PRODI
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25/1/2008 (7:10) - RETROSCENA, LO SFOGO DOPO IL KO
L’amarezza di Romano "Ma non torni Silvio"
Gelo con il Colle: prima di tutto va rispettata la Costituzione
FABIO MARTINI
ROMA
Quell’appartamento a Palazzo Chigi «che sembra una prefettura» non gli è mai piaciuto. In quel letto antico e grande fatto acquistare a suo tempo da Silvio Berlusconi non si è mai ritrovato. Ma proprio in queste stanze così impersonali, nella lunga, incerta nottata tra mercoledì e giovedì e consigliandosi con «la» Flavia, Romano Prodi ha deciso di tagliare ogni ponte con chi gli consigliava prudenza: «Domani al Senato io ci vado, per una questione di coerenza e di dignità e farò un discorso molto chiaro. Per tutti». A cominciare dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano che in questi giorni non aveva fatto nulla per nascondere la sua irritazione per la procedura alla luce del sole scelta dal presidente del Consiglio. Ma in quella lunga notte e in questi giorni così travagliati Romano Prodi è tornato a confessare alla moglie Flavia, consigliera e confidente come nessun altro («Dopo tanti anni si entra in simbiosi e si somigliano persino le calligrafie...»), quella che è diventata l’ossessione del Professore: «Non posso pensare all’idea che possa tornare Berlusconi: bisogna fare di tutto per evitarlo. Di tutto».
Un’ossessione che ha accompagnato Prodi ogniqualvolta, in questi venti mesi, è stato sfiorato dalla tentazione di gettare la spugna, un’ossessione che è tornata a riaffacciarsi in questi giorni. Soprattutto quando in molti - a cominciare da Massimo D’Alema - gli facevano notare che quella sua ostinazione a voler consumare la crisi in Parlamento, col doppio voto, avrebbe tremendamente complicato la gestione del dopo-Prodi. Certo, l’uomo è vendicativo e i demoni della rivalsa lo hanno sempre indotto nei passaggi più duri ad esprimersi con crudezza. Ma vuole cancellare quell’ immagine del «Prodi Sansone» che muore con tutti i suoi filistei che ha cominciato a circolare. E’ per questo motivo che il Professore, per ora nei «pour parler», ripete che «bisogna evitare di correre verso elezioni anticipate, perché questo Paese non lo merita».
E proprio questa sarà la novità dei prossimi giorni: pur evitando di fare il tifo per il governo d’emergenza, Romano Prodi non si «metterà in mezzo» rispetto a un’ipotesi sulla quale si è tuffato Walter Veltroni. Il quale, come pare, ha un nome in testa per l’esecutivo-ponte: Gianni Letta. Ma a parte questa ipotesi (sicuramente la più ostica all’ambiente prodiano), il Professore non tornerà in campo per combattere quell’ipotesi. E se poi si arriverà comunque ad elezioni anticipate? Difficile sapere cosa pensi per davvero dentro di sé Prodi. Ma in questi mesi il Professore pensa di aver subito tali e tante di quelle ingiustizie che nelle prossime ore non mancherà di esternare la sua amarezza. Come ha dimostrato anche nel discorso di ieri pomeriggio col quale si è presentato ai senatori. All’ostilità, neppure tanto sorda, espressa dal Capo dello Stato per la «parlamentarizzazione della crisi», Prodi ha voluto rispondere rivendicando con orgoglio la sua scelta: «E’ vero che le istituzioni della politica sono tra le cause prime del distacco tra cittadini e classe politica», ma «è prima di tutto necessario rispettare e applicare la nostra Costituzione e rileggerla con lo spirito con cui i padri costituenti la scrissero: non vi troveremmo né la prassi delle crisi extraparlamentari, né l’asservimento dell’informazione pubblica al potere politico». Non è finita: «La nostra prassi costituzionale è rimasta quella della Prima Repubblica: vera sede del potere erano i partiti, i governi non erano scelti dai cittadini, la composizione dei governi era stabilita delle segreterie dei partiti». E dunque «tutte le istituzioni», dunque anche il Quirinale, «debbono impegnarsi a stabilire prassi costituzionali più corrispondenti alla volontà dei padri costituenti». Principii cari all’ideologo del prodismo, Arturo Parisi, ma soprattutto un messaggio molto duro rivolto a tutti coloro che non hanno condiviso la sua scelta: i leader del Pd, ma soprattutto il Capo dello Stato. Al quale Prodi - anche con un certo coraggio - ha addirittura consigliato come interpretare la Costituzione.
