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Pil Italia: Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto guideranno la crescita 2024

di Mariangela Tessa
22 Luglio 2024 09:58
 
Anche nel 2024 la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto saranno le tre regioni che traineranno il Pil reale nazionale che, stando ai principali istituti di statistica, dovrebbe attestarsi attorno al +0,7 per cento, contro il +0,1 per cento della Germania, il +0,7 per cento della Francia e il +2,1 per cento della Spagna.
INDICE
1.   Le regioni più veloci
2.   Uno sguardo ai settori
3.   Ripresa post Covid
Le regioni più veloci
Dalle previsioni di crescita elaborate dall’Ufficio studi della CGIA su dati Prometeia emerge infatti che in Lombardia la stima di crescita per l’anno in corso dovrebbe essere dello 0,95%, in Emilia Romagna dello 0,86% e in Veneto dello 0,80%, sopra la media nazionale.
Tra le due regioni del Nordest, comunque, si inserirebbe la Valle d’Aosta con un aumento della ricchezza dello 0,81%. Un risultato, quest’ultimo, senz’altro positivo, ma con un impatto sull’economia nazionale contenutissimo, visto che la provincia valdostana ha un Pil in valore assoluto molto modesto e conta solo 123 mila abitanti.
“Ricordiamo, invece, che messe assieme, le altre tre regioni richiamate più sopra producono il 41% del Pil nazionale, il 53% circa delle esportazioni italiane e vi risiedono oltre 19 milioni di persone, il 33% dell’intera popolazione presente nel nostro Paese” spiega l’analisi.

Se le altre regioni del Centronord cresceranno tutte con incrementi che vanno dallo 0,5 per cento in su, per contro le realtà geografiche del Mezzogiorno segneranno una variazione di crescita, sebbene sempre anticipata dal segno più, ma di modesta entità. Ad eccezione della Campania che dovrebbe aumentare il proprio Pil reale dello 0,57 per cento, le previsioni della Sardegna sono pari al +0,49 %, per la Sicilia al +0,46%, per la Basilicata al +0,37 %, per la Puglia al +0,36 %, per l’Abruzzo e per la Calabria al +0,23% e per il Molise al +0,22 %.
È vero che le distanze tra le regioni sono “millimetriche”, tuttavia la spaccatura tra Nord e Sud, anche in termini di aumento del Pil reale per l’anno in corso, è molto evidente” continua l’analisi.
Uno sguardo ai settori
Se, come ha avuto modo di segnalare nelle settimane scorse la Banca d’Italia, nel 2024 la crescita dell’Italia sarà molto contenuta e in massima parte sostenuta dal buon andamento dei servizi (in particolare dal turismo) e delle esportazioni. L’industria in senso stretto, invece, è destinata a subire un deciso ridimensionamento: in particolare nel settore della moda (tessile, abbigliamento, calzature e accessori), dell’automotive e del metallurgico (produzioni siderurgiche, di semilavorati e di preziosi).
Anche gli investimenti non dovrebbero subire particolari incrementi, mentre i consumi delle famiglie sono destinati a salire nella seconda parte dell’anno, dopo la flessione registrata tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024.
Ripresa post Covid
Rispetto all’anno pre Covid, Abruzzo e Umbria devono ancora recuperare il terreno perduto. Se misuriamo la variazione del Pil reale tra il 2024 e il 2019 (anno pre pandemico), quasi tutte le regioni hanno recuperato abbondantemente il terreno perduto, in particolare nel 2020 che, ricordiamo, ha costretto tantissime attività economiche a chiudere e buona parte degli italiani a rimanere in casa.
Ebbene, se da questo confronto la Lombardia può contare su un Pil del 6,65 % superiore al dato conseguito nel 2019, la Puglia ha registrato uno straordinario +6,18 % e l’Emilia Romagna +5,62 % Bene anche le altre tre regioni del Nordest: se il Trentino Alto Adige può contare su una variazione del +4,98 %, il Friuli Venezia Giulia del +4,77 % e il Veneto del +4,60 %. Le uniche realtà che, invece, non sono ancora ritornate ai livelli pre-Covid sono l’Abruzzo con il -0,23 % e l’Umbria con il -0,26 %.


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Autonomia differenziata, Lep e servizi per il mercato del lavoro, elezioni francesi e accordo di desistenza, crescita italiana, produttività e confronto con Francia, Next Generation EU, Pnrr e trappola dello sviluppo

Mentre la Campania chiede il referendum abrogativo, per capire cosa potrà accadere con la legge sull’autonomia differenziata si può guardare a come le singole regioni hanno gestito e monitorato i Lep sui servizi per il mercato del lavoro, in vigore dal 2018 e largamente finanziati dal Pnrr. I risultati non appaiono molto incoraggianti. In Francia, l’accordo di desistenza tra la coalizione che fa riferimento al presidente Macron e il Nuovo fronte popolare ha portato alla sconfitta del Rassemblement National di Marine Le Pen. Avrebbe potuto funzionare anche in Italia nel 2022? La nostra legge elettorale non permette il voto disgiunto, ma un’alleanza simile avrebbe cambiato qualcosa nell’assegnazione dei seggi, almeno al Senato. L’Italia non cresce, ormai da molti anni, perché la produttività non cresce. Il confronto con la Francia, un paese per molti versi simile al nostro, è impietoso. Le cause dei nostri ritardi hanno forse a che vedere con la dimensione delle imprese: piccole quelle italiane, grandi quelle francesi. Le regioni del Mezzogiorno sembrano cadute in una “trappola dello sviluppo”, che impedisce di migliorare la situazione economica nonostante le tante risorse messe a disposizione. Per riprendere la via della crescita, serve rafforzare le strutture amministrative, investendo soprattutto in capitale umano. Next Generation EU e Pnrr indicano come farlo.

“L’Europa oltre le elezioni” è il titolo dell’e-book nel quale abbiamo riunito gli articoli su tematiche europee pubblicati di recente su lavoce.info. Affrontano temi come politiche energetiche e ambientali, immigrazione, Patto di stabilità, decisioni di politica monetaria, riforma del MES e molto altro. Una sezione introduttiva esplora le tendenze elettorali e le percezioni dei cittadini europei riguardo il futuro dell'Europa. Lo proponiamo ai lettori perché possano trovarvi informazioni utili per comprendere le problematiche che l’Unione dovrà affrontare nei prossimi anni.

Spesso un grafico vale più di tante parole: seguite la nostra rubrica La parola ai grafici.

Sabato 13 luglio sarà in edicola e sul web il nuovo numero di eco su economia e criminalità. Nel frattempo, è disponibile il terzo numero, che è dedicato alla salute, alle difficoltà del sistema sanitario nazionale e alle disuguaglianze che originano da diverse condizioni di benessere, di accesso alle cure e ai servizi sanitari. eco, il nuovo mensile di economia diretto da Tito Boeri, vuole riprendere nella carta stampata la missione che lavoce.info svolge nel web: promuovere analisi basate sui dati, usando un linguaggio comprensibile, ma senza mai banalizzare la complessità dei problemi. Lavoce.info contribuisce regolarmente a eco con la rubrica “Grafico del mese”: in questo numero mostra come a subire di più gli effetti del cambiamento climatico saranno i paesi che inquinano di meno.

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La desistenza all’italiana sposta seggi in parlamento?
DI FEDERICO BRUNI IL 09/07/2024 IN IN EVIDENZA
Un patto alla francese avrebbe funzionato alle ultime elezioni politiche in Italia? La nostra legge elettorale è molto diversa, quindi le condizioni dell’accordo sono più difficili da realizzare. Ma qualcosa avrebbe potuto cambiare, soprattutto al Senato.

