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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 99485 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Marzo 17, 2008, 09:51:09 am »

CRONACA

Oggi la caserma non è più quella di allora: cancellati i "luoghi della vergogna"

Manganellate, minacce, umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di 300 testimoni

Le violenze impunite del lager Bolzaneto

 di GIUSEPPE D'AVANZO


C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.

B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla coerenza"?

(17 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 21, 2008, 05:25:57 pm »

POLITICA

L'ITALIA CHE CAMBIA.

L'area tra Varese e Bergamo tra Malpensa e Orio al Serio, laboratorio della modernità

La rivoluzione Pedemontana "Abbiamo capito la nostra gente"

Quella piccola grande società dell'"homo padanus"

dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO


 MARIO Fusetti, tanto per fare un nome. Se ne sta un po' discosto, al banco del bar nella casa patrizia ben restaurata che a Turate, "comune della Lega" - Turaa, in insubre - accoglie municipio, centro anziani, le feste dei più piccoli. Mario, visto da lontano, appare sereno nel sabato libero dal lavoro dell'officina. Ha un sorriso calmo e beve la sua barbera. Conversa leggero con gli altri artigiani. Quella conversazione dabbene, non interrotta da squilli telefonici, chiacchiere urlate o furenti o lagnose. Niente di trascendentale, per carità. Qualche pensiero marginale, qualche racconto fugace, un moto sfottitorio tra gente che si rispetta. Le parole globalizzazione, mercato, concorrenza incuriosiscono Mario.

Si avvicina. Ti stringe la mano con la sua mano larga, spessa e dura come pietra. Siede accanto. Vuol dire la sua "perché - è l'esordio - io so come vanno queste cose". Bisogna sapere ora chi è il Fusetti, fabbro ferraio, "artigiano della forgia e dell'incudine", specializzato nella fabbricazione di ferri di cavallo. Un maniscalco, ma non un maniscalco ordinario. Il Fusetti è un campione della mascalcia. Cinquant'anni fa, primo tra tutti al mondo, cominciò a fare i "ferri" in lega d'alluminio. Mario, con il fratello, progettò ferri stampati a benda larga e grossa per i cavalli da concorso e da sella.

Il loro vantaggio rispetto al ferro classico in acciaio è, sì, nella maggiore leggerezza ma - "tosto" e "morbido" com'è l'alluminio - soprattutto nella maggiore protezione e nella migliore capacità d'assorbire urti e vibrazioni. L'alluminio, per di più, permette al cavallo d'imprimere in poco tempo un'usura "personalizzata" ai ferri. Si consumano e "stondano" in alcune parti maggiormente rispetto ad altre, così da diventare in un certo senso "ortopedici". "Erano ferri che facevamo solo noi, al mondo - dice Mario - Francesi e olandesi ce li invidiavano. Li vendevamo dovunque. Ora sono apparsi le copie cinesi e colombiane del nostro lavoro e io e mio figlio peniamo un po', ma non è quello che importa. Ho ormai 78 anni. Lavoro ancora perché non mi piace fare altro, ma una cosa la voglio dire anch'io. Ci sarà sempre chi copierà quel che fai. Oggi sono i cinesi, domani lo sa Dio chi. Il problema non è questo. Non è solo questo. Il problema più grande è un altro. E' sempre più difficile inventare cose nuove e nuovi modi per produrle, ma dobbiamo farlo se vogliamo stare al mondo. Non si può sperare sempre di indovinarla. Abbiamo bisogno di aiuto. E' questo aiuto che non sentiamo o sentiamo poco".

* * *

La "questione settentrionale" - comunque la si voglia chiamare, "malessere del Nord" o trionfo impetuoso della Lega di Umberto Bossi - si può raccontare dall'alto e dal basso. A partire dalle frustrazioni e dalle paure o da un'energia sociale inesauribile, inappagabile ma sotto pressione. La "questione", la si può soffocare o confonderla nel tema monocorde e isterico della "sicurezza" con il consueto corollario di invocazioni sicuritarie a "tolleranza zero" e inaccettabili tassi di xenofobia. O se ne può vedere con realismo e disincanto la modernità; riconoscerne finalmente i protagonisti e il potere assoluto rivendicato da una nuova individualità contemporanea "intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certa della "naturale bontà" dei propri appetiti, bisognosa però di protezione perché incapace di vera solitudine"; pronta a farsi massa e folla non appena i suoi "diritti" appaiono minacciati.

E' dunque l'homo padanus - l'homo democraticus di Tocqueville sarebbe meglio dire con Massimo Cacciari - il grande assente nel dibattito politico post-elettorale. Ancora oggi il discorso pubblico ne ignora le forme - con venti anni di ritardo rispetto alle ricerche degli analisti sociali, gli studi degli storici, le riflessioni dei filosofi, le indagini dei sociologi urbani - e liquida la consapevolezza che (ancora parole di Cacciari) "tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull'"interazione" e lo "scambio" con quest'individualità". Che non è un'invenzione o uno spettro. E' concretissima, fatta di carne, sangue, desiderio, smarrimento, soggettività. Presenze. Le si può rintracciare in modo clamoroso in quella vasta area pedemontana lombarda tra Varese e Bergamo, tra l'aeroporto di Malpensa e lo scalo di Orio al Serio, "il laboratorio più significativo delle ricadute della modernità - dice Aldo Bonomi - un territorio ove convivono l'intreccio tra ipermodernità, maturità del sistema produttivo, comunità locali di paese e capitalismo personale".

I numeri che si raccolgono in questo territorio sono impressionanti.
Quattro milioni e mezzo di abitanti (e "produttori", "utenti", "clienti"). Tre milioni e 100 mila autoveicoli in coda perenne, privi di infrastrutture strategiche: "la strada che non c'è", la Pedemontana lombarda, verrà - se verrà - non prima del 2015 come la Brescia/Bergamo/Milano e il raddoppio della Milano-Brescia. 475 mila imprese. Dieci punti di prodotto interno lordo.

Cinque distretti industriali. Mobile. Seta. Tessile. Metalmeccanico. Agroalimentare. Informatica.
Telecomunicazioni. Un milione e 600 mila posti di lavoro. Un serpente ininterrotto di capannoni, megastore specializzati, discoteche, ipermercati, villette con giardino. Una "città infinita" dove spontaneamente si sperimentano, senza i principi ordinatori della politica, alchimie sociali che riscrivono, con mobilità, rapidità, cinismo, individualismo, i codici dell'esistenza e del vivere quotidiano. Una "fabbrica orizzontale", a cielo aperto e senza mura, lunga cento chilometri, frammentata in un pulviscolo di medie e piccole imprese, lavoro artigiano, lavoro sommerso, lavoro nero, lavoro in affitto dove si concentra e sovrappone "il massimo di innovazione e il massimo di mediocrità" e dovunque "capitalisti personali" che chiedono - spiega ancora Aldo Bonomi - "un'affermazione soggettiva, la possibilità di rendere vincente un'idea, un progetto, la propria personale realizzazione in un gioco che mette in discussione la stessa soggettività delle persone, i loro interessi, ma anche i loro gusti, preferenze, perfino i loro affetti e passioni".

E' in questo caos lavico che gli amministratori della Lega Nord hanno costruito il loro sorprendente successo e conviene chiedersene il perché senza lasciarsi lusingare soltanto dalla ragione più elementare della "protesta", dei borbottii della "pancia", del rancore localistico, della sindrome della paura liquida. Che sembra spiegare tutto e, poco o troppo poco, spiega.

* * *

Leonardo Carioni è molte cose nello stesso tempo. Piccolo imprenditore tessile dell'orditura, capannone più grande di quello costruito vent'anni fa dal padre dietro casa (ne mostra con orgoglio la lunghezza delle linee di lavorazione), dodici addetti quasi tutti "di famiglia" se si escludono un paio di immigrati dal Maghreb. Sindaco leghista di Turate, con il 45 per cento dei consensi.

Presidente della provincia di Como con il 65 dei voti. Carioni è un uomo concreto, essenziale. Se gli si parla del Carroccio più conosciuto e temuto - la Lega della "linea dura contro l'immigrazione" - non si tira indietro, naturalmente.
Scioglie la lingua nella prevedibile giaculatoria, poi si ferma però e, con una smorfia, avverte che "da queste parti la sicurezza non è tutto. E' vero, alziamo la voce, facciamo la faccia feroce. Anch'io voglio che i vigili urbani abbiano il potere di entrare nelle case degli immigrati per verificare quanti e chi e con quali permessi di soggiorno vi abita. La sicurezza ci permette di stringerci al nostro popolo, di farlo sentire protetto. Ma, detto questo, i veri problemi non finiscono qui. La Lega ha cominciato da qui. Non si è fermata qui. Non so se è chiaro, ma non lo scriva che mi mette nei guai con i miei".

No, non è chiaro. Per questo va scritto. Dice Carioni (e sogghigna) che, "per fortuna", nessuno ha ancora capito il lavoro degli amministratori della Lega sul territorio. "La nostra gente, smarrita, non ci chiede soltanto di essere rassicurata dinanzi a paesi che non riconosce più e comunità sconvolte dal cambiamento. Certo siamo partiti, venti anni fa, da questi sentimenti prepolitici. La minaccia della secessione è stata figlia di quel tempo. Ma ricordo che Gianfranco Miglio mi diceva di studiare e di capire, di capire e di studiare. E io l'ho fatto. Un po' tutti, in Lega, lo abbiamo fatto. Abbiamo avuto dieci anni per farlo e non abbiamo gettato via il nostro tempo. Sul territorio, al lavoro nelle amministrazioni cittadine, provinciali, regionali, abbiamo capito che la nostra gente ci chiedeva di essere aiutata nei loro interessi, accompagnata a connettersi con il mondo. Ci chiedeva strade, autostrade, aeroporti. Chiedeva, come il Fusetti, intelligenza per innovare i prodotti e i modi di produrli. E noi ci siamo rimboccati le maniche e, passo dopo passo, siamo diventati credibili in questa missione difficile e non soltanto nel più facile lavoro dei nemici dell'immigrazione clandestina. Guardi, come dal basso, stiamo cambiando il volto dell'area pedemontana".

Anche gli analisti sociali concordano. E' vero, in quel territorio ci sono gli "orfani del fordismo" che devono essere rassicurati; le microimprese "stressate" da un futuro incerto e dai rischi del mercato; gli "spaesati" dalla nuova morfologia urbana e umana delle comunità prealpine e alpine, ma la leva che i giovani amministratori della Lega muovono sono altre. Sono le nuove élites gelose della propria autonomia. Sono nuovi ceti orgogliosi della propria creatività. Sono - élites e ceti - convinti che la loro pretesa di "integrale" libertà debba essere rispettata. Ne chiedono la difesa.