Ma nell’ultimo giorno del suo governo Prodi una scena ha deciso di risparmiarsela: la gioia della destra per la sua sconfitta a Palazzo Madama. Non appena è iniziata la conta finale, Prodi non ha aspettato la comunicazione del voto. E’ tornato a Palazzo Chigi. Alle 19,35 il flash Radiocor: fiducia fallita. Poi, la salita al Quirinale, le dimissioni, le telefonate ai presidenti delle due Camere. Di nuovo a Palazzo Chigi. Qui, i venti mesi condotti dal Professore senza vellicare i poteri forti - interni ed internazionali - si sono fatti sentire: al telefonino di Prodi pochi segni di solidarietà.
da lastampa.it
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Dietro le quinte
Il Pd si è arreso: ormai si vota
Democratici rassegnati: alle urne ci porta Prodi.
E Veltroni rilancia il treno di Rutelli
ROMA - La telefonata del ministro dell’Interno Giuliano Amato raggiunge Walter Veltroni nella tarda mattinata. Si discute sulla possibile data di scioglimento delle Camere. Potrebbe essere già mercoledì prossimo, dopo le consultazioni di Marini, a meno che le dolorose vicende famigliari di Berlusconi non facciano slittare di qualche giorno l’incontro con il presidente del Senato. Di conseguenza tutto sarebbe rinviato. Di poco, perché la fine della legislatura sembra ormai decretata. Lo stesso ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni, mariniano di ferro ha dovuto prenderne atto: «Stamattina (ieri per chi legge; ndr) sembrava che potesse esserci qualche spiraglio, ma mi pare che non sia più così», ha detto a Veltroni. Il leader del Pd era d’accordo: «Anche io penso che sia chiusa». Già, chiusa, anche se non tutti si sono rassegnati. Ma neanche l’idea di D’Alema di indire i referendum prima delle elezioni per prendere tempo è passata. C’è il niet di Bertinotti e di Casini. E Veltroni ai promotori dei quesiti referendari che sono andati a trovarlo ha spiegato che non c’è più niente da fare: «Del resto, dovreste andare da Fini e non da me perché è lui che ha firmato il referendum ed è lui che adesso preferisce andare alle urne».
L’indisponibilità del centrodestra a fare le riforme sarà una delle carte che il centrosinistra giocherà al tavolo delle elezioni. Anche per questo Marini ha deciso di incontrare non solo i partiti, ma anche le forze sociali, in modo che sia chiaro che deve essere Berlusconi ad assumersi l’onere della rottura del dialogo e del ricorso anticipato alle urne, anche se sindacati e imprenditori (oltre che l’Unione ovviamente) chiedono il contrario. Una mossa tattica che nulla cambia sullo scacchiere politico. Tutti si stanno preparando alle elezioni. Veltroni ha già deciso che in campagna elettorale ripartirà il treno del Pd che, per la verità, non portò fortuna a Rutelli nel 2001. Tra gli organizzatori della campagna elettorale ci sono Bettini e Lusetti. Quest’ultimo fisserà le tappe del treno, mentre spetta a Bettini l’idea di far scendere in campo anche per le elezioni, come avvenne per le primarie, una lista «A sinistra per Veltroni». Un escamotage per togliere voti alla Cosa rossa, che ha già i suoi bei guai. Sì, perché anche da quella parti ormai si lavora alle elezioni e nessuno crede che sia possibile tornare indietro. Non lo pensa neanche Marini, il quale, non a caso ha fatto sapere che dopo il fallimento della sua esplorazione, non accetterà l’ipotesi di guidare un governo elettorale per andare al voto. Anche la soluzione di andare alle urne con Amato è stata scartata dal Pd. Perciò si andrà alle urne con Prodi.
