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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 99511 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Ottobre 17, 2010, 03:43:13 pm »

L'ANALISI

Sulla riforma della giustizia la partita finale del governo

di GIUSEPPE D'AVANZO


Frastuono e molti strepiti. Previsti, utilissimi per la congiuntura politica, come vedremo, ma non troppo ragionevoli. Se i corifei del Cavaliere che oggi fanno confusione avessero chiesto all'avvocato del premier Nicolò Ghedini se dietro la convocazione di Silvio Berlusconi in procura a Roma ci sia una manovra politica, un accanimento giudiziario, una trappola mediatica probabilmente si sarebbero sentiti rispondere: no, ragazzi, calma, è più o meno un atto scontato che ci aspettavamo da quando abbiamo saputo a Milano che le indagini sui diritti tv di Mediaset per gli anni 2003 e 2004 erano state trasferite nella Capitale per competenza: in quei due anni, infatti, la società sotto inchiesta, "Reti televisive italiane" controllata Mediaset al 100%, aveva sede legale a Roma.

"Era proprio necessario un invito a comparire?", avrebbero potuto allora chiedere gli sdegnati (a comando) turiferari del Cavaliere. Ghedini, se in vena di schiettezza, avrebbe saputo spiegare loro che l'invito a comparire non è altro che un espediente dei pubblici ministeri per guadagnare un po' di tempo.
Sapete, avrebbe potuto dire l'avvocato, quei poverini si sono trovati sul gobbo un processo più o meno già morto perché la prescrizione - che meno male ci siamo accorciato con una legge ad hoc - lo avrebbe cancellato già la prossima settimana e allora per stiracchiare i margini quelli hanno firmato l'invito a comparire. Il provvedimento interrompe i tempi della prescrizione e il rimedio potrebbe concedere ai pubblici ministeri più o meno un altro anno e mezzo.

Naturalmente, nessuna assennata decifrazione del provvedimento della procura di Roma avrebbe fermato gli schiamazzi perché l'invito a comparire precipitato nel conflitto politico consente al Cavaliere, da un lato, di far dimenticare che cosa gli viene contestato nel processo e, dall'altro, gli permette di rilanciare l'offensiva contro la magistratura, contro la Costituzione, contro gli organi di controllo come la Consulta. In effetti, come sempre i suoi processi, anche l'inchiesta sui diritti tv di Mediaset potrebbe mostrare con quali pratiche sono stati costruiti il successo e la fortuna di Silvio Berlusconi. Il meccanismo ipotizzato dal pubblico ministero è simile a quello del processo in cui Berlusconi è imputato a Milano di frode fiscale per i fondi neri creati da Mediaset attraverso la compravendita dei diritti Tv e cinematografici. Mediaset, con la Rti, rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors americane, come fino agli anni '80 faceva personalmente Silvio Berlusconi, e affida l'incarico a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama. Una bizzarria, in apparenza. Perché pagare a un mediatore una provvigione quando un rapporto diretto con le majors oltre che più efficace sarebbe stato più economico? Semplice, sostiene l'accusa: per "fare la cresta".

Le cose andavano così, per i pubblici ministeri: Mediaset non compra direttamente, ma da quell'Agrama. Acquista con società offshore (Century One e Universal One e altre come la Wiltshire Trading e la Harmony Gold). A loro volta queste cedono i diritti ad altre società gemelle. Il prezzo, a ogni cambio di mano, si gonfia. La differenza tra il valore reale del diritto di sfruttamento televisivo del film e quello pagato in Italia, alla fine di quella catena di Sant'Antonio, consente a Mediaset di mettere da parte un bel gruzzolo al riparo del fisco sottraendo risorse alla società quotata in borsa e dunque alla disponibilità degli azionisti. Mediaset nega tutto con collera: "I diritti cinematografici sono stati acquistati a prezzi di mercato e tutti i bilanci e le dichiarazioni fiscali della società sono stati redatti nella più rigorosa osservanza dei criteri di trasparenza e delle norme di legge".

È una sicurezza che dovrebbe convincere Silvio Berlusconi ad affrontare il processo, come un cittadino tra i cittadini, e non evitarlo come l'inferno, la peste, una maledizione, ma - si sa - da quell'orecchio il Cavaliere è sordo (io, unto dal Signore, uguale agli altri?) e diventa muto come un pesce quando è chiamato a spiegare i metodi del suo lavoro. Così c'è da scommettere che il 26 ottobre, giorno della convocazione in procura, il premier non si presenterà dinanzi ai pubblici ministeri. Che comunque con la loro mossa dovuta gli consentono di rilanciare il piano annunciato a Bonn il 10 dicembre 2009. Ricordate? Disse Berlusconi: "Oggi in Italia la sovranità è passata dal Parlamento al partito dei giudici. Dobbiamo rimediare. La Costituzione italiana dice che la sovranità appartiene al popolo, è il popolo che vota ed è il Parlamento che fa le leggi, ma se queste leggi non piacciono al partito dei giudici della sinistra questo si rivolge alla Corte Costituzionale che ha undici componenti su quindici che appartengono alla sinistra. Di questi, cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra. Quindi da organo di garanzia la Corte costituzionale si è trasformata in organo politico che abroga le leggi decise dal Parlamento. Quindi la sovranità oggi in Italia è passata dal Parlamento a partito dei giudici. Una situazione transitoria perché stiamo lavorando per cambiarla, anche attraverso una riforma della Costituzione".

Detto fatto perché Berlusconi, gran bugiardo, quando parla di giustizia è sempre sincero e fa sempre quello che dice. Così è già pronto il progetto di rendere "qualificata" la maggioranza nella Corte Costituzionale per bocciare o promuovere una legge. Servirà il sì o il no di due terzi dei giudici, 10 su 15. Il nuovo ordine, mostrato e proposto già ai leader della maggioranza, è stato per il momento accantonato nelle bozze che saranno sottoposte al consiglio dei ministri la prossima settimana. Rimane lì come una minaccia, che può essere sempre riproposta, e soprattutto come segnale della volontà di Silvio Berlusconi di passare da una Costituzione che prevede una democrazia liberale basata sulla divisione dei poteri e sui controlli reciproci a un'altra incardinata sull'investitura popolare-elettorale che rende onnipotente colui che l'ottiene. Un sistema costituzionale nel quale l'investitura popolare ha la meglio su ogni limite e controllo con il rischio, per ripetere qui una preoccupazione di Gustavo Zagrebelsky, di precipitare "dallo stato di diritto allo stato della forza", dalla democrazia liberale a "un dispotismo in forma democratica" perché è autoritaria una democrazia dove il governante non sta sotto la legge (lex facit regem), ma è il governante a farsi la legge su misura (rex facit legem). Sarà interessante capire se Gianfranco Fini seguirà il Cavaliere lungo questa deriva. Se ne deve dubitare. Già dopo l'esternazione di Bonn, lo lasciò solo. Disse il presidente della Camera: "Le parole di Silvio Berlusconi, secondo cui la Consulta sarebbe un organo politico, non possono essere condivise" perché "è certamente vero che la "sovranità appartiene al popolo", ma il presidente del Consiglio non può dimenticare che esso "la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" (art. 1). Ed è altresì incontestabile che gli articoli 134 e 136 indicano chiaramente il ruolo di garanzia esercitato dalla Corte Costituzionale".

Sono parole che ripetute oggi possono mandare a gambe all'aria il progetto di riforma costituzionale della giustizia che separerà le carriere dei magistrati; spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura; sottrarrà la polizia giudiziaria al controllo del pubblico ministero; introdurrà la responsabilità civile delle toghe e l'inappellabilità delle sentenze se l'imputato è assolto. Intorno a questa riforma punitiva dei giudici - più che migliorativa della giustizia - si giocherà e in tempi brevi la partita finale e il destino della legislatura. Come già è stato detto, sarà sulla giustizia che cadrà il governo e l'invito a comparire per il Cavaliere, anche se espediente processuale, è soltanto l'avvenimento che accelera i tempi della resa dei conti dentro la maggioranza.

(16 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/16/news/d_avanzo_berlusconi-8109033/
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« Risposta #166 inserito:: Ottobre 18, 2010, 10:02:49 am »

L'analisi

Chi c'è dietro quella banca?

Il forziere di famiglia del Cavaliere

Gli intrecci della Banca Arner.

Di Berlusconi il "conto numero 1". Tra i clienti Doris e i Previti. Nella sede milanese anche i conti delle holding che fanno capo ai figli Marina e Piersilvio. L'istituto è sotto inchiesta per riciclaggio, e Bankitalia ne certifica l'opacità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Lo spin è il movimento rotatorio, l'avvitamento o l'effetto ricurvo di un palla da gioco. Lo spinning è la procedura con cui il politico previene o contrasta la diffusione di informazioni imbarazzanti, è la tecnica che plasma le mezze verità per costruire storie, finzioni opportunamente orientate. Le procedure diversive sono tipiche dello spinning.

Se sei in imbarazzo su una questione, afferrane un'altra. Se non ce l'hai sotto mano, creala, inventala e parla di quello. Spiega chi studia e analizza i discorsi politici: "L'atteggiamento sensato di fronte alla strategia diversiva consiste nel riportare l'attenzione sulla questione principale: quali sono le domande a cui non è stata data risposta? Qual è la risposta e perché non viene fornita? Contro la diversione sistematica c'è un solo strumento: l'iterazione, il riportare insistentemente l'attenzione sul punto principale, sui contenuti in discussione, e sul vero e sul falso che lo riguarda" (Franca D'Agostini, Verità avvelenata, Bollati Boringhieri).

Sono utili queste definizioni per comprendere l'iniziativa di Nicolò Ghedini contro Report e apprezzare il lavoro iterativo di Milena Gabanelli perché non è la prima volta che Report affronta le opacità della banca Arner e il suo intreccio con gli affari, i soldi e gli uomini di Silvio Berlusconi. Se l'avvocato del Capo chiede un intervento contro una trasmissione Rai si finirà per parlare di Potere e di Rai e non di quel che ha rivelato l'inchiesta televisiva. Che al contrario è la questione più importante (l'altra, pur rilevante, ne è soltanto un corollario). Cerchiamo di capire di che cosa si tratta.

Nella sede milanese della banca svizzera Arner la famiglia Berlusconi ha quattro conti correnti per un totale di 60 milioni di euro, di cui uno intestato direttamente al presidente del Consiglio per dieci milioni (è il conto n. 1 della banca) e altri tre per 50 milioni a capo delle holding italiane Seconda, Ottava e Quinta, amministrate dai figli Marina e Piersilvio. Tra i clienti della banca ci sono molti nomi dello stato maggiore del Cavaliere: Ennio Doris, fondatore del gruppo Mediolanum; la famiglia dell'avvocato Cesare Previti, condannato in via definitiva per i casi Imi-Sir e Lodo Mondadori; Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali del gruppo Fininvest condannato in via definitiva dalla Cassazione a 2 anni e 6 mesi per la corruzione di alcuni ufficiali della Guardia di Finanza. Alla Arner vengono gestite le società anonime Centocinquantacinque e Karsira Holding, che a cascata controllano due società amministrate dalla famiglia di Giovanni Acampora anche lui condannato per il Lodo Mondadori. Alla Arner vengono gestiti i soldi della Flat Point Development Limited, una immobiliare con proprietari misteriosi che sta costruendo ville ad Antigua per Silvio Berlusconi. Infine, last but non least, la Arner ha avuto tra i suoi fondatori Paolo Del Bue che, nella sentenza che ha condannato David Mills, è definito l'amministratore di società (Century One, Universal One) riconducibili "direttamente a Silvio Berlusconi".

La presenza di Berlusconi, dei figli, degli amministratori del patrimonio personale del Capo, degli amici del cerchio strettissimo - come Previti, Sciascia, Acampora: uomini che si immolano per salvare il Capo - lasciano credere che la Banca Arner sia nel cuore del Cavaliere. Così vicina alla sua attenzione che alcuni arrivano a sussurrare che Arner sia del Cavaliere. La questione merita una domanda diretta: signor presidente, la banca Arner è sua? L'interrogativo che, un anno fa, Milena Gabanelli propone al premier è però un altro. Report, nel novembre del 2009, dà conto delle opacità della Arner e illustra per quali ragioni e circostanze la banca vicina a Berlusconi è sotto il torchio dagli ispettori della vigilanza della Banca d'Italia che vi rintracciano "gravi irregolarità a causa delle carenze e delle violazioni in materia di contrasto del riciclaggio".