Cos’è la desistenza
Dopo il successo del Rassemblement National al primo turno delle elezioni legislative francesi, il Nuovo fronte popolare e la coalizione presidenziale hanno dato vita a più di 200 désistements al ballottaggio del 7 luglio. Si tratta di accordi di “desistenza”, in cui il candidato arrivato terzo al primo turno ha ritirato la propria candidatura al ballottaggio, per permettere al secondo candidato di superare il candidato di Rn.

Sulla base dei risultati del secondo turno, la strategia sembra aver funzionato: i candidati di Rn non sono riusciti a vincere nell’80 per cento dei collegi elettorali interessati dai “ritiri” (173 su 215).

Il concetto di desistenza non è inedito in Francia, invece è un fenomeno più raro in Italia. Una delle strategie che permise a Romano Prodi di vincere le politiche del 1996 fu un patto di desistenza tra l’Ulivo e il Partito della rifondazione comunista, siglato con lo scopo “di battere una destra pericolosa per il paese”. Più di recente, si è parlato di desistenza tra Pd e M5s per le comunali del 2019, per le regionali del 2020 e alle politiche del 2022. Anche negli ultimi giorni, Elly Schlein e Carlo Calenda hanno definito giusta e inevitabile la strategia della desistenza scelta in Francia, sollevando una domanda interessante: uno scenario simile sarebbe possibile alle elezioni politiche in Italia?

Cosa sarebbe accaduto nel 2022 in Italia
Da un punto di vista tecnico la risposta è negativa, in quanto la legge elettorale attuale non permette il voto disgiunto (legge 351/1957 art. 31). Se anche il M5s (o qualsiasi altra lista) non avesse presentato un suo candidato in un collegio uninominale, un ipotetico elettore pentastellato non avrebbe potuto scegliere un candidato del Pd senza dare automaticamente il suo voto al Pd anche nel collegio plurinominale. Ciononostante, da un punto di vista analitico, la domanda rimane interessante: se i partiti oggi all’opposizione avessero siglato patti di desistenza alle politiche del 2022 (e il voto disgiunto fosse stato possibile), i risultati delle ultime elezioni sarebbero stati materialmente diversi?
È una domanda caratterizzata da molte incertezze: non sappiamo quanti elettori della coalizione di centrosinistra avrebbero votato i candidati del M5s, in assenza di un candidato del “loro” partito e viceversa. Non sappiamo se il fatto stesso di aver stipulato un patto di desistenza con un alleato meno gradito avrebbe portato alcuni elettori ad astenersi o a votare il centrodestra. Così come non sappiamo se alcuni astenuti avrebbero scelto di recarsi alle urne per votare il centrodestra (o uno dei partiti oggi all’opposizione), se il risultato fosse stato meno scontato. Tuttavia, possiamo fare qualche ipotesi per valutare la plausibilità di uno scenario in cui il risultato elettorale sarebbe stato diverso grazie a un’ipotetica strategia della desistenza.

I seggi alla Camera
Nel 2022, la coalizione di centrodestra ottenne 235 seggi alla Camera: 35 in più della soglia di maggioranza. 114 di questi seggi furono vinti con il sistema proporzionale e ben 121 nei collegi uninominali (su un totale di 146). Cosa sarebbe dovuto succedere affinché il centrodestra vincesse 35 collegi uninominali in meno?
Oltre al combattutissimo collegio di Ravenna, dove la candidata del Pd perse per soli 52 voti, ci sono altri 14 collegi dove il risultato sarebbe stato diverso se:
Terzo partito non avesse presentato un candidato (in sette casi il M5s e in altri sette il centrosinistra);
il 50 per cento dei suoi elettori avesse votato il candidato del secondo partito; e
il 90 per cento degli elettori del secondo partito avesse votato allo stesso modo nonostante il patto di desistenza.
Il primo scenario appare plausibile, ma non sarebbe stato sufficiente a determinare una maggioranza diversa a Montecitorio. Perché ciò accadesse, due terzi (67 per cento) degli elettori del terzo partito avrebbero dovuto votare il secondo partito e tutti gli elettori (100 per cento) del secondo lo avrebbero dovuto votare nonostante i patti di desistenza.

Il secondo scenario avrebbe “tolto” 36 seggi al centrodestra, ma appare relativamente meno probabile, in quanto:
al centrodestra sarebbe “bastato” aumentare i propri voti del 2,5 per cento (elettori che si astennero o che votarono il terzo polo, ma che avrebbero potuto votare centrodestra se la gara fosse stata più serrata) per tornare a una maggioranza di 5 seggi;
un sondaggio aneddotico su Twitter (quindi con valenza statistica molto limitata) stimava intorno al 42-43 per cento gli elettori del Pd e del M5s disposti a votare un candidato dell’altro partito per impedire al centrodestra di vincere nel 2022: una stima imprecisa, ma distante dal 67 per cento necessario.
per dare un termine di paragone, ai ballottaggi francesi del 7 luglio, un sondaggio Ipsos ha stimato che il 72 per cento degli elettori del Nuovo fronte popolare avrebbe votato un candidato “macronista” al secondo turno, ma meno della metà degli elettori di Ensamble avrebbero votato un candidato del fronte popolare al ballottaggio (addirittura il 43 per cento nel caso di un candidato de La France Insoumise);
l’identificazione dei collegi in cui il secondo candidato avrebbe vinto in assenza del terzo è semplice con i risultati definitivi alla mano (così come hanno fatto i partiti francesi con i risultati del primo turno), ma è più complessa e imprecisa da effettuare a priori sulla base di sondaggi (costosi e raramente in grado di coprire tutti i collegi) e delle sensazioni raccolte nei territori.
Infine, un terzo scenario meno probabile è quello in cui la totalità (100 per cento) dei voti del terzo partito sarebbero confluiti sul secondo, portando il totale dei seggi sottratti al centrodestra a 52: ben aldilà dei 35 seggi necessari a determinare una maggioranza diversa alla Camera.

I seggi al Senato
Il centrodestra ha eletto 112 senatori, di cui la metà (56) col maggioritario. Sarebbero quindi bastati 12 collegi in più ai partiti oggi all’opposizione per generare un risultato diverso a Palazzo Madama.
Riprendiamo la situazione indicata per la Camera. Nel primo scenario (in cui il 50 per cento degli elettori del terzo partito avrebbe votato il secondo partito e il 90 per cento degli elettori del secondo partito avrebbe continuato a votarlo nonostante i patti di desistenza), il centrodestra avrebbe ottenuto 5 seggi in meno, mantenendo una risicata maggioranza.
Tuttavia, se tutti gli elettori (100 per cento) del secondo partito lo avessero votato anche in presenza di accordi di desistenza, sarebbe stato “sufficiente” convincere il 55 per cento degli elettori della terza lista a votare il candidato del secondo partito per strappare al centrodestra 12 seggi e privare la coalizione oggi al governo di una maggioranza al Senato. Qualora alcuni candidati del terzo polo avessero partecipato ai patti di desistenza, la percentuale avrebbe potuto essere anche più bassa.
Benché sia impossibile stringere patti di desistenza con la legge elettorale attuale, è possibile che una strategia simile a quella realizzata in Francia avrebbe generato risultati materialmente diversi alle elezioni politiche del 2022, soprattutto al Senato. Sarebbe potuto succedere solo se i principali partiti di opposizione fossero stati in grado di (i) prevedere con relativa precisione chi sarebbe arrivato secondo in ciascun collegio e concordare le desistenze di conseguenza; (ii) convincere la totalità dei propri elettori a votare il proprio candidato nonostante i patti di desistenza con un alleato meno gradito; (iii) dirottare una buona parte (almeno due terzi alla Camera) dei voti dei propri elettori sui candidati degli altri partiti coinvolti; e (iv) sperare che la presenza stessa di questi patti non avrebbe convinto alcuni astenuti a votare centrodestra.