A sinistra, si diceva, l’imminenza dell’appuntamento elettorale ha provocato qualche problema. Mussi, leader della Sd, non vuole che la Cosa rossa venga guidata da Bertinotti («sarebbe un’annessione»). Ma il presidente della Camera su questo punto è intransigente. Poi, potrà anche decidere di rinunciare al seggio alla Camera, ma la nuova formazione politica è una «sua creatura» e non accetta di cederne la leadership neanche a un giovane come Vendola. Perciò tutto è tornato in alto mare nel frastagliato arcipelago della sinistra. Mussi e Bertinotti sono d’accordo su un solo punto: nel nuovo simbolo non devono esserci la falce e il martello. Mentre nella Cosa rossa si litiga e si sgomita, Marini, anche ieri, ha proseguito come se nulla fosse le sue consultazioni. Incontrando anche i senatori che rappresentano solo loro stessi (Rossi e Turigliatto, per fare un esempio).
«E — racconta Oliviero Diliberto — ogni volta che entri in quella stanza trovi Enzo Bianco vicino al presidente del Senato. Con la prima bozza o la seconda della sua proposta di riforma a seconda del partito che deve essere consultato. Una presenza inquietante...». Una presenza che in realtà serve solo a certificare al puntiglioso Napolitano che non c’è più niente da fare. Come racconta Mastella «Franco mi ha dato ragione: mi ha detto che era finita». E che questa sia la piega che probabilmente prenderanno gli eventi lo dimostra anche il fatto che Gasbarra abbia annunciato ai vertici del Pd che non intende ricandidarsi alla Provincia di Roma perché vuole andare in Parlamento. Toccherà a Nicola Zingaretti scendere in campo per una battaglia certamente più semplice di quella che centrodestra e centrosinistra combatteranno a livello nazionale.
Maria Teresa Meli
01 febbraio 2008(ultima modifica: 02 febbraio 2008)
da corriere.it
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2/2/2008
I rischi per la destra
LUCA RICOLFI
I politici di centro-sinistra hanno il morale a terra. Fiutano aria di sconfitta, e cominciano a rendersi conto che venti mesi di governo Prodi sono stati il più grande spot elettorale - per di più gratuito - di cui il Cavaliere abbia mai beneficiato. Per questo sono pessimisti, e si preparano mestamente al peggio.
La credenza del centro-sinistra di andare verso una Caporetto elettorale è sostanzialmente giustificata, se non altro perché largamente supportata dai sondaggi. Berlusconi ha di nuovo il coltello dalla parte del manico, e non c’è mossa degli astuti D’Alema e Veltroni che sia in grado di ribaltare la situazione. Il fatto che i dirigenti del centro-sinistra siano nell’angolo, però, non implica che il centro-destra abbia la vittoria in tasca. Chi fin da oggi è sicuro della vittoria di Berlusconi probabilmente sottovaluta alcune incognite.
La prima è che, di norma, il consenso per il governo in carica tocca il minimo lontano dalle elezioni, ma poi risale nei mesi immediatamente precedenti il voto. È già successo con la rincorsa di Rutelli nel 2001, si è ripetuto con quella di Berlusconi nel 2006, risuccederà nei mesi prossimi con quella di Veltroni. Dieci punti di distacco sono tanti, ma potrebbero tranquillamente diventare cinque già solo grazie a questo meccanismo.
La seconda incognita sono i possibili errori di Berlusconi. Qui si entra ovviamente nel regno dell’opinabile, ma a me pare che un errore il Cavaliere lo stia già facendo: l’errore «minestra riscaldata». Berlusconi ha passato gli ultimi mesi a ripetere che la legge elettorale va cambiata, che non si può governare con pochi voti di scarto, e che in passato lui stesso fu molto frenato nella sua azione riformatrice dal particolarismo degli alleati. A dispetto di questa ragionevole diagnosi, ora si oppone a qualsiasi cambiamento della legge elettorale e sembra fermamente intenzionato a riproporre la solita alleanza con Bossi-Fini-Casini, magari rinforzata da uomini come Mastella e Storace (grandi esperti di sanità, come tutti sanno...). Mi sbaglierò, ma questo a me pare un formidabile assist a Veltroni, che potrà dire (e certamente dirà): cari elettori, volete saltare dalla padella nella brace? Benissimo, votate l’allegra compagnia del centro-destra, così potrete rivedere per cinque anni il film del governo Prodi, con attori diversi ma uguali parti in commedia. È paradossale, ma in campagna elettorale potrà succedere che il fresco ricordo della litigiosità della coalizione di centro-sinistra venga usato da Veltroni non solo per giustificare la corsa solitaria del Pd, ma anche per profetizzare un analogo destino di discordia per il futuro governo di centro-destra.
