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 inserito:: Ottobre 10, 2025, 08:01:22 pm 
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Maurizio Molinari

"Fondamentale è stato il riposizionamento del Vaticano in Medio Oriente. Vedremo se ci sarà anche quello della Russia alleata dell’Iran. È una grande opportunità per rilanciare gli Accordi di Abramo e ridefinire in prosperità l’intera regione”, dice Maurizio Molinari, spiegando come cambiano le prospettive per Trump, Netanyahu e Stato palestinese ora che è stato accettato il piano per la pace a Gaza.
Tornano in campo dunque gli Accordi di Abramo. Questo processo può cambiare il volto del Medio Oriente? "Questa è la maggiore novità. Hamas voleva affondarlo, impedendo la normalizzazione fra Israele ed Arabia Saudita, per accelerare la sfida esistenziale dell’Iran a Israele ma ora avviene l’esatto opposto. I Paesi arabi e musulmani seguono Trump nel siglare con Israele un patto che apre lo scenario a dei Patti di Abramo non più solo fra Paesi arabi e Israele ma fra i giganti dell’Islam e lo Stato ebraico [...]"
Quale è il ruolo che il Vaticano sta giocando in questa partita diplomatica? "Possono esserci pochi dubbi sul fatto che Leone XIV ha riposizionato il Vaticano in Medio Oriente in tempi rapidi rimediando ai gravi errori commessi dal precedessore. Se Francesco aveva dimostrato scarsa empatia per gli ostaggi israeliani, aveva sposato le critiche più aspre allo Stato ebraico e si era spinto fino ad avvicinarsi alla condivisione dell’accusa di 'genocidio', Leone XIV pur confermando la piena e forte solidarietà per le sofferenze dei civili palestinesi a Gaza non ha esitato a prendere le distanze dal termine 'genocidio', a riequilibrare l’approccio al conflitto e, soprattutto, ha denunciato con forza il grave ritorno del l’antisemitismo nei nostri Paesi [...]. L'intervista su Huffingtonpost.it > bit.ly/3IOsXP1
Per altre notizie bit.ly/4mRREce

da FB

 42 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:51:09 pm 
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Andrea Ferrario

