EZIO MAURO.
Arlecchino:
La talpa cieca della sinistra
Il tavolo della legge elettorale oggi ha un nome: "patto extra-costituzionale"
Di EZIO MAURO
07 giugno 2017
AVEVAMO avvertito che dietro il tavolo della legge elettorale c'è il tavolo già imbandito del governissimo, e per l'aperitivo è pronto un accordo di scambio e garanzia tra Pd e Forza Italia sulla Rai, eterna prova del nove di qualsiasi intesa di basso potere. Adesso che ai due commensali si sono aggiunti anche Grillo e Salvini, applaudendo al ritorno al proporzionale per far saltare qualsiasi ipotesi di coalizione e ogni distinzione tra destra e sinistra - in cambio del voto anticipato -, quel tavolo ha un nome: "patto extra-costituzionale".
La formula è di Giorgio Napolitano, che dal Quirinale si è speso con forza per far sì che il Paese avesse una legge elettorale. Ma quella di oggi, secondo l'ex Capo dello Stato, rende più difficile la governabilità e basandosi su un calcolo di pura "convenienza di quattro leader" elude gli impegni europei, e viola addirittura la Costituzione fissando abusivamente la data del voto a settembre.
Oltre a far decadere leggi in attesa che come ricorda ogni giorno Repubblica rappresentano l'unica traccia riformista di una mediocre legislatura.
Ce n'è abbastanza per fermarsi e riflettere sul peso delle contraddizioni che stanno per diventare legge. Le più gravi, avviluppano il Pd fino a strangolarlo. Perché ovviamente è giusto cercare la più larga intesa di compromesso sulla regola elettorale, e poi conformarsi al voto per governare. Ma oggi la questione è diversa, rovesciata: la legge elettorale è costruita apposta per portare ad un governo tra Renzi e Berlusconi, ammesso che i due partiti abbiano i voti e vincano la sfida con Grillo e Salvini, cancellando ogni schema maggioritario e ogni alleanza pre-elettorale.
Ora, quando mai il Pd ha discusso di questo esito programmato e pilotato della sua storia? È nato per questa ragione e con questa ambizione? Non è un problema di linea, come si diceva una volta, ma di natura e di ragion d'essere. Tanto che praticamente tutti i padri fondatori del partito - Prodi e Veltroni in testa - sono contro uno schema che rinchiude il Pd in un patto abusivo e suicida, cancellando l'ipotesi e la nozione stessa di centrosinistra, dopo che già era stato abbondantemente picconato il concetto di sinistra.
Gli unici ospiti del negoziato che hanno qualcosa da guadagnare - oltre a Berlusconi resuscitato dai minimi termini grazie ai suoi avversari - sono da un lato Salvini che può correre da solo senza genuflettersi ad Arcore, e Grillo che può tentare la spallata del primo partito, visto che ognuno gioca per sé e non ci sono le coalizioni che lo sfavorirebbero in partenza: tanto in caso di sconfitta potrebbe tornare comodamente in piazza, a gridare contro l'inciucio che porta anche la sua firma di leader extracostituzionale.
Una volta davanti a tanto spettacolo politico si diceva: ben scavato, vecchia talpa. Oggi si vede ad occhio nudo che la talpa della sinistra è davvero cieca, e in via di estinzione.
© Riproduzione riservata 07 giugno 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/07/news/la_talpa_cieca_della_sinistra-167448439/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
Arlecchino:
Il Medioevo di Grillo
Di EZIO MAURO
15 giugno 2017
NON è automaticamente di destra il tema dell'immigrazione, perché qualunque democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo, il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia Raggi.
Quando chiede al prefetto, nell'intervallo tra i due turni elettorali, di bloccare l'arrivo dei migranti nella Capitale denunciando un''evidente pressione' con 'devastanti conseguenze', Raggi ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600 richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati) né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e reale della capitale.
Si tratta dunque del calcolo preciso di un investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che compensi il vuoto amministrativo di questi mesi.
Quando Grillo rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un paesaggio spaventato che evoca una politica d'ordine, allineando - forse inconsapevolmente - tutte le figure simboliche della devianza sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi, corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura quantità da respingere - i moderni 'banditi' - , annullando storie, biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri.