La terza incognita è l’offerta politica. I sondaggi sono fatti a bocce ferme, ossia con gli attuali partiti. Ma che cosa succederebbe se, nei prossimi mesi, dovessero scendere in campo altri attori? Quanti voti perderebbero i partiti più grandi di fronte a una sfida antipolitica, tipo Beppe Grillo o Girotondi? E di fronte a una sfida neocentrista, tipo «Rosa bianca» o Family day? E di fronte a una sfida liberaldemocratica, tipo Montezemolo o «volonterosi»?
Le analisi e gli esercizi di simulazione condotti dagli esperti suggeriscono che il mercato potenziale di eventuali nuove liste sia molto ampio (fra il 10 e il 30 per cento), e che solo la scarsa credibilità e determinazione degli «imprenditori politici» che dovrebbero crearle renda remota l’eventualità di uno sconvolgimento degli equilibri partitici esistenti. Con la legge elettorale attuale, una formazione politica nuova che raccogliesse il 10 per cento dei voti e fosse sganciata da entrambi i poli sarebbe ininfluente alla Camera (a causa del premio di maggioranza) ma potrebbe diventare decisiva al Senato, dove non è detto che uno dei due poli disponga di una maggioranza autosufficiente.
Ma l’incognita più grande di tutte è il comportamento del partito invisibile degli indecisi, incerti, delusi, stufi, amareggiati, disgustati, arrabbiati, furibondi. I cittadini di questo tipo non sempre vanno a votare, e quando ci vanno spesso preferiscono annullare il voto o depositare nell’urna una scheda bianca. È possibile che alle prossime elezioni sia proprio questo segmento, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, a diventare il primo partito italiano. Un partito che non elegge direttamente alcun rappresentante, ma i cui comportamenti potrebbero anche diventare decisivi. Oggi siamo propensi a pensare che l’esercito degli indecisi potrebbe infliggere al centro-sinistra la più severa lezione dalla catastrofe del ’48. Ma il vento può cambiare in fretta, e il porcellum (la legge elettorale imposta due anni fa dalla Casa delle libertà) potrebbe rivelarsi pericoloso anche per il centro-destra, specie se Berlusconi, oltre a ripresentare se stesso, riproponesse per l’ennesima volta la solita squadra.
Il fatto di votare con una legge che non consente ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti costituisce un grande e ingiustificato privilegio del ceto politico. Permette a chi ci governa da vent’anni di non fare mai un passo indietro, e alle segreterie di partito di determinare al 90 per cento chi entrerà e chi starà fuori dal Parlamento. Ma a tutto c’è un limite, e non è detto che - per molti di noi - quel limite non sia già stato superato.
da lastampa.it
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Il centro si disfa.
Nel Pd si accendono i motori per le elezioni
Finito il tentativo Marini, i partiti si preparano ormai alla campagna elettorale. Sul fronte destro è ormai scontato che si andrà alle elezioni con una coalizione ampissima: dall'Udc (ma Mastella e Dini sono vicini a dire sì) fino alla Destra di Storace.
Il centro in questo quadro risulta sempre più marginale, come conferma l'addio di Carlo Giovanardi all'Udc per andare con Forza Italia sotto l'ala di Silvio Berlusconi. Se qualche mese fa l'idea che il centro (autonomo) potesse essere l'ago della bilancia, ora le cose vanno diversamente. Berlusconi ha ripreso il controllo e il "centro" da Mastella a Dini, da Casini a Manzione, non sembra più avere voce in capitolo. Così anche Pierferdinando Casini cerca ora di ricordare a Berlusconi che pur essendo «rispettoso dell'alleanza», deve rispettare «la nostra identità, la nostra tradizione, il nostro Dna».
Il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa conferma l'appiattirsi sulla leadership di Berlusconi: «Penso che andremo tutti uniti», e anche sulla partecipazione della Destra di Storace si limita ad un timido «vedremo».