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina continua a rimodellare gli equilibri dell'economia globale, mentre entrambe le superpotenze imperialiste si affrontano in uno scontro che va ben oltre le semplici tariffe doganali. Un Meme circolato di recente sintetizza efficacemente la situazione: Trump dice a Xi Jinping "ho in mano le carte", e il leader cinese risponde "le carte sono state fabbricate in Cina". Questa battuta racchiude la complessità di un confronto in cui nessuno dei due contendenti può davvero prevalere, nonostante le apparenze.
Molti osservatori occidentali tendono a sovrastimare la forza della posizione cinese, interpretando la capacità di Pechino di resistere alla pressione americana come un segno di vittoria. In realtà, il regime del Partito Comunista cinese sta semplicemente applicando una tattica dilatoria già sperimentata durante la prima amministrazione Trump, trascinando i negoziati di città in città nella speranza che le elezioni di metà mandato del 2026 indeboliscano la posizione del presidente americano. Questa strategia però ha un costo altissimo: durante l'attuale tregua tariffaria, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti affrontano tariffe medie del 51 percento, contro il 20 percento precedente al ritorno di Trump alla Casa Bianca. La quota cinese del PIL mondiale è scesa dal picco del 18,5% nel 2021 al 16%, mentre quella americana è salita dal 24,8% al 26,2% nello stesso periodo.
Il quadro economico cinese è drammaticamente peggiore di quello dipinto dalle narrazioni ufficiali di Pechino. Il regime di Xi Jinping continua a manipolare i dati economici per nascondere una situazione disastrosa, caratterizzata da deflazione, crollo della domanda interna e una crisi immobiliare che ha cancellato risparmi familiari in misura quasi doppia rispetto alla crisi bancaria americana del 2008. La strategia di compensare la perdita dei mercati occidentali attraverso un aumento massiccio delle esportazioni verso il Sud del mondo sta mostrando tutti i suoi limiti strutturali. Con il 30% della produzione manifatturiera globale, l'economia cinese è semplicemente troppo grande per seguire un modello di crescita trainato dalle esportazioni senza provocare onde d'urto deflazionistiche nei mercati di destinazione.
Trump dal canto suo sta esercitando il potere imperiale americano nella sua forma più brutale e scoperta, imponendo agli alleati termini che ricordano i trattati ineguali dell'era coloniale. L'Unione Europea ha accettato in Scozia un accordo umiliante che prevede tariffe doganali del 15% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti a fronte di zero tariffe nella direzione opposta. La Corea del Sud ha promesso investimenti per 350 miliardi di dollari, il Giappone per 550 miliardi. Questi accordi rappresentano più propaganda della Casa Bianca che trattati formalmente ratificati, eppure rivelano l'enormità della pressione che Washington è in grado di esercitare. I governi dei paesi del “fronte occidentale” continuano a sottomettersi perché l'alternativa rappresentata da Cina e Russia appare ancora peggiore.
Le politiche di Trump non seguono alcuna logica economica razionale nel lungo periodo. L'obiettivo non è reindustrializzare l'America secondo un piano coerente, bensì estrarre il massimo vantaggio immediato sfruttando il peso superiore degli Stati Uniti. Questo approccio otterrà successi tattici nel breve termine, come dimostrano le capitolazioni di Taiwan, dell'Unione Europea e di numerosi altri paesi. Tuttavia, nel medio e lungo periodo queste politiche mineranno catastroficamente il sistema di alleanze costruito in ottant'anni, eroderanno il ruolo del dollaro come perno del sistema finanziario globale e danneggeranno gravemente l'economia americana stessa, aggravandone il debito e preparando nuove crisi finanziarie.
Pechino non è riuscita a capitalizzare sugli errori strategici di Trump nella misura che ci si sarebbe potuti aspettare. Nonostante le prepotenze americane abbiano alienato numerosi governi, questi ultimi rimangono legati a Washington perché percepiscono la minaccia geopolitica ed economica cinese come ancora più grave. La Cina ha ottenuto un limitato riavvicinamento economico con l'Australia laburista e ha consolidato la propria posizione di leader del Sud globale, ma questo capitale politico non si è tradotto in guadagni economici tangibili. Il regime di Trump ha inoltre cominciato a prendere di mira i paesi terzi che fungono da canali per aggirare le tariffe doganali americane, come dimostra il caso del Messico che ha recentemente imposto dazi del 50% sulle automobili cinesi.
La questione TikTok rappresenta una battaglia cruciale in questo conflitto più ampio. Trump ha promesso di salvare l'applicazione "per i ragazzi" e sta cercando di portarla sotto controllo aziendale americano attraverso un consorzio guidato dal miliardario Larry Ellison. Xi Jinping sembra aver dato il via libera alla vendita, ma i dettagli rimangono controversi. Il regime cinese insiste che ByteDance manterrà il controllo dell'algoritmo secondo le leggi cinesi, mentre Trump proclama che l'algoritmo sarà al "100 percento MAGA". Questa contraddizione rivela come TikTok sia diventata uno strumento di ricatto reciproco: Pechino spera di usarla per ottenere concessioni tariffarie e tecnologiche, mentre Washington vuole trasformarla in un servizio di propaganda politica. La vicenda si inserisce anche nelle lotte di potere interne al Partito Comunista Cinese, dove elementi militari potrebbero voler limitare il potere di Xi, ma non al punto di compromettere l'unità del regime nel confronto con Trump. Questo scontro tra le due maggiori potenze imperialiste rappresenta il sintomo più evidente di un sistema economico mondiale in estrema difficoltà, che offre soltanto regressione, attacchi ai diritti democratici e una lotta feroce tra giganti per soggiogare economicamente il resto del pianeta.
(da materiali pubblicati da China Worker)

 43 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:47:19 pm 
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Gianni Gavioli
 ha aggiornato la descrizione del gruppo DOMANESIMO: N.O.M. QUANTE POTENZE SERVIRANNO PER AVERE LA PACE NEL MONDO.
Amministratore
Esperto del gruppo
Persona sempre più attiva

N.O.M. = NUOVO ORDINE MONDIALE.
IL MONDO SARA' DIVISO IN POLI DI INFLUENZA ECONOMICI E POLITICI. MA IN PACE O IN GUERRA?
---------------------------------------------------------
Le ÉLITE - CI SONO NECESSARIE contro la BARBARIE.
Soltanto una Élite Illuminata, meglio preparata e orientata alla Pace può gettare le basi del N.O.M. di Pace, di Giustizia Sociale tra i popoli e di Ambiente da risanare.
Il Domani senza una Élite scientifica, culturale e sociopolitica, di mente sana e di alta qualità, sarebbe un disastro umanitario.
I DIFFERENTI tra i DIVERSI
Nell'Italia, diventata Arcipelago non più Penisola Unita (dopo il 25 settembre) per colpa di Estremisti Sfascisti:
Cittadini Differenti dovrete esserlo anche stando tra i Diversi Sottomessi, perché vi farete carico d'essere attivi, con conoscenze specifiche, offrendo disponibilità, partecipazione e consapevolezza, alla Popolazione dei Sottomessi al Potere, nella vita pubblica italiana.
I Differenti sono Cittadini Attivi, non Sottomessi, che si metteranno nella condizione:
°di valutare ed esprimere giudizi sul come agiscono i detentori del potere, a loro soltanto concesso dal Cattivo Consenso;
°di verificare come la progettualità del futuro governo divenga materia di confronto costruttivo;
°di conoscere come é governato il localismo feudale di certe Regioni governate da grandi famiglie, tra le falsità;
°di controllare in positivo come e quando si affronteranno, in modo e tempi adeguati, Riforme di Vero Progresso concordate anche con le opposizioni;
°di coadiuvare il superamento dell’inferiorità socioeconomica in questa nostra Democrazia, considerata a livello mondiale ancora Incompiuta (Eiu). 
ggiannig
Italia - marzo 2023
Italia - 15 giugno 2023
Revisionato il 20 gennaio 2025