L'inchiesta di Report in quell'occasione si chiude con un appello, diciamo così. Milena Gabanelli si chiede "se non sarebbe opportuno, per il premier, prendere i suoi 60 milioni di euro, spostarli dalla banca Arner e depositarli in un'altra banca italiana un po' più trasparente". L'appello cade nel vuoto. E la Gabanelli ora ci ritorna su. Questa volta scopre che il 20 settembre 2007 Berlusconi ha comprato quattro acri di terra da una società di Antigua, la Flat Point Development, impegnata a costruire sull'isola caraibica ville e villoni su un'area di 160 ettari. Report spiega che di questa Flat non si conoscono i proprietari effettivi. Sono protetti da un sistema di scatole cinesi che sfocia a Curacao, Antille olandesi, e da un rosario di prestanomi e fiduciari con nomi italiani. Legittimo quindi, anche in questa occasione, la seconda domanda che Milena Gabanelli pone a Silvio Berlusconi: "I 22 milioni di euro portati dal nostro premier ad Antigua corrispondono al reale valore di mercato di ciò che ha acquistato? E a chi li ha versati e chi è il proprietario di mezza isola? Un imprenditore catanese? Lui medesimo? Un'opacità che il presidente del Consiglio avrebbe il dovere di dissipare".

Siamo allora al nocciolo della questione. Anche in questo caso, lo si può riassumere con qualche domanda. Chi è il proprietario effettivo della Banca Arner? E' di Silvio Berlusconi? Se non lo è, il Cavaliere ne conosce l'identità? Se Silvio Berlusconi è soltanto uno dei correntisti - anche se il numero 1 - quali sono i motivi che lo spingono a utilizzare un istituto di credito di pessima reputazione, sotto inchiesta per riciclaggio, cosi oscuro da convincere Bankitalia a sostenere "l'impossibilità di accertare i beneficiari economici di alcune società che hanno il conto alla Arner Italia" e, fra queste, la Flat Point Development Limited di Antigua? A chi Berlusconi ha versato il denaro per acquistare i terreni di Antigua? Conosce i proprietari della Flat Point di cui i pubblici ministeri di Milano segnalano "l'assoluta opacità dell'effettivo beneficiario" e rilevano le "causali poco verosimili" di "trasferimenti di somme all'estero" tra Flat Point, la filiale italiana di Arner Bank (che ha due dirigenti indagati per riciclaggio) e poi la Arner svizzera? Può Berlusconi smentire pubblicamente che la Flat Point Development Limited sia una sua proprietà? Ecco queste sono le questioni imbarazzanti che hanno convinto Ghedini a giocare una palla ad effetto per parlar d'altro.

(18 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/18/news/quella_villa_d_avanzo-8169812/?ref=HRER1-1
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« Risposta #167 inserito:: Ottobre 20, 2010, 04:59:13 pm »

L'ANALISI

Il privilegio dell'Eletto

di GIUSEPPE D'AVANZO

È un'imprudenza credere che l'emendamento alla "legge Alfano" designi soltanto l'impunità del presidente del Consiglio.
C'è in questa mossa una conferma avvilente, certo, ma anche un'aggressione alla democrazia costituzionale e alla repubblica parlamentare così come, fin qui, le abbiamo conosciute. È  azzardato minimizzare. Per orientarci, cominciamo dalla conferma. Anzi dalle conferme.

L'emendamento, approvato dalla commissione Affari Costituzionali del Senato, decide che potranno essere sospesi i processi nei confronti di presidente della Repubblica e presidente del Consiglio "anche relativi a fatti antecedenti l'assunzione della carica". Lo sappiamo.
C'è un solo soggetto interessato alla questione. Silvio Berlusconi. È imputato per corruzione di un testimone, frode fiscale, appropriazione indebita in tre processi che, se celebrati, lo vedrebbero a mal partito: nel processo per la corruzione dell'avvocato David Mills si può dire che sia addirittura già fritto. Conferme, dunque. Il Cavaliere ha deciso di diventare leader politico per evitare i controlli alle sue condotte spregiudicate ("La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, noi oggi saremo sotto un ponte o in galera", Fedele Confalonieri, Repubblica, 25 giugno 2000). Ci ha messo qualche anno. È stato arrugginito rovinosamente il processo; sono stati cancellati o abbuonati reati; sono stati ristretti i tempi della prescrizione. Le manipolazioni della legge e i provvedimenti ad personam hanno ottenuto il loro scopo: Berlusconi si è salvato per il rotto della cuffia ("intervenuta prescrizione") da processi che hanno accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, il suo coinvolgimento diretto in reati penali ("Le leggi ad personam? Silvio le fa per proteggersi. Se non fai le leggi ad personam vai dentro", Confalonieri, La Stampa, 2 novembre 2009).

Ancora una conferma la si trova nello slittamento di senso che Berlusconi applica alla parola "giustizia" e all'intenzione di volerla riformare. Dice "giustizia" e non pensa alla giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma alla giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia la sua roba. Dice "riforma della giustizia" e prepara un'ipocrisia anestetica che gli consentirà di lasciar credere che è al lavoro per noi. Come accade in queste ore. Manda in giro il ministro di Giustizia a presentare una riforma della giustizia che non si farà mai, mentre con l'emendamento approvato al Senato cura i suoi personali guai. Nessuna sorpresa. È una conferma. Berlusconi è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici.

Ora possiamo lasciare le conferme e intravedere, nell'emendamento che assicura l'impunità al Cavaliere, la metamorfosi costituzionale che nasconde. Il presidente del Consiglio, come già hanno sostenuto i suoi avvocati dinanzi alla Corte costituzionale nella discussione per l'Alfano numero 1, vuole essere primus super pares. La Consulta ha bocciato quest'interpretazione. Pur con "significative differenze" tra capo del Governo e ministri, hanno sostenuto i giudici, "non è configurabile una preminenza del presidente del consiglio che ricopre una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares". Escludendo i ministri dall'immunità che protegge il premier, si mescolano adesso le carte. Approvata la nuova legge costituzionale (conta di farlo in dodici/diciotto mesi), Berlusconi sarà primus super pares per i poteri che gli derivano dalla designazione diretta del voto popolare.

C'è qui, un presunto adeguamento della Costituzione formale a una pretesa Costituzione materiale che avrebbe il suo fondamento decisivo, come va dicendo Berlusconi non adeguatamente contrastato, in una sovranità popolare finalmente libera di esprimersi senza il vincolo della legge, senza l'ossessione per l'ordine costituito, senza la mediazione delle istituzioni. Anche se ancora oggi ha bisogno del voto di fiducia del Parlamento per governare, Berlusconi preferisce far credere che sia il voto popolare che lo rende primus super pares e lo consegna a uno status privilegiato. Non è stato votato in Parlamento come un anonimo deputato, dice. È stato votato come capo del Governo.
È il corto circuito tra governo e popolo che  -  come ha osservato Carlo Galli  -  taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne.

È proprio la legittimazione della sovranità popolare, l'unzione che dovrebbe sollevare Berlusconi, l'Eletto, oltre l'ordinamento giuridico garantendogli  -  con l'emendamento approvato ora al Senato  -  il privilegio immunitario di essere esonerato con legge costituzionale dalla legge ordinaria. Nessun processo lo toccherà. L'impunità che conquista il Cavaliere è soltanto l'aspetto più appariscente e arrogante della questione. Ce n'è un altro che lavora nelle fondamenta costituzionali, minandole. L'impunità costituzionale assicurata a Berlusconi svela come "un potere costituente" voglia scardinare l'ordinamento costituito e crearne uno nuovo ridisegnando gli equilibri dello Stato per il vantaggio di una sola persona. In modo da rendere "permanente, quotidiano e al contempo perenne" il caso d'eccezione che Berlusconi rappresenta. In modo che egli possa costituzionalizzare se stesso e tutte intere le sue anomalie in un nuovo equilibrio che separa l'ordine della legalità dall'ordine della legittimità mentre il privato diventa pubblico e il diritto penale diritto costituzionale. Lo Stato che conosciamo diventa così un'altra cosa. Una cosa sconosciuta, da nessuno invocata, da nessuno discussa, che va accettata perché conviene e lo pretende una sola persona.

Se non fossimo dinanzi a una tragedia repubblicana ci sarebbe da ridere perché è ridicola la sproporzione tra le categorie del politico che si evocano in questi casi (sovranità popolare, potere costituente, stato d'eccezione) e il mediocre obiettivo di salvare da un paio di processi un uomo che ha fatto fortuna con troppa scaltrezza truffaldina. Purtroppo c'è poco da ridere perché, con la legge in via di approvazione in Parlamento, può cadere anche l'ultima condizione che fa di Berlusconi un cittadino uguale agli altri. Guardiamo i poteri che controlla oggi: economico, mediatico, legislativo, esecutivo. La soggezione alla legge è l'unico aspetto che lo rende ancora uguale agli altri. Se ci rassegna all'inerzia di questa deriva, anche quell'ultimo argine può franare mutando definitivamente, con la Costituzione, il destino del Paese.

(20 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/20/news/d_avanzo_lodo-8248477/?ref=HREA-1
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« Risposta #168 inserito:: Ottobre 24, 2010, 03:35:24 pm »

L'ANALISI / 1

Il vero obiettivo è azzoppare i pm

di GIUSEPPE D'AVANZO

LA riforma della giustizia è una favola buona per gli ingenui. Nei tre striminziti fogli che il ministro della Giustizia porta in giro, al Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo dei Marescialli, non c'è alcuna traccia di riforma. Nessuna correzione di ciò che è oggi storto. Nessuna cura delle criticità del sistema. "Riforma" è un eufemismo.

Consente all'Eletto di manipolare la Costituzione per rendere innocuo il pubblico ministero, la bestia nera. Il sedicente rinnovamento della giustizia non è altro che questo: l'assalto all'autonomia e all'indipendenza delle procure; il tentativo di fare del pubblico ministero non un "potere" né un "ordine" ma "un ufficio" - sarà così definito - che rappresenta nel processo le fonti di prova raccolte dalle polizie dipendenti da una mano governativa che, a sua volta, deciderà con il ministro di Giustizia "le priorità" nell'esercizio dell'azione penale. Addio articolo 112 della Carta: "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale". Liquidato l'articolo 109: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

C'è anche altro nel programma del governo: la separazione delle carriere; lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e l'aumento della quota delle presenze politiche; il principio di responsabilità di giudici e pm; l'Alta Corte di disciplina; l'inappellabilità delle sentenze
di assoluzione; le eccezioni al principio di inamovibilità. Ma l'intero profilo della "riforma" non perde mai d'occhio l'azione penale obbligatoria e ha un unico focus: il pubblico ministero indipendente, che si immagina debba essere diretto per vie oblique dal governo. Sono idee che non restituiranno alcuna efficacia, alcun equilibrio, alcuna ragionevolezza all'amministrazione della giustizia. Di ben altro c'è bisogno, come da anni ripetono gli addetti.

Il catalogo delle necessità è noto. Revisione delle ottocentesche circoscrizioni giudiziarie (sono 165, potrebbero diventare 60). Riduzione dei tribunali (sono oggi 1.292). Introduzione della posta elettronica per l'esecuzione delle notifiche (cinquemila cancellieri ne consegnano brevi manu agli avvocati 28 milioni ogni anno). Depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale - molto costoso - alle questioni di maggiore allarme sociale. Rinnovamento della professione forense: "più avvocati, più cause" e gli avvocati in Italia sono 230mila, 290 ogni 100 mila abitanti, contro 4.503 magistrati giudicanti in un rapporto avvocato/giudice strabiliante che demolisce il processo civile. Limitazione del ricorso in Cassazione (30 mila sentenze l'anno). E soprattutto la riforma di un processo penale che ibrida tutti i difetti dei possibili modelli (inquisitorio, accusatorio) trasformandolo in un gioco dell'oca interminabile e incoerente. Oggi gli atti dell'indagine non valgono per il dibattimento (in coerenza con la logica del processo accusatorio) però le garanzie del dibattimento sono state estese alle indagini preliminari (in contraddizione con la logica accusatoria). Così l'indagine - e non il processo - è un dibattimento anticipato mentre il rinvio a giudizio, più che essere una valutazione della necessità di un dibattimento, è diventato una sentenza sull'istruttoria (sul lavoro del pubblico ministero). Il processo ne è soffocato. La sovrabbondanza di assillanti formalismi lo disintegrano in una rosa di microprocessi. Giudizio sull'inazione (archiviazione). Giudizio sui tempi dell'azione. Giudizio sulle modalità dell'azione (misure cautelari). Giudizio sulla completezza delle indagini e sul fondamento dell'azione (udienza preliminare). Un processo, in cui ogni atto può generare un microprocesso, che richiede avvisi, notifiche, discussioni, deliberazioni e consente ripetute impugnazioni, non potrà avere mai una "ragionevole durata". Figurarsi se può essere "breve" come vuole, soltanto per amore di se stesso, Silvio Berlusconi. Non lo sarà neanche domani con la sedicente "riforma" che lo conserva labirintico, obeso, avvizzito e lunghissimo, ma vuole addomesticarlo riducendo all'impotenza un pubblico ministero che - si ipotizza nei tre foglietti di Alfano - potrebbe anche essere "elettivo" con la nomina di magistrati onorari alle funzioni di accusatore.