Come vogliono che sia tutelata l'idea che il proprio particolare interesse sia "universale". Chiedono alla politica soprattutto modernizzazione riconoscendole soltanto "un esercizio di giurisdizione" che consenta il libero gioco delle forze in campo: e che vinca il migliore, il più forte. Pretendono che le funzioni dello Stato siano "servili", per dir così. Siano - come peraltro predicava già Carlo Cattaneo - esclusivamente al servizio delle scelte del cittadino "industrioso", il solo che può garantire benessere a se stesso e, per conseguenza, progresso della società.
"E' dal basso - dice Carioni - che stiamo cambiando le cose". Non ha torto.

Il metalmeccanico, ti spiegano, è diventata motonica. La meccanica meccatronica. Gli enti locali, le camere di commercio, le banche popolari promuovono, "dal territorio e sul territorio", connessioni e saperi: le università (Insubria, il Libero Istituto Universitario, in provincia di Varese, il Politecnico di Lecco - Como); centri di eccellenza per la diffusione delle tecnologie.
Nascono, con il sostegno e la spinta delle amministrazioni locali, consorzi per l'export, per il marketing, per l'innovazione tecnologica, per le innovazioni di stili e prodotti. E' la riduzione completa della società politica nella società civile. E' l'invocazione di una prassi di governo come esclusiva protezione dell'interesse personale dell'homo democraticus.

Nello spazio vuoto da altre presenze politiche pare muoversi soltanto l'amministratore del Carroccio, il solo attore capace di parlare con crudezza e coerenza questo linguaggio della contemporaneità.
Roma, la politica, il ceto politico, le sue pratiche, avvistati da qui sono lontani come la Terra è distante dalla Luna. Perché l'homo padanus vive in un permanente presente che non consente - gli è insopportabile - differimenti, ritardi, rinvii, ripensamenti, intrusioni. Per toccarlo con mano bisogna risalire il lago di Como e incontrare, a Musso, quel genio di Meco Lillia.


* * *

Meco è un uomo gentile e generoso. Per essere un laghèe, è accogliente e festoso come un mediterraneo. Non accetta di raccontarsi e discutere se non in un piccola casa in pietra accanto al vecchio cantiere in ristrutturazione tra il cimitero e le acque del Lago. Offre salame, formaggio, un bicchiere di vino rosso, frizzante, al gusto di fragola. Meco non è nemmeno leghista. Si definisce "un moderato" con una passione per le memorabilia di Mussolini e un rispetto autentico per tutti coloro che fanno politica. Ma non è questo che conta. Conta che Meco fa le più veloci barche a vela del mondo, le più innovative, competitive, vincenti.

Per stare soltanto agli ultimi anni: campionato del mondo 2003; Olimpiadi 2004; campionati del mondo 2005, 2006, 2007. Sono barche della classe "Star" (lunghezza fuori tutto 6.92 metri, larghezza massima 1 metro e 73, pescaggio un metro, peso 671 kg). Meco se le cuoce da solo in resine epossidiche, con il figlio Stefano e sette addetti (quattri polacchi), in una vecchia filanda. Ne vengono fuori scafi puliti, leggeri, resistenti, con chiglie a controllo numerico levigate al millesimo di millimetro. Le esporta per il 96 per cento in tutto il mondo, in Nuova Zelanda, in Brasile, negli Stati Uniti.

Piacevano a Gianni Agnelli. Piacciono a tutti coloro - i migliori - che poi finiscono skipper o tattici sui grandi scafi ipertecnologici dell'America's Cup. Dice Meco che "le cose si fanno con passione o non si fanno". Preferisce parlare del suo mondo, dei suoi molti amici, della sua passione, del piacere che dà la perfezione del lavoro. Se gli parli di Roma, fa spallucce.

Se gli parli del successo della Lega, gira al largo. Se gli parli delle cose pubbliche, se la sbriga presto: "Vorrei soltanto che non mi facessero perdere tempo". Meco glissa non per riservatezza o scontrosità. Perché, semplicemente, non gli importa.
Quest'indifferenza è un sentimento ordinato, ponderato, sereno.
Come molti nell'area della pedemontana, Meco, homo democraticus e padano, si è messo da parte con la sua famiglia e i suoi amici. Si è creato una piccola società a proprio uso. Può abbandonare volentieri la grande società a se stessa.


(21 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:15:18 am »

CRONACA IL COMMENTO

Paura e propaganda

di GIUSEPPE D'AVANZO


Gianfranco Fini se ne va per mercati in passeggiata elettorale "controllando" il permesso di soggiorno degli ambulanti. Se voleva documentare il disordine, non gli va troppo bene. Al semaforo di Forte Boccea, il venditore di accendini, egiziano, mostra i documenti in ordine.

Più avanti altri due egiziani. Altri due permessi di soggiorno esibiti. Conclude il prossimo presidente della Camera dei Deputati (ride, ma non deve essere molto soddisfatto): "Dico, non è possibile che tutti siano in regola, mi sa proprio che i documenti se li comprano... ".

Altra città. Altra scena. Bologna. Il consiglio comunale approva un ordine del giorno per dotare la polizia municipale di spray urticanti e "manganelli", da usare nelle intenzioni soltanto per legittima difesa perché tra la pistola e le mani nude ci deve essere uno strumento intermedio, si sente dire. Sempre Bologna. Il sindaco Sergio Cofferati non gradisce che si parli di "ronde", ma conferma che saranno chiamati "volontari" a svolgere "compiti di assistenza alla cittadinanza più debole e a segnalare comportamenti scorretti o pericolosi".

Sembra diffondersi, come un'onda impetuosa, una sicurezza "fai da te". Ogni maggioranza comunale, ogni sindaco, ogni partito con troppo o pochi voti, agita la questione per proprio conto, con una propria iniziativa - "ronde", "volontari", ordinanze contro lavavetri, controlli del reddito degli immigrati. Una babele dove quel che conta, non pare essere l'efficacia dell'iniziativa, la sua coerenza con una "politica", ma l'eco mediatica che avrà, il dividendo politico che sarà possibile incamerare pronta cassa. Non c'è di niente di peggio - e di più dannoso - che l'approssimazione, quando si hanno di fronte problemi seri.

Abbiamo imparato, nel corso del tempo, a capire che le politiche pubbliche in tema di sicurezza ridisegnano il profilo stesso della società (mai che si ascolti un qualche ragionamento, a questo proposito); che molte esperienze hanno messo in dubbio l'efficacia delle politiche criminali nel controllo dei conflitti e dei fenomeni illeciti; che il senso di insicurezza non è necessariamente connesso all'esistenza di pericoli "concreti", ma spesso ha a che fare con il genere, l'età, l'esperienza di vita, la familiarità con l'ambiente in cui si vive, il senso di appartenenza a una comunità.

Ilvo Diamanti ci ha spiegato come l'insicurezza sia un sentimento diffuso, che riflette un timore concreto, reale; ma anche un'inquietudine più nebbiosa. Non è un scherzo affrontare, con politiche pubbliche efficaci e condivise, la sovrapposizione della Paura, figlia di uno spaesamento esistenziale, con le paure provocate da minacce concrete. Appena l'anno scorso l'Osservatorio Demos-Coop, ha documentato come "entrambi i sentimenti stanno montando, senza freni". L'83% degli italiani ritiene che negli ultimi 5 anni la criminalità, nel nostro Paese, sia cresciuta. Nella precedente rilevazione, che risale a 2 anni fa, questa percentuale era già alta: 80%. È cresciuta ancora. È aumentata l'insicurezza locale. Nel 2005, il 34% delle persone percepiva in crescita l'illegalità nella zona di residenza.

Oggi, quella componente è salita di oltre 10 punti percentuali. Ha superato il 44%. L'incertezza - è la conclusione delle ricerca - si sta insinuando nel nostro mondo, nelle nostra vita. Intorno a noi. Dentro noi stessi. Stentiamo a trovare un rifugio nel quale sentirci protetti. Infatti, il 57% delle persone si dicono preoccupate della criminalità nella zona in cui vivono. Quasi 10 punti più di due anni fa.

Si può affrontare una catastrofe "emotiva" e concretissima così imponente con qualche alzata d'ingegno, con una mossa del cavallo, con un'iniziativa propagandistica e qualche posa gladiatoria? Non pare. Eppure è quel che accade in un clima di allegra spensieratezza secondo un canovaccio che attribuisce alla "destra" la capacità di "combattere la criminalità". Lo pensa il 40% degli italiani mentre solo il 18 riconosce una qualche fiducia al centrosinistra che appare debole, incerto, incapace di comprendere, spiegare, affrontare il fenomeno. E proprio per questo è chiamato a dotarsi ora di una "cultura della sicurezza" moderna, non ideologica, arricchita dai valori del rispetto della dignità della persona.

A giudicare da quel che si è visto ieri, e nei giorni addietro, "destra" e "sinistra" sembrano muoversi nella stessa direzione sbagliata. Frammentarietà e approssimazione degli interventi. Qualche sceneggiata propagandistica. Che finiranno soltanto per aumentare la percezione di insicurezza che affligge il Paese.

(24 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 30, 2008, 07:24:50 pm »

POLITICA

Qui si rifugiavano i partigiani, qui ci fu un rastrellamento nazista ma lunedì in 19 seggi su 20 Alemanno ha battuto Rutelli

Cinecittà, così la borgata rossa ha voltato le spalle alla sinistra

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - C'erano due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s'era mai visto un fascista, figurarsi un tedesco.

La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga. Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un convinto antifascismo e in quella borgata - tra le palazzine liberty del primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni ottanta - il ricordo vivo che ha sempre connesso l'esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista Gianni Alemanno l'ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.

Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l'intera municipalità - la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di Alemanno. Al ballottaggio c'è stato un improvviso capovolgimento. Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila (51.409).

Sandro Medici - un passato di direttore del Manifesto - dice: "Perdere qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega. Se l'esito è lo stesso, i perché sono diversi". Il perché di Massimo Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: "Menzogna". Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice, allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza ombre e problemi. "Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o chiedevamo".

Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza. Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano "una superbia" che il voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della metropolitana.

Quel che non buttano giù è perché quell'ambizione ha dovuto riservare alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi sociali, della piccola manutenzione. C'è qui il Parco degli Acquedotti. È bellissimo. Al centro c'è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire. Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l'area. Non se n'è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le buche nelle strade, le piccole discariche abusive "che anche soltanto in una sola notte ti appaiono davanti a casa". Non è stato ristrutturato quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state aperte - e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un atto di volontà - una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso, una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non si è voluto porre limite al degrado del terminal dell'Anagnina, come se il destino della città e l'abitare si potessero declinare soltanto con le categorie del simbolico, dell'immaginario, della comunicazione e queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà.

Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, "vedrai, non puoi immaginarlo". E non lo si può immaginare, infatti, quel suk. Il piazzale della metro all'Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio. Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro), interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali (Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara, i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono, "spesso bevono troppo e litigano".

Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l'uscio di un territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi, è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato e comune nel dirsi "sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano". La predicazione "buonista", l'inerzia ipocrita che lascia le cose così come sono - e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno - produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un'impotenza, la convinzione di non essere ascoltati, "di non contare nulla".

"La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione dell'insicurezza - ammette Sandro Medici - Qui non abbiamo grandi problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti. Voglio dire che non è minacciata l'incolumità delle persone, ma la loro familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento ha provocato l'incertezza e l'insoddisfazione che in Campidoglio non hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi ha promesso sgomberi e deportazioni".

Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni, responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l'investitura di Rutelli, dicono, ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un'oligarchia, la ricerca di un nuovo equilibrio all'interno di "una cricca di potere".

Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che, dicono, "non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato, coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti liquida con un vaffanculo".

La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a zero. Vuol dire, ti spiegano, che un'altra candidatura e un altro metodo avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con margini contenuti un altro mandato, un'altra fiducia. Sarà. Resta un ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le risposte che si raccolgono sono un coro: "Quei pregiudizi ideologici non contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che, alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile del 1944".

(30 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 01, 2008, 09:47:58 pm »

POLITICA IL RACCONTO

Nell'ex covo missino di Colle Oppio

"Fascismo addio, siamo col popolo"

di GIUSEPPE D'AVANZO


 GIANNI Alemanno ha raccontato che, nella sezione di Azione Giovani di Colle Oppio, nota, notissima, famigerata - "un covo fascista" per tutti gli anni Settanta - "entravi e ti imbattevi in un enorme quadro che raffigurava una giovane "camicia nera" che si difendeva con il calcio del fucile da un'orda di assalitori comunisti".

Oggi quel quadro non c'è più e non si sa dove sia finito. Alle pareti della grotta di tufo dentro il Parco delle Terme di Traiano, sezione del Movimento sociale dal 1947, ci sono soltanto due immagini, che bisogna proprio cercare con lo sguardo per vederle (sono sulla parete meno in vista). C'è la fotografia di Paolo Colli, il "padre" dell'ambientalismo di destra, una vita spezzata dalla leucemia due anni fa, e un ritratto a mano di Stefano Recchioni, ucciso il 7 gennaio di trent'anni fa dalla pistola di un carabiniere durante i disordini nati dopo l'eccidio di Acca Larenzia (morirono due ragazzi del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta).

Non ci sono "croci celtiche" nere, "fusione visiva tra il mondo pagano e mitologico del sole e il mondo cristiano del crocefisso", simbolo "magico" di molte generazioni di neofascisti. Né foto del Duce né fasci né labari. Niente delle carabattole nostalgiche. Nessuna icona della concezione eroica della militanza politica, per decenni demone dei giovani missini. Non ci sono nemmeno immagini di Gianfranco Fini, in verità. Soltanto qualche manifesto elettorale di Alemanno.

L'ambiente è spoglio. In fondo, su una pedana, strumenti musicali. Una trentina di sedie addossate al muro. Un tavolo traballante. "Cercavi il covo fascista?" canzona Michele Pigliucci. Ha ventisei anni soltanto, Michele. Non può fare a meno di sorridere ironico, quando spiega: "Guarda che anche mia madre non era ancora nata quando è morto Benito Mussolini. È sorprendente che ancora cerchiate tra di noi qualche ammennicolo per dirci fascisti, nostalgici o magari nazisti. È la rappresentazione che hanno voluto dare di Alemanno gli amici di Rutelli. Un furbo espediente per sollecitare le paure e i riflessi antifascisti della città. Furbo, ma inutile: guarda come è finita. È una strategia che non porta da nessuna parte, mi pare. Impedisce soltanto a chi la usa di comprendere chi siamo, che cosa facciamo, quali sono le ragioni della vittoria di Gianni, perché il popolo di Roma gli ha concesso fiducia".

Bene, parliamo di queste ragioni. Michele ha accanto un gruppo di ragazzi della sua età. Annuiscono quando dice: "Abbiamo guardato al popolo e non al palazzo; ai bisogni della città e non agli interessi dei poteri e delle lobby con un lavoro quotidiano, porta a porta". Se c'è un segreto, dicono, è in questa formula ed è sotto gli occhi di tutti perché - e ne sono fieri - Alleanza nazionale è dovunque, presente in tutti i quartieri di Roma con una o più sezioni. Sezioni che hanno le porte sempre aperte, aggiungono, frequentate da militanti sensibili all'ascolto, pronti a darsi da fare per risolvere anche i problemi più minuti della comunità".

"Identità", "comunità" e "popolo" sono le parole ricorrenti, gli archetipi che ritornano più spesso nel discorso dei ragazzi di Colle Oppio come se il populismo, parziale e intermittente negli strappi di Alleanza Nazionale, avesse ritrovato nella leadership di Alemanno, nella sua Destra sociale, finalmente lo strumento efficace di lotta politica; il grimaldello interpretativo della realtà cittadina capace di raccogliere l'attenzione e il consenso anche di chi di destra non è mai stato. I politologi sostengono che "il populismo incarna una corruzione ideologica della democrazia" e tuttavia, nelle parole della seconda generazione repubblicana della Destra, si avverte anche l'urgenza di una democrazia partecipativa che la politica non ha soddisfatto.

A voler fare i tignosi è questo "il fascismo" della destra romana che governerà la Capitale. Gianni Alemanno è l'interprete moderno del "populismo" che Mussolini ha lasciato in eredità all'Italia. Basta ascoltare i ragazzi quando parlano dell'immigrazione e degli stranieri dell'Esquilino. Certo, accennano anche alla pericolosità sociale del clandestino, alle violenze consumate nel Parco di Traiano, alla consueta percezione di insicurezza. Ma quel che appare loro più importante, decisivo è altro. È la necessità di preservare "l'identità del popolo", di assicurare "l'unità della comunità minacciata da una pressione disordinata". Non vogliono semplicisticamente che "lo straniero" sia messo al bando, espulso. Chiedono "assimilazione". Vogliono che l'altro rinunci alla sua "alterità", alla sua diversità culturale e magari religiosa. Chiedono che la "comunità" e chi l'amministra reagisca ai rischi di disgregazione e decadenza.

Dicono: chi lo ha deciso che a Roma debba esserci non regolata, misteriosa, invisibile, una Chinatown? "Perché - chiede Michele - Veltroni ha concesso l'intero quartiere dell'Esquilino alla comunità cinese che vive e prospera al di là di ogni legge?". Nei loro discorsi, è questo il lavoro "che ha sempre visto impegnato Alemanno". Non ricordano e non voglio ricordare il passato violento del neosindaco. Forse, addirittura, lo ignorano. Chissà. Preferiscono descriverne la misura, l'understatement, le qualità di uomo comune che gli consigliano di muoversi "con una Punto verde tutta scassata, anche quando era ministro".

C'è del populismo anche in queste immagini. Alemanno è uno del popolo, dicono. È capace di immediatezza, di un rapporto diretto con la realtà. È il testimone della "semplicità" che la destra sociale vuole restituire alla politica. Anche quando ha governato il Paese, è uno che istintivamente condivide "un destino comune".

Il "popolo" è il paradigma antico e nuovissimo di Colle Oppio che trova una sua declinazione più radicale in "Casa Italia", uno stabile occupato nel quartiere Prati dalla Fiamma Tricolore. Lo abitano trenta famiglie sfrattate. Giuliano Castellino, che sovraintende all'occupazione, l'amministra con regole ferree (vietate armi, droga, prostituzione; chiavi degli appartamenti sempre nella toppa). Nel suo populismo, è ancora più esplicito di Michele. Il popolo di Roma è, nelle sue parole, sempre "vittima". Vittima dei poteri forti, delle insidie della politica, delle cabale dei politici di professione.

"Per favore - dice - non stare a parlarmi di fascismo o di quei quattro bambini che, l'altra notte al Campidoglio, hanno tirato su il saluto romano. Nessuno di noi, che ci diciamo di destra, vuole tornare indietro. Non voglio vivere con il collo torto all'indietro. Voglio guardare avanti. Del fascismo si occupino gli storici. Io voglio far politica e intendo la politica come un servizio alla mia gente. Anche per questo siamo felici che Alemanno sia sindaco di Roma e anche noi della destra di Storace abbiamo dato il contributo dei nostri 55 mila voti. Quel che è stato sconfitto nell'urna - perché non volete capirlo? - è stato il 'modello Roma' del centrosinistra, quel blocco di potere di radical-chic e palazzinari che ha governato la città. Quel grumo di interessi che ha consigliato l'amministrazione di Rutelli e Veltroni a orientare le grandi opere pubbliche - per esempio, la nuova linea della metropolitana o il raddoppio della Roma-Fiumicino - verso le aree di proprietà dei costruttori come Caltagirone. E vi meravigliate che i romani abbiano voltato le spalle al centrosinistra?".

A "Casa Italia" si discute molto di case. È la loro battaglia. Contro la speculazione privata, dicono, è necessario varare un piano di edilizia popolare. Da quanto tempo, chiedono, non si costruisce un alloggio a basso prezzo? Non pensano ai "quartieri ghetto, senza vita, senza metro, senza asili e scuole del Corviale, del Serpentone, di Tor Bella Monica", ma all'edilizia "modesta e dignitosa" della Garbatella, del Flaminio, di Primavalle? È una destra, quella di "Casa Italia", che vuole il riscatto di chi oggi è in difficoltà, degli ultimi nella scala sociale.

Nelle parole di Giuliano Castellino c'è un gran spazio per l'anonimo eroismo quotidiano di "chi tira la carretta" senza lusso, sprechi e consumo. È una città, la sua, di piccole imprese e grandi sacrifici, di ambizioni modeste e lavoro duro che chiedono un aiuto e soltanto il solidarismo del messaggio populista, e non il professionismo politico, può offrirlo. Si può liquidare tutto questo soltanto con la parola "fascismo" e poi lavarsene le mani?

(1 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:11:20 pm »

L'ANALISI

La lezione del caso Schifani

di GIUSEPPE D'AVANZO


E' utile ragionare sul "caso Schifani". E - ancora una volta - sul giornalismo d'informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull'antipolitica.

Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e protesta: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo - non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) - per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia. Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. E' un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce "giornalismo d'informazione".