 44 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:43:38 pm 
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Orio Giorgio Stirpe
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GAZA – PUNTINI SULLE “I”
Okay, provo a dire la mia sulla situazione a Gaza, all’indomani della conclusione della sceneggiata della Somud Flotilla e del piano di Trump. Non l’ho fatto prima soprattutto in quanto c’è ben poco di militare da analizzare da quando l’Iran è stato neutralizzato, e anche perché sono piuttosto disgustato dal comportamento di tutti gli attori di questa tragedia politica.
Di fatto, l’unico attore esterno in grado di fare qualcosa, a causa dell’influenza accumulata tanto su Israele che sui Paesi Arabi, era il POTUS: chiunque egli fosse. E anche lui poteva far valere la propria influenza solo dopo che gli attori principali avessero ottenuto il massimo possibile dalla situazione, giocando tutte le carte del mazzo fino a esaurirlo. Saggio quindi per Italia ed Europa restarne fuori ed evitare di esporre la propria irrilevanza.
Il “piano di pace” ovviamente è solo un progetto volto a far cessare il fuoco e a stabilizzare in qualche modo la situazione nella Striscia: non ha niente a che vedere con una pacificazione del conflitto israelo-palestinese, e men che meno del Medio Oriente. Insomma: è una soluzione provvisoria, e non potrebbe essere altro, visto che il conflitto non può essere risolto a meno che entrambi i contendenti accettino di risolverlo; cosa impossibile stante la radicalizzazione di larga parte delle popolazioni in gioco.
Però per cercare di capire la situazione e quindi le prospettive future occorre mettere in chiaro alcuni aspetti che molti sembrano ignorare, ma che condizionano entrambe le cose.
 ***
Innanzitutto, i contendenti. Israele ha da tempo una maggioranza politica che ha alterato l’originale natura laica dello Stato, privilegiando le istanze religiose più estreme per mantenere il potere, e rendendo di fatto impossibile un accordo con qualsiasi rappresentanza i palestinesi avessero potuto mettere insieme; Israele è una democrazia, seppure a rischio a causa delle componenti più estremiste del suo spettro politico, e finché non ritroverà una maggioranza politica disposta al dialogo – e quindi a rinunce inaccettabili per le componenti estremiste – un dialogo veramente orientato ad un effettivo piano di “Pace” non sarà possibile.
I Palestinesi, controparte generica ma imprescindibile per una trattativa, non hanno una rappresentanza riconosciuta e condivisa: esiste l’ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia; le due organizzazioni hanno poco o nulla di democratico, sono poco o nulla affidabili, ma soprattutto sono nemiche una dell’altra. Non “avversari”, ma “nemici”. Nemici mortali. Questo per la diversa natura dei partiti politici che dominano le due organizzazioni: al-Fatah, padrone dell’ANC, è un partito laico, particolarmente prono alla corruzione e all’autoritarismo come la maggior parte dei partiti arabi, ma formalmente al potere grazie ad elezioni più o meno riconosciute come regolari. Hamas è un partito religioso, al potere in forza di una sola elezione dopo la quale ha annullato il processo elettorale e ha eliminato manu militari l’opposizione (rappresentata dalla stessa al-Fatah). Hamas è l’attore che ha dato il via all’attuale fase del conflitto israelo-palestinese.
Hamas non è semplicemente un “partito religioso”: è il franchise palestinese della Fratellanza Musulmana, che a sua volta costituisce il Partito Transnazionale rappresentazione politica del salafismo integralista arabo-maghrebino. In sostanza è una contraddizione in termini, in quanto l’integralismo salafita postula la superiorità della legge religiosa su quella civile, e quindi nega il processo democratico. Semplificando drasticamente, il programma politico dei Fratelli Musulmani consiste nel pervenire al potere sfruttando le regole democratiche per poterle poi abolire una volta che il potere sia stato raggiunto. In sostanza, instaurare la sharia senza ricorrere alla “Jihad”.
Se si capisce quanto sopra, si capisce anche come “trattare” con Hamas una “Pace” sia esercizio futile: tutt’al più si potrà trattare una tregua, in quanto il programma della fratellanza Musulmana è l’installazione della sharia su tutta la “Ummah”, cioè sulla totalità del popolo musulmano E DEI TERRITORI APPARTENENTI O APPARTENUTI ai musulmani, incluse Spagna e Sicilia, per non parlare della totalità della Palestina. Si capisce pertanto come tanto l’Occidente che Israele abbiano convenienza a trattare con l’ANC piuttosto che con Hamas.
 ***
La fase attuale del conflitto di Gaza contrappone Israele (governato legittimamente da una maggioranza estremista aggrappata al potere) e i palestinesi di Gaza (governati illegittimamente da un partito religioso intransigente e integralista). Si tratta di un conflitto ormai da oltre un anno privo di dimensione militare: Hamas disponeva di una componente paramilitare fanatica, che però è stata letteralmente sterminata dalle IDF (Forze Armate) israeliane, ma ormai da molti mesi “combatte” a livello terroristico e non militare, nascondendosi e mimetizzandosi in una popolazione in parte passiva e in parte compiacente, facendo del suo meglio per esasperare i danni collaterali da parte delle truppe israeliane per ottenerne un ritorno politico.