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 inserito:: Luglio 26, 2024, 11:59:21 pm 
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Salvini scommette sui Patrioti di Orban, Meloni prova a blindare Ecr
Grandi manovre a destra al Parlamento Europeo.

Il leader leghista sempre più vicino al gruppo fondato dal premier ungherese insieme agli austriaci di Fpo e i cechi di Ano. E la premier teme che si aggiungano i polacchi del PiS, oggi suoi alleati

Federica Valenti 02 luglio 2024

Alessandro Serranò / AGF - Meloni e Salvini

UEVIKTOR ORBANMATTEO SALVINIGIORGIA MELONIECR

AGI - Matteo Salvini è sempre più vicino ai 'Patrioti' fondati da Viktor Orban. Una "strada giusta" - l'ha definita il segretario leghista -, quella avviata dal primo ministro ungherese, insieme agli austriaci dell'Fpo e i cechi di Ano. L'obiettivo è quello che Salvini insegue da anni: ovvero dare vita a un grande gruppo alternativo alle sinistre in Europa. E il primo passo è la costruzione di una alleanza aperta a chi è stato escluso dall'accordo sui top job tra Ppe, Socialisti e Liberali, definito "colpo di Stato" del vice premier italiano. Il risultato auspicato quindi sarebbe la creazione di un eurogruppo più ampio di Identità e democrazia, dove attualmente la Lega siede insieme ai francesi del Rassemblement national.

Ai 'Patrioti per l'Europa già aderiscono Fpo, storico alleato della Lega, tra i fondatori di Id, e, da oggi, i portoghesi di Chega, di recente molto vicini al gruppo nato dall'intuizione di Salvini e Le Pen. In attesa di vedere cosa farà il Rn - che potrebbe non scegliere prima dell'esito del secondo turno delle legislative di domenica -, quindi, il leghista mette una fiche sul progetto di Orban, che pare invece non interessare ai Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, quantomeno allo stato.

FdI è in trattativa con gli alleati del PiS, insieme al quale co-presiede i Conservatori europei. I polacchi però potrebbero aderire ai nuovi 'Patrioti', superando le distanze storiche con Orban, considerato un tempo troppo filo-russo. "Siamo in trattativa con Ecr e questo è l'elemento principale che deciderà del nostro futuro", ha detto, nei giorni scorsi, l'ex primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, specificando che il PiS è tentato di andare "in entrambe le direzioni". "Direi che la probabilità è del 50-50", ha spiegato, aggiungendo che "non è garantito" che il PiS rimanga in Ecr. Entro mercoledì dovrebbe esserci una decisione. In FdI non si crede che alla fine il PiS possa realmente lasciare Ecr ma niente è escluso allo stato. Si tratterebbe di una delle ipotesi meno vantaggiose per il primo partito di governo italiano, perché ridimensionerebbe considerevolmente la consistenza del gruppo che Meloni presiede, che, perdendo i 20 del PiS, passerebbe così da 83 a 63 eurodeputati.
Chi non ha dubbio alcuno di ricollocamento è Forza Italia, parte integrante dei Popolari europei. Per tutta la campagna elettorale, il segretario nazionale di FI Antonio Tajani si è speso a favore dell'apertura di un dialogo tra il Ppe e i Conservatori di Meloni, a discapito dei Verdi. Tajani lo ha ribadito anche in giornata, sostenendo che la maggioranza che sosterrà la nuova commissione di Ursula von der Leyen in Europarlamento dovrà essere solida e avrà quindi bisogno dei voti di FdI.
Von der Leyen oggi ha avuto un primo incontro con i Verdi. La trattativa è appena entrata nel vivo e appare prematura ogni previsione sul voto dei 24 eurodeputati di FdI. Meloni, che si è comunque lasciata la porta aperta astenendosi sulla indicazione di von der Leyen in consiglio europeo, lascia tutte le opzioni sul tavolo in attesa di capire quale ruolo può ottenere per l'Italia nel nuovo esecutivo. L'obiettivo dichiarato della premier è di "fare meglio" di quanto fatto dal Pd nel 2019 e quindi ottenere un portafoglio economico importante e una vice presidenza della commissione per il candidato italiano che sembra essere il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto. Il voto di FdI in Europarlamento dipenderà tutto da come andrà il negoziato.

Da - https://www.agi.it/politica/news/2024-07-02/orban-patrioti-salvini-meloni-ecr-ue-26981468/

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 inserito:: Luglio 25, 2024, 05:36:06 pm 
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È il simbolo del mio impegno, sul web e nei social, da 25 anni.

Hanno rovinato e reso improduttivo l'ULIVO.
Io riparto con l'OLIVO POLICONICO, una Intesa tra pensiero e politiche di Centro progressista e di Sinistra riformista.

Ma anche con l’OPON Opinione Pubblica Organizzata Nazionale.

Per tutte e due le iniziative : lavori in corso.
ggiannig


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 inserito:: Luglio 22, 2024, 12:26:40 am 
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Costantino de Blasi
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Allora, spieghiamo all'euronorevole Piernicola Pedicini - Portavoce M5S al Parlamento Europeo e al giornalista Vito Lops che cosa non hanno capito del funzionamento degli interessi sugli acquisti di titoli di Stato e perché quello che sostiene il primo sui social e il secondo su Il Sole è una cazzata.
La BCE effettua da anni acquisti sul mercato secondario dei nostri titoli di debito pubblico. Per effettuare gli acquisti si avvale delle 6 banche centrali che fanno parte dell'eurosistema, quindi anche la Banca d'Italia.
Gli attivi della Banca, fra cui anche gli interessi, concorrono al bilancio d'esercizio. Se il bilancio si chiude in utile vengono distribuiti dividendi, se il bilancio si chiude in passivo NON vengono distribuiti dividendi.
NON è vero che gli interessi sul debito pubblico spettano al Dipartimento del Tesoro. La confusione dei due improvvidi paladini della monetizzazione deriva dal fatto che l'art. 38 dello Statuto della Banca d'Italia prevede che gli utili siano così destinati:
fino al 20% a riserva
fino al 6% ai partecipanti al capitale
fino al 20% a riserva straordinaria
il residuo allo Stato
I 7,87 miliardi del 2019 destinati allo Stato sono reali (per la precisione 7.866.849,566) ma non sono interessi sul debito. Sono il residuo degli utili.
Inoltre la quota detenuta da banca d'Italia su un totale di titoli circolanti di 2.000 miliardi è a fine 2019 il 19,8%, 395 miliardi. Il costo per cassa del debito pubblico è il 2,74%; nel 2019 la spesa per interessi è stata di 60 miliardi. Pur ammettendo di recuperare sempre questi 7,8 miliardi (ma prima o poi arriverà il tapering e quanto distribuito entra in parte nel fondo di ammortamento, in parte nel conto di tesoreria e in altra parte nel bilancio del MEF) resta uno squilibrio che per il 2019 sarebbe stato di 52,2 miliardi. Significa che avremmo un costo per cassa invece che del 2,74% del 2,37%; altro che indebitiamoci a tasso zero grazie alla BCE!
Non solo, con il DEF e il decreto liquidità il fabbisogno di nuove emissioni è stato portato da 83 miliardi a 155 miliardi; se, come probabile, la BCEdovesse riequilibrare gli acquisti in base al capital key, la quota di nuovo debito acquistato in base al PEPP sarà prossimo al 12,31%, circa 18 miliardi. Restano scoperti 130 e passa miliardi.
Infine, anche se il costo del debito MES fosse lo 0,8% (ma è inferiore perché l'onorevole imputa a costo il margine di negoziazione) non sarebbe ancora molto più conveniente di quanto paghiamo su quello orgogliosamente domestico?
Fra il 2015 e il 2019 abbiamo speso per interessi 265 miliardi. Non è il caso di avere polluzioni notturne per un risparmio (presunto) di 35
da FB