Le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell'anno furono riprese dall'Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in Voglia di mafia (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in I complici (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l'agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?).

Non se n'è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.

I filosofi ( Bernard Williams, ad esempio) spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione. La sincerità implica semplicemente che le persone dicano ciò che credono sia vero. Vale a dire, ciò che credono. La precisione implica cura, affidabilità, ricerca nello scovare la verità, nel credere a essa. Il "giornalismo dei fatti" ha un metodo condiviso per acquisire la verità possibile. Contesti, nessi rigorosi, fonti plurime e verificate e anche così, più che la verità, spesso, si riesce a capire soltanto dov'è la menzogna e, quando va bene, si può ripetere con Camus: "Non abbiamo mentito" (lo ha ricordato recentemente Claudio Magris).

Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei "fatti" che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E', nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d'un malcapitato).

L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). E' un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. E' un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.

Nel "caso Schifani" non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi - nell'opposizione - ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.

(13 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Maggio 14, 2008, 06:36:08 pm »

POLITICA LA RISPOSTA

Non sempre i fatti sono la realtà

di GIUSEPPE D'AVANZO


Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il "vero" e il "falso": "qualifiche fluide e manipolabili" come insegna un altro maestro, Franco Cordero.

Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.

Che cos'è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, "piantato nel mezzo delle libere istituzioni", le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio ("Io racconto solo fatti") si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: "Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia" indica una traccia di lavoro e non una conclusione.

Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo "la metà degli Anni Novanta", dunque) e soltanto "di lì a poco" (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità.

E' l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: "Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...". Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.

Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del "metodo Travaglio" e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E' un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.

8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei "cuscini". Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.

Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?

Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un'"agenzia del risentimento" potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che "la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso" . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.

Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal "metodo Travaglio". Travaglio - temo - non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.


(14 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:38:57 pm »

CRONACA

L'analisi - Il resto della Regione - da Terzigno a Serre - aspetta come finirà a Chiaiano

Ma per il governo è in gioco la credibilità del cipiglio decisionista

Napoli, pugno di ferro sulla rivolta così si prepara l'ultimo showdown

di GIUSEPPE D'AVANZO


NAPOLI - Soltanto un ostinato ottimista può credere che questa storia di Chiaiano non finisca - nelle prossime ore - malissimo. Nel peggiore dei modi. Lo prevedono entrambi gli antagonisti: chi protesta; chi la protesta deve affrontare. Sull'uno e l'altro fronte ne parlano come di un appuntamento improrogabile.

Sono come rassegnati alla "battaglia" lungo l'ultimo chilometro di via Cupa del Cane verso le cave di tufo di Poggio Vallesana, bloccate oggi da cinque, alte barricate di auto rovesciate, alberi abbattuti, filo spinato, cassonetti incatenati tra di loro. La prova di forza contrapporrà tra 24/48 ore - il tempo definisce l'effettività della decisione del governo e l'attendibilità del piano predisposto per decreto legge - giovani e meno giovani abitanti del quartiere ai "reparti mobili" e ai "battaglioni" di polizia e carabinieri.

L'ultima chance di dialogo è affidata a un incontro che Guido Bertolaso ha accettato di convocare per oggi pomeriggio. Anche in questo caso, la previsione è di una luna nera. La gente di Chiaiano si attende un negoziato, "una trattativa" per ridiscutere l'adeguatezza delle cave ad accogliere 700 mila tonnellate di rifiuti. Il sottosegretario/commissario esclude ogni nuova, debilitante mediazione. E' consapevole che, se non spezza un anello della catena di "no", di proteste, di rinvii, di ripensamenti, finirà fritto. E precipiterà, come già gli è accaduto una volta, nella trappola che si è "mangiato" anche Gianni De Gennaro.

A Terzigno - dove la cittadinanza ha già dato in questi anni prova di grande combattività - sono in attesa di vedere come finirà a Chiaiano. Se a Chiaiano il governo e lo Stato dovessero disarmare, a Terzigno vedranno uno spiraglio per evitare di raccogliere vicino a casa i rifiuti della provincia avviando così il consueto "effetto domino" che ha impedito, nell'ordine e nel tempo, l'apertura delle discariche di Parapoti, Serre, Ariano, Giugliano Taverna del Re, Pianura, Savignano. Se nel Napoletano l'anello della catena non si spezza, presto, prestissimo, subito, sarà arduo convincere Salernitani, Sanniti, Irpini, Casertani ad accogliere l'immondizia prodotta e rifiutata dai Napoletani. Manco a parlare dei Veneti o dei Siciliani o di una collettività che dovrebbe sborsare altre decine di milioni per sbolognare, a caro prezzo, l'immondizia agli impianti di riciclaggio della Sassonia.

Due discariche devono esserci nella provincia di Napoli, questo dirà Bertolaso, che considera la riunione di oggi non un "tavolo di negoziazione", ma un "tavolo di garanzia". Il commissario è disposto a "lavorare" nelle cave con i tecnici indicati dalla comunità di Chiaiano, a coinvolgerla nel controllo della quantità e qualità dei rifiuti che vi saranno smaltiti. Nulla di più. Chiederà che siano smantellati subito i blocchi stradali. Non accetterà che nella delegazione ci siano i "comitati di protesta" che, con una decisione stravagante del governo, sono stati dichiarati "sciolti" per decreto, manco fossero consigli comunali.

In gioco, a questo punto, non è soltanto la soluzione della lunga e ormai (per tutti) incomprensibile catastrofe dei rifiuti napoletani, ma la pubblica sfida lanciata da Silvio Berlusconi, la credibilità del cipiglio decisionista scelto, all'esordio, dal governo. E' come se il più che decennale ciclo della crisi dei rifiuti napoletani sia precipitato in un unico luogo, lungo un chilometro, dove si fronteggiano lo Stato e un quartiere. Uno Stato sostenuto dall'indiscutibile consenso di chi, al nord come al sud, a destra come a sinistra, chiede che questo crescendo di egoismi sociali e di autolesionismo pubblico finisca una buona volta - costi quel che costi - e una comunità che può diventare, nelle prossime ore, icona dell'opposizione a una "democrazia della forza" e non della partecipazione; simbolo nazionale di "resistenza" a una classe politica inetta e autoritaria, incapace di trovare nell'arco di quattordici anni soluzioni efficaci e condivise.

Tra l'uno e l'altro, tra lo Stato e quel quartiere, non c'è più alcuna forma di conciliazione. C'è soltanto il deserto degli sconfitti; lo sbaraglio di ogni mediazione politica, sociale, istituzionale; l'assenza di ogni fiducia nella cooperazione. Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, che dovrebbe essere "Stato" con i cittadini e "cittadino" con lo Stato, non ha alcuna plausibilità né con i suoi cittadini né con lo Stato che dovrebbe rappresentare. Il governatore della Regione, Antonio Bassolino, giudicato ormai da queste parti alla stregua di un "dittatore africano", è preoccupato soltanto del suo destino politico in nome del quale si è felicemente abbarbicato al nuovo governo nella speranza di traghettare se stesso fino alle elezioni europee del 2009. La dissipazione di ogni capitale sociale, l'assenza di ogni traccia di radicamento nel territorio, l'evaporazione di ogni ruolo della politica che, sola, avrebbe potuto garantire quel "patto territoriale" - che sta alla base degli insediamenti di una discarica o di un impianto - chiudono il fallimentare bilancio.

Oggi, rien ne va plus, le jeux son faits. Poco importa che il piano del governo lasci ancora in vita l'intero network di intermediazione (consorzi, società miste) che ha ingoiato, negli ultimi dieci anni, 780 milioni di euro all'anno, quindi 15 mila miliardi di lire in dieci anni. Quel che conta, nelle prossime ore, è l'unitarietà emotiva della comunità di Chiaiano, la sua determinazione a "combattere fino alla fine", come si sente dire tra le barricate - e non paiono soltanto parole di una follia rabbiosa, scampoli disperati di irrazionalità. Di contro, il governo e lo Stato si giocano la faccia. Che ne sarebbe dei chiassosi annunci dell'Esecutivo (lotta alla clandestinità, nucleare, ponte sullo Stretto) se non riuscisse a piegare la riluttanza di una borgata di 30 mila abitanti, soprattutto quando gli altri, tutti gli altri chiedono, nell'interesse del Paese e della stessa Napoli, di chiudere finalmente questa umiliante storia? E' l'inconciliabilità delle ragioni in campo a rendere sconsolato anche il più ostinato ottimista. Si può sperare soltanto che, nelle poche ore che ci dividono dall'inevitabile showdown, la ragione e la responsabilità - di tutti - tornino a farsi vedere.

(25 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:08:09 pm »

CRONACA

IL COMMENTO

Il salto di qualità

di GIUSEPPE D'AVANZO


QUANDO guarda alle cose "napoletane" (dove Napoli significa Campania), il racconto mediatico vede la Camorra ovunque. In ogni forma di gangsterismo metropolitano o di affare illegale; in ogni presenza delinquenziale anche se di piccolo cabotaggio; nei tragici segni del collasso sociale e culturale che riconosce, in un orizzonte vuoto di speranza e di occasioni, un solo senso: il potere come principio di tutti i rapporti e la violenza come metodo. È un'indifferenziazione azzardata fino all'ambiguità. Se tutto è Camorra, nulla davvero finisce per esserlo.

Diventata una formula omnibus, la nuda tragicità della Camorra produce un coinvolgimento emotivo, appassionato, infuriato, diffuso. Però, temporaneo. E quindi nessuna autentica iniziativa pubblica o "risveglio delle coscienze", come si usa dire. Perché la Camorra più che una patologia appare una maledizione antropologica e, come tale, finisce per creare - nell'indignazione - un consenso generalizzato, che interessa tutti e non divide nessuno, che non evoca alcuna posta in gioco, che - alla fin fine - non sfiora nulla di davvero importante.

La morte di Michele Orsi, l'uomo di affari ucciso in pieno giorno a Casale di Principe dinanzi al bar della piazza del paese, ci ricorda che cosa è Camorra e che cosa non lo è, qual è la posta in gioco e chi sono i pedoni, le Torri e i Re. Consente, come ha fatto Roberto Saviano, di dire i nomi, gli affari, le collusioni che fanno di un'associazione di assassini, come i "Casalesi", un potere temuto e rispettato.