Discernere la componente compiacente da quella passiva della popolazione di Gaza è praticamente impossibile. Ma di fatto l’avversario delle IDF non è più Hamas in quanto tale, e ovviamente non sono neppure i gazawi in quanto tali: è la componente compiacente della popolazione che sostiene ancora il partito politico di Hamas. Insomma: l’avversario è una componente della popolazione; non si può combattere militarmente una componente di popolazione, soprattutto se frammischiata ad un’altra che non si vuole combattere (quella passiva, che seppure in maniera approssimata è facile immaginare largamente maggioritaria).
A complicare ulteriormente le cose, è la natura delle IDF stesse. Israele ha dieci milioni circa di abitanti: essendo un Paese sostanzialmente in guerra da sempre, ha necessariamente un esercito numeroso, che inevitabilmente è basato sulla leva e sulla mobilitazione. Le IDF sono fra le Forze Armate più esperte e rodate del mondo, ma solo una loro minima componente è professionale come la intendiamo in Europa: lo Stato Maggiore, le Forze Speciali, l’Aeronautica, le varie componenti specialistiche, sono fra le migliori del mondo; le forze di sicurezza sono un misto di professionisti e di richiamati esperti; ma la massa delle truppe di terra dell’esercito sono soldati di leva richiamati, comandati a loro volta sul terreno da ufficiali di complemento non professionisti. Insomma: i soldati delle IDF in campo a Gaza sono sostanzialmente cittadini-soldati addestrati a combattere contro gli eserciti arabi, ma con un’esperienza molto limitata nella condotta di quelle operazioni sostanzialmente di polizia che andrebbero condotte a Gaza per controllare una popolazione magari riottosa ma disarmata. Peggio ancora, trattandosi di cittadini-soldati, molti fra di loro hanno idee politiche ben precise, che sovente sono quelle dei partiti estremisti sui quali il Governo attuale appoggia la sua traballante maggioranza. Soldati poco addestrati al compito e politicamente maldisposti verso la popolazione che devono controllare e nella quale si celano ancora molti terroristi, sono gli ingredienti classici per danni collaterali inaccettabili e perfino per crimini di guerra che le autorità israeliane non vogliono – e in larga misura non possono – contrastare.
Quella a Gaza non è una “guerra”: è una crisi umanitaria priva di soluzione militare, e che deve essere affrontata e risolta da politici che però hanno posizioni radicali intransigenti su base religiosa. Rimane quindi solo la soluzione diplomatica imposta da attori esterni e contrattata con quella delle parti in conflitto che ha la possibilità di cessare unilateralmente la violenza, e cioè Israele, a patto che questo riceva qualcosa in cambio.
Questo è possibile grazie al fatto che la Fratellanza Musulmana ha uno sponsor (in realtà ne ha due, ma non complichiamo ulteriormente le cose). Nemmeno un partito transnazionale su base religiosa può operare senza il sostegno economico di uno Stato. Lo Stato che da almeno trent’anni sponsorizza la Fratellanza è il Qatar. Le ragioni sono molteplici, ma semplifichiamo dicendo che la Fratellanza è lo strumento attraverso il quale il minuscolo Qatar può trattare alla pari con la potente Arabia Saudita ed evitare di esserne assorbito.
Israele non può “vincere” a Gaza se il suo vero avversario è una componente della popolazione stessa della Striscia; ma il suo Governo non può fermarsi senza poter vantare una “vittoria”, e questa ormai può essere rappresentata solo dalla liberazione degli ostaggi. Hamas non può liberare gli ostaggi senza perdere definitivamente rilevanza, e l’unico modo per costringerla a farlo è la pressione del suo sponsor. Quindi la vera pressione diplomatica è, era ed è sempre stata quella sul Qatar.
Ora, il piano di Trump in realtà è ben poco dissimile da quanto proposto in precedenza da Biden, ma questa volta ha l’approvazione di tutti gli Stati Arabi, Qatar compreso. Quindi tocca ammettere che qualcosa è cambiato con Trump. Cosa?
Fin qui ho semplicemente elencato fatti, ma qui cessano le mie certezze. La mia impressione però è che a cambiare l’atteggiamento del Qatar passando da una buona volontà di facciata ad una collaborazione attiva sia stato il bombardamento aereo della sua capitale da parte israeliana: bombardamento reso possibile non solo dall’autorizzazione americana, ma soprattutto dalla collaborazione attiva da parte degli altri Paesi Arabi che di fatto hanno concesso il sorvolo. Insomma: il Qatar è stato bullizzato.
Se è così, forse questa volta il bullismo in diplomazia ha avuto un risvolto positivo. Nel Medio Oriente purtroppo funziona ancora così.