Ci toccherà vedere pubblici ministeri con il fazzolettone verde alla Lega al collo o, nel Mezzogiorno, pubblici ministeri imposti dalle mafie? Probabilmente no. Questa riforma non si farà mai e d'altronde riscrivendo un paio di articoli della Costituzione non si trasforma il pubblico ministero in un burocrate al servizio del governo perché "la Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni" (Franco Cordero). Alla fine questa favoletta della "riforma della giustizia" servirà soltanto ad avvelenare ancora di più un clima politico già attossicato; ad alzare la posta per rendere "male minore" il via libera all'impunità del premier; a distrarre l'opinione pubblica dai clamorosi fallimenti del governo; a preparare la piattaforma della campagna elettorale del 2011. Ancora una volta e come sempre, necessità dell'Eletto e non degli elettori. 

(22 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/22/news/il_vero_obiettivo_azzoppare_i_pm-8318382/
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« Risposta #169 inserito:: Ottobre 29, 2010, 11:34:54 am »

L'ANALISI

L'abuso di potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


"Ho buon cuore" dice.
Silvio Berlusconi ammette di essere intervenuto con la sua autorità di capo del governo sulla polizia di Milano per favorire una giovane amica in stato di fermo con sul groppo un'accusa di furto. Ha un buon cuore e, se può, una mano la dà, dice. C'è un non trascurabile requisito. Si deve essere suoi amici o dipendenti o familiari o protetti o corifei e il soccorso, la tutela, la salvaguardia arriverà.

Non scopriamo oggi che, nel regime berlusconiano, il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici. Senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore della giovanissima Karima Keyek, in arte Ruby; quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo "pubblica" finanche la sfera privatissima dell'Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Siamo nell'infelice Italia e quel che la scena mostra ancora una volta non può sorprenderci perché l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica.

Il Cavaliere non accetta critiche, travolge ogni misura istituzionale. Non conosce il raziocinio politico che gli dovrebbe consigliare discrezione, affidabilità, trasparenza, equilibrio per onorare la responsabilità e rispettare il decoro della funzione. Attese sublunari per l'Eletto. Conquistato il bottino dei voti sufficienti per governare, invece di sentire gli oneri dell'incarico, se ne sente liberato. Fino al punto di non avvertire alcun disagio nell'esigere in una notte di maggio che i poliziotti facciano in fretta ad affidare una ragazzina che frequenta la sua villa e le sue cerimonie notturne a una persona di sua fiducia (una venticinquenne soubrette e igienista dentale trasformata in eletta del popolo).

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti. Berlusconi che non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e non intende governare in nome della legge, ma in nome di ciò che ritiene necessario a se stesso, pretende ora che la burocrazia dello Stato si trasformi in ufficio ubbidiente e sottomesso. Anche qui si misura un altro passo verso il precipizio perché fino a ieri - è sufficiente prendere atto del ruolo di Guido Bertolaso - il capo del governo pretendeva che le burocrazie condividessero la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale. Oggi anche questo standard scolora, trasformando con un abuso di potere l'ufficio pubblico in un obbligo servile.

È soltanto una delle "violenze" che abbiamo sotto gli occhi.
Era già un abuso di potere telefonare in un pomeriggio di autunno del 2008, da un palazzo di Roma e senza conoscerla, a una ragazzina (Noemi Letizia) che sta facendo i compiti nella sua "cameretta" per sussurrarle ammirazione per "il volto angelico" e inviti a conservare la sua "purezza". Era un abuso di potere ancora maggiore imporre ai genitori della ragazza di confermare la fiaba di "una decennale amicizia" con il premier, nata invece soltanto qualche tempo prima grazie a un book fotografico abbandonato da Emilio Fede sullo scrittoio presidenziale. È un abuso di potere - disonorevole per un uomo di Stato - trascurare la fragilità di una giovanissima ragazza, il suo evidente disagio umano e sociale, per afferrare soltanto la vitalità, la bellezza sfruttandone il bisogno e le ambiziosissime smanie. L'abuso di potere per Berlusconi ne annuncia sempre altri. Non occorre un mago Merlino per sapere che, nei prossimi giorni, una nuova "violenza" si scatenerà sulla ragazza. La poveretta, come è accaduto anche per Noemi Letizia, dovrà rettificare, correggere, negare, contraddirsi, smentire ciò che è scritto nero su bianco in un pugno di interrogatori che raccontano quanto disordinati siano tornati ad essere i comportamenti del capo del governo.

C'è qualcosa di notturno e patologico nel declino di una leadership sempre più affannosa e affannata. Nel suo crepuscolo se ne intravede il macroscopico deficit. È l'incapacità di interpretare una politica all'interno delle regole, costretta a adulterarsi in una perenne violenza istituzionale che non assicura alcun governo al Paese ma soltanto più tempo a chi governa. Già era arduo rassegnarsi a questo destino. Ora appare difficile accettare la cristallina inadeguatezza di Berlusconi. Il capo del governo appare incapace non solo di rispettare il livello di onore che la sua responsabilità dovrebbe imporgli, ma addirittura se stesso. Una previsione non può essere che cupa. L'Io ipertrofico di Berlusconi non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, equilibrio istituzionale, saggezza politica. Incapace di guardare in faccia la realtà che si cucina da solo, trascinerà irresponsabilmente il Paese nella sua caduta. Impedire questa rovina non può essere un dovere soltanto per le opposizioni.

(29 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #170 inserito:: Ottobre 30, 2010, 03:13:06 pm »

L'ANALISI

L'abuso di potere / 2

di PIERO COLAPRICO E GIUSEPPE D'AVANZO

NON è successo niente, vuol fare credere Berlusconi. È vero, telefona al capo di gabinetto della questura di Milano, lo fa per tirare fuori dai guai la sua giovanissima amica marocchina. È accusata ancora una volta di furto, ma è persecutorio vedere in questa mossa un abuso di potere, perché poi le regole in questura sono state rispettate fino in fondo, no? Dunque, nessun illegalismo. Karima Heyek, 17 anni, "alias Ruby Rubabaci", alias "Ruby Rubacuori", doveva essere affidata a qualcuno e Berlusconi ha soltanto indicato, come un buon padre di famiglia, come una persona di buon cuore, a chi affidare la minorenne (che, fino a quel momento, pensava fosse maggiorenne).

Prima di intervenire su quel funzionario, il Cavaliere si è preoccupato di spedire in via Fatebenefratelli una sua amica, Nicole Minetti, 25 anni, igienista dentale diventata consigliere regionale. È questo che, raccontando una menzogna e ipotizzando un iperbolico incidente internazionale, chiede alle 23 del 27 maggio il premier al capo di gabinetto: affidate la ragazza, che è nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak al consigliere regionale, che tra qualche minuto sarà da voi.

Ora qui s'incontra una prima incoerenza. Nicole Minetti, in tutte le dichiarazioni di queste ore, sostiene di non aver mai ospitato in casa sua Ruby.

"Conosco Ruby come conosco numerose altre persone del mondo televisivo. Ci tengo a precisare che con la signorina Ruby non ho rapporti di amicizia, né l'ho mai ospitata in casa mia". Quindi, delle due l'una. O Ruby è stata affidata alla Minetti e Nicole non ha assolto al suo impegno. Oppure Ruby non è mai stata affidata effettivamente alla Minetti. Lei è soltanto uno "schermo", l'asso truccato che il Cavaliere gioca nella sua affannosa partita.

C'è un unico luogo dov'è possibile sciogliere il dilemma. E' la riservatissima procura dei minori di Milano. Le regole prevedono infatti che sia il sostituto procuratore di turno, interpellato dalla polizia, ad autorizzare il rilascio del minore: per indirizzarlo in un luogo preciso e protetto, o sotto la tutela di una persona affidabile. La risposta che si raccoglie al tribunale dei minori sul "caso Ruby" è questa: va controllato se le disposizioni che quella notte il sostituto procuratore dà alle forze di polizia sono state rispettate.

Già porre in questi termini la questione rivela che c'è quanto meno una possibile sconnessione tra le indicazioni di quella notte del sostituto procuratore e le mosse di chi decide, alle 2 del 28 maggio, di lasciare andare via la diciassettenne Ruby con Nicole Minetti. Una Ruby che finirà poi in una specie di porto di mare, di quei posti che terrorizzano i buoni padri di famiglia: la casa di una ragazza brasiliana dall'incerto mestiere, incapace  -  per usare le formule del tribunale dei minori  -  di offrire la tutela doverosa e necessaria. Anzi, Ruby e la coinquilina si accapiglieranno per una gelosia sessuale con tale violenza da rendere necessario l'intervento degli agenti d'una volante per "lite in condominio", come si legge nella relazione di servizio.

Il tableau giustifica una prima approssimata radiografia dell'abuso di potere di Silvio Berlusconi. A cominciare da una bizzarria. E' irragionevole e anomalo che il premier telefoni personalmente al capo di gabinetto di via Fatebenefratelli nella notte tra il 27 e 28 maggio per tirare fuori dai guai l'amica minorenne accusata di furto. C'è un eccesso d'urgenza nel suo intervento precipitoso. Un'angosciosa pena. Una concitazione che, nelle ore successive, travolgerà la routine della questura di Milano per riaffiorare nelle forme dell'apprensione oggi, quando i protagonisti affastellano contraddittorie ricostruzioni della loro amicizia con Ruby. Che cosa spinge Berlusconi a muoversi direttamente? Che cosa teme? Senza nessun moralismo, ci si può chiedere: possibile che il capo del governo, che vuole proteggere una giovanissima amica che si è messa nei guai, non abbia accanto nessuno, a Palazzo Chigi, al ministero dell'Interno, nel suo staff ristretto che sbrighi affari border line di quel tipo, con la telefonata giusta al numero giusto? Sembra incredibile, ma pare di no.

Chi conosce il Cavaliere sostiene che si è mosso da solo "perché è sempre ghe pensi mi". Sembra troppo che il superomismo del Cavaliere si eserciti con un evento in apparenza alquanto trascurabile. Forse l'evento non è trascurabile, per il Cavaliere. E c'è chi avanza un'altra ipotesi: il premier vede materializzarsi, con la presenza di Ruby in questura, il fantasma che i suoi consiglieri più affidabili gli hanno da tempo annunciato. Prima o poi, qualcuna di queste amiche ti tradirà.

Ruby ha tutte le caratteristiche per combinare un pasticcio catastrofico per il premier (e non è affatto detto che questo non stia accadendo). Parla troppo. E' fantasiosa. Ha un talento particolare a confondere e mescolare il vero con il falso. Ma è sufficientemente intrigante e si fa voler bene. E' ragionevole che sia questa leva che spinge Berlusconi a muoversi in prima persona e con irruenza. Nella relazione che è stata consegnata al ministro dell'Interno, Roberto Maroni, si legge anche l'ora e la modalità dell'intervento del capo del governo, che avviene a poche ore dalla lite in strada tra Ruby e la ballerina trentunenne Caterina P., che lavora con l'agenzia Lele Mora.

L'amica del premier le ha rubato 3mila euro, è andata via da casa sua con due anellini e le magliette della ragazza. E Caterina P., che alle 18.15 l'ha riconosciuta in un centro benessere di corso Buenos Aires, chiama il 113 "per fare arrestare la ladra. Ruby  -  racconta la bruna Caterina  -  sale su un taxi, che segue la volante, e io che non ho nemmeno un euro vado a piedi per fare la denuncia. Non vedrò più Ruby, né so ancora oggi delle indagini sul furto, si sono dimenticati tutti dei soldi trafugati a me da quella lì, una da paura, veniva a cercarla certa gente che ho i brividi ancora adesso". Non è, insomma, Ruby esattamente la "brava gente" che frequenta le ville e i palazzi del premier, secondo il premier.

Ora c'è un nodo ben stretto da sciogliere. Chi ha avvisato il presidente del consiglio del fermo di Ruby? Si conosce la versione della ragazza: al momento dell'intervento della polizia nel centro benessere è presente un'amica comune, che allerta Nicole Minetti. Questa ricostruzione è però contraddetta dalla Minetti: non conosco così bene Ruby, in realtà è stato Berlusconi a chiamarmi e a dirmi di andare in via Fatebenefratelli. E' una versione che ne sostiene un'altra che si raccoglie in questura: ai minori noi non togliamo il telefono cellulare. Può essere dunque stata Ruby a telefonare direttamente al capo del governo. Un'ipotesi non stramba perché Ruby ha certamente il numero del caposcorta di Berlusconi: nelle indagini della procura milanese  -  i tabulati sono stati richiesti già da tempo  -  ci sono i riscontri di molte telefonate tra i due cellulari.

Ricapitoliamo. Tra le 18.15 (Ruby arriva in questura) e le 23 (Berlusconi parla con il capo di gabinetto) comincia una partita a due. Ruby è nei guai, si rivolge all'amico Silvio. Silvio si attiva. Chiama Nicole Minetti. Le ordina di andare in questura.

