidata alla Minetti e sottratta alla tutela dello Stato) diventa concreto a Milano.

8. "150 poliziotti contro 10 ragazze, le mie amiche sono state maltrattate"
Dice il premier: "Gli stessi Pm. che hanno ordinato con uno spiegamento di forze di almeno 150 uomini una imponente operazione di perquisizione contro ragazze colpevoli soltanto di essere state mie ospiti in alcune cene (...) Queste perquisizioni nei confronti di persone che non erano neppure indagate ma soltanto testimoni sono state compiute con il più totale disprezzo della dignità della loro persona e della loro intimità. Sono state maltrattate".
E' una bubbola. All'inchiesta hanno collaborato i dieci uomini della polizia giudiziaria presso la Procura, disponibili non solo per quest'inchiesta, ma per il lavoro di tutti i 90 pubblici ministeri di Milano. La squadra mobile di Milano, venerdì scorso, ha mandato 30 poliziotti (molte donne) a perquisire gli appartamentini delle dieci amiche del premier, abituali frequentatrici di Arcore. Maltrattamenti? Berlusconi viene smentito anche da Giuseppe Spinelli, il ragioniere di Arcore, ufficiale pagatore delle amiche del presidente: "Alle 7,30 ci siamo trovati in casa cinque poliziotti della Criminalpol. Non sono stati mica sgarbati... ".

9. "Non ho pagato mai una donna"
Dice il premier. "E' assurdo soltanto pensare che io abbia pagato per avere rapporti con una donna. E' una cosa che non mi è mai successa neanche una sola volta nella vita. E' una cosa che considererei degradante per la mia dignità".
Già Patrizia D'Addario fu pagata, anche se da Giampaolo Tarantini, per tener compagnia al capo del governo nel lettone di Putin a Palazzo Grazioli. L'inchiesta milanese invece ci racconta come nessuna delle ragazze invitate ad Arcore lasciasse la villa senza la busta con i biglietti da 500 euro preparata dal ragioniere di casa. Anche chi, come M. T., di soldi non ne voleva, si vede offrire una busta con 500 euro. Un cip. Nulla a che fare con i "7mila euro" ricevuti da Ruby. E da Iris. E da Imma. E da Barbara... Si fa prima a dire quale ragazza non è stata pagata che elencare i nomi di chi si è intrattenuto nella sala del bunga bunga o tra le braccia del Drago in cambio di un compenso. Nessuna delle ragazze che dopo cena raggiunge il sotterraneo di villa San Martino va via a mani vuote. Inutile dire quanto appaia degradata la dignità del premier.

10. "Non mi devo vergognare"
Dice il premier: "Non c'è stata nessuna concussione, non c'è stata nessuna induzione alla prostituzione, meno che meno di minorenni. Non c'è stato nulla di cui mi debba vergognare. C'è solo un attacco gravissimo di alcuni pubblici ministeri che hanno calpestato le leggi a fini politici con grande risonanza mediatica".
Berlusconi non deve vergognarsi soltanto del disonore con cui ha travolto il Paese e del discredito che oggi insudicia la presidenza del Consiglio. Il 28 maggio del 2009, a un mese dall'inizio dell'affaire Noemi, disse: "Giuro sulla testa dei miei figli di non aver mai avuto relazioni "piccanti" con minorenni. Se mentissi, mi dimetterei immediatamente". Berlusconi deve vergognarsi per le relazioni intrattenute dal 2009 al 2010 con due minorenni (Noemi e Ruby). Deve vergognarsi per aver mentito al Paese. Deve vergognarsi per non essersi ancora dimesso.

(21 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #190 inserito:: Gennaio 27, 2011, 05:18:30 pm »

L'INCHIESTA

Così Berlusconi pagava le donne

E ad Arcore spunta un'altra minorenne

Sesso, soldi e ricatti. Il secondo atto del Rubygate che demolisce il Cavaliere. Nelle nuove carte dei pm spunta anche la droga. Una teste dice di un'altra ragazza: "La costringeva a rapporti plurimi che lei non gradiva"


di GIUSEPPE D'AVANZO


LO SCIAME investigativo che sempre segue la discovery di un'inchiesta demolisce alla lettera il fondale di cartapesta che Silvio Berlusconi ha fabbricato, in fretta e molto confusamente, per salvarsi dall'accusa di concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. La lettura delle 227 pagine di "integrazioni" istruttorie inviate dalla procura di Milano alla Camera per ottenere la perquisizione di Giuseppe Spinelli (il "ragioniere" retribuisce le falene che allietano le notti al Sultano) sono un'arma decisiva nelle mani dell'accusa.

Pagine definitive per comprendere le condotte del Cavaliere; funeste per le menzogne che ha cucinato per gli italiani. L'"integrazione" conferma alcune questioni decisive. Elenchiamole. (1) Salta fuori un'altra minorenne (la terza, dopo Noemi e Ruby) che frequenta abitualmente la corte del Drago. È una prostituta brasiliana. (2) Ci sono due nuove testimonianze che ricordano che cosa accade a Villa San Martino quando la cena è finita e le ospiti - tutte giovani e giovanissime donne - raggiungono nel sotterraneo la "sala del bunga bunga" (le parole sono del premier). (3) Tutte le falene che si esibiscono per lui o che gli tengono compagnia la notte sono retribuite. (4) Ruby annota con cura il prezzo del suo silenzio, il denaro che già ha intascato dal capo del governo e accantonato, quel che gli consegna - e sono 4 milioni - il "ragioniere" del Cavaliere. (5) Il giorno successivo allo scoppio dello scandalo (15 gennaio) Berlusconi convoca tutte le ragazze del
"bunga bunga" ad Arcore per depurare, con la collaborazione dei suoi avvocati, dai loro ricordi e parole i fatti più scomodi e sensibili.

Questo nuovo capitolo di una storia che umilia il Paese, prima di esporre alla luce del sole l'inadeguatezza e l'irresponsabilità del presidente del Consiglio (altra cosa il giudizio penale), si può raccontare dal centro della scena.
Il teatro è il sotterraneo di Villa san Martino. Che cosa accade? Lo ricordano nelle nuove carte due giovanissime donne, una poco più che ventenne. Non ne diciamo il nome. Chiamiamola N.

N. conosce e frequenta le ragazze della Dimora Olgettina di MilanoDue dove il Sultano ospita il suo harem. N. ne raccoglie le confidenze e può raccontare ai pubblici ministeri: "... ha fatto sesso con il presidente. Ha avuto con lui una relazione molto stressante. Stressante, sì. Lo diceva lei perché il presidente la costringeva a rapporti plurimi che ... non gradiva".