I "Casalesi" sono quanto più di simile c'è in Campania a Cosa Nostra siciliana. Anzi, sono "figli" legittimi di Cosa Nostra, eredi diretti di quell'Antonio Bardellino che fu "uomo d'onore", ucciso dai Corleonesi in Sud America per non aver voluto tradire Tommaso Buscetta (il racconto è di Buscetta). Come la mafia siciliana, l'organizzazione dei Casalesi ha un rigido meccanismo di funzionamento, spiega Raffaello Magi, il giudice che li ha condannati nel processo "Spartacus": "Divisione del territorio per aree; affidamento di responsabilità direttive a capozona; ampliamento degli "organici" attraverso i vincoli di sangue; straordinaria capacità di sfruttare i rapporti con l'imprenditoria".

I "Casalesi" - a differenza dei gangster napoletani che vivono di spaccio di cocaina o di estorsioni - sfruttano in modo intensivo il loro territorio in ogni sua potenzialità economica. Interrano rifiuti tossici. Monopolizzano il mercato del calcestruzzo. Controllano la distribuzione di alcuni prodotti essenziali. Sono "mediatori del consenso" nelle stagioni elettorali, "mediatori sociali" durante le crisi istituzionali come quella dei rifiuti. Offrono protezione e opportunità di mercato a un'imprenditoria fragile, bisognosa di tutela e sostegno. Condizionano le politiche di amministrazioni, piccole e grandi.

Michele Orsi, un passato politico in Forza Italia e nei Ds, stava raccontando alla magistratura le mappe di questa geografia criminale. Aveva già testimoniato, nei mesi scorsi, al processo sullo smaltimento dei rifiuti (imputati alcuni imprenditori). Giovedì avrebbe dovuto deporre dinanzi al giudice per le indagini preliminari in un altro processo per la gestione dello smaltimento dei rifiuti, dov'era imputato con altri imprenditori; con un subcommissario di Guido Bertolaso; con Mario Landolfi, ex presidente della Commissione di Vigilanza Rai, accusato di corruzione aggravata di avere favorito "l'organizzazione".

Appare, forse, troppo dire - con Roberto Saviano - che Michele Orsi sta ai Casalesi come Salvo Lima stava a Cosa Nostra o che il processo in corso contro i mafiosi campani sia addirittura più significativo del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino contro la mafia siciliana. Questi accostamenti non aiutano a capire. Ribaltano sul presente il passato e rischiano di confondere la scena, incupendola oltre ogni necessità e semplificandola oltre ogni prudenza. Le cose appaiono oggi, da un lato, più propizie e, dall'altro, potenzialmente più tragiche.

Se un'organizzazione mafiosa è costretta a uccidere, lo fa per non aver saputo in altro modo far fronte alla crepa che si è aperta. Da un mese, i "Casalesi" stanno facendo, con il fuoco, terra bruciata tra chi ha voltato loro le spalle scegliendo di collaborare con lo Stato. Il 2 maggio a Castelvolturno è stato ucciso Umberto Bidognetti, colpevole di essere il padre del "pentito" Domenico. Il 16 maggio, ancora due morti. Un altro "testimone di giustizia", Domenico Naddeo, 65 anni, è stato ucciso con ferocia a Baia Verde di Castelvolturno.

Nello stesso giorno è caduto sotto i colpi dei killer l'imprenditore Domenico Noviello che, nel 2001, aveva trovato il coraggio di denunciare gli autori di un'estorsione ai danni della sua azienda. Nella notte del 30 maggio, i killer hanno sparato a Villaricca, nel Napoletano, contro Francesca Carrino, 25 anni, nipote di Anna Carrino, la compagna del "capo storico" dei Casalesi, Francesco Bidognetti. Anche lei è una "collaboratrice di giustizia".

Questa strategia racconta non solo quanto i "Casalesi" siano pericolosi. Dice anche quanto siano in difficoltà e come vogliano con il terrore difendere quel che resta del loro potere, delle loro connessioni. Sono deboli. Vogliono dimostrarsi ancora energici, ma sono a mal partito. Gomorra di Saviano li ha come denudati irrimediabilmente dinanzi all'opinione pubblica nazionale e internazionale.

Il primo processo "Spartacus" (21 ergastoli, 844 anni di reclusione, 95 condanne per associazione mafiosa) li ha privati di ogni aura di invincibile impunità. Ne ha mostrato una debolezza che ha convinto un drappello di capi, sottocapi, assassini, imprenditori collusi o imprenditori vittime a raccontare quanto sapevano o a indicare i loro "carnefici" nel secondo processo "Spartacus". È una fragilità che oggi rende i "Casalesi" disperati e quindi più temibili. Prossimi, secondo alcuni investigatori, a fare anche un salto di qualità "stragista" o a colpire i magistrati più esposti in questa battaglia.

Lo Stato che, in questi giorni, sembra non disprezzare "l'uso della forza" per far rispettare decisioni non condivise sarà più credibile se quella forza la userà anche - e senza risparmio, con più uomini e più risorse - contro questo clan mafioso. A cominciare dalla "caccia" senza quartiere a Michele Zagaria e Antonio Iovine, gli uomini della diarchia che, come ha spiegato Roberto Saviano, reggono oggi le sorti e gli affari dell'organizzazione. Sono latitanti da dieci anni. È giunto il tempo che la loro fuga finisca.


(2 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 21, 2008, 04:57:33 pm »

LA STORIA

Il figlio dell'imprenditore Domenico Noviello che disse no al racket: noi, vittime due volte

"Hanno ucciso mio padre e vado via ormai qui ci evitano come lebbrosi"


di GIUSEPPE D'AVANZO

 
NON È né stupito né entusiasta o appagato Massimo Noviello. La camorra di Francesco Bidognetti, un mese fa, gli ha ammazzato il padre - Domenico - sette anni dopo la denuncia dei racketeers che gli volevano prendere 100 milioni di lire all'anno. Sono stati arrestati, condannati, liberati. Sempre loro (è stato arrestato Francesco Cirillo, già condannato per quell'estorsione) lo hanno bloccato, sette anni dopo, nei pressi di Baia Verde sul litorale di Caserta. Domenico se li è visti addosso.

Intorno non c'era nessuno a quell'ora del mattino e, se qualcuno c'era, ha chiuso gli occhi e la bocca e non si è fatto più trovare. Domenico è riuscito a uscire in fretta dalla sua piccola Panda, a fare qualche metro. Gli assassini lo hanno ripreso e ucciso come un cane con venti botte calibro 9 e. 38.

La morte di Domenico Noviello, quasi si trattasse di un regolamento di conti tra camorristi, è finita tra le brevi di cronaca in quei giorni di maggio, cancellata dagli incendi dei campi rom di Ponticelli, dalla protesta per la "monnezza" di Napoli, dallo sfolgorante successo a Cannes di Gomorra.

Alla parola ergastolo, per sedici volte ergastolo, Massimo non dice: me lo aspettavo; non poteva essere altrimenti; meno male che è finita in questo modo o cose di questo genere. Se si guarda il suo volto immobile, gli occhi fissi nel vuoto, l'assenza di qualsiasi espressione capace di svelare un sentimento, quale che sia, sembra che gli importi poco o niente di quel che accade a Napoli, ormai.

Non è così. Il fatto è che Massimo Noviello sa - e vuole che lo sappiano gli altri, tutti gli altri, gli altri che contano a Roma e gli altri che non contano nulla e sono costretti a subire ogni giorno l'arroganza dei Casalesi - che la condanna di quelli, di Schiavone, Bidognetti, Iovine, Zagaria è soltanto un primo passo di un lungo, faticoso, doloroso cammino.

"Va tutto bene - dice - per mettere in ginocchio i Casalesi. Vanno bene gli ergastoli, quella galera a vita che non immaginavano di poter mai patire, ma ancora più del carcere sono necessarie le confische dei loro beni. Quelli, al denaro, tengono più di qualsiasi altra cosa, più del nome, più della libertà, più della famiglia. E' il loro punto debole, il nervo scoperto. Lo Stato deve togliergli la ricchezza. Questa è la strada per piegarli e, in ogni caso, questa è la via per scombinare il loro gioco anche se non c'è da illudersi. Non sarà semplice".

"Il potere dei Casalesi non è soltanto criminale. E' come se fosse nei pensieri e nelle azioni della gente di Casale. Io sono cresciuto da quelle parti. So l'idolatria dei più giovani per le gesta di quelli là. Li adorano, li venerano. L'ambizione più grande è un loro cenno di saluto - anche distratto - al bar davanti agli occhi di tutti. Li imitano. Quelli mettono su una camicia con un grande papero? Tutti, con quella camicia e il papero. Quelli calzano solo Hogan? Tutti con le Hogan. Replicano i loro gesti. Ripetono le loro parole e i loro atteggiamenti. Al più leggero screzio senti dire: "Che c'è? Vuoi che ti tagli la testa?" La cocaina e l'avidità fanno il resto. Era il mondo violento e ottuso che mio padre disprezzava e ha rifiutato".

Dice Massimo Noviello che il padre Mimmo "era un uomo solare". "Amava la vita. Voleva viverla alla luce del sole, senza vergognarsene. Non era un don Chisciotte, non era un pazzo, non era un visionario, come gli hanno detto poi. Non era un eroe, soprattutto. Era un uomo dignitoso, che credeva al decoro e alla legge. Si è soltanto rifiutato di inchinarsi alla forza, alla prepotenza della camorra. Non lo ha fatto per insegnare qualcosa agli altri. Lo ha fatto soltanto per se stesso, per potersi guardare allo specchio con serenità, senza sentirsi umiliato".

"Mio padre non è finito in un gioco sconosciuto. Conosceva le regole perché il dolore e il sangue avevano già abitato la nostra casa. Trent'anni fa il fratello di mia madre, a 33 anni - all'età che ho io oggi - fu ammazzato per non aver voluto pagare il prezzo del ricatto sulle sue proprietà terriere. Quando è toccato a mio padre ricevere la visita di quei delinquenti, ci ha chiamati e ci ha detto che non avrebbe pagato. Lo ha detto subito e lo ha ripetuto anche a mia madre Luisa, terrorizzata dal ricordo del fratello. Io sono stato d'accordo con lui e continuo a pensare che ha fatto la cosa giusta. Ancora oggi mi sembra di sentirlo quando mi chiede: vale la pena vivere docili e ubbidienti come pecore? Lo capivo".

"Capivo che non c'era alcuna intelligenza nella tentazione di arrendersi. Come avremmo potuto vivere con quella avvilente rabbia in corpo? Come avrebbe potuto vivere lui, in quella situazione? Quella sofferenza avrebbe ucciso la sua gioia di vivere, lo avrebbe immiserito, e lo sapeva, lo diceva. Non c'era altra strada. Non doveva pagare. Per anni, siamo andati in giro armati, guardandoci le spalle, prudentissimi. Appena prima di morire, mio padre mi scongiurava di non accettare appuntamenti in luoghi isolati anche se a chiamarmi lì fosse stato il mio migliore amico. Diceva: se quelli hanno perduto tutto, si toglieranno i sassolini che hanno nelle scarpe".