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 inserito:: Luglio 21, 2024, 06:41:05 pm 
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Crowdstrike, storia e affari del colosso della cybersecurity che per un bug ha mandato in blackout il mondo
È una delle più importanti società di cybersicurezza a livello mondiale. È già finita al centro di teorie del complotto alimentate da Trump

Stand di Crowdstrike a una fieraDavid Paul Morris/Bloomberg via Getty Images
Tre settimane fa Crowdstrike faceva il suo ingresso nello S&P 500, l'indice che riunisce le 500 aziende più capitalizzate in Borsa. Un successo subito messo in ombra da un bug a un aggiornamento per Microsoft di Falcon Sensor, uno dei programmi di sicurezza informatico del colosso a stelle e strisce della cybersicurezza. Un problema che sta mettendo in crisi aeroporti, banche, televisioni e Borse in tutto il mondo, con conseguenze pesanti che presto si tradurranno in un calcolo dei danni provocati dall'interruzione del sistema. Mettendo a rischio l'immagine e il business della società, che a inizio giugno chiudeva un trimestre con 921 milioni di dollari di ricavi.
Storia e affari
Nata nel 2011, quotata nel 2019, Crowstrike è uno dei più importanti operatori di cybersecurity a livello globale. Il suo prodotto di punta è proprio quello finito al centro del blocco dei servizi Microsoft: Crowdstrike Falcon, una piattaforma cloud di difesa dalle minacce informatiche composta da 20 moduli, che fornisce vari indicatori dall'esposizione ai rischi, soprattutto sulla postura esterna dell'azienda che la adotta. Nel secondo trimestre dell'anno gli abbonamenti al sistema di cybersecurity hanno reso all'azienda con sede ad Austin, in Texas, circa 872 milioni di dollari.
Crowdstrike, avviata da George Kurtz, 59enne amministratore delegato già responsabile tecnologia di McAfee, il gruppo di cybersecurity dell'imprenditore John McAfee, vanta 29mila clienti in tutto il mondo, tra cui 298 delle 500 migliori aziende della lista della rivista Fortune, 8 delle 10 principali aziende di tecnologie e altrettante del mondo auto. È anche fornitore a diversi livelli di 43 dei 50 stati americani. Tra i super clienti ci sono LinkedIn, Amazon web services (il braccio cloud del colosso dell'ecommerce), il team Mercedes della Formula 1, la banca d'affari Goldman Sachs e il Massachussetts Institute of Technology. A maggio ha siglato un accordo con Google cloud per potenziare i servizi di gestione delle minacce e di risposta agli incidenti di Mandiant, altro colosso della sicurezza informatica che rientra nella galassia di Mountain View.
Il debutto nel club dei 500 più forti
Una serie di successi che hanno fatto guadagnare il titolo in Borsa. A Wall Street Crowdstrike approda nel 2019. E, come osservava a giugno Gabriel Debach, analista di eToro (piattaforma di investimenti online), da inizio anno le azioni dell'azienda “hanno guadagnato quasi il 50% da inizio anno, facendo salire la capitalizzazione di mercato della società di cybersicurezza a 91 miliardi di dollari, ovvero circa la stessa dimensione (un po’ meno) dell'attuale titolo Starbucks”. Tanto che insieme al gruppo di domini web Godaddy e al fondo Kkr, che ha comprato la rete di Tim, ha sostituito altre tre società nel club dello Standand & Poor's 500, uno degli indici più importanti della Borsa di New York. Nel paniere dell'indice Crowdstrike pesa lo 0,17%. Il titolo è in calo dell'8,8%, a 312 dollari, dopo la notizia dell'impatto del bug.
Le accuse di Trump
La società era stata già sotto i riflettori nel 2019, quando l'allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva menzionato Crowdstrike in una telefonata con l'omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, nel tentativo di depotenziare l'indagine condotta nel 2016 da parte della società informatica per conto del Partito democratico americano sulla violazione dei suoi sistemi informatici. Il risultato di quell'analisi aveva individuato in cyber criminali russi le mani dietro all'attacco e nel tentativo di inquinare la campagna elettorale la motivazione.

La salute globale passa dagli algoritmi. Bernardo Mariano Jr a Wired Health 2021
Si erano a quel punto diffuse numerose teorie del complotto a carico di Crowdstrike per ridicolizzare le conclusioni della sua investigazione. Per esempio, quella che legava il fatto che uno dei manager di punta della società, il responsabile tecnologico Dmitri Alperovitch, fosse di origini ucraine e pertanto avesse additato la Russia come responsabile nelle già allora crescenti tensioni tra i due stati. Alperovitch è un cittadino statunitense di origine russa. Cinque anni fa Trump aveva dato credito a queste false teorie nei suoi contatti con Zelensky. Forse dimenticando che proprio Crowdstrike era stata ingaggiata dai Repubblicani nel 2018 per indagare sull'attacco informatico ai loro danni.

In Those About to Die, la serie che riporta in auge il peplum, c'è un antieroe che amerete
di Lorenza Negri

Problema Microsoft, che cosa fare se il tuo computer è rimasto bloccato
di Redazione
Scienza

Perché non tutti perdono peso allo stesso modo
di Marta Musso
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Le storie da non perdere di Wired
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 inserito:: Luglio 21, 2024, 06:38:43 pm 
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AMERICA LATINA
Il futuro del Venezuela
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Camilla Desideri, giornalista di Internazionale
20.7.2024
 