Il secondo racconto è di Maria Makdoum. È una danzatrice del ventre, è araba. Ecco che cosa ricorda della sua vista ad Arcore: "Nel giugno del 2010 Lele Mora mi chiede se sono interessata a partecipare a una serata ad Arcore (...) e se voglio far parte del suo harem. Mi trasferisco a casa sua da giugno ad agosto. Vado ad Arcore in luglio. Prima di entrare nella villa, da una stradina laterale si affiancano alla nostra auto un'autovettura con il lampeggiante delle auto di Stato. Ognuna di noi si è seduta per la cena dove voleva. Finita la cena, il presidente disse: "E ora facciamo il bunga bunga" e spiegò che cosa era, cioè era una cosa sessuale". Il gruppo si trasferisce "di sotto" e qui "le gemelle De Vivo si spogliano, sono in mutande e reggiseno. Il presidente le tocca e loro lo toccano nelle parti intime. Si avvicinano anche a Emilio Fede che le tocca il seno e altre parti intime. Poi una ragazza brasiliana con perizoma balla il samba in modo molto hard. Anche le altre ragazze a quel punto ballano scuotendo il seno, mostrando il fondo schiena. Tutte si avvicinano al presidente che le tocca nelle loro parti intime. Sono rimasta inorridita. Se avessi saputo prima quello che si faceva alla villa non sarei andata, lo confesso".

Questi racconti sono l'incubo del presidente del Consiglio da mesi. Da quando ha saputo che Ruby - quella "matta" che non tiene mai a freno la lingua, avida, una creatura che, minorenne, è stata sua ospite fin dal 2009 e poi dissennatamente il capriccio di una stagione (febbraio/maggio 2010) - è stata interrogata dal pubblici ministeri, Berlusconi non ha pace. Sa che Ruby ha detto tutto, raccontato tutto a quei maledetti in toga che non lo lasciano in pace. Ora è Ruby che lo tiene sotto pressione più dei magistrati, più dell'opposizione politica. Lo ricatta. Gli scuce milioni. Come dice la Minetti sfogandosi con la sua assistente: "Berlusconi si caga sotto (per quel che può combinare la Ruby)". Il Sultano deve reagire. Sa che il quadro che i pubblici ministeri possono mettere insieme può comprometterlo per sempre.

Non c'è solo Ruby, prostituta minorenne, tra le falene di Villa San Martino. Ce n'è un'altra di minorenne (come anticipato dal Secolo XIX). Il suo nome è nelle carte. È Iris Berardi, origini brasiliane, residenza a Forlì. Iris inizia quindicenne a frequentare le passerelle. A 17 anni si trasferisce a Milano in cerca di fortuna ed entra nel giro delle hostess per le Fiere. Presto diventerà una prostituta. Compie i diciotto anni il 28 dicembre 2009. Lo screening dei suoi tabulati telefonici la segnala una trentina di volte ad Arcore nel 2010. In quell'anno è, da gennaio, già maggiorenne. Due contatti segnalano, la prostituta brasiliana, nelle ville del presidente anche prima del suo compleanno. Per dire, il 21 novembre del 2009 a Villa Certosa (Berlusconi è in Arabia Saudita, pare) e il 13 dicembre 2010 è ad Arcore. Quella sera viene colpito al volto da quel matto di Massimo Tartaglia. Iris dorme in Villa, quella tragica notte. Con questo peso sul groppo, Berlusconi deve fare qualcosa. Deve cancellare ogni traccia, testimonianza. Inventarsi un'altra realtà. Per farlo, deve comprare - per cominciare - il silenzio di Ruby.

Nelle carte, si dà conto di quel che è stato trovato nella perquisizione dell'appartamento genovese della prostituta marocchina. In un'agenda sono annotate alcun cifre: "50 mila per il libro; 12.000 campagna intimo; 200.000 da Luca Risso; 70 mila conservati da Dinoia (è il suo avvocato di Milano, ndr); 170 mila conservati da Spinelli (è l'ufficiale pagatore di Berlusconi, ndr)". Su un altro fogliettino si legge: "4 milioni che ricevo da Spinelli". Non mentiva dunque la ragazza quando rassicurava il padre che Silvio l'avrebbe "rivestita d'oro" o confidava alle sue amiche che la storia con il presidente l'avrebbe fatta milionaria perché per tener chiusa la bocca, per lasciare il Cavaliere fuori dai guai - guai molto seri - , gli aveva chiesto "cinque milioni di euro". Ora Berlusconi può anche pensare di aver salvato ancora una volta la ghirba, ma per esserne sicuro deve indottrinare anche tutte le altre, tutte, giovani, giovanissime, soubrette o senza arte né parte. Per dirla, con la Minetti, tutte "le zoccole, brasiliane delle favelas che non parlano italiano, mezze serie" che hanno frequentato Arcore, il "bunga bunga" e Mora e Fede e Carlo Rossella e nel giorno della perquisizione si sono fatte trovare in casa buste e buste di migliaia di euro con su scritto B. e chi non ce l'ha scritto, lo ha detto ai poliziotti da dove veniva quel denaro. È il 15 gennaio del 2011. Da quarantott'ore si sa che il capo del governo è nei guai. Il Sultano convoca l'intero harem ad Arcore. Le carte disegnano la "geografia" della convocazione. Intercettazione da Faggioli a Aris:

"Mi ha chiamato il presidente Berlusconi... scandisco le parole, visto che mi stanno ascoltando. Mi ha chiesto la cortesia di farti avvicinare ad Arcore alle 19. Ci sono gli avvocati". Aris avverte Maristella: "Ha chiamato il presidente B. ha detto che alle 19 devi essere ad Arcore".

Maristella (Polanco) chiama subito Barbara (Faggioli): "Sono stata chiamata". Barbara: "Alle 19, amo', da quanto ho capito dalle intercettazioni emergono cose molto brutte che noi ragazze diciamo su di lui". La Faggioli chiama anche la Minetti e in queste conversazioni emerge un nuovo grattacapo per Berlusconi. Nicole è furibonda. Si sente abbandonata. È preoccupata. Lei non ha ottanta anni come Fede o settantacinque come il Sultano. Lei ha solo venticinque anni è la vita davanti. Non vuole finire in galera. Non vuole distruggersi la vita. A Natale se ne andava con il padre per lo shopping e finiscono in libreria. Il padre vede sullo scaffale "Mignottocrazia" di Paolo Guzzanti e scopre che un intero capitolo è dedicato alla figlia. Nicole si vergogna e l'otto gennaio dice a Barbara: "Io do le dimissioni, cioè sta roba è una roba che ti rovina la vita, ti rovina i rapporti, ti logora. Devi avere un pelo sullo stomaco, ma a me non me ne frega niente. Io voglio sposarmi, fidanzarmi, avere dei bambini, una casa. (Non voglio) litigare tutti i giorni con tutti, metterla nel culo a quello che ha fiducia in te. La politica è un casino. Cioè cade lui... cadiamo noi. A lui fa comodo mettere te e me in Parlamento, perché dice "Bene, me le sono levate dai coglioni" e lo stipendio lo paga lo Stato".