ORIO GIORGIO STIRPE

Orio Giorgio Stirpe
Pippone lunghissimo. Non amo parlare di Gaza perché è problema politico e non militare, ma provo a mettere in luce aspetti che trovo siano stato trascurati dai media e anche dai commentatori.

 45 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:40:02 pm 
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Giulio Manfredi

Francesca Albanese. L’ultimo mito, il più cupo, della sinistra italiana
di  Andrea Romano

Da sempre la politica sceglie totem che riassumano l’identità (come Kirk a destra). La sinistra lo ha sempre fatto ma, da San Suu Kyi a Zapatero, erano miti di speranza. Ora è una maestra di livore indirizzato soprattutto contro Segre, reduce di Auschwitz
08 Ottobre 2025 alle 09:42
Non è indispensabile aver letto Roland Barthes per sapere che anche la politica contemporanea e il consenso democratico vivono di mitologie. D’altra parte succede tanto a destra quanto a sinistra di pescare un pezzo più o meno grande di realtà e di costruirci intorno quanto serve perché l’elettore o il militante possano riconoscervi subito un’identità politica. Si sa che in politica i miti servono a dire, senza usare troppe parole, “Noi siamo quella cosa lì”. Quindi nessuno scandalo se la destra italiana si è appropriata poche settimane fa dell’icona del povero Charlie Kirk, che pure non aveva mai citato neanche per sbaglio quando era ancora in vita, o se la sinistra italiana oggi è alle prese con il mito di Francesca Albanese.
Eppure non ricordo che nella storia recente della sinistra italiana vi sia mai stata una mitologia tanto cupa, torva e autolesionistica quanto la santificazione di Francesca Albanese. Giuro: mi sono sforzato di trovare qualcosa di simile andando indietro fino al 1989, quando a sinistra fu archiviata con il comunismo la mitologia più potente di sempre (cupa anch’essa, nella realtà di chi la subiva, ma vissuta dalle nostre parti come sincera attesa di emancipazione). Niente da fare. Tutti i precedenti che mi sono venuti in mente erano costruiti su mattoni di speranza, anche se di tonalità di volta in volta diverse.
Mentre tutto ad Est crollava già Achille Occhetto aveva provato a sparigliare con gli indios dell’Amazzonia, sfidando le perplessità di uno degli ultimi congressi del Pci per tentare l’azzardo di una svolta ambientalista. Poi i ragazzi di Tien An Men che ci conquistarono con l’illusione di poter democratizzare il regime cinese, da cui sarebbero stati letteralmente fatti a pezzi. E ancora la metà degli anni Novanta e la Terza Via. Per carità, troppo ottimistica vista con il famoso senno di poi: eppure che meraviglia vedere la sinistra europea che vinceva quasi ovunque parlando di crescita economica, Europa, diritti e coesione. E poi l’icona di Aung San Suu Kyi trasportata dalle lontanissime prigioni birmane all’Italia da Walter Veltroni, che della costruzione di mitologie aveva già fatto un mestiere, a significare quanto fosse universale la battaglia contro le dittature. A seguire, l’infilata di leader della sinistra mondiale tutti diversi ma per noi tutti uguali come scaldacuori. Tony Blair il cui nome ancora si poteva pronunciare senza timore di essere scomunicati; Inácio Lula che trionfava nel voto dopo decenni di clandestinità e prigionia; José Luis Rodríguez Zapatero che ai bei tempi in cui il problema con gli Stati Uniti si chiamava Bush junior ci restituiva un po’ di antiamericanismo soft e soprattutto d’impegno sui diritti di nuova generazione; persino su Alexis Tsipras abbiamo (hanno) costruito un mito, piccolino ma funzionale a quella parte della sinistra che era già sovranista senza neanche saperlo.
L’icona di Francesca Albanese non somiglia a nessuna di queste, perché nell’impasto con cui è costruito il suo mito manca anche il minimo tratto di speranza o di emancipazione. Invece del luminoso eroismo del testimone, il suo profilo vive di furbizia e dissimulazione. A partire dal nemico principale che si è scelta nel nostro dibattito pubblico. Un nemico che non è Israele ma Liliana Segre, verso la quale coltiva quella che il figlio Luciano oggi sul Corriere della Sera ha definito con precisione “un’ossessione”. L’Albanese non ha il coraggio di dire quello che affermano tutti coloro che come lei sono ossessionati dalla figura della Segre e da quello che rappresenta (farsi un giro sui social per averne conferma, digitare “#LilianaSegre" e prepararsi ad una valanga di fango nazistalinista). Ovvero che la Segre è un’impostora. E se non lo è allora si è meritata tutto quello che è capitato a lei, alla sua famiglia e a tutti i sei milioni di ebrei inceneriti dalla Shoah. L’Albanese non è così sprovveduta. Si limita ad affermare che la Segre non sarebbe “né imparziale né lucida”. Si fa ritrarre sorridente accanto al suo ritratto, aggiungendo “indifferenza” e “#GazaGenocide” e giù tutti a ridere alla sagace trollatura. Allude persino alle “pietre d’inciampo”, dalle quali manca effettivamente il nome della Segre perché persino l’Olocausto ebbe qualche inefficienza, trattandole come ostacoli arbitrari alla sua logica. La stessa logica che solo gli “accademici sionisti” avrebbero l’ardire di contestare, a sentir lei.
Io non so se l’Albanese sia antisemita, se sia una giurista capace, se sia solo una furbacchiona. Ho qualche sospetto, ma lo tengo per me. Quel che so è che la sinistra che mitizzava una volta Blair e l’altra Zapatero, scegliendosi con speranza e ottimismo il santo che meglio rappresentava quel certo spirito del tempo, avrebbe guardato al suo personaggio con totale estraneità. Forse senza metterla nel folto gruppo dei negazionisti della Shoah (che non è popolato solo da chi nega Auschwitz, ma anche da coloro che ne perseguitano la memoria e i testimoni attendendo con ansia il giorno in cui non ne rimarrà più neanche uno), ma certamente guardandola con l’indifferenza che si deve a chiunque tra tanti possibili avversari si sceglie una signora di 95 anni che ha l’unica colpa di essere sopravvissuta all’Olocausto. E invece no. Invece dell’estraneità abbiamo l’avvilente processione a renderla cittadina onoraria, il masochismo di sindaci che gioiscono delle sue frustate e del suo perdono, lo sgomitare nel volerle stringere la mano. Ma in fondo è proprio vero che ogni tempo (e ogni sinistra) ha l’eroe che si merita. E alla sinistra di questo tempo di sconfitte, rassegnazione e subalternità politica è toccata in dote l’Albanese.