La leader dell’opposizione María Corina Machado e il candidato presidenziale Edmundo González Urrutia a Valencia, il 13 luglio 2024.
(Gaby Oraa, Reuters/Contrasto)
Il 28 luglio in Venezuela si terranno le elezioni e più di 21 milioni di persone saranno chiamate a scegliere chi guiderà il paese per i prossimi sei anni. Il leader socialista Nicolás Maduro, eletto nel 2013 dopo la morte di Hugo Chávez, è in cerca del suo terzo mandato consecutivo, mentre l’opposizione, che nel 2018 aveva boicottato il voto, questa volta si presenta unita e intenzionata a raccogliere la voglia di cambiamento del paese. Il suo candidato è Edmundo González Urrutia. Ex diplomatico, era praticamente uno sconosciuto nel paese fino a qualche mese fa.
La scelta della Plataforma unitaria democrática (Pud), la coalizione che riunisce vari partiti dell’opposizione, è caduta su Urrutia, 74 anni, dopo la sentenza della corte suprema che a gennaio ha escluso María Corina Machado dalla corsa elettorale, dichiarandola ineleggibile per quindici anni per irregolarità amministrative e per aver sostenuto le sanzioni statunitensi contro il governo di Caracas.
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Secondo i sondaggi, Urrutia è in vantaggio e potrebbe vincere se le elezioni si svolgessero senza irregolarità. Ma il governo controlla tutte le istituzioni e l’ondata repressiva degli ultimi mesi non fa ben sperare sulla disponibilità del leader chavista ad accettare una transizione con garanzie e a riconoscere un’eventuale sconfitta. Una vittoria di Maduro, invece, potrebbe eliminare completamente l’opposizione dalla mappa politica e rafforzare ulteriormente il governo del leader socialista.
La campagna elettorale è cominciata ufficialmente il 4 luglio e in soli dieci giorni 71 persone vicine all’opposizione sono state arrestate, secondo l’ong Laboratorio de paz. Vari collaboratori stretti di Machado, del suo partito Vente Venezuela, erano già stati fermati mesi fa e qualcuno è ancora rifugiato nell’ambasciata argentina a Caracas. È stato arrestato anche l’autista di un camion su cui hanno viaggiato Machado e González Urrutia durante una manifestazione il 13 luglio nella città di Valencia, con l’accusa di aver investito due passanti, e un’altra persona che allo stesso evento ha distribuito dell’acqua.
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Il Venezuela di Maduro vacilla
Inoltre, le autorità tributarie hanno ordinato la chiusura di un piccolo ristorante dove si erano fermati a mangiare i due leader dell’opposizione. Attivisti e membri dell’opposizione hanno reso noto che nelle ultime settimane alberghi, ristoranti e un chiosco che vende empanadas sono stati multati per aver servito Machado e il suo staff. Il 18 luglio Machado ha denunciato che le auto usate per la campagna elettorale sono state vandalizzate e che il suo capo della sicurezza, Milciades Ávila, è stato arrestato all’alba mentre era in casa. Secondo la leader di centrodestra la detenzione di Ávila, accusato di presunta violenza contro alcune donne che si sarebbero scagliate contro Machado e González Urrutia, fa parte della strategia di intimidazione del governo.
Se contrariamente ai pronostici vincerà Maduro, è probabile che altri venezuelani si uniranno ai quasi otto milioni che dal 2013 a oggi sono emigrati a causa della crisi economica, sociale e politica. Un sondaggio condotto a maggio dalla società Meganálisis stima che il 40 per cento dei venezuelani – in gran parte giovani – prenderà in considerazione la possibilità di partire se non ci sarà un cambio di governo. Molti andranno nei paesi vicini, primo tra tutti la Colombia, altri sceglieranno mete più lontane, come gli Stati Uniti. Nel 2023 più di 328mila venezuelani hanno attraversato il Tapón del Darién (tappo del Darién), una distesa di circa 25mila chilometri quadrati di montagne, paludi e foreste pluviali al confine tra Colombia e Panamá, infestata da animali feroci e controllata dai gruppi criminali. Dall’ottobre del 2019 le autorità statunitensi di frontiera hanno registrato l’ingresso nel paese di circa ottocentomila migranti provenienti dal Venezuela e dal 2021 più di 450mila venezuelani sono entrati negli Stati Uniti con lo status di protezione temporanea o con lo status di rifugiati.


Per quanto riguarda la trasparenza del voto, a maggio il Consiglio nazionale elettorale ha revocato l’invito agli osservatori dell’Unione europea. E pochi giorni dopo il governo colombiano, guidato dal presidente Gustavo Petro, ha reso noto che non manderà i suoi osservatori perché non c’è stato il tempo per mettere in piedi una squadra con le caratteristiche giuste per una missione di questo tipo. Anche se gli osservatori internazionali non possono assicurare il corretto svolgimento dello scrutinio, scrive Tamara Taraciuk Broner su Americas Quarterly, aiutano gli elettori a sentirsi più protetti e sicuri. A preoccupare sono anche le difficoltà burocratiche che molti elettori stanno incontrando per registrarsi per votare, sia in Venezuela sia all’estero.
Broner racconta la sua esperienza personale al consolato di Montevideo, in Uruguay, mentre il New York Times dedica un reportage alla questione. “Davanti al consolato venezuelano a Madrid, in Spagna, la fila è lunghissima. Donne incinte, famiglie con bambini piccoli e persone anziane si sono presentate addirittura quattro ore prima dell’apertura dell’ufficio per cercare di iscriversi e poter votare alle elezioni del 28 luglio. Adriana Rodríguez, 47 anni, è andata via dal Venezuela nel 2018 e da due giorni arriva alle otto in punto. Entrambe le volte ha fatto ore di fila per poi sentirsi dire, quando era il suo turno, che non poteva registrarsi perché lo spazio per la giornata era finito”.
Il suo è solo uno dei tanti casi raccontati dai venezuelani residenti all’estero: il loro numero oscilla tra i tre e i cinque milioni e mezzo e si trovano principalmente in Spagna, negli Stati Uniti e in altri paesi dell’America Latina, come Colombia, Argentina e Cile. Ma attualmente solo 69mila sono riusciti a iscriversi per votare. “Queste elezioni potrebbero essere decisive per determinare il futuro della democrazia di un paese che ha le maggiori riserve di petrolio del mondo, ma da dove negli ultimi anni quasi un quarto della popolazione è andata via per la crisi economica e un governo che è diventato sempre più autoritario”.

https://www.internazionale.it/notizie/camilla-desideri/2024/07/20/elezioni-venezuela