E' un'ora prima di mezzanotte quando, come ha anticipato il Corriere della Sera, il capo di gabinetto della questura di Milano riceve una telefonata dal "caposcorta" di Berlusconi. L'ufficiale si limita a presentarsi e ad annunciare al funzionario che gli sta per passare il capo del governo. Ora è Berlusconi che parla. Quel che gli dice, il Cavaliere lo ripete in queste ore in pubblico: "Ho voluto dare aiuto a una persona che poteva essere consegnata non a una comunità o alle carceri, che non è una bella cosa, ma data in affidamento. Siccome mi aveva rappresentato un quadro di vita a dir poco tragico, l'ho aiutata. Tutto qui".

Berlusconi vuole dimostrare che il suo intervento è stato trascurabile, forse inutile. Non si accorge di confessare la sua vera intenzione: cambiare le carte in tavola. Determinare un esito diverso da quel che egli temeva potesse essere, immaginava dovesse essere: la ragazza ristretta in una comunità, o addirittura in gattabuia. E' questo l'incubo del Cavaliere, quella notte. Come avrebbe potuto reagire quella ragazza imprevedibile, che tre mesi prima era stata con lui alla festa di San Valentino ad Arcore? E che, ancora a marzo, aveva passato la notte a Villa San Martino? Che cosa avrebbe potuto raccontare? Che cosa si sarebbe potuta inventare? Meglio metterla al sicuro. Meglio piazzarle accanto una persona di fiducia, in grado di controllarne le mattane. Berlusconi sceglie Nicole Minetti, una sua creatura, inventata dal niente da lui e che a lui deve tutto.

La questura di Milano e, non c'è dubbio, il ministro dell'Interno in Parlamento (risponderà a un question time) sosterranno che "sono state eseguite tutte le ordinarie procedure previste dal protocollo per i casi di rintraccio di persona minorenne. Solo dopo che la questura ebbe accertata la mancanza di posti presso le comunità della zona, dopo l'autorizzazione del magistrato competente e con il consenso della giovane marocchina, ella fu affidata alla signora Minetti". Né poteva essere diversamente, se si dà retta a Berlusconi. Che dice: "Non ho influenzato assolutamente nessuno. Non avrei potuto pensare di esercitare un potere che non ho. Tra l'altro tutti sanno che in Italia il primo ministro non ha nessun potere". Come se fosse del tutto trascurabile per un funzionario dello Stato  -  nel nostro caso, il capo di gabinetto della questura di Milano  -  ricevere nel cuore della notte la telefonata del presidente del consiglio che gli chiede se è in stato di fermo una "egiziana" e se la si può affidare a una signora che presto arriverà lì, "da voi", magari senza lasciare traccia del passaggio della ragazza. Quindi nessuna foto, nessun verbale. Berlusconi ridimensiona. In fondo, che avrò fatto mai?, domanda.

Che cosa succede in questura tra le 23 (Berlusconi chiama) e le 2.00 (Ruby esce) lo si conosce leggendo le relazioni di servizio, oggi nel fascicolo dei pubblici ministeri che indagano per sfruttamento della prostituzione Lele Mora, Emilio Fede, Nicole Minetti. Raccontano gli agenti: la giovane funzionaria di turno nella centrale operativa arriva trafelata nel corridoio del piano terra, dove si affaccia l'ufficio del "Fotosegnalamento". Secondo la prassi, Ruby deve appoggiare le dita sulla lastra fotografica che si collega al Cerved, il cervellone del ministero dell'Interno. Questa semplice operazione consente agli agenti di dare un'identità a chi è sprovvisto  -  come lei  -  di documenti ed è stato già ospite  -  come lei  -  di una questura italiana. Consente di conoscere in tempo reale quali sono i precedenti penali e se  - come lei  -  ci si è allontanati da una casa-famiglia. La relazione inviata al ministro Maroni conferma che questo protocollo è stato rispettato. Quel che non è chiaro nel soggiorno di Ruby in questura non è il rispetto formale delle procedure, ma l'esito delle procedure. Qui affiora più di qualche dubbio. Che nesso c'è tra una marocchina minorenne con residenza a Letojanni, Messina, scappata dalla comunità La Glicine per farsi randagia di lusso a Milano, accusata di furto in più d'una occasione, e nientemeno che  -  parola del presidente  -  la nipote dell'egiziano Hosni Mubarak? E' un fatto che questa storia del prestigioso e fasullo legame familiare non viene raccontato alla procura dei minori. E' un fatto che quella notte la polizia interpella il sostituto di "turno minori", più volte. E' un fatto, però, che quelle disposizioni, in quelle ore, saranno com'è prassi soltanto orali. Diventeranno rapporto scritto il giorno successivo. E' un fatto che la procura della Repubblica ha acquisito questo documento per verificare se c'è una corretta corrispondenza tra le disposizioni impartite a voce tra il 27 e 28 maggio dal magistrato alla polizia e quel che effettivamente la questura ha fatto. Tasto dolente è sempre il ruolo di Nicole Minetti, alla quale  -  come abbiamo visto  -  la polizia affida Ruby, ma che una volta in strada se ne lava le mani.

Una volta in strada Nicole, sostiene Ruby, non si comporta come il consapevole affidatario che si deve occupare di lei. Nicole è lì perché c'è stata mandata: ora sono passate le due e Nicole ha soltanto un'ultima faccenda da spicciare. Deve chiamare Berlusconi, che l'ha spedita lì, aggiornarlo su quanto accaduto, rassicurarlo che Ruby non gli è ostile, anzi gli è riconoscente. Silvio rabbonisce la ragazza: ti voglio bene anche se non sei egiziana e non sei maggiorenne. Come dire, non ce l'ho con te, ti voglio ancora bene anche se mi hai mentito. Addirittura sulla nazionalità. Peggio, sull'età. L'asso truccato calato dal premier ha fatto la sua parte nel gioco affannoso di quella notte anche se la questura, forse avventurosamente, ancora oggi si ostina a sostenere che Nicole Minetti sia stata l'affidataria della minorenne marocchina. Nella prossima settimana, si verrà a capo della questione. In fondo, non è un'operazione complicata. La procura di Milano dovrà confrontare le disposizioni del sostituto procuratore dei minori e i verbali e le condotte della polizia. Sullo sfondo, i tabulati delle telefonate ricevute e fatte dagli attori di questa storia che è meno cristallina di quanto vuol far credere il Cavaliere e ha solo una certezza: l'abuso di potere che ha deformato il lavoro della polizia.

(30 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #171 inserito:: Novembre 01, 2010, 10:18:51 pm »

L'ANALISI

L'abuso di potere / 4

di GIUSEPPE D'AVANZO

È ancora possibile, a volte, distinguere tra ciò che accade e ciò che la politica narra. Detto in altro modo, separare i fatti dalle fabbricazioni spettacolari e pubblicitarie del potere che ci trasformano in passivi consumatori di favole. Il "caso di Ruby" è una di queste occasioni. Nel calderone si avvistano gli ingredienti primi del sistema (o regime) berlusconiano: l'abuso di potere e la menzogna. Li troviamo in coppia, intrecciati  -  abuso di potere e menzogna  -  in tutti i capitoli di questa storia.

Primo capitolo. Berlusconi al telefono. Ruby, da oggi maggiorenne, è una sua giovanissima amica. Frequenta Villa san Martino ad Arcore. Anima le serate del Cavaliere. È esuberante, instabile, incapace di tenersi fuori dai guai. Quando finisce in questura e Ruby lo chiama (o fa chiamare), il presidente del Consiglio è scosso da un'inquietudine che, all'esterno, appare irragionevole. Se non fosse il premier, i motivi della frenesia sarebbero fatti suoi. Governa e il suo stato d'animo turbato diventa interesse pubblico. A maggior ragione quando, abusando del suo potere, chiama ripetutamente il capo di gabinetto della questura di Milano per esigere che la ragazza sia affidata a "un'incaricata della presidenza del consiglio dei Ministri", Nicole Minetti, invocando con una menzogna la ragion di Stato: quella ragazza è la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak.

Secondo capitolo. I trucchi in questura. Messa sotto pressione, intimidita, la burocrazia adotta il codice che patisce: abuso di potere e menzogna. È un abuso deformare le prassi consolidate per venire incontro alle pretese del capo del governo. Ruby è un soggetto fragile. È una minore, senza famiglia, senza documenti, senza casa, senza fonti di reddito accertate, imprigionata in un ambiente arrischiato. Il pubblico ministero chiede che la polizia rintracci una comunità protetta dove possa essere sempre reperibile. Se non c'è posto, non lasci la questura: la ragazza deve essere custodita in sicurezza. L'arrivo di Nicole Minetti, "incaricata della presidenza del consiglio dei Ministri", non appare una ragione per cambiare idea: una volta identificata, Ruby dovrà andare in comunità. Ecco allora che, per rimuovere l'ostacolo della disposizione del magistrato  -  che è poi l'ostacolo della legge, è la legalità  -  burocrati di rango mentono. Riferiscono al magistrato la menzogna del premier (è la nipote di Mubarak), poi mentono in proprio. Inventano che il magistrato sia d'accordo ad affidare Ruby a Nicole Minetti. È una falsità che scrivono nei loro rapporti interni e nelle relazioni che inviano al capo della polizia e al ministro dell'Interno.

Terzo capitolo. Gli interrogatori di Ghedini. Abuso di potere e menzogna si intravedono anche nell'attività dell'avvocato del premier Niccolò Ghedini. L'entourage di Berlusconi  -  quello "notturno": Lele Mora, per fare un nome  -  sa che Ruby è stata più volte interrogata dalla procura di Milano in luglio e ancora in agosto. Che cosa ha detto? Ci si può fidare di quel che racconta quella scapestrata ragazza a Lele Mora e a sua figlia Diana? E se non dicesse tutto, dopo aver detto troppo o tutto là dentro, in procura?
Il premier, molto agitato, affida a Niccolò Ghedini il contrattacco cautelativo. Una segretaria di Palazzo Chigi convoca le giovani ospiti del premier nello studio legale Vassalli in via Visconti di Modrone a Milano per affrontare la questione delle "serate del presidente".

Quel che Ghedini ha dunque l'incarico di proteggere sono "le serate" di Silvio Berlusconi. Deve raccogliere da quelle giovani donne dichiarazioni giurate che confermino quel che il Cavaliere va dicendo: si rilassa a volte, come è giusto che sia, ma in cerimonie che non hanno nulla di scandaloso o perverso. Sono "testimonianze" necessarie per evitare al premier altro discredito. La procura di Milano indaga per favoreggiamento della prostituzione Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Berlusconi teme che la prostituzione, ipoteticamente favorita dai suoi tre amici, abbia il teatro proprio a Villa San Martino nelle "serate rilassanti" che il Cavaliere organizza. Non si rintraccia alcun reato per il capo del governo. Anche nell'ipotesi peggiore, egli sarebbe l'"utilizzatore finale", come direbbe Ghedini. Anche se si scoprisse che le sue ospiti sono minorenni, nessun problema penale: l'utilizzatore non è tenuto a conoscere l'età della sua ospite. È fuori di dubbio, però, che se si dimostrasse che la villa del capo del governo è stato il palcoscenico della prostituzione predisposta dagli indagati l'onore, la dignità, il decoro del padrone di casa (e utilizzatore finale) riceverebbero una severa mazzata.

Ecco allora la missione di Ghedini. Interrogare le ragazze, raccogliere i loro ricordi e lasciarle dire con buon anticipo dell'innocenza di quelle occasioni. Ghedini può farlo. La sua iniziativa è ineccepibile perché l'art. 391-nonies del codice di procedura penale regola "l'attività investigativa preventiva" del difensore "che ha ricevuto apposito mandato per l'eventualità che si instauri un procedimento penale". Nell'eventualità che Berlusconi sia indagato, Ghedini già prepara le prove non solo dell'estraneità del Cavaliere, ma dell'insussistenza del "fatto". Fin qui, la forma è rispettata, ma la sostanza della storia può essere ragionevolmente raccontata alla luce del binomio abuso di potere/menzogna. Occorre un pizzico di senso comune. Decine di ragazzine, ragazze, giovani donne, che hanno partecipato ai "bunga bunga" presidenziali, sono convocate  -  ora addirittura a Villa San Martino  -  e trovano Ghedini. L'avvocato chiede: mi racconta che cosa accade alle serate del presidente? Sono appuntamenti innocenti o peccaminosi? Si fa sesso? Lei ha fatto sesso con il presidente? Quelle poverette non hanno né arte né parte. Hanno una sola ambizione: fare televisione, apparirvi. Sono addirittura in casa del grande tycoon. Come dire, a un metro dal cielo. Arrivate a quel punto, potrebbero mai dire una parola storta contro o sul conto del presidente del Consiglio? In questi interrogatori "preventivi", nella figura di chi li ottiene, nel luogo stesso in cui si raccolgono, si può avvertire una violenza, s'avvista un abuso di potere. È concreto il rischio che possa essere soffocata la libertà morale delle interrogate, la loro libertà di determinarsi "spontaneamente e liberamente". Come è ragionevole credere che i loro racconti potrebbero diventare tasselli della Grande Menzogna che dovrebbe tirar fuori Berlusconi dal pozzo nero in cui ha voluto cacciarsi. Abuso di potere e menzogna, come sempre.