Di più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della globalizzazione, per i quali si sancisce l'impossibilità di salvezza e di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome, visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo di trovare nella differenza l'unica garanzia di sopravvivenza.
Verrebbe da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale che hanno in mente nell'Italia 2017 è fatto di città assediate da migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco, evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche, la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini.
È ben chiaro che l'Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale.
Tutto questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien fuori un'idea balorda dell'Italia, amputata in alto delle competenze delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l'invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale.
L'immagine non è nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita ad alzare il ponte levatoio, come in un Medioevo impaurito. Fuori, c'è il mondo.
© Riproduzione riservata 15 giugno 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/15/news/il_medioevo_di_grillo-168139929/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
Arlecchino:
I demoni di Pietrogrado
Cronache di una rivoluzione /2 - È il mese dell'autocrazia morente e della marea proletaria montante. Aspettando il giorno del giudizio
Di EZIO MAURO
13 gennaio 2017
I demoni di Pietrogrado A pranzo si era mostrato come sempre allo Yacht Club sulla Morskaja e i nobili soci sussurravano che mentre si sedeva al tavolo d'angolo era "pallido come la morte". Ma quello era un recinto aristocratico protetto. Questa, adesso, era la vera prova. Si avvicinò alla balconata drappeggiata del palco mentre l'orchestra accordava gli strumenti e in quel tempo sospeso tra la musica e la rivoluzione la folla in platea lo vide, si alzò in piedi e gli indirizzò un lunghissimo applauso, pensando così di liberare finalmente i nechistiki, gli spiriti maligni, nel cielo freddo di Pietrogrado.
Fu il primo atto del nuovo spettacolo che stava per andare in scena nella capitale infiammando la Russia, quell'applauso eversivo a un attentato imperiale che decapitava il cerchio più ristretto di comando attorno allo Zar, ribellandosi all'autocrate. Altri spiriti stavano per scendere sul "secolo di ferro", liberandolo per subito imprigionarlo, o forse Kikimora, il mostro maligno del sottosuolo, si preparava a saltare sul campanile della Trinità come nelle fiabe che terrorizzavano i bambini. Attirate dal fragore dell'applauso le ballerine del Mikhajlovskij che corsero a sbirciare dal sipario verso la platea furono le prime a rovesciare inconsapevolmente la prospettiva: guardando dal palco la città come il vero grande scenario dove da quel momento in poi incominciava la rappresentazione dell'impensabile e saliva in cartellone l'impossibile. Quasi che "Piter", costruita sott'acqua come una moderna Atlantide, avesse allineato per due secoli i suoi palazzi di granito, i suoi canali ghiacciati, i suoi ponti ad arco come una gigantesca fata morgana, in attesa di dissolvere tra pochi giorni il miraggio per diventare il gran teatro di un esperimento mai visto di sovvertimento universale. Fiacre, carrozze francesi col tetto di cuoio, mantici scuri e bardature fiammanti, slitte a due posti trainate dai cavalli Orlov aspettavano davanti al teatro in piazza delle Arti, lasciando solchi di gelo smaltato. Qualcuno si fece ancora portare al Circolo Inglese per finire la serata, o a provare la zuppa di gamberi nelle capanne sulla Neva, o fin su alle isole per il caviale di Felicien, o al match di lotta del circo Cinizelli per poi passare all'alba alla sauna di via Konjushennaja, oppure nei saloni dell'Astoria dove si inseguivano al suono del foxtrot ufficiali abituati a vivere di notte, vedove di guerra, crocerossine, prostitute e contesse che conversavano in francese. Tutti correvano, nell'ansia elettrica della città eccitata e snervata dal sentimento oscuro della fine e senza saperlo vivevano l'ultimo viaggio dell'aristocrazia che aveva appena gettato fiori sul palco del balletto, come se nulla fosse: nell'omaggio finale alla musica, alla grazia, alla bellezza e infine soprattutto alla città dei miracoli che radunava le sue meraviglie e poi come nei sogni trasformava ogni cosa in nebbia, acqua e fumo. Sotto l'immobile cupola d'oro di Sant'Isacco e la torre dell'Ammiragliato, davanti alle guglie della fortezza Pietro e Paolo, dietro i recinti di mattone rosso che sono rimasti intatti attorno alle fabbriche di Vyborg, cent'anni fa Pietrogrado, man mano che si lasciava alle spalle il dicembre di Rasputin e si inoltrava nel gennaio del 1917, era la città dei due mondi. Viveva contemporaneamente gli ultimi bagliori moribondi della Corte imperiale più ricca del mondo e l'incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant'anni, fermando il secolo per deviarne l'intero cammino. Il Palazzo reale, ignaro e irresponsabile, fu il simbolo rovesciato per le due correnti che s'incrociavano nelle ore decisive della capitale, l'autocrazia morente e la marea popolare montante. La liturgia imperiale rinsecchiva nell'angoscia della guerra con la Germania, dopo l'offensiva tedesca, la tragica ritirata russa e per la prima volta a Natale non c'era stato lo scambio tradizionale dei doni tra i Romanov, un clan di sessanta persone tra Granduchi, Principi e Principesse, disciplinati a fatica negli appetiti e negli appannaggi dal ministro di Corte Fredericks, che la famiglia imperiale chiamava "our old man".