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 inserito:: Luglio 21, 2024, 06:31:57 pm 
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È accettabile occupare quando ci sono migliaia di case popolari sfitte?
La politica non riesce ad assegnarle perché non ha le risorse per sistemarle, e allo stesso tempo tollera un'illegalità per certi versi cronica: se ne parla anche per via del caso di Ilaria Salis
di Isaia Invernizzi
Colonne
Una newsletter su Milano, che racconta e spiega la città dove ha da sempre sede il Post e dove vive la maggior parte dei suoi redattori e delle sue redattrici.
In una delle sue prime dichiarazioni pubbliche dopo essere stata liberata dal carcere ungherese in cui era detenuta, l’europarlamentare Ilaria Salis ha scritto su Instagram che chi entra in una casa disabitata «prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket e ai palazzinari». La presa di posizione di Salis non è stata casuale, era un modo per rispondere alla notizia della richiesta di risarcimento presentata nei suoi confronti da ALER, l’Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale: secondo gli avvocati di ALER, Salis dovrebbe all’azienda circa 90mila euro per la presunta occupazione di una casa popolare in via Giosuè Borsi, a Milano, come dimostrerebbe una denuncia del 2009.
La richiesta di ALER e la risposta di Salis hanno alimentato un dibattito assai articolato sulle cosiddette politiche per la casa, sulla legittimità delle mobilitazioni, delle occupazioni, e in generale sul diritto alla casa richiamato dall’articolo 47 della Costituzione italiana e da diverse sentenze della Corte Costituzionale, ma compromesso da decenni di mala gestione delle case popolari. È un argomento complesso, quasi sempre influenzato da polarizzazioni e semplificazioni, come del resto è accaduto in queste ultime settimane a proposito del caso di Salis.
Da una parte movimenti, attivisti e alcuni ricercatori sostengono che, essendoci un’emergenza ormai cronica dovuta alla mancanza di politiche pubbliche, sia accettabile occupare una casa sfitta come soluzione a un problema, e come gesto di disobbedienza civile; dall’altra politici ed esperti di diritto si appellano alle leggi e in generale al principio di legalità, e non ritengono l’occupazione una vera disobbedienza civile, ma un’illegittima prevaricazione nei confronti delle persone inserite in graduatoria per l’assegnazione.
In particolare, a Milano questo dibattito deve fare i conti con le contraddizioni di una città dove costa moltissimo abitare, e dove ci sono 8.500 case popolari sfitte a fronte di circa 10mila persone in attesa di una sistemazione da anni. Di queste case, poco più di 4.500 sono proprietà di ALER, azienda gestita dalla Regione Lombardia, mentre le altre 4.000 sono di MM, la società partecipata dal comune di Milano che nel 2014 prese in gestione 28mila appartamenti comunali. ALER ne ha in totale 35mila. Nel 2023 il comune ha assegnato solo 213 alloggi sui 480 preventivati, mentre ALER 701 su 1.200.
Le case di edilizia pubblica occupate – cioè abitate da persone che non hanno partecipato alle regolari procedure di assegnazione – sono invece circa 3.500, di cui circa 3.000 di ALER e 500 del comune di Milano.
A occupare abusivamente sono spesso persone o famiglie con difficoltà economiche, senza un posto dove dormire o comunque senza alternative. Una parte delle occupazioni è gestita da racket criminali, organizzazioni che si sostituiscono agli enti pubblici e fanno soldi distribuendo appartamenti vuoti in pessime condizioni. Poi ci sono i parenti di legittimi proprietari che prendono possesso delle case dopo la morte della madre, del padre o dei nonni. Infine una quota minoritaria degli alloggi popolari viene gestita dal movimento di lotta per la casa, di cui Salis ha fatto parte attivamente per anni.
Vivere in una casa occupata, ha scritto Salis, di solito non è un’attività propria di chi vuole fare il furbo o aggirare la legge. Al contrario, farlo è logorante perché chi occupa vive quotidianamente con la paura di un intervento delle forze dell’ordine. Grazie ai censimenti organizzati negli ultimi anni, nella maggior parte dei casi il comune di Milano e in parte anche ALER conoscono le persone che occupano le case. Si tratta perlopiù di singoli o famiglie che avrebbero comunque i requisiti per ottenere una casa popolare e che non possono far valere questo diritto proprio perché abusivi.
Secondo Bruno Cattoli, segretario dell’Unione inquilini, un’associazione sindacale nata nel 1968 per sostenere il diritto alla casa, l’esclusione degli occupanti da qualsiasi forma di sostegno ha avuto l’effetto di «cronicizzare le occupazioni» e in un certo senso ha contribuito a «tenere in piedi i bilanci» delle aziende pubbliche. Nel caso di Salis, per esempio, ALER dice di aver chiesto all’europarlamentare 90mila euro basandosi esclusivamente sul fatto che nel 2008 era stata trovata dalla polizia all’interno di una casa popolare di via Borsi.
Nei 16 anni successivi non sono stati fatti controlli per verificare la sua permanenza nella casa, eppure ALER le ha addebitato tutti gli affitti non pagati e le spese legali. «Come per Salis, l’affitto degli occupanti viene calcolato con la massima tariffa possibile, senza controlli sull’effettiva permanenza: stiamo parlando di migliaia di persone», dice Cattoli. «I bilanci delle società si basano anche su queste presunte entrate, crediti che figurano e che non verranno incassati».
Nonostante i fondi stanziati dalle due società, ogni anno non è possibile mettere rapidamente a bando le circa mille case che si liberano. Il motivo è che prima di essere assegnate hanno bisogno di lavori di manutenzione, come il rifacimento degli impianti o degli infissi, a volte anche interventi più impegnativi. D’altronde spesso si tratta di appartamenti abitati da decenni, che quasi sempre hanno bisogno di lavori all’impianto elettrico e ai sanitari, talvolta anche alla disposizione dei locali, per rispettare le norme sull’abitabilità.
Nel triennio tra il 2022 e il 2024 ALER ha stanziato 800 milioni di euro “per la cura del patrimonio” delle 70.947 case che gestisce in tutta la provincia di Milano, cifra che però non è sufficiente a ridurre in modo significativo il numero di quelle sfitte. L’azienda infatti fatica a tenere il passo delle case che si liberano, anche a causa della lentezza degli appalti e dei cantieri. In generale gli investimenti per la manutenzione di questo enorme patrimonio pubblico sono scarsi da decenni in molte città italiane, grandi e piccole.
Paolo Franco, assessore regionale alla Casa e all’Housing sociale, sostiene tuttavia che le case sfitte non siano una giustificazione per occuparle. Nell’ultimo anno ALER è intervenuta per evitare l’occupazione «in flagranza» di 900 alloggi e ha liberato circa 800 case. L’obiettivo della Regione è far sì che il numero degli abusivi non cresca ulteriormente, anzi che venga ridotto di anno in anno.
«Noi però ci stiamo prendendo carico di una parte di assistenza sociale che spetterebbe ai comuni», continua Franco. «Nel bilancio ci sono per esempio 236 milioni di euro per aiutare le persone regolari che non riescono a pagare l’affitto a causa di difficoltà economiche. È un contributo di solidarietà, soldi con cui potremmo sistemare molte case sfitte e poi assegnarle».
In merito alla vicenda di Salis, Franco dice che la Regione non «arretrerà di un millimetro nei confronti di chi fa apologia di illegalità, né tanto meno nei confronti di chi manifesta sotto il nostro palazzo per chiedere meno sfratti e sgomberi», un riferimento alla protesta organizzata a metà giugno dai sindacati. «Siamo dalla parte della gente onesta, non di chi occupa».
In un articolo pubblicato sul Manifesto, Simone Tulumello ha scritto in maniera un po’ provocatoria che lo Stato italiano non può mettere fine alle occupazioni perché costituiscono l’unica politica pubblica della casa degli ultimi quattro decenni. Tulumello è un ricercatore dell’Istituto di scienze sociali di Lisbona, ha da poco pubblicato uno studio proprio su questo tema con un’indagine approfondita sui casi di Napoli e Torino. «La realtà di Milano è un esempio di come le occupazioni siano più o meno esplicitamente tollerate dallo Stato, che negli ultimi 40 anni ha rinunciato a gestire le politiche della casa», dice. «D’altronde se sgomberi tutte le case occupate a Milano “esploderebbe” Milano, e lo stesso succederebbe a Napoli. In questo senso la tolleranza nei confronti delle occupazioni è una forma di politica pubblica, anche perché si parla quasi sempre di persone che altrimenti sarebbero un enorme problema per i servizi sociali».
Uno dei problemi che finora hanno impedito alle istituzioni di occuparsi più concretamente delle occupazioni è proprio l’inerzia della politica, e il suo atteggiamento timoroso nei confronti di qualsiasi tentativo di regolarizzare le persone occupanti. Qualche progetto è stato fatto – uno dei più noti riguarda le Vele di Scampia – ma per il comune di Napoli è stato un percorso lungo e impegnativo, non esente da critiche. A Milano, invece, la divisione delle responsabilità tra ALER, gestita dalla Regione guidata dal centrodestra, e il comune amministrato dal centrosinistra ha portato a scambi di accuse e limitato il dibattito sulle possibili soluzioni.
Negli ultimi anni la strategia delle istituzioni è stata più che altro cedere la gestione di parte di questo patrimonio a privati e fondi immobiliari per “valorizzare il portafoglio immobiliare” pubblico, e ottenere più profitti dalla gestione delle case. Nel 2021 in tutta la città di Milano gli alloggi popolari erano 65mila, nel 2024 ne sono rimasti 63.668, diminuiti nonostante migliaia di richieste.
La Regione ha recentemente cambiato la legge regionale approvata nel 2016 per dare la possibilità di cedere la gestione degli immobili anche a enti a scopo di lucro. I sindacati degli inquilini si sono sempre opposti a queste cessioni, giustificate dalla necessità di far quadrare i conti, ma che limitano le politiche della casa e in definitiva l’assistenza sociale venendo meno all’obiettivo delle case popolari.
A differenza di molti altri politici nazionali, Salis si è già molto esposta su questo tema con una posizione inedita: sostiene la legittimità delle occupazioni come principio per garantire il diritto alla casa e come forma di mobilitazione politica. «Il movimento di lotta per la casa ha sempre agito con la forza della legittimità data dal semplice principio che tutte e tutti dobbiamo avere un tetto sulla testa», ha scritto su Instagram. «Vi piaccia o meno, c’è chi continuerà a lottare in nome di tale principio, richiamandosi alle lotte del passato ed entrando in contatto con quelle del futuro». Negli ultimi anni nessun politico o politica aveva sostenuto l’occupazione in modo così esplicito, anche perché occupare le case è vietato dalla legge.
In un articolo pubblicato su Domani la giurista Vitalba Azzollini ha spiegato che le occupazioni non sono legittime in nessun caso, in quanto il diritto di proprietà vale per i proprietari privati come per gli enti pubblici. Anche l’occupazione delle case sfitte, insomma, è illegale e illegittima. «È vero che probabilmente le persone che le occupano avrebbero i requisiti per abitarle, ma con l’occupazione si violano tutte le procedure», dice Azzollini. «Magari si toglie il posto a persone che aspettano in graduatoria da anni e che forse sono più bisognose».
Per lo stesso motivo secondo Azzollini anche il dibattito sulla legittimità politica delle occupazioni è fuorviante, perché occupare una casa non può essere considerata una forma di disobbedienza civile. «Le azioni di disobbedienza non ledono i diritti di nessun altro, anzi vengono organizzate per valorizzare i diritti di una persona. Occupare una casa togliendola alla potenziale disponibilità di altre persone è una forma di giustizia privata».
Secondo Tulumello, invece, sfondare una porta per entrare nelle case è un reato, mentre l’occupazione di per sé è legittima se fatta per dare una funzione sociale a un immobile vuoto. «Al limite il problema delle occupazioni è che non sono più politicizzate come in passato, cioè non vengono usate dai partiti politici per sollecitare una maggiore attenzione sulle politiche della casa», continua Tulumello. «Tutti i partiti, compresi quelli di sinistra, sono ossessionati dalla legalità e quindi si parla solo del reato, non dei problemi alla base di questo fenomeno». Anche per Cattoli dell’Unione inquilini le occupazioni nascono da problemi sociali e nella maggior parte dei casi non sono legate alla delinquenza.
Dopo le parole di Salis si è discusso prevalentemente della richiesta di risarcimento presentata da ALER, della sua presunta violazione della legge, delle denunce che ha ricevuto negli anni, e poco delle motivazioni del movimento di lotta per la casa. Si è discusso ancora meno di come mai la politica non abbia più una visione pubblica nazionale sulle case popolari, come accadeva in passato.
Anche a Milano, dove le occupazioni e la gestione delle case popolari sono un tema urgente (da anni si parla di “emergenza casa”), il dibattito seguito alle parole di Salis è stato piuttosto essenziale. Secondo Cattoli, sarebbe stata una buona occasione per allargare lo sguardo al futuro della città e delle persone che la abitano. «Ci si rende ancora poco conto che Milano dovrebbe includere di più la popolazione che gestisce i servizi. Chi alla mattina si alza per andare a pulire gli uffici, chi lavora nella logistica, chi nelle mense scolastiche e tante altre persone: quasi tutte faticano a trovare una casa a prezzi accessibili e men che meno una casa popolare», dice Cattoli. «Sono persone molto spesso straniere, indispensabili per l’economia di Milano, che però senza una vera politica della casa vengono escluse da questa città».