(01 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #172 inserito:: Novembre 05, 2010, 11:35:05 am »

L'ABUSO DI POTERE/8

La vendetta della mafia ultima bugia del Cavaliere

La vita disordinata rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità.

Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero.

Nelle parole di Ruby e Nadia un uomo inaffidabile

di GIUSEPPE D'AVANZO


DUNQUE, sostiene Berlusconi, può essere addirittura la mafia a manovrare le ragazze, minorenni e no, prostitute o no, che vanno svelando con documentati ricordi le "serate del presidente". Dice il premier: "Visti i colpi che stiamo infierendo alla mafia, nessuno oggi può con certezza escludere che alcune cose che accadono siano frutto della vendetta della malavita".

Il mentitore è sempre solitario e superficiale. È la ragione per cui la menzogna, per se stessa abuso di potere se chi mente è un leader politico chiamato a dar conto in pubblico delle sue condotte, non ha mai una gittata troppo grande né un'ampiezza veramente razionale. È un logos con la vista corta. Ne fa le spese anche un bugiardo compulsivo come Berlusconi.

È in un angolo. Ci si è cacciato da solo. Vuole uscirne in fretta e con danni lievi. Evocare un'aggressione mafiosa, come ritorsione e vendetta per le iniziative del governo, gli appare una buona idea per liberarsi di una pressione che può piegarlo. Il vittimismo - chi meglio del Cavaliere può saperlo? - è sempre una medicina efficace nella terra dei piagnoni. In questo caso, l'idea è pessima. Lasciar credere che ci siano i mafiosi dietro le Ruby, le Nadie è autodistruttivo. L'accostamento conferma quel che, con la visione delle foto di Antonello Zappadu, i racconti di Noemi Letizia, le registrazioni di Patrizia D'Addario, già appare chiaro: la vita disordinata, che conduce, rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità. Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero di uno stato di costrizione che si può creare con un comodo sforzo mandandogli in casa una ragazzina per poi manipolarlo.

È quello che la mafia, secondo Berlusconi, può fare o sta addirittura facendo nei suoi confronti. Prendiamolo sul serio. Forse il presidente del Consiglio (il mentitore è sempre superficiale) non si rende conto di convalidare le ragioni di chi - nell'opinione pubblica, in parlamento - gli chiede conto da un anno delle sue deliranti routine private che, indebolendone la funzione e minacciandone le responsabilità, diventano affare pubblico.

O Berlusconi si protegge dalle sue debolezze cambiando vita o le sue ossessioni glielo impediscono. Non può fare l'uno e l'altro. A meno di un altro abuso di potere che la mafia, secondo Berlusconi, può fare o sta addirittura facendo nei suoi confronti. Prendiamolo sul serio. Forse il presidente del Consiglio (il mentitore è sempre superficiale) non si rende conto di convalidare le ragioni di chi - nell'opinione pubblica, in parlamento - gli chiede conto da un anno delle sue deliranti routine private che, indebolendone la funzione e minacciandone le responsabilità, diventano affare pubblico.

Più di un anno fa, quando diventa noto che il fotoreporter Antonello Zappadu ha in archivio 5.000 foto "rubate" nella villa di Porto Rotondo, i tre membri di destra del Copasir (Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Giuseppe Esposito) chiedono l'avvio di un'indagine per verificare "quale protezione hanno dato e danno al presidente del Consiglio le strutture dello Stato a ciò preposte, in primo luogo uno dei servizi segreti?".

Al fondo di quella iniziativa c'è una ragionevolissima convinzione: i luoghi abitati dal presidente del consiglio sono di interesse nazionale; custodiscono gli affari di Stato; meritano l'attenzione che si riserva alla sicurezza della Repubblica. È stravagante che dinanzi alle cronache quotidiane - minorenni nelle ville del Cavaliere assistono a cerimonie erotiche; prostitute che vanno e vengono e sono in possesso del numero personale del capo del governo e non esitano a ingaggiarlo quando si trovano nei guai - quegli stessi uomini si oppongano a che il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) chieda a Berlusconi come l'intelligence lo protegga. O meglio quali sono gli incarichi che egli ha voluto affidare ai cinquanta uomini che, in assoluta autonomia dalle gerarchie, lo tutelano. Chiarimenti che sembrano del tutto necessari soprattutto se si ricorda che ad alcuni di quegli uomini dello Stato è stato assegnato, a quanto pare, il compito di coordinare gli accessi delle ragazze in villa o al palazzo; di controllarne i comportamenti e le relazioni; di levarle dai guai quando vi si cacciano; di espellerle dalla vita del Cavaliere quando mostrano una pericolosa aggressività. Sono spiegazioni del tutto urgenti ora che lo stesso premier ipotizza che ci possa essere la mafia dietro le rivelazioni di Ruby e Nadia.

Il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti è soltanto uno dei luoghi dove Berlusconi potrebbe (dovrebbe) far luce e dar conto di una irresponsabilità politica che lo spinge a confessare esplicitamente di non essere in grado di escludere che la sua condotta abbia messo a rischio la sicurezza del nostro Paese. È una questione che già è stata posta in parlamento da trentacinque senatori del Partito democratico. Con un'interpellanza interrogano Berlusconi sulla "potenziale ricattabilità del Primo Ministro italiano e dei rischi a cui potrebbero essere state esposte tutte quelle informazioni, anche segretissime, contenute nei dossier che Berlusconi è tenuto ad esaminare e che riguardano la difesa del nostro Paese e gli impegni cui siamo tenuti per l'appartenenza alla Nato". "La questione - spiega Luigi Zanda a Palazzo Madama - riguarda anche la sicurezza economica dell'Italia. Ad esempio, la delicatezza e la vulnerabilità della nostra posizione (ricordata anche dall'Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia), per i rifornimenti energetici e i nostri rapporti con mercati delicati come quelli della Russia e della Libia. Non è difficile comprendere come a un uomo di governo che tratta in prima persona affari di questa natura e di tale consistenza economica e geopolitica, venga richiesto di non ricevere a casa sua decine di donne sconosciute con tanto di registratori e di macchine fotografiche".

C'è una contraddizione che oggi Berlusconi è chiamato a risolvere. Perché egli non può, da un lato, temere di essere ricattato dalla mafia per la sua disordinata vita privata e, dall'altro, rivendicare con orgoglio quel disordine come quando dice: "Sono orgoglioso del mio stile di vita. Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva come terapia mentale per pulire il cervello da tutte le preoccupazioni, nessuno alla mia età mi farà cambiare stile di vita del quale vado orgoglioso".

Delle due, l'una. O Berlusconi si protegge dalle sue debolezze cambiando vita anche "alla sua età" in nome della responsabilità pubblica che liberamente ha voluto assumere. O le sue ossessioni compulsive glielo impediscono e forse deve ripensare al suo ruolo pubblico. E' un fatto certo che non può fare l'uno e l'altro. A meno che consumi un altro abuso di potere. A meno che non ci abbia raccontato un'altra menzogna e quella storia della mafia che lo minaccia con le parole di Ruby e Nadia sia la favola di un uomo in fuga da se stesso, disertore dagli impegni e oneri, uomo di Stato palesemente inaffidabile. Per quel che dice. Per quel che fa.

(05 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #173 inserito:: Novembre 09, 2010, 06:05:38 pm »

L'ANALISI

L'abuso di potere/11

di GIUSEPPE D'AVANZO

CHE cosa accade in Afghanistan ai nostri soldati? In quali operazioni sono impegnati? Qual è il grado di minaccia terroristica che incombe sull'Italia? Perché il presidente del consiglio ha ritenuto di tutelare con il segreto di Stato i rapporti tra il Sismi e la Telecom di Marco Tronchetti Provera, a proposito dei dossier raccolti abusivamente dalla società telefonica? Qual è l'interesse nazionale che ha convinto Berlusconi ad apporre il segreto di Stato all'archivio illegale messo insieme da Pio Pompa, braccio destro del direttore del Sismi Nicolò Pollari? E ancora: qual è il grado di accessibilità alle residenze del presidente del Consiglio?

Sono queste, più o meno, le domande che il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (ha funzioni di controllo sul lavoro dei servizi segreti) ha in animo di rivolgere al capo del governo. Come si vede, sono questioni connesse alla sicurezza nazionale; al destino e alle strategie delle nostre truppe in guerra. Sono problemi rilevanti come l'inviolabilità della privacy aggredita in modo illegale da una piattaforma pubblico/privata di spionaggio abusivo organizzata da un servizio segreto in collaborazione con una società telefonica.
 
Sono argomenti che meriterebbero una parola chiara del presidente del Consiglio i cui poteri sono stati rafforzati dalla legge del 2007 a svantaggio dei ministri della Difesa e dell'Interno. Ma Berlusconi fa orecchie da mercante. Finge di non sentire e, se sente, non se ne cura. Liquida come inutile o provocatorio quell'incontro. Teme che gli si chieda conto di quanto protette o violabili siano le sue abitazioni, troppo e mal frequentate. Ne nasce un muro contro muro. Berlusconi non ha alcuna intenzione di rispondere. Il Copasir non ha alcuna voglia di rinunciare al suo diritto-dovere di ascoltare il presidente del Consiglio che ha "l'alta direzione e la responsabilità generale" dell'intelligence e decide dell'"apposizione, la tutela e la conferma dell'opposizione del segreto di Stato". Mercoledì il comitato, presieduto da Massimo D'Alema, rinnoverà la richiesta di audizione del presidente del Consiglio "cui la legge n.124 del 2007 attribuisce in via esclusiva e non delegabile alcune competenze, sul cui esercizio il comitato ha il dovere di acquisire informazioni ed elementi di valutazione".

Ne può venir fuori un conflitto politico e istituzionale. Come può reagire il Copasir all'indifferenza del capo del governo? Deve accettare quel rifiuto e quel silenzio  -  dunque, quell'abuso di potere  -  o ci sono delle strade per costringere il premier a offrire informazioni e chiarimenti che egli solo può dare perché egli solo ha il controllo diretto delle politiche e dell'operatività delle strutture di intelligence? Escluso il conflitto istituzionale formalizzato dinanzi alla Corte costituzionale, si fa strada in queste ore un'altra procedura. In caso di nuovo rifiuto o di una nuova mancata risposta, il Copasir potrebbe approvare a maggioranza la richiesta di una mozione di censura che i presidenti di Camera e Senato potrebbero inserire nell'ordine del giorno dei lavori d'aula. Un'altra grana per Berlusconi. Un'altra possibile occasione per contarsi in una stagione in cui i numeri sono troppo ballerini per affrontare con serenità il voto delle assemblee.

Berlusconi vive come un incubo qualsiasi confronto che non si esaurisca nell'abituale, enfatico monologo autocelebrativo. Non gli importa dar conto dello stato del conflitto in Afghanistan o delle misteriose ragioni che gli hanno consigliato di coprire con un silenzio complice la più massiccia operazione di dossieraggio illegale dai tempi del Sifar. Quel che egli teme è altro e, come sempre, lo riguarda personalmente e molto da vicino. Il Cavaliere vede come un'occasione pericolosa dover rispondere anche all'elementare interrogativo sulle condizioni, regole e prassi di accessibilità alle sue residenze. Si è cacciato, come sempre, nei guai da solo. È stato lui stesso a ipotizzare che le giovani e giovanissime testimoni della sua vita disordinata siano in realtà strumenti di ritorsione di una mafia punita severamente dalla determinazione delle politiche del governo. Naturale che ci si interroghi sulla vulnerabilità di quelle case, delle sue ville e palazzi.

I luoghi abitati dal presidente del Consiglio custodiscono gli affari di Stato; meritano l'attenzione che si riserva ai luoghi di interesse pubblico. Già nel dicembre dello scorso anno l'autorità delegata ai servizi segreti (Gianni Letta) e i capi delle strutture furono chiamati a spiegare come proteggevano le residenze del premier travolte da fotoreporter (Antonello Zappadu) e ospiti armate di registratore e fotocamere (Patrizia D'Addario). Ora tutte le criticità già evidenti nel 2009 si sono riproposte. Se possibile, con quadri ancora più pericolosi, se si pensa ai racconti di Ruby e Nadia. Minorenni nelle ville del Cavaliere assistono a cerimonie erotiche. Prostitute vanno e vengono in quelle stanze, non controllate da nessuno. Alcune di loro sono in possesso del numero personale del capo del governo e non esitano a invocarne l'intervento quando si trovano nei guai. C'è poi il problema delle scorte del presidente. Quali sono gli incarichi che il capo del governo ha voluto affidare ai cinquanta uomini che, molti di provenienza Fininvest e in assoluta autonomia dalle gerarchie, lo tutelano? Chiarimenti che  -  si deve ripetere  -  sono necessari soprattutto se si ricorda che ad alcuni di quegli uomini dello Stato è stato assegnato  -  a quanto pare  -  il compito non istituzionale, improprio, illegittimo, umiliante di coordinare gli accessi delle ragazze in villa; di controllarne i comportamenti e le relazioni; di levarle dai guai quando vi si cacciano; di espellerle dalla vita del Cavaliere quando mostrano una pericolosa aggressività.