Ora ancora Barbara Faggioli l'avverte: "Mi ha chiamato la segreteria del presidente e mi hanno passato il presidente e mi ha detto di convocare tutte le ragazze per parlare con l'avvocato alle 19. Che dici? Che è ok?".

No, per Nicole Minetti, incredibilmente non è affatto ok. Dice Nicole: "No perché... devo parlare al mio avvocato. Io sono indagata, per me la cosa è diversa.. Lui sarà anche il mio capo, ma io sono indagata e lui altrettanto... È un pezzo di merda. Se vuole vedermi, mi chiama lui, ma se vado ci vado con gli avvocati". E più tardi, con maggiore violenza, spiega a Clotilde Strada, la sua assistente: "Non me ne fotte un cazzo. Se lui è il presidente del Consiglio o, cioè, è un vecchio e basta. A me non me ne frega niente, non mi faccio prendere per il culo. Si sta comportando da pezzo di merda pur di salvare il suo culo flaccido. Giusto che si faccia sentire lui se non lo farà mi comporterò di conseguenza... quel briciolo di dignità che mi rimane la voglio tenere... visto che lui non mi ha chiamato... gli faccio prendere paura. Quando si cagherà addosso per Ruby chiamerà e si ricorderà di noi.. adesso fa finta di non ricevere chiamate".

È dunque in queste condizioni l'uomo che guida il Paese. Lo avevamo intuito, ora non si possono più chiudere gli occhi dinanzi a quel vediamo: una dissennata vita privata ha consegnato Silvio Berlusconi a gravissime responsabilità penali, di cui risponderà a breve in un problematico giudizio immediato, ma soprattutto al ricatto plurimo di decine di giovani donne. Berlusconi è in una via senza uscita.

(27 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #191 inserito:: Gennaio 31, 2011, 06:13:39 pm »

L'ANALISI

Parola di Gran Bugiardo

Quattro bugie per sottrarsi ai giudici
Le nuove menzogne del Cavaliere nello show in tv. Il premier s'inventa che ha parlato di Ruby con Mubarak: "Hosni non ricordava di avere una nipote in Italia". Il testimone è uno: l'interprete italo-arabo a contratto alla Farnesina. Berlusconi dovrebbe avvertire l'imbarazzo di aver ospitato e pagato minorenni e prostitute per allietare le sue serate


di GIUSEPPE D'AVANZO

Parola di Gran Bugiardo Quattro bugie per sottrarsi ai giudici
Al Gran Bugiardo, che ieri ha afflitto il Paese con un terzo videomessaggio, si deve ricordare che la verità è una condizione necessaria in una democrazia. Nutre la fiducia del cittadino nello Stato e ha un presupposto nella convinzione che lo Stato  -  e chi momentaneamente lo rappresenta  -  non ingannerà il cittadino. La verità è anche il presupposto indispensabile per il cittadino di esercitare la sua libertà perché se falsifichi la realtà, manipoli gli eventi, allevi imbrogli e confusione, alteri il bianco nel nero, pregiudichi il possibile esercizio della libertà.

È un forte argomento anti-tiranny - ricorda Michele Taruffo (La semplice verità) - che le azioni illegittime compiute da chi esercita il potere debbano poter essere rivelate e afferrate, ma "ciò implica che informazioni veritiere siano disponibili per le potenziali vittime del tiranno". Solo in questo modo, il cittadino potrà controllare le modalità con cui il potere viene esercitato. Con il tempo abbiamo compreso che la politica di Silvio Berlusconi è soprattutto arma psicologica e l'unico antidoto all'illusionismo del Gran Bugiardo è un'adeguata sintassi. Consente quanto meno di distinguere i discorsi verificabili dal nonsense. Permette di proteggersi dai media che ci addestrano a non pensare. Le parole, i falsi argomenti, i finti discorsi, le finte idee, i gerghi sgrammaticati dell'uomo che ci governa vanno mostrati nella loro inattendibilità per ripristinare quella verità che è premessa della nostra libertà.

Se si lasciano in un canto le favole sui successi di un governo, al contrario, paralizzato dagli interessi personali del premier, si contano altre quattro bugie in questo nuovo videomessaggio.

1. Berlusconi dice: "È stato violato il mio domicilio".
È falso. Nessuna residenza del capo del governo è stata oltraggiata. Vediamo come stanno le cose. Si indaga per prostituzione perché in un giorno di luglio Ruby, una minorenne protetta da Lele Mora e "scoperta" sedicenne da Emilio Fede a Messina, è stata condotta nella villa del presidente del Consiglio. Dove, dice, ha assistito a spettacoli e "scene hard" - anche se non vi ha partecipato, giura - alla presenza del "presidente" che tutte le ospiti (venticinque) chiamano "papi". Lo sfruttamento della prostituzione minorile è un reato gravissimo. A Milano si mettono al lavoro. Prioritario accertare l'attendibilità della testimone e parte lesa: è stata davvero ad Arcore, come dice. C'è stata con Mora, Fede, Nicole Minetti? È vero che, in quelle occasioni, c'erano A. B. C.? C'è un metodo per venirne a capo. Si verifica a quale "cella" fosse connesso, in quel giorno, il telefono cellulare dei protagonisti. Si scopre che Ruby ha detto il vero. Il 14 febbraio 2010 era ad Arcore e c'erano anche A. B. C. e Fede. Quest'operazione viola il domicilio del capo del governo? No. Accerta la validità delle dichiarazioni di Ruby e non c'è altro modo per farlo. Quando salta fuori che tra molte inesattezze la minorenne ha raccontato anche il vero, sono stati chiesti i tabulati delle sue telefonate dal gennaio 2010 e delle ragazze - alcune prostitute - che l'hanno accompagnata e periodicamente vengono condotte da Mora, Fede e Minetti nella dimora del Sultano. Berlusconi dovrebbe avvertire l'imbarazzo di aver ospitato e pagato minorenni e prostitute per allietare le sue serate (è documentato e ci sono le prove di quei pagamenti). Dovrebbe provare vergogna per avere indecorosamente condotto la sua responsabilità pubblica condividendo addirittura una donna (Marysthell Polanco) con un narcotrafficante dominicano.