In realtà i Granduchi formano ormai una specie di partito della sopravvivenza monarchica, deciso a tutto, incalzato rovinosamente dall'apocalisse. "Io e il mio portinaio vediamo perfettamente che la Russia sta perdendo tutto, nel Paese e al fronte - dice il Granduca Kirill Vladimirovic - Soltanto la famiglia imperiale non lo vede". E suo cugino Nikolaj Mikhailovic aggiunge: "L'omicidio di Rasputin è una mezza misura, bisogna togliere di mezzo l'Imperatrice. Mi balenano in mente idee omicide, non del tutto chiare ma logicamente necessarie.... Mi gira la testa... Che tempi, che maledizione si è abbattuta sulla Russia".
Due esponenti dell'opposizione alla Duma incontrano il Granduca in treno e nel viaggio parlano apertamente di zaricidio. "A poco a poco si è formato un vuoto intorno ai sovrani - aveva rivelato già mesi prima l'ex ministro degli Esteri Sazonov - nessuna voce da fuori penetra ormai nella loro casa". E i sovrani, sempre più rinchiusi a Zarskoe Selo, rispondevano odiando la città delle congiure, capitale degli intrighi. "Io sono sul trono da più di vent'anni - dirà in quei giorni la Zarina - , conosco tutta la Russia e so che il popolo ama la nostra famiglia. Chi è contro di noi? Pietrogrado: un piccolo gruppo di aristocratici che giocano al bridge e non capiscono niente". Erano gli Imperatori che non capivano più la loro città.
Solo tre anni prima l'avevano vista inginocchiarsi a terra davanti alla loro apparizione al balcone del Palazzo d'Inverno per la dichiarazione di guerra alla Germania, cantando Bozhe, Zarja khrani, "Dio salvi lo Zar, forte e maestoso, che per la nostra gloria, regna sui nemici atterriti". Vent'anni prima, nel pieno della potenza autocratica, avevano celebrato a Mosca l'incoronazione con un banchetto da settemila invitati. Appena quattro anni prima, il 21 febbraio del 1913, tutte le campane della Russia suonarono insieme dalle otto di mattina per accompagnare a mezzogiorno il cocchio scoperto su cui Nikolaj II e lo zarevic Aleksej arrivavano alla cattedrale Kazan per celebrare i fasti della dinastia, nel trecentesimo anniversario del giorno in cui nel 1613 i bojari proclamarono Zar il primo Romanov, Mikhail. Nel rito solenne del Te Deum, con cento soldati in alta uniforme sul sagrato, pronti a sguainare le sciabole della fedeltà imperiale nel saluto d'onore, si stava in realtà consumando ogni sovranità e qualsiasi potere, realizzando la profezia di Gogol, per cui "a San Pietroburgo tutto è inganno ", perché la città "mente a ogni ora, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa". E il primo inganno - perenne - è la neve, che oggi come sempre sui ponti della Mojka cancella ogni traccia e altera i profili, lasciando tutto intatto come in quei giorni, un secolo fa.