Per evitare domande a cui non può rispondere senza danneggiare se stesso (l'accessibilità delle sue ville), Berlusconi fugge anche dinanzi agli interrogativi cui deve e saprebbe rispondere (Afghanistan, minaccia del terrorismo, dossieraggi). A dimostrazione che sempre, abusando del suo potere, il capo del governo trasforma la sua convenienza privata in decisione pubblica. 

(09 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/09/news/l_abuso_di_potere_11-8902830/?ref=HREA-1
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« Risposta #174 inserito:: Novembre 14, 2010, 11:00:29 pm »

IL CASO

Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta del quieto vivere

Le critiche all'Ordine dei giornalisti per le sanzioni al direttore del Giornale "cancellano" le campagne dettate da Berlusconi, e costituiscono una lesione alla libertà di stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO


Una policroma assemblea di Tartufi ci sta spiegando che quando parliamo della sanzione inflitta a Vittorio Feltri, direttore editoriale de il Giornale, discutiamo di libertà di stampa. Nell'assembramento si scorgono personaggi solitamente compatibili come il cane e il gatto.

Per fare qualche nome: Pierluigi Battista, il liberale QC (quando conviene) del Corriere della sera, e l'inflessibile direttore de il Fatto Antonio Padellaro, "un comunista di merda" (la definizione affettuosa è di Feltri). Nella mischia, con il sorriso canzonatorio d'ordinanza fa capolino il direttore del Tg7, Enrico Mentana. Simula una furba equidistanza e appioppa ai suoi telespettatori una frottola: "... e comunque la notizia data da Feltri era fondata". Quel che accade non è nuovo perché è antica, nell'Italietta nostra, la tolleranza per i vizi altrui e stupefacente la capacità dell'establishment di perdonare e perdonarsi. Un lavoro comodo da sbrigare. Si afferra un fatto concreto, lo si frulla fino a farne un'astrazione e il gioco è fatto. La rimozione è compiuta, ora si può andare avanti con le cattive abitudini di sempre.

Le commosse geremiadi per la libertà di stampa, in questo caso, servono a nascondere all'opinione pubblica tre fatterelli concretissimi. Uno. L'assassinio mediatico di Dino Boffo, il direttore de l'Avvenire che, con prudenza, biasima l'Egoarca perché "frequenta minorenni". Due. Il falso indiscutibile di un giornalismo degradato a tecnica di intimidazione. E' quel che Mentana sottrae alla vista dei suoi spettatori: Feltri pubblica una "velina" fabbricata da non si sa chi, la presenta come una "nota informativa" inserita in un fascicolo giudiziario e accusa il direttore dell'Avvenire di omosessualità. Tre. Il character assassination di Boffo è soltanto la prima incursione di una pianificazione predisposta da chi governa per intimorire chi dissente. Svela una "macchina del fango". Mostra un letale dispositivo di potere che si alimenta di menzogne distruttive a fini politici. Chi si muove in nome e per conto di un meccanismo di questa violenza può invocare la libertà di stampa? Questo lavoro può dirsi giornalismo?

Conviene muovere da qui e ricordare quel che si vuole oggi cancellare e fare il nome che conta perché Feltri è soltanto il cinico interprete - nemmeno il più rilevante, come vedremo - di una bozza scritta da Silvio Berlusconi. Si può davvero affrontare questa storia di sicari senza fare il nome del mandante?

Va detto che Berlusconi conosce un solo modo per tenersi stretto un potere che non ha fini e conosce solo i mezzi. E' il lavoro pubblicitario di un giornalismo servile che annulla ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione che elimina ogni criterio di verità. E' un racconto che produce un'ignoranza delle cose e esibisce un'Italia meravigliosa e in pace con se stessa. Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Non si accontenta. Qualcuno lo ricorderà: non gli va giù l'autonomia dei direttori del Corriere (Paolo Mieli) e de la Stampa (Giulio Anselmi). "Dovrebbero cambiare mestiere", dice da Tirana. Esaudiscono il desiderio. Mieli e Anselmi davvero cambiano mestiere. Anime fioche fino ad ieri, gli occhiuti custodi della libertà di stampa di oggi non si accorgono di quel che accade alla libertà di stampa nemmeno quando perde il posto Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix. Sono momentaneamente muti e sordi e ciechi. Poi il premier si caccia nei guai festeggiando a Casoria una minorenne e, per fronteggiare la crisi, anche Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona. A Vittorio Feltri. Giordano spiega così le ragioni: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano è esplicito: l'editore mi ha chiesto di fare del mio quotidiano un'officina di veleni, il decoro me lo impedisce e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Notate l'elenco che mette giù Giordano: "direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati". E' esattamente il catalogo di target contro cui, appena insediato, Vittorio Feltri scatena la "macchina del fango" del suo falso giornalismo. "Assassina" Dino Boffo (il direttore dei giornali). Calunnia l'editore di questo giornale (ingegnere). Scredita Veronica Lario (first lady) accusandola di essere l'amante del suo caposcorta (body guard). Come un avvoltoio, scuote la tomba di Giovanni Agnelli (avvocato). Al povero Giordano non hanno detto (o Giordano l'ha taciuto nel commiato) che c'è un altro bersaglio - il più politicamente rilevante - nell'agenda predisposta dal Cavaliere: Gianfranco Fini. Feltri lo affronterà subito con modi da guappo: si rimetta in riga o gli faccio piovere addosso uno scandalo a luci rosse.

Chi non capisce ora che Feltri s'è trovato già pronto il copione da interpretare che l'altro, Giordano, conosce e si rifiuta di mettere in scena? Feltri si accontenta di un gioioso conto in banca e si compiace di apparire facendo la faccia feroce. Per il resto, non fa storie. Digerisce anche le pietre. Lo confessa. Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo. Feltri la pubblica. La foto di Veronica Lario - "velina ingrata" - a seno nudo? Che ne sa lui, gliel'ha messa sul tavolo Sallusti perché, sapete - confida Feltri - io, Berlusconi, non lo sento mai; lui sì, ogni giorno, a quanto pare. L'intervista che disonora Veronica Lario dicendola amante di Antonio Orlandi, body guard? E che ne so io - dice in confidenza a Luca Telese - "l'intervista l'ho letta ch'era già in pagina, l'aveva fatta Sallusti e non io...".

Facciamola corta, Vittorio Feltri - a credergli - non sa nulla. E' il direttore che non dirige, non controlla, non filtra, non sceglie.
Fanno tutto gli altri. I piani di battaglia vengono preparati ad Arcore da Berlusconi, editore e premier. Gli ordini sono trasmessi ad Alessandro Sallusti che s'incarica di infiocchettarli per bene e farseli vidimare da Feltri che non dice mai no e di suo aggiunge sessanta righe.

Una volta svelata la macchina del fango, scoperta la sua meccanica, portate a nudo le funzioni e i protagonisti, se ci fosse qualche traccia d'archetipo del sentimento morale - che so, vergogna e colpa - l'affare sarebbe chiuso. Sarebbero sufficienti quel che si chiamano "sanzioni di vergogna". Chi è responsabile di comportamenti scorretti viene escluso dall'ambiente. Sarebbe un danno ben più grave della sospensione di tre mesi dal lavoro (pensate soltanto al denaro che Feltri ci rimetterebbe). La "shame culture" sottintende però un'etica e la sua condivisione.

Come ci insegna la policroma assemblea di Tartufi, l'establishment giornalistico non ritiene che la perdita di reputazione - e soprattutto di credibilità - costituisca un danno per chi fa informazione. Chiede a gran voce che un Ordine dei giornalisti senza legittimità non infligga alcuna sanzione al "povero Feltri". Dicono: c'è il codice penale e civile per quello. Salvo poi, quando interviene la magistratura (come per i dossier in preparazione contro la Marcecaglia), strepitare come oche del Campidoglio contro l'invasione di campo del potere giudiziario.

C'è qui la stupefacente vittoria del mondo berlusconiano, il trionfo di una cultura che ignora i tormenti della coscienza infelice, rifiuta ogni regola per i suoi piani e argine per i suoi impulsi, pretende un'esenzione da ogni punizione perché così fan tutti. Non è vero, non tutti fanno così. Non tutti, come Feltri, hanno degradato l'informazione in comunicazione al servizio del potere trasformandola nell'ingranaggio di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti campagne di denigrazione. Feltri si accontenti dei tre mesi di sospensione.

Gli è andata bene. L'informazione non sentirà la sua mancanza. E' vero, mancherà alla comunicazione politica di Silvio Berlusconi, sempre che quello non si consoli con il veloce Sallusti.

(14 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #175 inserito:: Novembre 19, 2010, 10:23:45 am »

IL CASO

Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta del quieto vivere

Le critiche all'Ordine dei giornalisti per le sanzioni al direttore del Giornale "cancellano" le campagne dettate da Berlusconi, e costituiscono una lesione alla libertà di stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO


Una policroma assemblea di Tartufi ci sta spiegando che quando parliamo della sanzione inflitta a Vittorio Feltri, direttore editoriale de il Giornale, discutiamo di libertà di stampa. Nell'assembramento si scorgono personaggi solitamente compatibili come il cane e il gatto.

Per fare qualche nome: Pierluigi Battista, il liberale QC (quando conviene) del Corriere della sera, e l'inflessibile direttore de il Fatto Antonio Padellaro, "un comunista di merda" (la definizione affettuosa è di Feltri). Nella mischia, con il sorriso canzonatorio d'ordinanza fa capolino il direttore del Tg7, Enrico Mentana. Simula una furba equidistanza e appioppa ai suoi telespettatori una frottola: "... e comunque la notizia data da Feltri era fondata". Quel che accade non è nuovo perché è antica, nell'Italietta nostra, la tolleranza per i vizi altrui e stupefacente la capacità dell'establishment di perdonare e perdonarsi. Un lavoro comodo da sbrigare. Si afferra un fatto concreto, lo si frulla fino a farne un'astrazione e il gioco è fatto. La rimozione è compiuta, ora si può andare avanti con le cattive abitudini di sempre.

Le commosse geremiadi per la libertà di stampa, in questo caso, servono a nascondere all'opinione pubblica tre fatterelli concretissimi. Uno. L'assassinio mediatico di Dino Boffo, il direttore de l'Avvenire che, con prudenza, biasima l'Egoarca perché "frequenta minorenni". Due. Il falso indiscutibile di un giornalismo degradato a tecnica di intimidazione. E' quel che Mentana sottrae alla vista dei suoi spettatori: Feltri pubblica una "velina" fabbricata da non si sa chi, la presenta come una "nota informativa" inserita in un fascicolo giudiziario e accusa il direttore dell'Avvenire di omosessualità. Tre. Il character assassination di Boffo è soltanto la prima incursione di una pianificazione predisposta da chi governa per intimorire chi dissente. Svela una "macchina del fango". Mostra un letale dispositivo di potere che si alimenta di menzogne distruttive a fini politici. Chi si muove in nome e per conto di un meccanismo di questa violenza può invocare la libertà di stampa? Questo lavoro può dirsi giornalismo?

Conviene muovere da qui e ricordare quel che si vuole oggi cancellare e fare il nome che conta perché Feltri è soltanto il cinico interprete - nemmeno il più rilevante, come vedremo - di una bozza scritta da Silvio Berlusconi. Si può davvero affrontare questa storia di sicari senza fare il nome del mandante?

Va detto che Berlusconi conosce un solo modo per tenersi stretto un potere che non ha fini e conosce solo i mezzi. E' il lavoro pubblicitario di un giornalismo servile che annulla ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione che elimina ogni criterio di verità. E' un racconto che produce un'ignoranza delle cose e esibisce un'Italia meravigliosa e in pace con se stessa. Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Non si accontenta. Qualcuno lo ricorderà: non gli va giù l'autonomia dei direttori del Corriere (Paolo Mieli) e de la Stampa (Giulio Anselmi). "Dovrebbero cambiare mestiere", dice da Tirana. Esaudiscono il desiderio. Mieli e Anselmi davvero cambiano mestiere. Anime fioche fino ad ieri, gli occhiuti custodi della libertà di stampa di oggi non si accorgono di quel che accade alla libertà di stampa nemmeno quando perde il posto Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix. Sono momentaneamente muti e sordi e ciechi. Poi il premier si caccia nei guai festeggiando a Casoria una minorenne e, per fronteggiare la crisi, anche Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona. A Vittorio Feltri. Giordano spiega così le ragioni: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano è esplicito: l'editore mi ha chiesto di fare del mio quotidiano un'officina di veleni, il decoro me lo impedisce e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Notate l'elenco che mette giù Giordano: "direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati". E' esattamente il catalogo di target contro cui, appena insediato, Vittorio Feltri scatena la "macchina del fango" del suo falso giornalismo. "Assassina" Dino Boffo (il direttore dei giornali). Calunnia l'editore di questo giornale (ingegnere). Scredita Veronica Lario (first lady) accusandola di essere l'amante del suo caposcorta (body guard). Come un avvoltoio, scuote la tomba di Giovanni Agnelli (avvocato). Al povero Giordano non hanno detto (o Giordano l'ha taciuto nel commiato) che c'è un altro bersaglio - il più politicamente rilevante - nell'agenda predisposta dal Cavaliere: Gianfranco Fini. Feltri lo affronterà subito con modi da guappo: si rimetta in riga o gli faccio piovere addosso uno scandalo a luci rosse.