Intanto anche la macchina organizzativa del Partito democratico si è già messa in moto: a Renzo Lusetti l'incarico di studiare e organizzare le tappe che Veltroni toccherà nel suo giro per l'Italia. Si tratterà, a quanto si apprende, di iniziative pubbliche su grandi temi, sulla falsariga delle convention americane, con pochi slogan ma chiari e riconoscibili. Ancora da definire il mezzo di trasporto: in un primo momento si era pensato di utilizzare il treno, ma le ultime quotazioni danno in pole position il pullman. Del resto, spiega una fonte, il metodo del pullman è già rodato e, soprattutto, racchiude in sè un valore simbolico: nel '96 si rivelò una scelta fortunata.
La campagna elettorale del Pd sarà comunque tutta incentrata sul programma e sulla novità che il Pd rappresenta sulla scena politica. Ed è proprio sull'elemento novità che punta Veltroni, sicuro della capacità del partito di sparigliare i giochi e rappresentare un catalizzatore di nuovi consensi.
I tempi sono stretti: la scelta delle candidature non potrà quindi essere affidata al popolo delle primarie, ma a livello nazionale se ne occuperà un ristretto gruppo di lavoro, guidato dallo stesso Veltroni, mentre a livello locale saranno i segretari regionali, ampiamente legittimati dal voto dei cittadini che li hanno eletti con le primarie, a selezionare i nomi.
L'appuntamento dell'Assemblea costituente, che dovrà ratificare il nuovo statuto, il manifesto dei valori e il codice etico del partito, sarà anticipato: inizialmente previsto per i primi di marzo, ora i vertici del Pd sarebbero intenzionati a convocare l'assise tra circa due settimane, comunque non oltre la fine di febbraio.
Per guidare il Pd nella campagna eelettorale, Walter Veltroni con molta probabilità si dimetterà da sindaco di Roma la prossima settimana e presumibilmente la data sarà mercoledì 13 febbraio. Fonti vicine al sindaco di Roma fanno sapere che «conoscendo Veltroni, userà tutti e sette i giorni a sua disposizione» per dimettersi, a partire dal giorno successivo alla pubblicazione del decreto di scioglimento delle Camere sulla Gazzetta ufficiale, e partecipare così alla tornata elettorale. In Campidoglio ci sono ancora molti provvedimenti importanti da approvare, il piano regolatore su tutti, ed è molto probabile che Veltroni ne assista l'iter nella sua carica e con pieni poteri fino all'ultimo momento disponibile, ovvero mercoledì 13.
La stessa data ultima per tutti i sindaci dei comuni con più di 20 mila abitanti che si candideranno alla elezioni per evitare poi contumelie sull'eleggibilità. Sarebbero circa 150 gli amministratori locali che vorrebbero candidarsi, compresi alcuni presidenti di Provincia e di Regione. Tra cui potrebbero esserci il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, di centrodestra e il presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, di centrosinistra.
Tra i sindaci che hanno già reso note le loro intenzioni, quello di Vicenza - Enrico Hullweck - che ha più volte dimostrato di gradire una candidatura in Forza Italia. Il più sicuro della scelta da fare è invece il primo cittadino di Venezia Massimo Cacciari. «Ciò che voglio fare lo ho già dimostrato - spiega il sindaco - quando mi sono candidato per le regionali del 2000 e mi sono dimesso da sindaco. È scontato che lo rifarei».
Il Pd, ha detto e ripetuto Veltroni, correrà da solo. Ma la Sinistra Democratica insiste in un ripensamento. Anzi, per Sd tutta la "Cosa rossa" dovrebbe proporre al Pd la nascita di una coalizione di centrosinistra «su basi programmatiche rinnovate». «L'intesa tra Pd e sinistra - sostiene in un comunicato - è la strategia che può consentire, sul piano numerico, di contendere la vittoria al centrodestra e dare all'Italia la speranza di un governo innovativo».
Al contrario «sarebbe grave se il Pd confermasse la scelta della solitudine elettorale che contiene l'annuncio della rinuncia a competere per il governo dell'Italia. Non si possono spalancare, senza combattere, le porte a Berlusconi e ai suoi». Sd avanza questa proposta alle altre forze della sinistra ma anche «ai compagni socialisti , le cui importanti battaglie per l'eredità socialista e per la laicità dello stato rischiano di dissolversi nel contenitore neutro del Partito democratico».