Quel vuoto isterico, eccitato, instabile, fu riempito dall'irrazionale come accade quando tutto vacilla, domina la precarietà e in una città condannata al mito eterno della cosmogonia inizia il crepuscolo, quel sumerki in cui la realtà del giorno perde via via i contorni, il buio fatica a scendere e tutto rimane in attesa, incerto, indefinito ma plausibile. Ballavano i tavolini a Corte, a casa delle "montenegrine", le due principesse Militsa e Anastasija. Bussavano gli spiriti nei salotti della capitale, tra i marmi del conte Sheremetev, negli stucchi dorati della contessa Golovkin, mentre nei circoli prosperavano gli "innocenti", intermediari col soprannaturale, i magnetizzatori, gli illuminati. Massonerie che volevano la Costituzione e società segrete improvvisate crescevano ovunque, accanto al potere, mescolando affari, esoterismo, sesso. Così che oggi basta salire da soli di notte le scale di ghisa circolari e silenziose della "Rotonda" di via Gorokhovaja - i "gradini satanici" - per immaginare ad ogni pianerottolo i riti e i bordelli che si nascondevano allora dietro quelle porte, e quindi guardar giù dall'alto nel precipizio del vortice centrale fino alla fossa rinchiusa sopra la testa del demonio: che a Pietrogrado, secondo Dostoevskij, si presenta sempre con i capelli lunghi appena brizzolati, la giacca marrone, la sciarpa larga e logora, un cappello di pelo bianco perennemente fuori stagione.
L'isterismo spirituale nascondeva alleanze di potere, copriva rituali politici di bassa lega nobilitandoli nella preghiera e nascondendoli nell'arcano. A Zarskoe Selo, nel Palazzo Imperiale l'intesa tra il prefetto di polizia, il capitano Nilov, il generale addetto ai cavalli, il maresciallo di Corte formò una rete segreta all'ombra del trono per indirizzare iniziaticamente il potere, la segretissima "Camera Stellata". Tutta la città parlava delle simpatie tedesche del "Partito Occulto", vicino alla Corona. Addirittura, col pieno consenso della Zarina veniva continuamente evocato lo spirito immortale di Rasputin, celebrando un sacro "mistero" dietro il portale sbarrato della cappella di palazzo Aleksandr, con tre ministri in catena, le donne che pregavano invocando il Santo fino al momento culminante dell'"angoscia", quando il ministro dell'Interno Protopopov lo vedeva, lassù nel punto più alto della cupola affrescata, e si faceva dettare gli affari di Stato direttamente dall'oltretomba.
Si capisce che fuori, nella città reale, ogni cosa stesse scappando di mano ad un potere cieco. Tutto precipitava, e non si sapeva verso che cosa. Marx era arrivato nella capitale a cavallo del secolo con la prima edizione del Capitale tradotta in lingua straniera (tremila copie, subito esaurite), con gli opuscoli rivoluzionari diffusi nei circoli operai e passati clandestinamente da una cella all'altra tra i detenuti politici della Fortezza Pietro e Paolo. In quel momento, infatti, quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in esilio come Lenin a Zurigo e Trotzkij a New York, in prigione come Dzerzhinskij, il futuro capo della Ceka - l'antenata del Kgb - , al confino o deportati sotto sorveglianza dell'Okhrana, la polizia segreta zarista che aveva ereditato metodi e poteri speciali dalla famosa "Terza sezione", e con il suo "Ufficio nero" controllava anche la corrispondenza dei sovversivi. Da qualche tempo sorvegliava con preoccupazione anche le scuole, in particolare i 90 istituti superiori dove c'erano manifestazioni quotidiane di protesta, nate per ragioni studentesche ma diventate ormai apertamente antigovernative: in una Russia in cui nei primi anni del secolo quattro ministri dello Zar erano morti in attentati progettati ed eseguiti da studenti.
Ma era nelle fabbriche e nelle famiglie che cresceva il malcontento, senza sapere che sarebbe diventato rivoluzione. Già i moti del 1905 erano nati dentro le officine Putilov, con gli operai metalmeccanici che chiedevano la giornata di otto ore e l'aumento del salario minimo. Adesso bisognava fare i conti con un costo della vita triplicato e con un salario operaio che era meno della metà rispetto alle fabbriche inglesi. Ma nessun conto si poteva fare con quello che non c'era: il pane e i generi alimentari di immediata necessità. Prima di Natale manca lo zucchero e le grandi aziende Ivanov e Markov a Mosca chiudono il loro mercato all'ingrosso nel Proezd Lubjanskij che rifornisce tutto il Paese. Il prezzo del tram rincara, senza una spiegazione. Il burro a Pietrogrado sparisce di colpo, poi ricompare all'improvviso a prezzi impossibili, e la gente lo compra comunque, spaventata all'idea di non trovarlo più domani. Psicosi e speculazione si danno il cambio nei mercati, nelle vetrine vuote, ovunque ci sia qualcosa da vendere e da comprare per trasformarlo in un pranzo o una cena.