Chi non capisce ora che Feltri s'è trovato già pronto il copione da interpretare che l'altro, Giordano, conosce e si rifiuta di mettere in scena? Feltri si accontenta di un gioioso conto in banca e si compiace di apparire facendo la faccia feroce. Per il resto, non fa storie. Digerisce anche le pietre. Lo confessa. Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo. Feltri la pubblica. La foto di Veronica Lario - "velina ingrata" - a seno nudo? Che ne sa lui, gliel'ha messa sul tavolo Sallusti perché, sapete - confida Feltri - io, Berlusconi, non lo sento mai; lui sì, ogni giorno, a quanto pare. L'intervista che disonora Veronica Lario dicendola amante di Antonio Orlandi, body guard? E che ne so io - dice in confidenza a Luca Telese - "l'intervista l'ho letta ch'era già in pagina, l'aveva fatta Sallusti e non io...".

Facciamola corta, Vittorio Feltri - a credergli - non sa nulla. E' il direttore che non dirige, non controlla, non filtra, non sceglie.
Fanno tutto gli altri. I piani di battaglia vengono preparati ad Arcore da Berlusconi, editore e premier. Gli ordini sono trasmessi ad Alessandro Sallusti che s'incarica di infiocchettarli per bene e farseli vidimare da Feltri che non dice mai no e di suo aggiunge sessanta righe.

Una volta svelata la macchina del fango, scoperta la sua meccanica, portate a nudo le funzioni e i protagonisti, se ci fosse qualche traccia d'archetipo del sentimento morale - che so, vergogna e colpa - l'affare sarebbe chiuso. Sarebbero sufficienti quel che si chiamano "sanzioni di vergogna". Chi è responsabile di comportamenti scorretti viene escluso dall'ambiente. Sarebbe un danno ben più grave della sospensione di tre mesi dal lavoro (pensate soltanto al denaro che Feltri ci rimetterebbe). La "shame culture" sottintende però un'etica e la sua condivisione.

Come ci insegna la policroma assemblea di Tartufi, l'establishment giornalistico non ritiene che la perdita di reputazione - e soprattutto di credibilità - costituisca un danno per chi fa informazione. Chiede a gran voce che un Ordine dei giornalisti senza legittimità non infligga alcuna sanzione al "povero Feltri". Dicono: c'è il codice penale e civile per quello. Salvo poi, quando interviene la magistratura (come per i dossier in preparazione contro la Marcecaglia), strepitare come oche del Campidoglio contro l'invasione di campo del potere giudiziario.

C'è qui la stupefacente vittoria del mondo berlusconiano, il trionfo di una cultura che ignora i tormenti della coscienza infelice, rifiuta ogni regola per i suoi piani e argine per i suoi impulsi, pretende un'esenzione da ogni punizione perché così fan tutti. Non è vero, non tutti fanno così. Non tutti, come Feltri, hanno degradato l'informazione in comunicazione al servizio del potere trasformandola nell'ingranaggio di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti campagne di denigrazione. Feltri si accontenti dei tre mesi di sospensione.

Gli è andata bene. L'informazione non sentirà la sua mancanza. E' vero, mancherà alla comunicazione politica di Silvio Berlusconi, sempre che quello non si consoli con il veloce Sallusti.

(14 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #176 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:01:47 am »

IL COMMENTO

Il premier sotto ricatto

di GIUSEPPE D'AVANZO


Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli. Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti. Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia. La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti
inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino). Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti. Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza. A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino. Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza. Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia. L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi. È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare. Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.

(20 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/20/news/premier_ricatto-9303815/?ref=HRER1-1
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« Risposta #177 inserito:: Novembre 27, 2010, 04:43:50 pm »

L'ANALISI

Berlusconi, la teoria del complotto primo passo verso la campagna elettorale

Una filastrocca per giocare la carta dell'emergenza.

Gli eventi messi in fila da Frattini per gridare alla cospirazione non hanno alcun punto di contatto, nessuna coerenza

di GIUSEPPE D'AVANZO


Un complotto contro l'Italia, dunque. Il governo condivide la preoccupazione di Franco Frattini che esista una cospirazione, "una strategia diretta a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale". L'aggressione al nostro Paese, sostiene il ministro degli Esteri, si alimenta enfatizzando quattro crisi.

La tragedia delle tremila tonnellate di rifiuti che soffocano Napoli; il crollo della Domus dei Gladiatorii a Pompei; le investigazioni (fondi neri?) negli affari di Finmeccanica, il primo gruppo industriale italiano nel settore dell'alta tecnologia, tra i primi dieci player nel mondo per Aerospazio, Difesa e Sicurezza; le rilevazioni che Wikileaks si prepara a diffondere, cablogrammi diplomatici con accuse di corruzione, 2,7 milioni di e-mail che il Dipartimento di Stato americano ha scambiato con le rappresentanze diplomatiche nel mondo: conterrebbero "imbarazzanti commenti" su diplomatici e leader mondiali, ce ne sarebbe anche per il nostro Paese e per i nostri leader.

Gli eventi messi in fila da Frattini per gridare alla cospirazione non hanno alcun punto di contatto, nessuna coerenza. Anche a forzarne la lettura non possono "far sistema" e sistematico è sempre un complotto. È difficile sovrapporre o accostare l'archeologia ai rifiuti o i rifiuti ai sistemi di difesa, se si vuole stare ai fatti. Più agevole forse scorgere dei nessi ipotetici tra Finmeccanica e Wikileaks, tra il lavoro nel mondo del gruppo industriale e l'attività corruttiva che il sito di Julian Assange svelerà
nelle prossime due settimane.

Per farla corta, il complotto contro l'Italia denunciato da Frattini è troppo elaborato e, si sa, tanto più è elaborato un complotto, tanto meno è probabile che esista. Il solo filo che può tenere insieme i rifiuti, l'incuria per i nostri beni culturali, gli illegalismi (possibili) nella gestione di Finmeccanica e le e-mail di Dipartimento di Stato è l'immagine del Paese, la reputazione e l'affidabilità della sua leadership. Qui si può anche immaginare che i cablogrammi spediti dall'ambasciata americana da Roma a Washington possano fare disastrosamente la loro parte dando conto dell'ambiguità dell'"amicizia" tra Berlusconi e Putin, del legame tra il Cavaliere e Gheddafi, della natura occulta degli accordi economici tra Italia-Russia-Libia o addirittura delle scapestrate e irresponsabili abitudini private che rendono il nostro capo del governo ricattabile in qualsiasi momento. Anche in questo malaugurato caso, però, si può parlare di cospirazione o agitare - come fanno i corifei del Cavaliere - lo spettro di una "potente centrale politico-affaristica" che vuole distruggere il governo e impadronirsi del Paese?

È sufficiente soltanto il buon senso per impedirsi di dar credito a questo racconto. Se si parla di Napoli e della sua catastrofe ambientale è perché non c'è in Occidente un'altra città ridotta in questo stato o un altro governo che, dopo anni e miliardi di euro, non sappia mettere fine a quella sciagura. Se si parla di Pompei è perché nessuna altra civiltà (se si esclude l'oscurantismo dei Talebani) demolisce o abbandona alla distruzione i simboli della sua storia e della sua cultura. Se si deve raccontare di che cosa accade in Finmeccanica è perché un faccendiere legato a banditi, mafiosi, neonazisti e massoni (Gennaro Mokbel) riesce a mettere le mani, pagando 8 milioni e 300 mila euro, sul 51 per cento della società Digint, partecipata al 49 per cento da Finmeccanica Group, il fiore all'occhiello dell'industria nazionale.

Dov'è, che c'entra il complotto? Che c'entra il Burattinaio? E chi può esserlo, poi? Chi può credere decentemente che questi fatti non si sovrappongano per una coincidenza, per una causalità ma grazie al lavoro di un "potenza" ostile? Sappiamo che sempre la propaganda prospera dalla fuga dalla realtà nella finzione e che noi non crediamo alla realtà del mondo visibile e sempre più ci fidiamo più della nostra immaginazione, ma anche in questo caso un'opinione pubblica anche se ipnotizzata dal rumore dei media fa fatica a credere a un'onnipotenza che tutto comprende, a un onnipotente che tutto programma.

Se ne rende conto anche il governo, a tarda sera. Consapevole dell'inconsistenza di ogni spiegazione cospiratoria, Frattini deve correggere il tiro: "Non vi è un unico burattinaio, ma una combinazione di informazioni inesatte e di enfatizzazione mediatica di fattori negativi il cui risultato è dannoso per l'immagine dell'Italia". Un piano contro il quale il comunicato di Palazzo Chigi invoca "fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale e la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

Ora qualche nebbia sembra diradarsi. Dunque, i problemi non sono i fatti ma chi li racconta o chi deve accertarli. Per il governo, non bisogna riferire e riflettere su "i fattori negativi". Se lo si fa, ci si iscrive alla schiera dei cospiratori, ai nemici dell'Italia che minacciano l'immagine nazionale e gli interessi economici del Paese. Un atteggiamento, dice Berlusconi, "anti-italiano". È "anti-italiana" l'informazione. È "anti-italiana" la curiosità della magistratura per Finmeccanica. Eliminato il giornalismo e l'ordine giudiziario - sembra di capire - l'Italia del Cavaliere non avrebbe più problemi né macchie né angosce. Contro questi "nemici" il governo invoca "fermezza e determinazione". Quali saranno, viene da chiedere, gli strumenti, le iniziative o le leggi che l'esecutivo disporrà o approverà per difendere immagine nazionale e interessi economici?

Senza dubbio, si può anche beffeggiare quest'ultima trovata complottistica per coprire i sempre più fragorosi fallimenti del governo. Antonio Di Pietro lo fa disegnando un Frattini che alza troppo il gomito prima di prendere la parola in pubblico. Un minimalismo beffardo può essere un errore, però. Quando il potere spinge il cospirazionismo nel cuore stesso della vita politica di un Paese si deve sapere udire il suono di un pericolo, l'annuncio di un rischio. Si deve poter vedere non tanto la mediocre infelicità dell'iniziativa, ma la trama di una politica.
Lo si può dire così. Come si può giustificare lo stupefacente crollo di un regime politico incardinato in un leader carismatico e popolarissimo, sostenuto da una maggioranza politica numericamente inattaccabile e da un consenso quasi ipnotico? Se l'autorità politica è incapace di riconoscere le proprie responsabilità e la sua incompetenza, si fa strada soltanto un'altra possibilità: la soluzione cospiratoria che più rendere ragione dei fatti - di tutti i fatti accaduti - in modo unitario, senza coinvolgere il malgoverno, le inettitudini delle persone, l'inidoneità delle politiche. È una strada - la teoria del complotto - che offre anche un qualche ragionevole elemento di speranza. Se si individuano e afferrano "i cospiratori", se li si colpisce o in ogni caso si impedisce loro di nuocere ancora, la battaglia può essere vinta, l'Italia potrà essere liberata non da chi l'ha ridotta in miseria e rovina ma, con un rovesciamento di ruoli e responsabilità, da chi ne ha subito finora le disgrazie.

Non si deve trascurare l'irrompere nella "narrazione" del Cavaliere del cospirazionismo finora utilizzato per proteggere se stesso non per denunciare le minacce contro il Paese. È vero, il cambio di passo può essere semplicemente l'inizio della prossima campagna elettorale. La filastrocca la si può già sentire: una "potente centrale politica e finanziaria", con un complotto, mi ha impedito di governare e di fare gli interessi del Paese, datemi la maggioranza del 51 per cento e vi libererò da ogni nemico. Ma c'è anche un'altra possibilità che deve essere tenuta in considerazione. Che cosa può produrre la diffusione della leggenda di una cospirazione nello stato di insicurezza (percepito e concreto) che angoscia il Paese? Al crepuscolo della sua avventura politica, Berlusconi potrebbe essere tentato di giocare la carta dell'emergenza, una condizione straordinaria che, nell'interesse del Paese, richiede decisioni che sacrifichino le norme, un diritto liberato dalla legge.