Di parere diverso Oliviero Diliberto dei Comunisti Italiani che chiede a Bertinotti di fare il candidato premier della "Cosa rossa".
«Noi glielo chiediamo ufficialmente: Bertinotti è l'uomo giusto per unire tutte le sensibilità della sinistra». Domenica, alla trasmissione su Rai3 condotta da Lucia Annunziata, l'attuale presidente della Camera aveva chiarito che accetterebbe di guidare la sinistra arcobaleno come candidato premier di bandiera solo di fronte ad un invito unanime da tutti i partiti che compongono la federazione.
Pubblicato il: 04.02.08
Modificato il: 04.02.08 alle ore 23.12
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POLITICA
In caso di scioglimento delle Camere, Prodi in carica fino al voto (6 o 13 aprile)
Lunga la lista dei provvedimenti a rischio. Al governo dimissionario solo affari correnti
A maggio il nuovo governo
A rischio 12 miliardi di tesoretto
Prodi e Padoa Schioppa hanno deciso di anticipare i risultati della trimestrale
Mancano deleghe chiave per welfare, stipendi e lavori usuranti
di CLAUDIA FUSANI
ROMA - Elezioni in aprile e Prodi padrone di casa a Palazzo Chigi fino al voto. E' lo scenario prossimo venturo più probabile. "Prodi premier in carica fino alle elezioni", dice anche Anna Finocchiaro al termine del faccia a faccia del Pd a Palazzo Giustiniani. Una condizione che da una parte "arma" la mano di Berlusconi perché è più "facile" fare campagna elettorale avendo alla guida del governo il leader della coalizione sconfitta. Ma che può anche "armare" il Pd e il centrosinistra se è vero che nei prossimi due-tre mesi dovrebbero andare a buon fine una serie di iniziative economiche a favore dei salari e del lavoro dipendente, quell'operazione di risarcimento sociale tanto attesa dopo un anno e mezzo di "no" e sacrifici.
Come che sia, vantaggio e svantaggio per l'uno o per l'altro dei competitor, la non soluzione della crisi e la gestione ordinaria a cui l'esecutivo dimissionario è obbligato nei mesi precedenti il voto, rischia di congelare un sacco di soldi che dovevano andare proprio a salari e pensioni. I tecnici contano che sono almeno una trentina i decreti legislativi che se non approvati rischiano di far saltare importanti misure previdenziali e sui salari. E che sono "circa 12 i miliardi" pronti per essere distribuiti. A tanto dovrebbe infatti ammontare "il tesoretto". Ora non si sa. Perché, ci si chiede, fino a che punto i provvedimenti economici finanziari rientrano nelle emergenze e/o nell'ordinaria amministrazione su cui il governo dimissionario è tenuto a legiferare?
Agenda elettorale. Il presidente Marini ha rimesso stasera il mandato nelle mani del Presidente della Repubblica. A Napolitano ha detto che non c'è stato nulla da fare, che al termine delle 27 consultazioni - oltre a gruppi e partiti anche le associazioni della società civile, dai sindacati ai Comitati per il referendum e Per le riforme - non è stato possibile trovare una sintesi e tentare di mettere su un governo di pochi mesi in grado di fare le attese riforme. A questo punto il boccino torna nelle mani del Presidente della Repubblica che però era già stato chiaro: un governo di larghe intese per le riforme altrimenti nulla. Esiste in teoria un'altra strada per il Presidente: quella cioè di dare ascolto a chi, tra i costituzionalisti, ha avvertito sia il Colle che Marini che il voto con questa legge elettorale potrebbe essere invalidato dai ricorsi dei cittadini per la dubbia costituzionalità della legge così come ha evidenziato la Consulta. Ipotesi possibile ma molto remota.
Lo scioglimento delle Camere. Quello che succederà quasi certamente nelle prossime ore è che Napolitano convocherà i presidenti delle Camere per comunicare la decisione di sciogliere Camera e Senato. I due rami del Parlamento resteranno in carica solo per i cosiddetti affari correnti. Poi sarà il Consiglio dei ministri a indire le elezioni anticipate e fissare la data di convocazione del nuovo Parlamento. La date del voto, invece, saranno indicate dal ministero dell'Interno. E' molto probabile il 6 o il 13 aprile. Il nuovo governo dovrebbe giurare e diventare operativo ai primi di maggio.