2. Berlusconi dice: "Non è un Paese libero quello in cui quando si alza il telefono non si è sicuri della inviolabilità delle proprie conversazioni. Non è un Paese libero quello in cui il cittadino può trovare sui giornali delle proprie conversazioni che fanno parte del proprio privato e che non hanno nessun  contenuto penalmente rilevante".
Berlusconi inocula fobie nel proprio esclusivo interesse. L'indagine che lo vede indagato per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile non fa leva, come strepitano gli sgherri libellisti del suo serraglio, sulle intercettazioni telefoniche. È un'inchiesta condotta con testimonianze dirette e documenti. La concussione è dimostrata per tabulas senza alcun documento acustico. I funzionari della questura ammettono di aver ricevuto la sua telefonata. Confermano che il premier ha parlato di Ruby come della "nipote di Hosni Mubarak". I materiali del pubblico ministero dei minori e le relazioni di servizio dei poliziotti confermano le procedure abusive che hanno portato all'affidamento di Ruby a Nicole Minetti che subito abbandona la minorenne a una putain brasiliana, amica del presidente. Dove sono qui le intercettazioni? È il reato più grave e non se ne vede l'ombra. Berlusconi mente. Qualche numero delle intercettazioni di quest'inchiesta, allora. Dal 29 luglio a questo gennaio e non per tutto il periodo, ma quando le indagini lo rendono necessario, quindi anche a volta due soli giorni, sono state intercettate cinquanta persone per una spesa di quasi 27mila euro. Con il bestiario che circonda il presidente (si valuta che nelle ville e palazzi dell'uomo che ci governa circolino in un anno dalle 300 alle 500 falene) non sono grandi numeri. Le intercettazioni sono servite a dimostrare quale fosse il mestiere delle signore. Si indaga per prostituzione e alcune sono effettivamente delle prostitute che il premier ha retribuito e gli amici del presidente sono coloro che inducono alla prostituzione. È falso che siano state diffuse conversazioni private di nessun interesse giudiziario o pubblico. È di assoluto interesse pubblico (la verità è presupposto essenziale della democrazia e della libertà del cittadino) sapere che una decina di ragazze ricattano il premier o pretendono dal premier incarichi e responsabilità pubbliche. Possono dirsi "privati" questi dialoghi?

3. Berlusconi dice: "Non ho alcun timore di farmi giudicare. Davanti ai magistrati non sono mai fuggito: i mille magistrati che si sono occupati ossessivamente di me e della mia vita non hanno trovato uno straccio di prova che abbia retto all'esame dei tribunali".
È una menzogna stupefacente che non sia mai fuggito dai magistrati. Il Gran Bugiardo non ha fatto altro che scappare dalle responsabilità di un'avventura umana e imprenditoriale che ha avuto nell'illegalità il suo canone. Nonostante le leggi che si è affatturato per eliminare i reati, cancellare le prove, ridurre i tempi dei processi, allontanare i giudici che non gli piacevano, è stato assolto nei sedici processi che lo hanno visto imputato soltanto in tre occasioni. Altro che nessuno straccio di prova.

4. Berlusconi dice: "Io ho diritto di presentarmi di fronte al mio giudice naturale, che non è la procura di Milano, ma il giudice assegnatomi dalla Costituzione cioè il Tribunale dei ministri. Mi presenterò appena sarà stata ristabilita una situazione di correttezza giudiziaria".
Il Gran Bugiardo sa di mentire anche in questo caso. Sostiene che sempre, in ogni caso, un uomo come lui "unto dal Signore" e al governo del Paese debba essere giudicato dal tribunale dei ministri, qualsiasi cosa faccia. Non è così. L'art. 96 della Costituzione comprende nella categoria dei "reati ministeriali quelli commessi "nell'esercizio delle funzioni". La Carta non prevede singole fattispecie. Individua una circostanza: la connessione tra il reato e le funzioni esercitate dal ministro. Ora la concussione è un abuso. È di "potere" se chi lo pratica fa leva sulle "potestà funzionali per uno scopo diverso da quello per il quale sia stato investito". Per capire, sarebbe stata una concussione di potere se a telefonare in questura a Milano "consigliando" la liberazione di Ruby fosse stato il ministro dell'Interno. Ma l'abuso può essere anche di "qualità". In questo caso "postula una condotta che, indipendentemente dalla competenze del soggetto (il concussore), si manifesta come una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta". È il caso di Berlusconi. Abuso di potere o abuso di qualità presuppongono due competenze diverse. L'abuso di potere di un ministro impone la competenza del tribunale dei ministri. L'abuso di qualità prescrive la competenza del territorio dove è stato commesso il reato.
Finalmente, dopo molti passi falsi, questa differenza l'ha compresa anche Berlusconi. Che per evitare il suo giudice naturale, è in queste ore alle prese con un'altra manipolazione delle prove dopo aver già condizionato le testimonianze delle sue ospiti raccolte durante le indagini difensive, dopo aver (per quanto dice Ruby) promesso cinque milioni di euro per farle tenere la bocca chiusa ed evitargli guai assai seri.

Per sostenere che è intervenuto sul capo di gabinetto della questura di Milano non nella sua "qualità" di capo del governo, ma nelle sue "funzioni" di presidente del Consiglio, deve suggerire che quella notte del 27 maggio non aveva altra preoccupazione che evitare una crisi diplomatica con Hosni Mubarak convinto che Ruby ne fosse la nipote. Per la bisogna, il Gran Bugiardo s'inventa allora che qualche giorno prima ne aveva addirittura parlato con Mubarak (peccato, che lo ricordi soltanto ora). "Per 15 minuti, gli ho chiesto di Ruby, ma Hosni non ricordava di avere una nipote in Italia" dice Pinocchio e annuncia che ci sono anche i testimoni. Il testimone è uno. È R. A, l'interprete italo-arabo a contratto alla Farnesina. Sul capo di quel poverino chi lo sa che cosa si sarà scatenato in queste ore.
 

(29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #192 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:08:05 pm »

Il vestito nuovo del mentitore

di GIUSEPPE D'AVANZO

SE si possono chiamare le cose col loro nome, si deve dire che il mondo del Cavaliere lo si rintraccia in un paio di righe di Una sporca storia di Eric Ambler. In quel libro c'è un personaggio - Arthur Abdel Simpson - che ricorda i consigli che da bambino ha ricevuto dal padre: "Uno dei suoi primi insegnamenti fu: mai dire una bugia se puoi cavartela a forza di stronzate".

Le cose devono essere andate più o meno così tra Berlusconi e Giuliano Ferrara, il consigliere più ascoltato (oggi e prima che gli impulsi aggressivi del capo del governo riattizzino il suo permanente conflitto con la democrazia). Dunque, denudato da una scena che lo scopre, frastornato, in preda a una disperatissima compulsività sessuale nelle mani di un ingordo serraglio di zambraccole e ruffiani, ricattabile, incapace di assolvere a suoi doveri pubblici, indifferente a ogni responsabilità e decoro istituzionali, il Sultano si avvoltola nelle bugie fino a strozzarsi, sgomento per quel che si può sapere della sua malinconica vita o addirittura mostrare per immagini. Per giorni mente a gola piena. Ruby? So chi è, l'ho vista soltanto un paio di volte. No, non mi disse che era minorenne. No, non ho mai pagato per una donna. Perché avrei dovuto, ho una relazione stabile, ho una fidanzata, io. Sì, è vero, aiuto molte giovani donne perché sono generoso e non chiedo mai nulla in cambio. Non sono mai fuggito dai magistrati, mai, mai, mai, mai.