Ma bisogna attraversare i ponti che hanno ancora l'aquila bicipite sui lampioni in ferro battuto, camminare in senso contrario alla folla rivoluzionaria e andare a cercare il punto d'origine di tutto, nei quartieri operai di Vyborg e di Narva. Qui non ci sono più i forni del pane, ma guardandosi intorno tra le ciminiere si rivede lo stesso fumo di cent'anni fa, quando per i lavoratori delle officine c'era il divieto di tenere riunioni, l'impossibilità di cambiare fabbrica, la proibizione di organizzare mense. Prima, il 9 gennaio, gli operai scelgono l'occasione dell'anniversario della "Domenica di sangue" del 1905 e scendono in sciopero. Poi il pensiero europeo di Marx si realizza nelle strade di Pietrogrado, per la materialità della crisi, la vastità dell'emergenza, il clamore della sua evidenza, senza uno schema ideologico. Scende la temperatura, si allarga il gelo, circola la voce che ci sarà un razionamento dei pochi prodotti nei negozi. Si formano code di donne, di vecchie, di uomini inferociti. Si allungano di notte. Si gonfiano di rabbia col freddo. Qualcuno spacca le vetrine, forza le porte nel buio, ci sono i saccheggi disperati del nulla.
Manca soltanto il detonatore, che sta arrivando. Ma nell'attesa la protesta sta già cambiando direzione, sa dove vuole andare e si rivolge subito contro l'Imperatore, "Zar Golod", lo "Zar Fame", colpevole di tutto, la penuria, le code, l'avvilimento e il furore delle famiglie senza cibo e senza diritti, tradite da un potere lontano, separato, inconsapevole perché incosciente, che nella miseria delle tavole vuote perde ogni maestà, qualsiasi sacralità, tutta la potestà imperiale, distrugge perfino l'antica devozione contadina per il "piccolo padre". L'Okhrana con i suoi agenti infilati nelle code vede arrivare il crollo, invia rapporti sempre più allarmati al governo. "Le donne sfinite dalla fame dei figli e dalle attese interminabili davanti ai negozi sono oggi forse più pronte alla rivoluzione dei loro uomini", dice una relazione di gennaio 1917. Nel febbraio 1914 Petr Durnovo, il ministro degli Interni conservatore, aveva già previsto tragicamente ogni cosa in un memorandum quasi profetico all'Imperatore: "Tutto avrà inizio con l'accusa al governo di essere la causa di ogni male. Si scatenerà una violenta campagna antigovernativa con agitazioni rivoluzionarie in tutta la Russia e parole d'ordine socialiste capaci di sollevare la masse, come la spartizione delle terre e di tutti i beni privati. Le forze armate sconfitte saranno troppo demoralizzate per difendere la legalità e l'ordine. Le istituzioni parlamentari e i partiti, mancando di ogni ascendente sul popolo, saranno impotenti ad arginare la marea popolare da loro stessi provocata e la Russia sprofonderà nella più disperata anarchia".
Chi riceveva i rapporti segreti, chi leggeva i memorandum? Il governo sottovaluta, lascia che lo Zar parta per il quartier generale di Mogilev, dopo che a Zarskoe Selo è rimasto nei suoi appartamenti, dietro la porta chiusa su cui vigilano le quattro guardie abissine coi i turbanti candidi, col divieto di parlare e dopo mezzanotte anche di starnutire. La guerra aveva fatto saltare la fiera di beneficienza nella Sala della Nobiltà, ma i pranzi nel Palazzo Imperiale (quattro piatti a colazione, cinque a cena) venivano sempre preparati per dieci persone, pronti per ospiti improvvisi, come se nel villaggio dell'imperatore tutto fosse normale. In sordina, dopo Natale erano iniziate anche le danze (agli ufficiali era proibito il tango se indossavano l'uniforme), con il famoso "ballo bianco" per le ragazze senza fidanzato, e si pensava già al carnevale, ignorando che non ci sarebbe più stato.