Il tesoretto per i salari - Lo dirà la trimestrale di cassa ("a questo punto sarà anticipata il più possibile" dicono fonti del ministero. A fine febbraio?) quanti saranno realmente i soldi a disposizione. I tecnici dei dicasteri economici hanno calcolato che tra tagli alle spese correnti e recupero da evasione fiscale l'esecutivo potrebbe gestire un tesoretto pari a 10-12 miliardi che dovrebbe essere ridistribuito (così come dispone la Finanziaria) secondo un piano in tre capitoli: salari; lavori usuranti; rinnovo contratto statali. Sette-otto miliardi di extragettito erano stati destinati al recupero di potere di acquisto dei salari: nel vertice di maggioranza del 10 gennaio Prodi e il governo si erano impegnati a destinare le risorse del tesoretto per ridare potere d'acquisto ai salari grazie a un piano di interventi fiscali in favore dei lavoratori dipendenti e delle famiglie e la detassazione degli straordinari.
Il confronto con sindacati e parti sociali: che fine fa lo sciopero del 15 febbraio? La maggioranza bisticciava al suo interno sui tempi della ridistribuzione: Padoa Schioppa diceva giugno; i sindacati dicevano "adesso", cioè tra un mese. Su questo punto era stato proclamato lo sciopero. Che adesso resta senza interlocutori. Ma i tavoli erano avviati e gli accordi incardinati. Il governo voleva mettere mano a pressione fiscali, redditi e pensioni, prezzi e tariffe, sicurezza sul lavoro, tagli alla prima aliquota Irpef (dal 38 al 37 per cento per gli stipendi medi tra i 28 e i 55 mila euro), detrazioni agli stipendi più bassi e per le famiglie meno abbienti con una dote fiscale per i figli (una superdetrazione per chi ha figli fino a tre anni). E al tempo stesso alzare al 20 per cento la ritenuta fiscale sui redditi finanziari.
Il pacchetto per i lavori usuranti. La legge sul welfare, approvata a fine dicembre, contiene almeno sei deleghe che vanno in scadenza nei primi tre mesi dell'anno. Tra queste la più importante è quella relativa ai lavori usuranti. Il welfare, infatti, riformando il sistema delle pensioni, aveva individuato un settore di lavoratori - quelli usuranti appunto - che potevano andare in pensione tre anni prima degli anni. Per rendere operativa questa norma era necessario un decreto delegato. Secondo le stime di palazzo Chigi sono circa un milione e mezzo i lavoratori coinvolti. Il decreto legislativo che doveva fissare le modalità con cui applicare lo sconto di tre anni sull'età minima della pensione deve essere approvato entro i primi tre mesi dell'anno.
Missioni militari. Il Parlamento dimissionario dovrà convertire in legge il decreto sulle missioni militari all'estero. Pena il ritiro immediato delle truppe. Anche questa rischia di diventare, come si può intuire, una partita puramente elettorale. Il Parlamento dovrà convertire il decreto in legge entro il 25-26 marzo. Il decreto del governo infatti porta la data del 25 gennaio, all'indomani dell'apertura della crisi. Già quel giorno, nonostante l'Unione finita in pezzi la sera prima nell'aula di palazzo Madama, il ministro Paolo Ferrero (Rc) votò contro. Si può immaginare cosa potrà succedere a fine marzo, in piena campagna elettorale, con ognuno nel centro-sinistra che dovrà piantare la propria bandiera di identità più o meno pacifista e antimilitarista.
L'emergenza rifiuti. In piena campagna elettorale, a fine marzo, scade anche il mandato del prefetto Gianni De Gennaro, commissario straordinario per i rifiuti in Campania. Il mandato del premier Prodi era di tre mesi per chiudere l'emergenza e avviare un sistema coordinato di smaltimento dei rifiuti. Non sembra possibile, ad oggi, che De Gennaro possa riuscire a concludere il suo mandato entro fine marzo. A quel punto cosa farà il governo in carica ma dimissionario?
(4 febbraio 2008)
da repubblica.it
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