Domenico Noviello non è stato ucciso per vendetta. Lo hanno ammazzato, il 16 di maggio, per dire a tutti gli altri che c'è sempre il tempo di pagare il prezzo della sfida. Lo hanno ammazzato due giorni dopo l'incendio della fabbrica di materassi di Pietro Russo, presidente della prima associazione antiracket del Casertano, protetto dalla scorta da tre anni. Un altro modo per far sapere in giro che lo Stato non è in grado di proteggere nessuno davvero. Delitti simbolici per recuperare un "prestigio" che i Casalesi si vedono, come sabbia, scivolare tra le dita.

Dice Massimo: "Non ho alcun ripensamento sul passato, ma so che è giunto il tempo di andar via da Castelvolturno dove abbiamo sempre vissuto. Siamo ormai stranieri nella nostra terra. Al funerale c'era soltanto la nostra famiglia, le associazioni antiracket, la polizia. La gente ci guardava da lontano, indifferente. Non c'è stato un negozio che ha ritenuto di calare la saracinesca in segno di lutto. Peggio è andata alla messa del trigesimo. Non c'era nessuno. I nostri amici, anche quelli più cari, ci evitano come se fossimo dei lebbrosi. C'è sempre un motivo che impedisce loro di venire a casa o di raggiungerci in pizzeria. Abbiamo avuto accanto, per ora, soltanto lo Stato. Avere fiducia nello Stato è la sola opportunità che ci resta".

(20 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 24, 2008, 04:18:09 pm »

POLITICA

La proposta del segretario Cascini: cancellare dal dl la norma che blocca i procedimenti lasciando quelle sulle cariche istituzionali

L'Anm offre una tregua al governo "No a sospensioni, sì all'immunità"

"Si rischia il caos della giustizia. Il premier non confonda politica e privato"

E i giudici si dichiarano disponibili alla riforma del sistema

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Nelle ore della più radicale contrapposizione tra magistratura e Berlusconi, nasce - spontaneo, con ragioni anche dissimili, dentro e fuori il governo e le istituzioni - un partito trasversale della "tregua". Lo sollecita Pierferdinando Casini (Udc). Lo invoca Roberto Castelli (Lega). Gli dà metodo e forma una "lettera aperta" di Francesco Cossiga che invita il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a muovere la sua moral suasion ("il suo più forte potere") per "convincere" Berlusconi "a stralciare nel "passaggio" alla Camera le norme "incriminate"".

"Incriminate" sono le norme che sospendono di un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno 2002, e quindi anche il dibattimento ormai agli sgoccioli che vede il capo del governo imputato a Milano per corruzione in atti giudiziari.

All'urgenza di una tregua e di "nuovo inizio" di dialogo vuole contribuire anche l'Associazione nazionale magistrati che, con la voce del segretario Giuseppe Cascini - mentre chiede di "espungere" la sospensione dei processi dal "decreto sicurezza" - osserva che compete esclusivamente "all'autonomia della politica decidere delle immunità da offrire a chi ricopre cariche istituzionali". Il percorso - no alla sospensione; sì alle immunità; dialogo sulle riforme di giustizia - (sembra di capire) creerebbe le condizioni per "raffreddare un clima" che, incandescente, danneggia tutti. Il governo. La magistratura. Il cittadino.

Cominciano da Cossiga, dottor Cascini. Il presidente emerito propone di stralciare la sospensione dei processi dal decreto legge sulla sicurezza. Voi siete d'accordo?
"Noi pensiamo che le norme che sospendono i processi devono essere espunte dal decreto".

Cossiga immagina, in caso contrario, uno scenario drammatico: dimissioni del governo, elezioni anticipate, "governo d'emergenza", "democrazia semiprotetta" dal Capo dello Stato.
"Non è il mio compito azzardare previsioni. Il nostro compito è indicare i gravi problemi di funzionalità per il processo penale che deriverebbero dalla sospensione generalizzata di migliaia di processi. Si creerebbe un caos senza precedenti che può inceppare in modo definitivo una macchina giudiziaria già molto sofferente. Sembra già un buon motivo per eliminare quell'emendamento. Ma ce n'è un secondo, nascosto in un paradosso. Da un lato, il governo inasprisce le pene per reati di grave allarme sociale (per esempio, gli omicidi colposi da circolazione stradale); dall'altro, blocca i processi per gli stessi reati perché non li ritiene gravi. L'effetto è che le vittime di quei delitti dovranno continuare ad attendere una sentenza che potrebbe non arrivare mai".

E' ipocrita girarci intorno. Anche Berlusconi, nella sua lettera a Schifani, sovrappone il provvedimento con il suo processo milanese. Ancora più esplicito è stato il suo avvocato e consigliere Niccolò Ghedini: la sospensione di un anno serve per approvare una nuova legge immunitaria.
"Chi governa dovrebbe tenere ben distinte le vicende personali dalle questioni di carattere generale. Uno dei problemi che ha avuto il Paese negli ultimi anni è stata proprio la confusione tra singoli affari penali e interventi legislativi. Il risultato è un processo penale sconnesso, che consente agli imputati tanti e troppi espedienti per sottrarsi al giudizio. Il paradosso è che un processo penale che non funziona finisce per negare in radice il diritto alla sicurezza dei cittadini. Diritto che può essere garantito soltanto da un processo penale rapido, giusto per gli imputati e le vittime, efficace con il colpevole".

D'accordo, questo è il problema, ma qual è la soluzione?
"Alle soluzioni stavamo lavorando prima della violenta ripresa di un clima di scontro. La nuova contrapposizione confonde le questioni e mette insieme piani diversi. Credo che bisogna fermare le polemiche e tornare a separare i problemi e gli argomenti da affrontare".

Si spieghi meglio, per favore.
"Sul tavolo ci sono tre diverse questioni. 1. La riforma della giustizia. Richiede dialogo, ponderazione, analisi prudenti, qualche convergenza. Non si può legiferare senza valutare le conseguenze delle innovazioni, come è accaduto con la norma che congela i processi. 2. Una leale collaborazione tra le istituzioni. Se si aggrediscono singoli magistrati accusandoli, più o meno, di attentato alla Costituzione, la soluzione dei problemi si allontana. 3. Infine c'è la proposta di fermare i processi per le più alte cariche dello Stato. Questi capitoli devono restare separati e ciascuno deve avere un luogo, un metodo e gli attori per essere affrontati e risolti".

Voi siete d'accordo con un nuovo lodo Schifani-Maccanico?
"La scelta dell'immunità temporanea o permanente di chi ha alte responsabilità istituzionali spetta all'autonomia della politica che valuterà le forme e i modi di un eventuale provvedimento tenendo conto delle indicazioni della Corte Costituzionale".

Per quel che si è capito, però, Berlusconi subordina ogni iniziativa all'approvazione del nuovo lodo.
"La questione dell'immunità deve essere separata e non confusa con i meccanismi che fanno funzionare i processi né può essere accompagnata da una campagna di aggressione contro alcuni magistrati. Come non può interferire con la legislazione ordinaria in materia di giustizia. Voglio dire che ogni questione deve essere affrontata sul suo piano. E' l'unico metodo possibile per andare avanti e ha una precondizione: il riconoscimento di legittimità tra le diverse istituzioni dello Stato. Se i giudici condannano all'ergastolo i Casalesi, credo che il capo del governo abbia il dovere di tutelare la legittimità democratica di quella decisione, come peraltro ha fatto il Capo dello Stato. Se il giorno dopo quella sentenza, per altri motivi, si accusa la magistratura di attentato alla democrazia si provoca una crisi di legittimità, credibilità e fiducia che paga, non solo l'ordine giudiziario, ma soprattutto il cittadino che sarà meno protetto dai poteri criminali".

Le dice: "dialogo". Ma chi è il vostro interlocutore? L'avvocato Ghedini, che scrive le leggi, o il ministro Alfano, che le presenta in Parlamento?
"Alcuni atteggiamenti della difesa nel processo non aiutano una maggiore comprensione dei problemi. Le faccio un esempio. Nel codice c'è scritto che l'istituto della ricusazione non sospende il processo, ma impedisce solo la pronuncia della sentenza. L'avvocato Ghedini ha invece sostenuto che la mancata sospensione del processo è "la prova" che il giudice è prevenuto. Questo comportamento è emblematico di una volontà di inasprire il conflitto. Il guaio è che questo metodo non si ferma all'interno del processo, ma viene trasferito anche in sede politica e legislativa".

Dunque, meglio il ministro Alfano?
"Il ministro è il grande assente in questa vicenda. All'inizio del suo mandato ha ben impostato un metodo di lavoro mostrando di condividere priorità e urgenze. Avrebbe dovuto tenerne conto anche quando, in occasione delle presentazione della norma che sospende i processi, non ha fornito al Parlamento i dati sulle gravi conseguenze di quel provvedimento sul funzionamento della giustizia di cui, per dettato costituzionale, egli è responsabile".

L'ultima domanda è per la magistratura. Soltanto il 21 per cento degli italiani, a quanto pare, ha fiducia nella magistratura. Non è un problema?
"Certo che lo è. La crisi di funzionalità della giustizia sta lentamente corrodendo anche la credibilità dell'istituzione giudiziaria. Sono necessarie e urgenti riforme legislative, ma occorre riconoscere che ritardi e inefficienze sul piano organizzativo e anche comportamenti non ortodossi di singoli magistrati hanno contribuito a creare un clima di sfiducia nei confronti del sistema. La magistratura è impegnata in uno sforzo di rinnovamento e di autoriforma. Il Consiglio superiore sta provvedendo a un radicale rinnovamento della direzione degli uffici mentre un sistema periodico di valutazione darà alla magistratura più professionalità ed efficienza. Ma ripeto: ogni problema deve avere il luogo, gli attori e il metodo per essere affrontato e risolto".

(24 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Giugno 25, 2008, 11:02:57 am »

POLITICA IL COMMENTO

Il prezzo dell'impunità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un'opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).

Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell'amministrazione giudiziaria, un'accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d'insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un'immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest'occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.

Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all'anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l'esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall'altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l'azzoppa irrimediabilmente.

Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d'uscita dalle molte crisi che lo affliggono.

In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.