Il direttore de Il Foglio non fa altro che ricordare al Re tragicamente nudo il precetto di Simpson. Per quale diavolo di motivo menti, presidente? Non lo vedi che ti incastrano e affondi. Sparala grossa, più grossa che puoi. Sarai salvo perché le menzogne hanno il difetto di essere false, le stronzate hanno il vantaggio di essere finte: non sono altro che una copia, una copia esatta, più o meno riuscita, di una cosa vera. La tua "rivoluzione liberale" nel 1994 forse era una cosa vera ed è fallita, spara grosso e dì che tu, il Monopolista, ricominci daccapo perché è ora la vera "rivoluzione liberale". Inventati qualcosa. Una cosa qualsiasi. Bullshit? Vanno benissimo. Per esempio, maggiore crescita "alla tedesca" del 4 per cento grazie alle riforma dell'articolo 41 della Costituzione (libertà d'impresa) anche se la riforma costituzionale non si farà mai e quel tasso di sviluppo non lo vediamo da decenni e tra le due cose dio solo sa quale relazione ci sia. Fiscalità di vantaggio per il Sud, va bene anche se non c'è un euro e Tremonti non aprirà mai i cordoni della borsa. Anche il "Piano casa" va bene. Chi ricorderà che è la terza o quarta volta che lo annunci e finora tra i pochi a usufruirne sei stato solo tu con i bungalow di Villa Certosa.

Dì queste "stronzate" con il tono maestoso dello Statista. Evoca il ritorno della Politica con la p maiuscola. Celebra il protagonismo del governo, e il gioco è fatto. Queste massime solenni ti proteggeranno dai magistrati di Milano che diventeranno, nella propaganda, gli aggressori che ti disturbano mentre ti sei dato carico del destino dell'Italia. Il "rilancio programmatico" restituirà il Paese a quel torpore mentale dal quale le notizie scioccanti di Villa San Martino rischiavano di scuoterlo. Attiva tutte le complicità omertose che proteggono la tua bancarotta politica. Rimetti in moto l'industria del falso (I Minzolini, per tutti). Manda in televisione le solite maschere salmodianti perché decidere di che cosa si discute offre la risolutiva opportunità di definire di che cosa non si discute e tu, presidente, non sei in grado affrontare le tue responsabilità. Della tua irresponsabilità, della tua incapacità assoluta ad affrontare la verità non si deve discutere.

Nell'infelice Paese che è l'Italia questa degradazione della realtà è chiamata politica come se la politica non fosse altro che manipolazione persuasiva, sacco vuoto, discorso privo di contenuti. "Stronzata" insomma, utile non a governare i destini, le relazioni e gli interessi degli uomini, ma a scrivere le priorità dei telegiornali della sera.
Va detto che c'è in giro una soddisfazione per il "costruttivo clima politico" che fa cadere le braccia. Soddisfatti di che cosa? Di questa goffa e comica stangata? Si dovrebbe, al contrario, essere inquietati quando un pensiero ideologico si emancipa così clamorosamente dall'esperienza reale fino a rendersi impermeabile nei confronti di ciò che davvero accade. In questa separazione del pensiero dalla realtà c'è un punto critico che è tutto politico. Chi ha in custodia le istituzioni dovrebbe tenerne conto perché la credibilità delle istituzioni si difende anche tutelando quella verità che è la condizione necessaria della fiducia del cittadino per lo Stato. E' la verità  -  e la responsabilità di affrontarla in pubblico  -  che rende adeguato il processo deliberativo che sta alla base di una democrazia. A chi ha a cuore la democrazia non può sfuggire che menzogne e "bullshit" sottraggono a gran parte degli individui la capacità di giudicare liberamente gli affari pubblici; demoliscono ogni spirito critico; confondono, distraggono, rendono indifferenti il cittadino, lo trasformano in "spettatore di ogni cosa e testimoni di nulla".

In questo vuoto di verità precipitano anche le istituzioni. Menzogna e "bullshit" ne divorano la credibilità, l'affidabilità, la reputazione. E non parlo degli uomini. Ministri come Franco Frattini e Angelino Alfano l'hanno persa da tempo: da quando il primo, ministro degli Esteri, va ai Caraibi per trovare documenti che screditano un avversario politico o quando il secondo, Guardasigilli, si riunisce con gli avvocati di un imputato (Berlusconi), elabora tattiche per annichilire un processo, organizza il voto del Parlamento per impedire che la magistratura faccia il suo lavoro. Parlo delle istituzioni e dello spettacolo avvilente offerto dalla Camera dei deputati.
Montecitorio deve decidere se autorizzare o meno la perquisizione dell'ufficio dove lavora il ragiunatt che dispensa, per conto del Sultano, migliaia di euro alle falene notturne di Arcore. Indagato per aver fatto pressioni su funzionari della questura e liberato indebitamente una prostituta minorenne accusata di furto (è concussione), Berlusconi dice: in quelle stanze c'è la mia segreteria politica. L'ingresso degli investigatori va allora autorizzato dalla Camera. L'accesso può essere negato soltanto se il Parlamento scorge un fumus persecutionis. Non lo avvista. Vede altro. Vede addirittura, nell'illegittima pressione, l'esercizio di una funzione del capo di governo. E' umiliante anche discuterne. Berlusconi, sostengono i caudatari nominati in parlamento, è intervenuto per evitare una crisi internazionale con l'Egitto, la notte del 27 maggio. Davvero credeva che quella prostituta minorenne, con cui si era intrattenuto fino al 2 maggio, fosse "la nipote di Mubarak". Il suo intervento è stato dunque funzionale e la competenza non è della Procura di Milano, ma del Tribunale dei ministri, dicono azzeccagarbugli e reggicoda. La Camera approva. Lasciamo cadere i dettagli tecnici e l'illegalismo (la funzione di governo non può essere soggettivamente interpretata e spetta a un giudice - non al Parlamento - decidere della competenza). Lasciamo perdere le parole, gli eventi e i documenti che smascherano il racconto del Gran Bugiardo.

Andiamo alle macerie. Con una menzogna che fa piangere l'Italia e ridere il mondo, un Parlamento servile, senza libertà e onore, si sottomette alla necessità del Sultano e ci chiede di credere a una menzogna manifesta, a un falso indiscutibile (Berlusconi pensava che Ruby fosse nipote di Mubarak). In questo atto di violenza, c'è molta politica, altro che le "stronzate" del "ritorno alla Politica". L'offensiva affannosa di Berlusconi vuole cancellare ogni distinzione tra la verità e la menzogna, tra la realtà e la "giustezza" politica. Pretende di abituarci a questa confusione inducendoci a credere che nulla sia vero se non certificato dal Potere (anche quando lo si sa palesemente falso).