"La creazione volontaria di uno stato d'eccezione - ha scritto Giorgio Agamben - è divenuta una della pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici". D'altronde, lo abbiamo sempre saputo che Berlusconi avrebbe trascinato il Paese nella sua caduta.


(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #178 inserito:: Novembre 29, 2010, 12:00:21 pm »

L'ANALISI

Perché allarmano i festini selvaggi

Da Noemi a Ruby gli scandali diventano questioni istituzionali.

Negli Usa dicono: il premier è più attento alle proprie fortune private che alla cosa pubblica

di GIUSEPPE D'AVANZO

Perché allarmano i festini selvaggi
Un premier accompagnato a Washington da "una profonda sfiducia". Un uomo "incapace, vanitoso". Un leader europeo "inefficace", "fisicamente e politicamente debole", sfibrato e fiacco di giorno dopo le lunghe notti bruciate in wilde partys, in orge e festini. Niente di più e niente di meno che un "portavoce di Putin" in Europa con il quale ha un rapporto "straordinariamente stretto".

Un rapporto mediato da un oscuro "intermediario italiano", santificato dalla comune cultura machista che riconduce quell'amicizia a "festini selvaggi". Un legame celebrato con "generosi regali" e lucrosi e redditizi contratti energetici. Berlusconi potrà anche riderci sopra, come fa sapere, ma il profilo del premier che, secondo el Pais, New York Times, Guardian, Der Spiegel, la diplomazia americana affida al Dipartimento di Stato è avvilente. Anche nei pochi, pubblici scampoli di informazioni - un nulla rispetto ai tremila cablogrammi "italiani" che saranno resi noti nei prossimi giorni - il nostro capo di governo appare un politico inaffidabile, prigioniero di una vita disordinata, vanaglorioso fino al parossismo, indifferente al destino dell'Europa, apparentemente distaccato anche dalle sorti del suo Paese, attratto soprattutto dal versante affaristico della politica.

L'immagine di un Berlusconi attento alle proprie fortune private - più che alla cosa pubblica che è stato chiamato ad amministrare - è così radicata a Washington
che addirittura convince, all'inizio di quest'anno, il segretario di Stato americano Hillary Clinton a chiedere alle ambasciate di Roma e di Mosca "informazioni su eventuali investimenti personali" di Berlusconi e Putin che "possano condizionare le politiche estere dei due Paesi". Come se i due "amici" conducessero gli affari di Stato nell'interesse del proprio portafoglio. Bisognerà leggere con attenzione il contesto in cui fioriscono questi giudizi. Berlusconi in un dispaccio è definito "un alleato preziosissimo" anche se sembra di capire più per la sua debolezza che lo rende manipolabile che per le sue convinzioni politiche e scelte geopolitiche. Bisognerà soprattutto valutare la qualità delle "fonti" dell'ambasciata americana a Roma, avere conferme che siano - come qualcuno suggerisce - "di assoluta fiducia" del presidente del Consiglio.

Perché non dirlo? I documenti riservati della diplomazia americana diffusi da Wikileaks rivelano il Berlusconi che conosciamo e che ostinatamente metà del Paese non può "riconoscere" perché non sa, perché buona parte dei media controllati o influenzati dal Cavaliere non possono né vogliono raccontarglielo. E' il premier che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, purtroppo: fragile come può essere fragile chi vive un mondo abitato soltanto da se stesso; debole come è debole chi conduce una vita magnetizzata dal proprio interesse particolare; inadatto a governare come i suoi fallimento dimostrano ogni giorno; vulnerabile come chi conduce una vita caotica e quindi inaffidabile per chi deve condividere con lui decisioni, scelte, una politica.
Oggi più di ieri, alla luce dei dispacci della diplomazia americana, appare malinconico il tentativo del presidente del consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare gli scandali che lo hanno visto protagonista negli ultimi diciotto mesi come "spazzatura", come gossip, come violazione della privacy presidenziale. Se il premier riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo; se in quei palazzi (Villa San Martino, Villa Certosa e Palazzo Grazioli) si consumano ogni settimana "festini selvaggi" con decine di giovani donne - alcune minorenni - reclutate alla meno peggio da talent scout professionisti o improvvisati, a volte per disperazione anche sul marciapiede; se gli incontri del Cavaliere con Putin perdono ogni crisma di ufficialità per farsi, in luoghi protetti da occhi indiscreti, personali e riservati con un'agenda che non ha nulla di politico, è un obbligo fare di quelle faccende un "caso" politico. Non si possono nascondere queste abitudini del potere sotto il tappeto come se fossero trascurabile polvere perché quegli affari raccontano la vulnerabilità di Berlusconi, interpellano la credibilità delle istituzioni e, come Repubblica va dicendo da tempo, minacciano la sicurezza nazionale, la reputazione internazionale del nostro Paese. Con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), la riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non ha consentito e non poteva consentire a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui si è cacciato da solo e con la colpevole complicità di chi gli è stato accanto in questi anni.
Dispiace cadere nel convenzionale, ma ora i nodi stanno venendo al pettine e non c'è stato mai un dubbio che questa crisi prima o poi dovesse scoppiare. Perché non ci volevano doti da indovino per comprendere che se sono in giro centinaia di ragazze, protagoniste di quei "festini selvaggi", il capo del governo può essere umiliato e ricattato in ogni momento. Era sufficiente chiedersi dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso e concludere che il progressivo disvelamento della vita scapestrata del premier e della sua fragilità privata, che non poteva sfuggire ai nostri partner e al nostro maggiore alleato, rendeva immediatamente Berlusconi indegno della sua responsabilità pubblica, inattendibile per gli alleati e, nel contempo, screditato il nostro Paese nel mondo.

Mettiamo in fila quel abbiamo saputo in quest'ultimo anno e mezzo. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento, in qualche caso minorenni; la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura politica. Davvero ci possiamo oggi stupire se Berlusconi appare a Washington un frivolo inetto, meritevole di "una profonda sfiducia", preoccupato soltanto di organizzare i suoi wilde partys, del tutto disinteressato alla sua diurna agenda di lavoro di un capo di governo? E poi davvero così sorprendente dover oggi trarre delle conclusioni a proposito dell'adeguatezza di Berlusconi alla sua carica pubblica? Lo ha fatto questo giornale e la questione è stata posta anche in parlamento da trentacinque senatori del Partito democratico. Con un'interpellanza interrogarono Berlusconi sulla "potenziale ricattabilità del Primo Ministro italiano e dei rischi a cui potrebbero essere state esposte tutte quelle informazioni, anche segretissime, contenute nei dossier che Berlusconi è tenuto ad esaminare e che riguardano la difesa del nostro Paese e gli impegni cui siamo tenuti per l'appartenenza alla Nato".
"La questione - spiegò il senatore Luigi Zanda con parole che oggi sembrano un vaticinio - riguarda anche la sicurezza economica dell'Italia. Ad esempio, la delicatezza e la vulnerabilità della nostra posizione (ricordata anche dall'Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia), per i rifornimenti energetici e i nostri rapporti con mercati delicati come quelli della Russia e della Libia. Non è difficile comprendere come a un uomo di governo che tratta in prima persona affari di questa natura e di tale consistenza economica e geopolitica, venga richiesto di non ricevere a casa sua decine di donne sconosciute con tanto di registratori e di macchine fotografiche". "Festini selvaggi" e affari energetici, l'avventura politica di Berlusconi pare essere tutta qui.

(29 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #179 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:20:03 pm »

I teoremi del gran bugiardo

di GIUSEPPE D'AVANZO

Berlusconi torna a parlare di complotto: "Qualcuno paga le ragazze per screditarmi", dice. Vero o falso? Abbiamo capito da qualche tempo che al fondo del "caso Berlusconi" c'è "una nuova civilizzazione" che abolisce l'idea stessa di verità. È un dispositivo che rende indifferente sulla scena politica l'attendibilità del premier.

Perché egli  -  abusando del suo potere e del conflitto di interessi che lo protegge  -  si può cucinare la verità come meglio gli conviene in quel momento, salvo poi prepararsene ancora un'altra, il giorno dopo. Quanto valgono le parole dette dal presidente del Consiglio? Vanno prese sul serio o liquidate con un'alzata di spalle? Bisogna decidersi. Non può sfuggire che le grida di Berlusconi  -  "È tutto falso, qualcuno paga quelle ragazze che raccontano dei festini"  -  siano il nucleo stesso di un sistema politico che cancella ogni distinzione tra vero e falso. Con quel grido il premier elimina, non solo le sue parole  -  appena ieri ci ha raccontato come quelle feste con venti, trenta giovani e giovanissime donne lo rilassino, "una, due volte alla settimana"  -  ma esige che siano cancellati i ricordi nella mente dell'opinione pubblica e i fatti concreti: le parole delle minorenni Noemi e Ruby; la memoria di Nadia e di Terry; addirittura le voci e le immagini raccolte da Patrizia. Berlusconi pretende che sia accettato il suo personale canone secondo il quale è
vero ciò che egli dichiara vero. Punto. Nel suo mondo di cartapesta, la verità degradata a "credenza" dura un solo giorno e il Gran Bugiardo che l'ha fabbricata non può mai essere accusato di mentire perché ha abolito l'idea stessa di verità.

Sappiamo che per Berlusconi funziona così e tuttavia, per una volta, lasciamo in un canto la necessità di stabilire quanta menzogna possa sopportare una democrazia prima di collassare e prendiamo molto sul serio le sue parole.

Dunque, sostiene Berlusconi: quel che riferisce l'ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato è falso. Non ci sono "festini", tanto più "selvaggi": "le ragazze che ne parlano sono pagate". Ora anche qui, lasciamo al senatore Gaetano Quagliariello la convinzione che Via Veneto copi Repubblica e dimentichiamo  -  come assicura chi ha avuto modo di consultare la corrispondenza diplomatica  -  che quelle informazioni sono state fornite ai diplomatici Usa da "ambienti della coalizione di maggioranza, del governo, del Parlamento e da ambienti dell'imprenditoria". Diamo per accertata la buona fede di Berlusconi quando rivela che c'è un qualche potere, "entità", manina, manona che paga quelle ragazze per accusarlo di una patologica satiriasi. È evidente che la storia non può finire qui, con una "verità" del giorno che sarà presto cancellata dalla "verità" del giorno dopo. Se c'è in giro  -  come giura il Cavaliere  -  chi paga delle prostitute o delle minorenni per calunniarlo, in gioco non c'è soltanto la rispettabilità del cittadino Silvio Berlusconi da Arcore, ma un interesse nazionale che obbliga lo Stato in tutte le sue articolazioni a proteggere il capo del governo; a fare luce sulla manovra che vuole screditarlo; a individuare i cospiratori che lo minacciano. A prendere molto sul serio il presidente del Consiglio, si deve credere che egli sia in grado di documentare le sue accuse.

Le storie dei suoi "festini" sono sotto gli occhi dell'opinione pubblica dall'aprile del 2009 quando divenne pubblica l'amicizia del settantaquattrenne Cavaliere con la minorenne Noemi Letizia. Si deve pensare che in questi mesi il capo del governo abbia messo sotto pressione i servizi segreti (magari anche spioni privati e non solo Niccolò Ghedini) per venire a capo delle ragioni di un rosario di eventi e confessioni che ha svelato abitudini personali che sono molto pericolose per uno statista. Si deve credere che l'intelligence gli abbia potuto offrire in questo tempo un quadro dello stato delle cose e magari anche il profilo o i nomi dei possibili cospiratori.

D'altronde, tra le tante "verità del giorno", appena due settimane fa, Berlusconi indicò nella mafia il mandante della crisi innescata dalle dichiarazioni di Ruby Rubacuori, la minorenne venuta dal Marocco: "Nessuno può negare  -  disse  -  che alcune delle cose che accadono siano una vendetta della malavita". Accusa che non ha più ripetuto. Ora pare giunto il momento di scoprire le carte, se carte ci sono nelle mani di Berlusconi. Il percorso non è tortuoso. Gli interlocutori del capo del governo, nella grammatica istituzionale, sono due: il Parlamento e la magistratura. Il capo del governo accetti di incontrare una buona volta il Copasir, come gli fa obbligo la legge. Sveli la trama che assedia la sua persona e il suo governo. Subito dopo, raggiunga una procura della Repubblica, magari quella di Milano dove è già aperta un'inchiesta contro coloro che conducono giovani donne alle feste di Arcore. Affidi ai quei pubblici ministeri i dossier che gli sono stati consegnati dall'intelligence. Confidi ai magistrati i suoi ricordi, le sue angosce, l'intuizione che di certo avrà su chi corrompe quelle ragazze per danneggiarlo. Nell'interesse del Paese, collabori a smascherare il complotto e i cospiratori. Offra il suo doveroso servizio alla sicurezza e all'integrità dell'Italia. Berlusconi non ha altre strade da percorrere a meno che non voglia essere considerato un uomo incapace di assumersi le sue responsabilità e un Gran Bugiardo.

(30 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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