C'erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell'interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un'immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C'era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell'Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio. Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un'agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un'agevole previsione credere che molto presto toccherà all'informazione.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:50:54 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

Il luglio del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


 BERLUSCONI scatena sempre l'inferno quando saltano fuori en plein air le sue performance ai bordi (o al di là) della legge. Una memoria acustica non più protetta dal segreto racconta la materia delle mirabilia di tycoon e delle fortune di premier. Sono parole che possono finalmente spiegare la natura della sua odierna, frenetica "ossessione giudiziaria"; la direzione dei passi di oggi, le iniziative di domani imposte come capo del governo a un Parlamento obbediente.

È il magnate delle televisioni e, come capo dell'esecutivo (2001/2006), ha promosso i suoi rampanti ovunque. Nella Rai, impresa concorrente, e nell'Autorità di controllo sulle comunicazioni, dove sistema un famiglio che lo chiama "il Gran Capo" Nelle conversazioni, pubblicate ora da l'Espresso, Berlusconi - manco fosse ancora a Palazzo Chigi e in Mediaset - tira i fili e li riannoda in uno stesso gomitolo dove si intrecciano sinergie affaristiche; il pubblico e il privato; passioni personali; piccole utilità private; convenienze d'impresa; promesse di favori futuri per chi gli si mostrerà devoto anche se lavora per il competitore (è il caso di Agostino Saccà); oscure trame politiche tese a ribaltare il governo Prodi, a ottenere il "salto della quaglia" di un pugno di senatori "ulivisti" (siamo nel 2007). Tornano utili, in questi casi, anche le fiction dove sistemare le "protette" di questo o di quello o anche le sue personali, magari irritate da un'improvvisa disattenzione e diventate "pericolose".

La scena che si scorge è il fondale buio in cui immaginavamo si costruissero gli affari fortunati e i successi politici di Silvio Berlusconi. Controllo pieno dell'intero sistema televisivo; insofferenza alle regole. In una formula ormai affogata nell'oblio, il teatro di un conflitto d'interesse dispiegato e catafratto dove la politica si sovrappone all'impresa; l'impresa alle strategie politiche; addirittura la vita privata alle decisioni pubbliche.

Di questo si dovrebbe discutere, no? Di un conflitto d'interesse maligno, ormai metabolizzato dalla politica e dall'opinione pubblica, quasi rivendicato come un diritto sacro. Del risibile fervore di Autorità di controllo (l'Agcom) che nascono servizievoli e quindi morte, se affidate al controllato. Di un mercato e di una concorrenza degradate a beffa per gonzi. Di un servizio pubblico radiotelevisivo appaltato ai potenti di turno per lotti, anche nei più arrischiati angoli.

Il premier non se ne dà per inteso. Non conosce alcuno scrupolo, si sa. Nei canoni immaginati dalla iustitia secundum Berlusconem, la privacy è un
valore supremo, qualunque cosa, buco nero, gesto gaglioffo, riveli. Donde il divieto di indagare (è già in parlamento il disegno di legge che vieta, per la gran parte, l'uso delle investigazioni acustiche). Come dire che rivendica il diritto di non essere scoperto. Diritto che deve accompagnarsi, dice, al dovere del giornalismo di tacere, nascondere, dimenticare, pena la galera e la disgrazia finanziaria.

"Addetti alla corvée dell'urlo", così li chiama Franco Cordero, saltano allora come jack in the box (sono i fantocci a molla che scattano dalla scatola) e gridano forte. Tutto sta nel gridare fino a soverchiare i fatti, a farli fluttuare e a crearne di fittizi, a parlare di quelli. Soltanto di quelli. Naturalmente declinando in ogni lingua la parola "complotto" perché il Capo avverte ogni regola, limite o dissenso come un atto persecutorio. Complottano così la solita opposizione "comunista"; i pubblici ministeri annidati come neoplasie nel corpo sano della magistratura; i giudici infiltrati nei tribunali per staccargli la testa; ogni foglio che non sia laudatore o muto e cieco.

Lo strepito, sostenuto dalla rituale tempesta mediatica, dovrebbe farci dimenticare che non vuole essere giudicato. Si considera legibus solutus. Unto dal voto, ritiene di rappresentare un potere intoccabile, "divino" e non solo carismatico perché custode del "potere costituente del popolo" che lo sistema al di là e al di sopra del feticcio costituzionale e di ogni altra autorità dello Stato (figurarsi di funzionari vincitori di un concorso). Il mondo è lui. L'Italia è lui.

È agitato perché lo attende un luglio macchinoso. Molti nodi possono venire al pettine. Il 4 luglio a Napoli si decide se chiedere l'utilizzo delle conversazioni registrate con il boss della Rai a cui promette affari. Il 7 luglio, udienza a Milano per l'affare Mills (Berlusconi è accusato di aver comprato una testimonianza: corruzione in atti giudiziari). 8 luglio, udienza preliminare contro Agostino Saccà. Il 10, la Corte d'Appello di Milano avvia la discussione sulla "ricusazione" del presidente del tribunale che, in quella città, lo sta giudicando (il processo è agli sgoccioli). 14 luglio, ultima udienza milanese prima della pausa estiva. 18 luglio, il giudice dell'udienza preliminare di Napoli decide se c'è materia degna per rinviarlo a giudizio per corruzione di Saccà, incaricato di pubblico servizio (se si dovesse decidere di distruggere le intercettazioni, si sarebbe grattato la rogna).

Come è già accaduto in passato, con i processi milanesi "Sme" e "Mondadori", Berlusconi - ritornato a Palazzo Chigi - gioca su quattro tavoli contemporaneamente. 1. A Milano e a Napoli scatena i suoi avvocati-consiglieri-senatori-quasi ministri con qualche trucco tecnico, cavillo perditempo, asfissia ostruzionistica come la "ricusazione" del giudice. Occorre tempo, è prezioso. 2. Alle Camere corrono i disegni di legge che possono manipolare o addomesticare i giudizi. In passato, si sono aboliti reati (il falso in bilancio) o fonti di prova (le rogatorie). Oggi, è all'approvazione della Camera (il Senato ha già obbedito) la sospensione per un anno del processo milanese (poco conta che è stato necessario congelarne altre migliaia). Domani, prenderanno a correre le norme sulle intercettazioni che avrebbe voluto decreto con forza immediata di legge (se approvato, come si potrà autorizzare l'uso di quelle memorie acustiche che lo imbarazzano e forse lo dannano?). 3. Meglio non fidarsi e dunque a Milano, come già nel passato il suo sodale Previti, proporrà la fuga dal suo giudice naturale: l'ambiente giudiziario milanese è infetto, empio, politicizzato. È sul quarto tavolo, però, che giocherà la carta vincente. Il Parlamento è una bottega sua, è pronto ad approvargli una definitiva legge immunitaria. Recita: il Capo non è giudicabile. I processi si sospendono automaticamente. Finché siede a Palazzo Chigi, la sua posizione resta nel limbo. Rieletto - magari al Quirinale, come desidera - recupera l'immunità. La corsa a ostacoli annuncia mostri giuridici e sgorbi costituzionali. Vedremo come reggeranno gli equilibri e quale piega prenderanno le cose italiane.

(27 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 30, 2008, 02:34:09 pm »

POLITICA L'EDITORIALE

La strana cura della democrazia

di GIUSEPPE D'AVANZO


AI LIVELLI infimi, il tempo non passa. Lo sapevamo. Berlusconi ci aveva ricordato presto come fosse un'illusione ottica la metamorfosi in homme d'Etat. Insofferente delle regole (etica, legalità, grammatica politica, sintassi istituzionale), il magnate di Arcore vuole ieri come oggi ridisegnare lo Stato sulle sue misure e interessi liberando il proprio potere - "unto" dal consenso popolare - da ogni contrappeso. Il Corriere della Sera, pulpito liberale, ne dovrebbe essere raccapricciato o almeno impensierito. Accade quel che è già accaduto in passato: da quei pulpiti soi-disants liberali si odono argomenti che tolgono il fiato.

La chiave è la consueta, è musica vecchia. Oltre ogni ragionevolezza, non si vede e nulla si dice del fatto più scomodo: l'interesse privatissimo del capo del governo, padrone di un Parlamento obbediente, a legiferare per proteggere se stesso a prezzo della distruzione del processo penale, dell'indebolimento della sicurezza nazionale, dell'incostituzionalità delle norme che gli garantiscono una impunità perpetua. Si chiudono gli occhi dinanzi allo "scandalo" berlusconiano: gli affari privati del presidente del Consiglio sono la sola voce nell'agenda di un governo alle prese con un Paese impoverito, stagnante, in declino, impaurito da una crisi di cui non avverte né la fine né le vie d'uscita.

L'oratore non sembra interessato a capire che cosa avviene e che cosa può avvenire. Non gl'importa. Il suo bersaglio è concreto. Vuole indicare all'opinione pubblica dov'è "la patologia"; da chi e che cosa deve guardarsi il Paese; chi minaccia con passi eversivi la legittimità del potere politico. Non ci sono "i bolscevichi" oggi alle porte, come nel 1919/1924 quando Luigi Albertini, direttore e comproprietario del Corriere, applaudì l'"anticorpo fascista" salvando l'Italia da "gorghi del comunismo" (possono avere delle costanti le storie collettive). Oggi, per l'oratore pseudo-equanime, l'orda barbarica che minaccia il Paese e la democrazia, è nientedimeno che la magistratura. Sono quelle toghe nere che con "l'arbitrio dell'azione penale, con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità dei pubblici ministeri", imbrigliano Berlusconi "con un'immane mole di procedimenti giudiziari".

Lasciamo perdere che all'oratore sfugge come la plastica dimostrazione della terzietà dei giudici italiani sia proprio la storia giudiziaria dell'uomo di Arcore, assolto e liberato dalla prescrizione, mai condannato. Dimentichiamo che, se di Berlusconi si sono dovuti occupare centinaia di giudici in migliaia di udienze, è per la scelta dell'imputato di fuggire dal processo e dai suoi "giudici naturali" verso altri giudici, verso altri tribunali e Corti in attesa di manipolare a suo beneficio codice penale (i reati), codice di procedura penale (i processi), Costituzione (i poteri, il loro equilibrio).

Andiamo al sodo. L'idea che trapela dal sermone è che c'è una sola cura, e necessaria: fine dell'obbligatorietà dell'azione penale; separazione della funzione requirente da quella giudicante; ridimensionamento del Consiglio superiore della magistratura. Osserviamo il mostro che questa "terapia" partorisce. Carriere distinte, dunque. I pubblici ministeri diventano, come nel codice napoleonico, procureurs impériaux o avvocati dell'accusa scelti, istruiti, promossi, puniti dal ministro perché stanno al guardasigilli come il prefetto al ministro dell'Interno (soltanto per pudicizia, forse, l'oratore non lo spiega). L'azione penale non è più obbligatoria. Il pubblico ministero sceglie a mano libera i suoi oggetti, guidato e consigliato dal potere esecutivo. Difficile credere a qualche processo molesto che scuota l'alveare o affondi il bisturi nella diffusa corruzione nazionale. Più facile immaginare che i "non conformi", le teste storte, gli "erranti" rischino qualcosa, magari soltanto vivere con un bastone a poca distanza dalla testa.