da FB

 46 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:35:30 pm 
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DEMOCRAZIA AUTOREVOLE, RIGORE ETICO IN PATRIA e MORALITA' NEL MONDO.
Gianni Gavioli

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Esperto del gruppo in Realtà virtuale
Persona sempre più attiva

Un solo Albero Sociale e Politico, una potatura a Vasi Policonici al posto delle parassitarie Correnti, persone diverse dalle attuali e il più lontano possibile dal fetore putiniano.
Presentazione alla Gente di veri progetti e non di chiacchiere e sorrisi.
Il Partito Democratico di Socialisti Cristiani (PDSC) deve ripartire da solo, fosse anche da un 20%  di consenso iniziale.
È una IDEA RESILIENTE, già tradita una volta dalla cattiva politica adesso, noi elettori, non ci si cadrebbe una seconda volta.
ggiannig

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Giulio Manfredi

Francesca Albanese. L’ultimo mito, il più cupo, della sinistra italiana
di  Andrea Romano

Da sempre la politica sceglie totem che riassumano l’identità (come Kirk a destra). La sinistra lo ha sempre fatto ma, da San Suu Kyi a Zapatero, erano miti di speranza. Ora è una maestra di livore indirizzato soprattutto contro Segre, reduce di Auschwitz
08 Ottobre 2025 alle 09:42
Non è indispensabile aver letto Roland Barthes per sapere che anche la politica contemporanea e il consenso democratico vivono di mitologie. D’altra parte succede tanto a destra quanto a sinistra di pescare un pezzo più o meno grande di realtà e di costruirci intorno quanto serve perché l’elettore o il militante possano riconoscervi subito un’identità politica. Si sa che in politica i miti servono a dire, senza usare troppe parole, “Noi siamo quella cosa lì”. Quindi nessuno scandalo se la destra italiana si è appropriata poche settimane fa dell’icona del povero Charlie Kirk, che pure non aveva mai citato neanche per sbaglio quando era ancora in vita, o se la sinistra italiana oggi è alle prese con il mito di Francesca Albanese.
Eppure non ricordo che nella storia recente della sinistra italiana vi sia mai stata una mitologia tanto cupa, torva e autolesionistica quanto la santificazione di Francesca Albanese. Giuro: mi sono sforzato di trovare qualcosa di simile andando indietro fino al 1989, quando a sinistra fu archiviata con il comunismo la mitologia più potente di sempre (cupa anch’essa, nella realtà di chi la subiva, ma vissuta dalle nostre parti come sincera attesa di emancipazione). Niente da fare. Tutti i precedenti che mi sono venuti in mente erano costruiti su mattoni di speranza, anche se di tonalità di volta in volta diverse.
Mentre tutto ad Est crollava già Achille Occhetto aveva provato a sparigliare con gli indios dell’Amazzonia, sfidando le perplessità di uno degli ultimi congressi del Pci per tentare l’azzardo di una svolta ambientalista. Poi i ragazzi di Tien An Men che ci conquistarono con l’illusione di poter democratizzare il regime cinese, da cui sarebbero stati letteralmente fatti a pezzi. E ancora la metà degli anni Novanta e la Terza Via. Per carità, troppo ottimistica vista con il famoso senno di poi: eppure che meraviglia vedere la sinistra europea che vinceva quasi ovunque parlando di crescita economica, Europa, diritti e coesione. E poi l’icona di Aung San Suu Kyi trasportata dalle lontanissime prigioni birmane all’Italia da Walter Veltroni, che della costruzione di mitologie aveva già fatto un mestiere, a significare quanto fosse universale la battaglia contro le dittature. A seguire, l’infilata di leader della sinistra mondiale tutti diversi ma per noi tutti uguali come scaldacuori. Tony Blair il cui nome ancora si poteva pronunciare senza timore di essere scomunicati; Inácio Lula che trionfava nel voto dopo decenni di clandestinità e prigionia; José Luis Rodríguez Zapatero che ai bei tempi in cui il problema con gli Stati Uniti si chiamava Bush junior ci restituiva un po’ di antiamericanismo soft e soprattutto d’impegno sui diritti di nuova generazione; persino su Alexis Tsipras abbiamo (hanno) costruito un mito, piccolino ma funzionale a quella parte della sinistra che era già sovranista senza neanche saperlo.