Dopo la campagna di "bullshit" e il voto della Camera, quel che si vede in gioco è la pretesa di una sterilizzazione mentale, morale e politica dell'Italia e non solo un processo per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile. Alla prima bisogna reagire chiedendo il rispetto di quel processo, reclamando che Berlusconi  -  come gli ha chiesto anche il capo dello Stato  -  si presenti dinanzi ai suoi giudici e si lasci giudicare. 

(04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #193 inserito:: Febbraio 10, 2011, 05:07:29 pm »

L'ANALISI

Berlusconi e la fuga dal processo per illudere l'opinione pubblica

Così il Cavaliere vuole sfuggire alle sue responsabilità.

Il premier non propone narrazioni plausibili, all'attendibilità documentata preferisce il non-sense

di GIUSEPPE D'AVANZO


CI SONO i fatti e gli aspetti giuridici della controversia e poi, se in stato d'accusa è il capo del governo, è normale che ci siano la contesa politica, il discorso pubblico e il conflitto istituzionale. Ora per mettere un po' di ordine all'affaire e capirci qualcosa, senza essere inghiottiti dal maelstrom di fili che si ingarbugliano nel "caso Ruby", è utile separare i fatti dal diritto, il diritto dalla politica e la politica da un immaginato e molto presunto Zeitgeist, lo "spirito del tempo". I fatti si fa presto a riordinarli. La notte del 27 maggio 2010, Karima El Mahroug (Ruby), una minorenne marocchina, fuggita da una comunità di accoglienza, senza famiglia, senza fissa dimora, senza una fonte di reddito, è accusata di furto e accompagnata in questura. In quegli uffici a notte fonda giunge la voce del presidente del Consiglio che chiede al capo di gabinetto di lasciarla andare - e presto - perché la fanciulla è la "nipote di Mubarak". Si presenterà lì da voi, dice Silvio Berlusconi, una mia "incaricata" (Nicole Minetti) cui potrà essere affidata. Così avviene. Qualche ora dopo, indebitamente e contro le indicazioni del pubblico ministero dei minori, Ruby sarà consegnata alla Minetti che l'abbandonerà sul marciapiede di via Fatebenefratelli in compagnia di una prostituta brasiliana (Michelle). Di quel che accade la notte del 27 maggio non si sarebbe saputo nulla se, più o meno una settimana dopo (5 giugno), Ruby e Michelle non se le dessero di santa ragione tra strepiti e minacce. Arriva la polizia. Tutte ancora dinanzi ai poliziotti, dopo l'intervento dei medici.

È a quel punto che Ruby comincia a raccontare momenti e condizioni che configurano una notizia di reato. È stupefacente come ancora oggi ci siano uomini assennati, come Ernesto Galli della Loggia, che si chiedano, sospettosi, "qual era la notitia criminis che prima della famosa notte in questura ha indotto a mettere sotto controllo la villa di Arcore" (Corriere della sera). "Prima della famosa notte in questura" non c'è stato alcun controllo né ad Arcore né altrove. I controlli sono cominciati soltanto dopo che il racconto della minorenne ha ottenuto qualche riscontro accettabile. Ruby parla della "squadra" di Lele Mora (il suo agente); delle iniziative di Emilio Fede (il talent scout che la scopre a un concorso di bellezza, sedicenne); del "lavoro" della Minetti (maitresse); delle sue visite a Villa San Martino dove ha assistito unica vestita  -  "solo io lo ero", dice  -  alle cerimonie orgiastiche organizzate da e per Silvio Berlusconi.

Sono notizie di reato. C'è un'organizzazione (Mora, Fede, Minetti) che ingaggia prostitute e le offre al capo del governo e fin qui per l'"Utilizzatore" non c'è reato (anche se molto c'è da osservare sul decoro, la disciplina, l'affidabilità, la sicurezza dell'uomo che ci governa). Se però tra le prostitute c'è anche una minorenne, il reato c'è ed è anche molto grave soprattutto quando, per occultarlo, il presidente del Consiglio abusa del suo potere e induce i funzionari della Questura a lasciar andare libera quella ragazza che avrebbe potuto demolirlo con i suoi ricordi. Il pubblico ministero di Milano ritiene di aver raccolto prove così "evidenti" da rendere superflua l'udienza preliminare e necessario un giudizio immediato (lo chiede ora al giudice). L'accusa deve dimostrare che Silvio Berlusconi abusa della sua qualità di presidente del Consiglio per ottenere la liberazione di Ruby (è concussione). Ci riesce in modo documentale. L'intervento del capo del governo produce un'agitazione indiavolata nei funzionari di polizia (ecco il numero ossessivo di telefonate, 24); decisioni oblique (ecco che cosa ha ordinato il pubblico ministero dei minori, inascoltato e contraddetto); comportamenti indebiti (ecco comprovato come i genitori di Ruby  -  hanno la patria potestà  -  furono ascoltati soltanto due ore dopo l'affidamento della minore alla Minetti). Dimostrata la concussione (il reato più grave), il pubblico ministero deve documentare che Berlusconi è stato costretto a intervenire per nascondere alla magistratura e all'attenzione pubblica "il puttanaio" (è la formula scelta da una testimone) che s'organizza in casa a volte anche con Ruby, la minorenne.

Quindi, è vero che Ruby conosce Berlusconi? Sì, dal 14 febbraio al 2 maggio 2010, si contano 67 contatti telefonici tra Ruby e il presidente. Una telefonata al giorno, quasi. È vero che Ruby è stata ad Arcore? Sì, dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 Silvio Berlusconi e la teenager si vedono tredici volte. La minorenne dorme sotto il tetto di Villa San Martino con una frequenza di una volta ogni sei giorni in quel periodo È una prova più che solida della loro frequentazione. Ora bisogna chiedersi che cosa faceva la ragazza per vivere, che cosa ha fatto ad Arcore e dimostrare che le serate dal presidente sono licenziose. Quattro testimoni confermano il primo racconto di Ruby: vedono le stesse scene nel sotterraneo del "bunga bunga": è una routine. Decine di documenti acustici (le telefonate) lo convalidano. Per configurare il reato (sfruttamento della prostituzione minorile) bisogna però dare la prova che tra il capo del governo e Ruby ci sia stato o del sesso o qualcosa che gli somigli (anche un "palpeggiamento", per i minori, è "atto sessuale").