Naturalmente, in teoria, anche il modello che prevede il pubblico ministero diretto dall'esecutivo ha delle virtù (può bluffare il pubblico ministero indipendente come essere ineccepibile il requirente che risponde al ministro), ma ogni disegno normativo non nasce nel vuoto pneumatico. Quello che si augura l'oratore pseudo-neutrale dovrebbe prendere forma nell'Italia 2008 dove un uomo, che viene dal capitalismo d'avventura, governa una signoria populista: possiede direttamente - e direttamente controlla, come s'è visto nell'affare Saccà - l'intero sistema televisivo, un arsenale che gli permette di "creare" la realtà, inoculare affetti o fobie, insufflare o determinare la necessità di improrogabili decisioni. È l'uomo che, alla prima occasione (1994), propone come ministro di giustizia un suo avvocato e sodale (Cesare Previti), barattiere giudiziario, condannato poi per aver corrotto un giudice regalando la più grande impresa editoriale del Paese (la Mondadori) al suo Capo. È il presidente del consiglio che, nel suo quarto governo, sceglie come guardasigilli non Giustiniano o Tommaso Moro, ma un ragazzo che gli è stato segretario (Angelino Alfano).

Ora, da quel pulpito liberale, si vorrebbe sapere se questo conflitto d'interessi, che scarnifica l'ordinata architettura dei quattro poteri (governo, Parlamento, magistratura, informazione), rende possibile mettere in discussione l'autonomia e indipendenza della magistratura liquidando tre norme costituzionali: 104 ("La magistratura", pubblico ministero incluso, "costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); 107 (inamovibilità dal grado e dalla sede); 112 (obbligo d'agire). Come è ovvio e legittimo, lo si può pensare. Lo si dovrebbe dire in trasparenza, però. Il Corriere della Sera, come il Luigi Albertini del discorso alla Corona, Palazzo Madama, 18 giugno 1921, dovrebbe dire ai suoi lettori: noi qui, in via Solferino, tempio della cultura liberale, crediamo che per migliorare la qualità della nostra democrazia, e "salvare l'Italia", i pubblici ministeri debbano essere diretti dall'esecutivo. Cioè, oggi, da Silvio Berlusconi. Sono le parole che non si ascoltano nel sermone finto neutrale. Con un paradosso guignolesco, l'oratore chiede che a dire questa affabile bestialità da mondo sublunare debba essere la "sinistra riformista": dovrebbe "mettere una buona volta fine alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario".

Già incapace a tempo debito di risolvere il conflitto d'interessi, dovrebbe dunque essere la sinistra, il Partito democratico, a sacrificare all'Egoarca anche l'autonomia della magistratura perché la politica - questa politica, già monca del Parlamento ridotto a rifugio di statue di gesso - viene prima del feticcio legalistico. È proprio vero che "i maghi ingrassano dove esistono le anime fioche".



(30 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:43:11 am »

POLITICA IL RETROSCENA

Le parole maliziose cancellate a Milano

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

IL regime di Berlusconi è ipnotico. Combina l'agenda del governo come se fosse un palinsesto televisivo. Da giorni, come una giacca al chiodo, il Paese è appeso a un dilemma: che cosa dice Berlusconi nelle conversazioni privatissime registrate dalla procura di Napoli? Le sue parole sono davvero così viziose da metterlo nei guai? Addirittura da costringerlo alle dimissioni? È vero che, in un documento acustico, spiega a Fedele Confalonieri le ragioni postribolari dell'ingresso di qualche ministra nel governo (gli uomini di Di Pietro arrivano a chiederlo in pubblico)?

La politica di Palazzo Chigi è soprattutto arma psicologica. Le necessità e le urgenze nascono, come nella performance di un illusionista, in un mondo di immagini, umori, riflessi mentali, paure, odio del tutto artefatti come le emozioni dinanzi alla visione di un film. Il metodo dovrebbe essere ormai familiare. Qualcuno grida qualcosa, lo grida di nuovo e ancora più forte finché non diventa un mezzo fatto, un quasi fatto. Ecco allora che cosa strilla un'aquila del Partito della libertà (Boniver): "Quelle intercettazioni private. Eccome se ci sono. E dentro c'è di tutto e di più. Le ha in mano un magistrato. Bisognerà solo capire come e quando verranno fuori". Le fa eco un'altra voce femminile del partito blu (Santelli): "Una parte della magistratura ha perso ogni pudore nell'utilizzo delle intercettazioni e ora ha la tentazione di usarle come arma finale nella guerra politica del governo".

Dunque le cose stanno così, strepitano i corifei mossi dal sovrano: i magistrati spiano Berlusconi; ne registrano le conversazioni; ne raccolgono flussi verbali privatissimi e licenziosi, pronti a farne una mazzuola per ferirlo a morte. È necessario un provvedimento con immediata forza di legge che impedisca le intercettazioni della magistratura; che punisca con la galera i giornalisti che le pubblicano, che mandi in rovina gli editori. Giorgio Napolitano dovrà ricredersi e riconoscere, come non ha voluto fare finora, l'urgenza di quel decreto: ricattano il capo del governo, accidenti.

Nel tableau di cartapesta, la memoria deperisce, i fatti si confondono. Nessuno si chiede se siano "fatti" o "quasi fatti", se abbiano appena un palmo di attendibilità. Il fasullo appare più vero del vero, nel regime ipnotico del mago di Arcore. Il fumo è più concreto dell'arrosto. Nel bailamme, non si ode la domanda più ragionevole e pratica: esiste a Napoli un'intercettazione telefonica tra Berlusconi e Confalonieri? Posta la domanda, si può scoprire che neppure può esistere quella telefonata a Napoli perché, nel rispetto della legge, Berlusconi non è stato mai intercettato direttamente e Confalonieri, nell'affare Saccà, è una comparsa del tutto marginale (e quindi mai sottoposto ad "ascolti" diretti).

Non a Napoli, ma a Milano andrebbero cercate le conversazioni tra il presidente di Mediaset e il mago di Arcore. A Milano, nei faldoni elettronici dell'inchiesta sul fallimento di Hdc, la società di Luigi Crespi, sondaggista e fortunato inventore del "contratto con gli italiani". In quei file-audio, c'è un colloquio alquanto simile a quello che, soltanto immaginato, ingrassato dalla malafede o dall'ingenuità, ammattisce istericamente i Palazzi di Roma e ingolosisce le redazioni. "Silvio" e "Fedele" si intrattengono sulle virtù di una giovane signora planata dallo spettacolo nella politica. Ma nessuno, fortunatamente, potrà più ascoltare le loro parole. La registrazione è stata mandata al macero, il 13 giugno, per decisione del giudice delle indagini preliminari Marina Zelante: la telefonata era irrilevante per il processo.

Il capo del governo, come gli avrà spiegato senza dubbio il suo avvocato-senatore-consigliere Niccolò Ghedini, può stare tranquillo: non ne esistono copie perché il software utilizzato dalla ditta milanese che lavora, in appalto, per la procura di Milano impedisce che i file-audio possano essere copiati senza lasciarne traccia elettronica.

Serenità, il presidente del Consiglio, dovrebbe ricavare anche da quel che presto accadrà a Napoli. Nei prossimi giorni saranno distrutte le conversazioni di Berlusconi irrilevanti per il processo, come Ghedini sa e maliziosamente, malignamente non dice (anche se parla tanto e quotidianamente). Sono conversazioni malinconiche, a quanto pare. Il mago si protegge da ogni tentazione giovanile e pressing femminile. Appare consapevole, con qualche nostalgia, dell'ingiuria che il tempo infligge all'energia. Le soubrette ne parlano tra di loro, deluse.

Ricapitoliamo. In due inchieste - a Milano, per il fallimento di una società di sondaggi legata a Mediaset; a Napoli, per i traffici di Agostino Saccà - affiora la voce di Berlusconi. Gli investigatori la raccolgono e catalogano. In alcuni casi, è utile a ricostruire i fatti. In altri, è inservibile perché parla d'altro. Nel primo caso, in contraddittorio con la difesa, dinanzi a un giudice terzo, il pubblico ministero domanda che sia chiesto al Parlamento l'utilizzo della memoria acustica. Nel secondo, alla presenza degli avvocati della difesa e dinanzi a un giudice che decide, l'accusatore chiede che quei documenti sonori siano distrutti, come prevede la legge.

La procedura è lineare. Protegge gli interessi di tutti gli attori. Permette l'efficacia dell'accertamento dei fatti (che cosa è accaduto e per responsabilità di chi?). Tutela la privacy degli indagati e di chi è coinvolto nell'inchiesta, malgré lui. Se ne potrebbe dedurre che il sistema, nonostante riforme sgorbio, traffici legislativi, procedure sovraccariche, ha coerenza, appare adeguato e regolato da una magistratura equilibrata.

Vediamo al contrario, che cosa accade nel regime ipnotico. Con un tramescolio di carte, notizie storte affidate a fedeli e famigli, veleni insufflati in un circo mediatico disposto a enfatizzare e credere, senza raziocinio, a qualsiasi intrigo, paradosso, salto logico, lavorando come fosse un'utile leva anche la sprovvedutezza degli avversari, il mago di Arcore confonde la scena. Anzi, la modella a mano con la sua "macchina fascinatoria". Mi spiano illegalmente, geme. Vogliono ricattarmi con intercettazioni private, raccolte illegalmente e abusivamente consegnate alla redazioni. L'anatema gli consente di non discutere delle accuse che gli sono mosse. Imperversa, allora, come ossessionato da se stesso e dai suoi fantasmi. Protesta, deplora, minaccia incursioni televisive o requisitorie parlamentari. La pantomina, che si è affatturato con la complicità del suo avvocato-consigliere, lo autorizza a chiedere alle Camere genuflesse una nuova legge cucita per la sua silhouette. Si sente abilitato a pretendere dal capo dello Stato di riconoscere l'urgenza costituzionale di un decreto legge che di necessario ha soltanto la sua personale ansia di impunità. Berlusconi, a quanto pare, avrebbe voluto già oggi un provvedimento che vieta, pena la galera per il giornalista e la disgrazia dell'editore, la pubblicazione delle intercettazioni. Non l'avrà, almeno per oggi. Il gran rumore di queste ore se l'è procurato da solo. Che buona medicina sono i fatti.

(4 luglio 2008)

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