Da - https://www.ilpost.it/2024/07/12/legittimita-occupazione-case-popolari/?utm_source=pocket-newtab-it-it

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 inserito:: Luglio 21, 2024, 05:42:23 pm 
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openpolis | governo e parlamento <fondazione@openpolis.it>

Numeri alla mano
I dati sono un ottimo modo per analizzare fenomeni, raccontare storie e valutare pratiche politiche. Con Numeri alla mano facciamo proprio questo. Una rubrica settimanale di brevi notizie, con link per approfondire. Il giovedì alle 7 in onda anche su Radio Radicale. Leggi “Il governo Meloni è primo per rapporto tra questioni di fiducia e leggi approvate“.

58
le questioni di fiducia su disegni di legge poste dal governo Meloni dal suo insediamento. Nelle ultime settimane il governo Meloni è tornato a fare ampio uso dei voti di fiducia. Lo ha fatto in particolare per velocizzare l’iter di conversione dei decreti-legge in tema di sport e scuola, politiche di coesione e agricoltura. In termini assoluti, tra i governi delle ultime legislature, solo l’esecutivo guidato da Matteo Renzi ha fatto un ricorso maggiore allo strumento (68). Quest’ultimo però è rimasto in carica per quasi 3 anni, mentre l’attuale per meno di 2. Al terzo posto poi troviamo il governo Draghi che ha fatto ricorso alla fiducia in 55 occasioni durante i 20 mesi in cui è rimasto in carica.
2,64
i voti di fiducia svolti di media al mese con il governo Meloni. Si tratta del terzo valore più alto considerando gli esecutivi delle ultime 4 legislature. Riportano un dato più alto sia il governo Monti (2,79) che quello guidato da Mario Draghi (2,68). Da notare però che in questo caso parliamo di due governi di grande coalizione. Esecutivi nati cioè per affrontare due momenti molto difficili nella storia del nostro paese e non solo. Vale a dire rispettivamente la crisi economico-finanziaria post 2008 e quella sanitaria dovuta al Covid-19. In questi casi il ricorso incisivo alla fiducia poteva essere necessario per tenere unite maggioranze eterogenee. Non è il caso dell'attuale governo.
44,96%
il rapporto tra voti di fiducia e leggi approvate durante il governo Meloni. Si tratta del valore più alto considerando le ultime 4 legislature. Al secondo posto troviamo in questo caso il governo Monti (42,5%) seguito dagli esecutivi Conte II (39,4%) e Draghi (37,4%). Un dato indicativo di quanto sia incisivo il ricorso alla fiducia fatto dall'attuale governo.
   
95%
i voti di fiducia su Ddl di conversione di decreti legge. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalle leggi di bilancio per il 2023 (fiducia in entrambe le camere) e per il 2024 (solo al senato). I decreti legge devono essere convertiti dal parlamento entro 60 giorni a pena di decadenza. Ricorrere alla fiducia è quindi un modo per cercare di velocizzare il dibattito in aula. Ecco quindi che quando i decreti da convertire si accumulano, il governo è “costretto” a porre la questione di fiducia. Attualmente sono 8 i Dl che le camere devono ancora convertire.
21
i disegni di legge su cui il governo Meloni ha posto la fiducia in entrambe le camere. Solo il governo Renzi fa registrare un dato lievemente superiore (22). Troviamo poi gli esecutivi Draghi (19) e Conte II (15). Tra i provvedimenti più recenti approvati attraverso una doppia fiducia troviamo i Ddl di conversione di 4 decreti-legge particolarmente rilevanti. Si tratta dei Dl Pnrr quater, superbonus, coesione e agricoltura. Anche in questo caso, quindi, è molto probabile che l’esecutivo Meloni giungerà presto al primo posto.
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Riceverai articoli, dati, grafici e mappe liberamente utilizzabili per promuovere un dibattito informato.
Da - Fondazione openpolis. Via Merulana 19 - 00185 Roma - www.openpolis.it
   


   