Le fonti di prova non mancano. Ruby è vissuta di prostituzione prima di conoscere Berlusconi e di prostituzione è vissuta dopo, come molte giovani donne  -  qualcun'altra ancora minorenne  -  regolarmente invitate alle "serate del presidente". È una prova logica che Ruby ad Arcore si sia prostituita o sia stata "palpeggiata" (tutte lo sono) e per questo sia stata prima ricompensata con ricchezza, poi ancora premiata con la promessa di cinque milioni di euro per tenere la bocca chiusa sui rapporti con il presidente. Un processo non è altro che una storia. O meglio una comparazione di storie. Si combinano notizie sparse, fatti frammentati, segmenti di eventi. Se ne fa una narrazione. In competizione con un'altra raccontata in modo diverso, da un diverso punto di vista, con scopi diversi (dall'accusa, dalla difesa, dai testimoni), chiede di essere privilegiata da un giudice nel processo rispetto alle altre perché più coerente, più documentata, più dotata di senso.

Ora è stravagante (in apparenza) che Silvio Berlusconi non proponga alcuna narrazione plausibile. Preferisce all'attendibilità documentata, il nonsense. Naturalmente parla dell'affaire. Anzi ne straparla con asfissiante logorrea in quei suoi flussi verbali d'impudenza monstre. È vero che la "storia" narrata dalla difesa può legittimamente essere parziale, partigiana, addirittura manipolata e fuorviante, ma anche per la difesa vale la regola che chi afferma che un fatto è vero ha l'onere di dimostrare la verità della sua affermazione. Appena l'altro giorno (4 febbraio), ricevendo a cena i deputati del Gruppo dei Responsabili, Berlusconi ha detto di non aver "mai avuto colloqui diretti con questa Ruby, è solo una ragazza che mi è stata segnalata, nulla di più". Cancellate le prove evidenti del contrario (i contatti telefonici, i soggiorni in villa, le sue stesse ammissioni). Il premier ripete di non aver mai saputo che Ruby fosse minorenne. Ora lasciando cadere le testimonianze che lo contraddicono, perché allora il capo del governo chiede al capo di gabinetto di "affidare" Ruby alla Minetti (si "affidano" i minori, non i maggiorenni)? Perché ostinarsi a ripetere "non ho mai pagato una donna", quando i documenti bancari, le agende delle ragazze, le loro conversazioni dimostrano il contrario: sempre egli paga le donne che ospita e con cui fa sesso? Perché continuare a ripetere che davvero credeva Ruby "nipote di Mubarak"?

Appare chiaro che Berlusconi non ha alcuna intenzione di dimostrare in un processo al giudice la sua innocenza. Il premier sa bene che le testimonianze raccolte per le indagini difensive tra le ragazze che mantiene, i dipendenti che retribuisce e ministri che accoglie nel governo (Frattini, Galan, Bonaiuti)  -  tutti testimoni party-oriented  -  pesano sulla bilancia della giustizia come un fiocco di polvere. Non può ignorare che alcune iniziative possono essere smascherate in un batter di ciglia (dice d'essere in grado di dimostrare che Ruby era maggiorenne quando l'ha incontrata e a Milano corre voce che presto apparirà un passaporto taroccato). Racconta questa storia: sono ricco e generoso, per rilassarmi organizzo di tanto in tanto qualche festa con ragazze che hanno bisogno di aiuti che io non nego e senza chiedere nulla in cambio come è accaduto anche con la "nipote di Mubarak" che non ho toccato neanche con un dito anche perché non l'ho mai incontrata. È fumo negli occhi. È illusionismo. È imbroglio. Berlusconi ha rinunciato già al processo (aveva promesso che lo avrebbe affrontato a viso aperto). I fatti sono per lui inaffrontabili e vuole giocare la partita fuori del processo.

Vediamo come. Egli confida di persuadere l'opinione pubblica con omissioni, favole e qualche trucco sublunare. È la manovra che gli consente di creare un ambiente favorevole a un colpo di mano "politico" che sottragga il processo ai giudici di Milano. E, se non il processo, almeno le fonti di prova: pensa a un decreto d'urgenza per correggere l'uso delle intercettazioni, anche degli "ascolti" che lo mettono nei guai. Non si può dire che sia un tableau à sensation. Lo si è già visto. Berlusconi chiede che sia il potere politico che ha  -  e quindi il governo che presiede; la maggioranza parlamentare che ha nominato o comprato  -  a togliergli le castagne dal fuoco. Pretende che il pubblico ministero di Milano sia dichiarato incompetente (dottrina e giurisprudenza lo negano) per volontà e decisione politica. Invoca il giudizio del Tribunale dei ministri ("sono anche loro togati, no?", dice). Non spiega che, per giudicare, quel Tribunale deve essere autorizzato dal Parlamento: un consenso che sarà sempre negato. La storia, la narrazione dietro cui nascondere le sue responsabilità deve tenersi lontana dai fatti. Lontano dai fatti, il premier può lasciarsi proteggere da un bislacco "avvocato" e da un inatteso "testimone". Il difensore che Silvio Berlusconi si è scelto è il Parlamento che controlla e corrompe.

Lo ha già mosso contro la procura di Milano (nei giorni dell'autorizzazione negata alla perquisizione dell'ufficio del ragiunatt che paga le zambraccole). Ancora lo muoverà facendogli presto sollevare un conflitto di attribuzione e uno scontro totale contro la magistratura e forse contro il capo dello Stato (che già chiede: dov'è l'urgenza per il decreto intercettazioni?). Il testimone chiamato a scagionarlo non è tra gli attori dell'affare penale. È un'opinione pubblica affidata ai tecnici della contraffazione. La litania che salmodiano, questa volta, non ripete troppo la favola della "persecuzione giudiziaria". È una tiritera quasi privata, intimista, intimidatoria. Fa leva sulla mancanza di fiducia in se stessi degli italiani, in una mancanza di orgoglio e di amor proprio del Paese. L'argomento, ripetuto come una filastrocca, è questo: "Chi sono io, chi sei tu per giudicare? Siamo tutti uguali, siamo tutti inclini a fare il male e quanti cercano o fanno finta di essere onesti sono solo dei santi o degli ipocriti, ma in entrambi i casi che ci lascino in pace". Queste domande dovrebbero custodire lo spirito del tempo. È nota la fallacia del concetto di colpa collettiva, di chi sostiene che, se giudicati, tutti risulteremmo colpevoli: fai prevalere il concetto di colpa collettiva e non resterà più nessuno da chiamare per nome. È quel che pretende il Re denudato.

Per fortuna - ci ha spiegato Hannah Arendt (Responsabilità e giudizio) - esiste ancora nella nostra società un'istituzione dove è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità, dove ogni giustificazione di carattere astratto e generico - dallo Zeitgeist, alla sessualità, al narcisismo  - crolla. In un'aula di tribunale non vengono giudicati tendenze, culture, antropologie, ma persone in carne e ossa che hanno commesso atti perfettamente umani, ma violando le leggi che riteniamo essenziali per l'integrità del nostro vivere comune (c'è qualcosa di più sacro del corpo dei minori?). I problemi giuridici e morali, è vero, non sono la stessa cosa, ma possiedono comunque una certa affinità, perché "entrambi presuppongono la facoltà del giudizio".