L’icona di Francesca Albanese non somiglia a nessuna di queste, perché nell’impasto con cui è costruito il suo mito manca anche il minimo tratto di speranza o di emancipazione. Invece del luminoso eroismo del testimone, il suo profilo vive di furbizia e dissimulazione. A partire dal nemico principale che si è scelta nel nostro dibattito pubblico. Un nemico che non è Israele ma Liliana Segre, verso la quale coltiva quella che il figlio Luciano oggi sul Corriere della Sera ha definito con precisione “un’ossessione”. L’Albanese non ha il coraggio di dire quello che affermano tutti coloro che come lei sono ossessionati dalla figura della Segre e da quello che rappresenta (farsi un giro sui social per averne conferma, digitare “#LilianaSegre" e prepararsi ad una valanga di fango nazistalinista). Ovvero che la Segre è un’impostora. E se non lo è allora si è meritata tutto quello che è capitato a lei, alla sua famiglia e a tutti i sei milioni di ebrei inceneriti dalla Shoah. L’Albanese non è così sprovveduta. Si limita ad affermare che la Segre non sarebbe “né imparziale né lucida”. Si fa ritrarre sorridente accanto al suo ritratto, aggiungendo “indifferenza” e “#GazaGenocide” e giù tutti a ridere alla sagace trollatura. Allude persino alle “pietre d’inciampo”, dalle quali manca effettivamente il nome della Segre perché persino l’Olocausto ebbe qualche inefficienza, trattandole come ostacoli arbitrari alla sua logica. La stessa logica che solo gli “accademici sionisti” avrebbero l’ardire di contestare, a sentir lei.
Io non so se l’Albanese sia antisemita, se sia una giurista capace, se sia solo una furbacchiona. Ho qualche sospetto, ma lo tengo per me. Quel che so è che la sinistra che mitizzava una volta Blair e l’altra Zapatero, scegliendosi con speranza e ottimismo il santo che meglio rappresentava quel certo spirito del tempo, avrebbe guardato al suo personaggio con totale estraneità. Forse senza metterla nel folto gruppo dei negazionisti della Shoah (che non è popolato solo da chi nega Auschwitz, ma anche da coloro che ne perseguitano la memoria e i testimoni attendendo con ansia il giorno in cui non ne rimarrà più neanche uno), ma certamente guardandola con l’indifferenza che si deve a chiunque tra tanti possibili avversari si sceglie una signora di 95 anni che ha l’unica colpa di essere sopravvissuta all’Olocausto. E invece no. Invece dell’estraneità abbiamo l’avvilente processione a renderla cittadina onoraria, il masochismo di sindaci che gioiscono delle sue frustate e del suo perdono, lo sgomitare nel volerle stringere la mano. Ma in fondo è proprio vero che ogni tempo (e ogni sinistra) ha l’eroe che si merita. E alla sinistra di questo tempo di sconfitte, rassegnazione e subalternità politica è toccata in dote l’Albanese.

da FB


 47 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 07:07:31 pm 
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Il padre di Telegram: "il tempo per salvare internet sta finendo"
"Compio 41 anni, ma non ho voglia di festeggiare", l'amaro sfogo di Pavel Durov
Alessandro Frau
10 ottobre 2025

AGI - Nel giorno del suo 41esimo compleanno Pavel Durov, fondatore di Telegram, ha voluto condividere sul suo canale un'amara analisi su ciò che sta succedendo nel mondo di internet, attaccando alcune delle misure che i governi stanno adottando in tutto il mondo.

"Compio 41 anni, ma non ho voglia di festeggiare. La nostra generazione ha ancora poco tempo per salvare l’Internet libero costruito per noi dai nostri padri". Per Durov "quella che un tempo era la promessa dello scambio libero di informazioni si sta trasformando nel più potente strumento di controllo mai creato".