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 inserito:: Luglio 21, 2024, 05:38:50 pm 
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Newsletter ForumDD - AUTONOMIA DIFFERENZIATA, FORUMDD “PROMUOVIAMO LA RACCOLTA FIRME PER IL REFERENDUM PER UN’ITALIA UNITA, LIBERA E GIUSTA”
Posta in arrivo

Forum Disuguaglianze e Diversità info@forumdd.org tramite gmail.mcsv.net
a me

Al via questo fine settimana, 20 e 21 luglio, la raccolta firme per il Referendum per l’abrogazione dell’autonomia differenziata. Il Forum Disuguaglianze e Diversità è parte del comitato promotore e pubblica una nota di approfondimento, con tre focus sui settori più sensibili dove ci possono essere i maggiori rischi derivanti dall’impatto della legge, ovvero la sanità, l’istruzione e l’assistenza agli anziani non autosufficienti
“Sì all’Italia unita, libera e giusta. Una firma contro l’Autonomia differenziata”, questo lo slogan della mobilitazione che prende il via il 20 e 21 luglio con iniziative e banchetti in tutta Italia. L’autonomia differenziata è una legge che va abrogata perché spaccherà il Paese in tante piccole patrie, aumenterà i divari territoriali e peggiorerà le già insopportabili disuguaglianze a danno di tutta la collettività. E’ per questo che il Forum Disuguaglianze e Diversità ha aderito, diventando uno dei 34 soggetti del Comitato promotore, al percorso per il Referendum per l’abrogazione della legge che dovrà raccogliere entro settembre le 500.000 firme necessarie.

“L’autonomia differenziata, togliendo il fondo di perequazione economica, sostanzialmente dicendo ‘chi ha di più ha più servizi, chi ha di meno si arrangi’, aumenta le disuguaglianze non solo tra Nord e Sud ma anche tra aree urbane e interne, e all’interno delle stesse Regioni e delle medesime aree urbane. Facendo questo, nei fatti, svuota di senso la nostra Costituzione. Non soltanto perché l’Italia non sarà più una e indivisibile, ma perché sarà un’Italia ingiusta che aumenterà le distanze e che lascerà sempre più soli i poveri e i vulnerabili. Verrà svuotata tutta la Costituzione e in particolare quell’articolo 3 che ispira il lavoro del ForumDD, perché sarà impossibile per la Repubblica rimuovere in modo uguale in tutto il Paese gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, così ha commentato Andrea Morniroli, co-coordinatore del ForumDD, tra i 34 primi firmatari del quesito del Referendum per abrogare l’autonomia differenziata, che sarà presente all’avvio della campagna referendaria a Napoli martedì 23 luglio alle ore 18 in piazza Municipio.

Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha pubblicato anche una nota di approfondimento “Autonomia differenziata e disuguaglianze di accesso ai servizi”, curata da Mariella Volpe, economista e membro dell’Assemblea del ForumDD, con tre focus sui sui settori più sensibili, oggetto di potenziali maggiori rischi derivanti dall’impatto della legge, ovvero la sanità, l’istruzione e l’assistenza agli anziani non autosufficienti.

Il documento evidenzia come nella legge sull’autonomia differenziata non si menzioni alcun fondo per combattere i divari regionali che nel nostro Paese sono ancora profondi, tradendo il principio di solidarietà e perequazione che è un principio cardine dell’articolo 119 della Costituzione. Garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni, infatti, significa per i cittadini e le cittadine poter esercitare i propri diritti allo stesso modo ovunque si risieda. Invece l’Italia è segnata da squilibri strutturali della spesa pubblica e l’autonomia differenziata cristallizzerà questo squilibrio: secondo i dati dei Conti Pubblici territoriali (CPT), il 70,7% della totalità della spesa del Settore Pubblico Allargato in Italia continua ad essere concentrato nelle regioni del Centro-Nord, il 29,3% nel Mezzogiorno. I problemi non riguardano però soltanto chi abita nel Sud Italia. Rispetto alla sanità, le regioni settentrionali corrono gli stessi rischi di desertificazione sanitaria di quelle meridionali, quasi tutte estremamente deboli nell’assistenza territoriale. In Italia, infatti, la spesa pubblica è di molto inferiore a quella di altri paesi europei e questo già oggi determina un aumento delle disuguaglianze all’interno delle Regioni, fra aree urbane e interne. Dai dati del Rapporto AHEAD di Cittadinanzattiva, emerge ad esempio che Asti e provincia contano meno pediatri per numero di bambini rispetto alla media nazionale (ogni professionista segue 1813 bambini fra gli 0 e i 15 anni, la media nazionale è di 1/1061 e la normativa prevede circa 1 pediatra per 800 bambini). Nella provincia di Bolzano ogni medico di medicina generale segue in media 1539 cittadini dai 15 anni in su (la media nazionale è di 1 medico ogni 1245 pazienti, sebbene la normativa fissi tale rapporto a 1/1500). Con l’autonomia differenziata la Lombardia potrebbe pagare di più i propri medici, e se il Piemonte, più povero, non riuscisse a emulare la Lombardia si troverebbe a dover fronteggiare un’ulteriore carenza di medici.

Sul fronte dell’istruzione, genitori e figli e figlie che cambiano residenza si troverebbero di fronte ad assetti dell’istruzione assai diversi. Regionalizzare la scuola infatti disgrega il sistema nazionale dell’istruzione pervenendo a programmi diversi nei diversi territori, e a sistemi diversi di reclutamento degli insegnanti, facendo perdere alla scuola la sua funzione principale che è quella di generare uguaglianza.

Rispetto all’assistenza agli anziani non autosufficienti, l’autonomia differenziata priva l’Italia di ogni speranza di una riforma unitaria sul settore, attesa da 20 anni, in un Paese che oggi investe molto meno di tanti altri paesi EU per il long term care: il 10,1% dell’intera spesa sanitaria pubblica a fronte del 26,3% della Svezia, del 24,8% dell’Olanda, del 24,3% del Belgio, del 18,2% nel Regno Unito e del 16,3% in Germania. Sebbene la politica sanitaria negli anni recenti abbia stabilito che l’assistenza domiciliare (ADI) è la modalità migliore per erogare le cure a pazienti fragili con cronicità, prevalentemente anziani, nel 2022 erano circa 459 mila gli anziani assistiti in ADI, il 3,3% della popolazione con più di 64 anni. Erano meno di 400 mila nel 2019, il 2,9%. L’incremento maggiore dell’indicatore si è osservato al Centro, da 2,6% a 3,6%, mentre è rimasto sostanzialmente stabile nel Mezzogiorno (2,9% nel 2022) e in debole aumento al Nord (da 2,7% a 3,0% nel Nord-ovest, da 3,5% a 3,8% nel Nord-est).

Non solo i cittadini e le cittadine. L’autonomia differenziata danneggerà anche le imprese che saranno ostacolate non soltanto dall’assenza di politiche ma anche da un insieme di norme diverse che impediranno una reale concorrenza su un mercato sempre più sovranazionale.

“L’autonomia differenziata frammenta le politiche nazionali, divide l’Italia e danneggia sia il Sud che il Nord, impoverisce il lavoro, compromette le politiche ambientali, colpisce l’istruzione e la sanità pubblica, smantella il welfare universalistico, penalizza i comuni e le aree interne, aumenta la burocrazia e complica la vita alle imprese, frena lo sviluppo. Per tutte queste ragioni il Forum Disuguaglianze e Diversità ritiene urgente fermare questa legge contraria allo spirito Costituzionale e distante anni luce da chi lotta contro le disuguaglianze”, conclude Morniroli.

Scarica la nota di approfondimento: “Autonomia differenziata e disuguaglianze di accesso ai servizi”
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