È giustappunto un giudizio, il giudizio che Berlusconi non può permettersi né accordare ad alcuno. È un possibile giudizio che gli italiani dovrebbero consentirsi perché non è vero che nessuno può essere responsabile o possa rispondere degli atti che ha commesso, dei comportamenti che ha tenuto. La possibilità di giudicare appare, nel tempo che ci separa dall'inizio di questo processo, lo "scandalo" che deciderà dei nostri giorni futuri.

(10 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #194 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:52:47 pm »

Il falso teorema del golpe morale

di GIUSEPPE D'AVANZO

Il presidente del Consiglio, settantacinque anni, si tiene accanto in villa - a pagamento - una prostituta minorenne per un paio di mesi, nel 2010. Questo è il fatto, assai ostinato nonostante la nebbia e le censure. Nasce una domanda processuale (Berlusconi ha commesso un reato?) e sortisce qualche effetto politico. Lasciamo in un canto la questione giudiziaria, per il momento.


Elenchiamo qualcuno degli esiti politici sotto forma di domanda.| Quell'uomo, già sorpreso in altri anni in compagnia di minorenni, ha il pieno controllo della sua vita?

Le sue condotte lo hanno reso vulnerabile ai ricatti o minacce della sua ospite, delle sue ospiti?

Quanto la vita caotica di quell'uomo danneggia il Paese che governa?

A quel discredito, domestico e internazionale, può egli stesso porre rimedio?
I suoi comportamenti possono essere, una buona volta, appropriati ai doveri pubblici che liberamente ha voluto assumere?

Come si vede, ognuno di questi interrogativi è concreto, factual perché rinvia all'interesse nazionale e al nostro destino collettivo. Per questa ragione pretende un'assunzione pubblica di responsabilità e reclama con urgenza un giudizio politico, prima che morale e giudiziario.

Se fossimo in un Paese dove il discorso pubblico si nutre di buonafede, disinteresse, civismo, si ritroverebbero (e si affronterebbero) nel perimetro di quelle domande le ragioni della crisi istituzionale che minaccia di precipitare il Paese in una guerra civile o in un ineluttabile declino.

Purtroppo il discorso pubblico nazionale è alimentato soltanto dalla manipolazione, dal falso indiscutibile organizzato a tavolino, da uno spettacolo che conserva la comunità nell'incoscienza dissolvendone ogni senso critico. "Confondere e non convincere" è la regola. Non è altra l'intenzione della manovra chiamata "in mutande ma vivi" lanciata da Giuliano Ferrara, oggi unico canovaccio politico-informativo a disposizione del premier. È il tentativo manifesto di accantonare la questione politica per trasformarla in questione morale. Il trucco offre l'opportunità di mettere su un'artefatta baruffa contro l'"ipocrisia moralistica" che liquida ogni responsabilità e rifiuta ogni giudizio.

Lontano dalle sue responsabilità e protetto da ogni giudizio, il Re Nudo può salvarsi ancora una volta. E il Paese? Che si fotta, il Paese!

Viene in mente Molière, Tartuffe ou l'Imposteur. Il sermone di Giuliano Ferrara contro la "Repubblica delle virtù (il grand guignol va in scena oggi in un teatro di Milano) e dovrebbe, vuole essere - mutande a parte - terribilmente serio ma vi spira soltanto un'aria burlesca tanto lo spettacolo è un'impostura. Se si sfiora la questione da un'angolazione qualsiasi, o se ne vaglia un qualunque argomento o ragione, la ciarlataneria affiora ovunque, con qualche sprazzo comico. Induce al riso Berlusconi disegnato da Andrea Fortina con le fattezze di Giustiniano. È farsesco leggere, nell'intervista pubblicata dal "Foglio", Berlusconi che parla come Ferrara, che è Ferrara, pasticheur in pose da cardinal Mazarino, e mai Berlusconi, animale da preda con un Io ipertrofico. È buffonesca l'autorappresentazione di Berlusconi, degradato a ventriloquo di Ferrara (ma fino a quando?), come campione di "un sistema fondato sulla libertà, sulla tolleranza, su una vera coscienza morale pubblica e privata".

In Italia la memoria ha strepitose paralisi e tuttavia sentire quelle parole e formule - libertà, tolleranza, coscienza pubblica, coscienza privata - arrotarsi tra i denti da lupo del capo del governo fa venire il freddo alle ossa. Quale tolleranza, se ancora oggi ricordiamo gli ordini ai prefetti di prendere le impronte ai bambini nei campi Rom o di ricacciare in mare donne incinte, neonati e migranti in cerca di asilo politico. Quale libertà se nelle biblioteche del Nordest ha libero corso una lista di proscrizione dei libri non graditi e quindi vietati.

Dov'erano i liberali che oggi in pose servili difendono il diritto delle donne a prostituirsi quando il governo chiedeva per i clienti delle prostitute la galera. Dove s'erano appisolati questi quaresimalisti, quando ministri proponevano la tortura per scacciare il fantasma del terrorismo o uomini di governo sollecitavano l'omofobia o la discriminazione per una pelle diversa, una diversa fede, un altro luogo di nascita, fosse anche dentro i confini nazionali, ma troppo a sud. Come quelle bocche possano dire "libertà, tolleranza" quando hanno in animo di decidere per legge dello Stato delle nostra vita e della nostra morte, delle nostre cure mediche e di quanto dolore possiamo sopportare. E, a proposito di vita, di quale dionisiaca vita parlano gli "immutandati" - nicciani d'occasione - se ad ogni piè sospinto, ci ricordano che la vita non è il bene più alto per i mortali perché c'è sempre qualcosa di diverso in gioco nella vita, oltre la procreazione, oltre il sostentamento dell'organismo vivente, magari la salvezza dell'anima in questa vita o nell'aldilà.

Sotto l'aspetto sintattico, direbbe Franco Cordero, la prosa degli "immutandati" "è pastone o brodaglia".
Nel lessico della Crusca, "pappolata"; in piemontese, "supa"". È una schifezza indigeribile che ha il solo pregio di mostrarci in trasparenza come il consenso che chiede Berlusconi sia soltanto obbedienza.

I bambini obbediscono, gli adulti acconsentono, ma a che cosa dovrebbero acconsentire gli adulti "in mutande ma vivi"? Berlusconi non propone loro un'idea, un programma, neppure un sogno.

Offre soltanto se stesso, la sua inadeguatezza, la propria sopravvivenza, la sua impunità. Ci si può sentire davvero "vivi" nell'obbedienza a un capo privo di un pensiero diverso dal suo personale tornaconto?
 

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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