"Ore contate per l'accesso libero al web"
Uno scenario orwelliano quello dipinto dall'imprenditore russo. "Paesi un tempo liberi stanno introducendo misure distopiche come le identità digitali (Regno Unito), i controlli sull’età online (Australia) e la sorveglianza di massa dei messaggi privati (Unione Europea)".

Ma non solo: "In Germania, chi osa criticare i funzionari pubblici su Internet viene perseguitato. Nel Regno Unito, migliaia di persone vengono incarcerate per i loro tweet. In Francia, i leader tecnologici che difendono libertà e privacy sono sotto inchiesta penale".

La chiamata alle 'armi digitali'
Per Durov, insomma, "un mondo oscuro e distopico si sta avvicinando rapidamente, mentre noi dormiamo". Quella del fondatore di Telegram è una vera chiamata alle armi digitali: "La nostra generazione rischia di passare alla storia come l’ultima ad aver conosciuto la libertà, e ad averla lasciata portar via. Ci hanno venduto una menzogna".

"Ci hanno fatto credere che la più grande battaglia della nostra epoca fosse distruggere tutto ciò che i nostri antenati ci hanno lasciato: la tradizione, la privacy, la sovranità, il libero mercato e la libertà di parola. Tradendo l’eredità dei nostri padri, ci siamo messi su un cammino di autodistruzione, morale, intellettuale, economica e, alla fine, persino biologica. Quindi no, oggi non festeggerò. Il tempo per me sta finendo. Il tempo per tutti noi sta finendo".

 48 
 inserito:: Ottobre 10, 2025, 01:02:27 am 
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Gianni Gavioli
Amministratore

Premessa:
Un solo Albero Sociale e Politico, una potatura a Vasi Policonici al posto delle parassitarie Correnti e Persone diverse dalle attuali il più lontano possibile dal fetore putiniano.

Presentazione alla Gente di veri progetti e non di chiacchiere e sorrisi.

Il Partito Democratico di Socialisti Cristiani (PDSC) deve ripartire da solo, fosse anche da un 20% di consenso iniziale.
Dopo ci si può accordare con altre realtà del Centro della politica, su singoli temi o Progetti Nazionali. Ma dopo!

Il PDSC deve vivere di vita propria in simbiosi soltanto con i propri elettori!

È una IDEA RESILIENTE, già tradita una volta dalla cattiva politica adesso, noi elettori, non ci si cadrebbe una seconda volta.


ggiannig

 49 
 inserito:: Ottobre 08, 2025, 06:00:33 pm 
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"EQUILIBRATI" I PROGETTI FORTE L'INTESA OLIVO POLICONICO NEL REALIZZARLI.
Gianni Gavioli  ·
Amministratore

Un solo Albero Sociale e Politico, una potatura a Vasi Policonici al posto delle parassitarie Correnti, persone diverse dalle attuali e il più lontano possibile dal fetore putiniano.
Presentazione alla Gente di veri progetti e non di chiacchiere e sorrisi.
Il Partito Democratico di Socialisti Cristiani (PDSC) deve ripartire da solo, fosse anche da un 20% di consenso iniziale.

Dopo ci si può accordare con altre realtà al Centro della politica, su singoli temi o Progetti Nazionali. Ma dopo!
Il PDSC deve vivere di vita propria in simbiosi soltanto con i propri elettori!
È una IDEA RESILIENTE, già tradita una volta dalla cattiva politica adesso, noi elettori, non ci si cadrebbe una seconda volta.
ggiannig

 50 
 inserito:: Ottobre 08, 2025, 05:58:21 pm 
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Alex Orsi

"il generale Tricarico: « la flottiglia è un braccio operativo di Hamas, ora le connessioni sono provate ma ormai nessuno crede a Israele»
Ci sono prove su prove, eppure le piazze si infiammano sempre di più.
Ci sono persino le prove che la flottiglia è una misura attiva del Cremlino.
Eppure chi poteva arginare questo schifo, che non è cominciato una settimana fa, ma mesi e mesi e mesi fa, non ha fatto un cazzo.
Si ha la netta sensazione che il nuovo 77 alle porte faccia comodo un po’ a tutti.
Fa comodo alla sinistra perché riprende antichi slogan e cerca il morto per camparci altri 50 anni di rendita.
Fa comodo a Mosca per dimostrare che la democrazia in Italia è agli sgoccioli.
Fa comodo anche al governo, che li lascia fare, così può restringere il cordone ancora di più.
Fa comodo anche agli analisti social che sennò che cazzo fanno dopo se lo spettacolo finisce?
Talvolta sulla mia home leggo feisamici che ritenevo più o meno intelligenti “ tifare” per la flottiglia. Bon, che dire?! Ci vedremo quando il nuovo 77 esploderà con tutta la sua potenza, e so già che vi leggerò contriti per i morti."

Sabrina de Gaetano

da FB

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