Ma la Corte appare immemore, ipnotizzata dalla precognizione indecifrabile della sua rovina e incapace di trasformare il presagio in politica. La cerchia più larga attorno alla Corona è ancora più avvinghiata al rituali, per paura di perderli. Pochi giorni prima che la scintilla rivoluzionaria si accenda nelle strade di Pietroburgo, la ballerina Mathilde Ksesinskaja - ex fiamma di Nikolaj II quando era un giovane ufficiale della Guardia - apre casa per una cena con 24 ospiti con i piatti di Limoges, il servizio da pesce dorato, myosotis e merletti intrecciati al centro del tavolo, accanto a fiori artificiali in pietre preziose e un piccolo albero di Natale dorato addobbato di diamanti.
Così scivolava "Piter" verso il Febbraio della storia, in una corsa inevitabile come quella delle acque della Neva. Come annota in quei giorni Zinaida Gippius nel suo diario azzurro, "non accade nulla fuori da Pietroburgo, tutto ha inizio qui e da qui si diffonde, solo qui si può sapere, vedere, capire". La città dai tre nomi, scrive Aleksej Tolstoj, vive quelle ore dentro una continua notte da sonnambuli, "fosforescente ed eccitata", "folle e voluttuosa con le sue trojke, i suoi duelli all'alba, le parate davanti a un imperatore con gli occhi bizantini": accanto alla disperazione delle file per il pane, alla rabbia popolare che scopre se stessa, forte, autonoma, consapevole e cosciente, in un Paese costruito per un potere solo, assoluto e proprietario più ancora che sovrano. Le due anime travagliate formano insieme Pietrogrado, splendida e terribile nella brace ardente di quei giorni, ultima capitale dell'Impero zarista, prima capitale della rivoluzione, eterna capitale simbolica di ogni fine e di tutti gli inizi. Ma adesso, nella sospensione del destino, "Piter" è il personaggio centrale di tutto, scena e attore, protagonista e fondale, come se la città tutta insieme salisse i 13 gradini della scala di Raskolnikov nel vicolo Stoljarnyj per incontrare il suo delitto e il suo castigo, inaugurando la "grande epoca".
Di notte, cent'anni dopo, tutto sembra com'era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e memoria. Cammino da un ponte all'altro sui canali fino al fiume Prjazhka cercando una finestra. Quella al numero 57 di ulitza Dekabristov dove il poeta Aleksandr Blok passava ore al buio, in quelle notti, guardando il "freddo violetto" di Pietrogrado: e oltre la finestra, "la Russia che vola chissà dove, nell'abisso azzurro- blu dei tempi".
(2. continua) -
© Riproduzione riservata 13 gennaio 2017
Arlecchino:
Cronache di una rivoluzione /1 - Il 16 dicembre del 1916, avvelenato e trafitto dai proiettili, moriva a San Pietroburgo l'uomo che si vantava di tenere "l'Impero nelle mani"
Da questo delitto, il primo atto che porterà a Lenin e alla Rivoluzione, incomincia il viaggio di Ezio Mauro che proseguirà per tutto il 1917
Di EZIO MAURO
09 dicembre 2016
SAN PIETROBURGO - Cent'anni dopo, c'è un mazzo di garofani rossi nel punto dove tutto è incominciato. Proprio qui. Salì la scala a chiocciola rovesciandosi sulla ringhiera, con la pallottola nel costato, poi si fermò sul pianerottolo. Spalancò la porta con un urlo da animale e si lanciò fuori barcollando e premendosi il petto, correndo curvo nei due gradi e mezzo notturni del cortile deserto. Chissà cosa riuscì a vedere nel buio, nell'agonia, nel palazzo che dormiva, nello splendore morente della Russia imperiale. L'ultima forza vitale lo portò verso il cancello, giù in fondo, mentre gridava il nome del suo assassino. Due spari a vuoto, due rivoltellate, lo fecero oscillare di terrore poi un colpo preciso alla schiena sembrò paralizzarlo, immobile, e subito dopo un colpo alla testa lo gettò a terra con la braccia spalancate e le mani che afferravano la neve di Pietrogrado, quel sabato 16 dicembre del 1916.
Ezio Mauro racconta la rivoluzione russa. Prima puntata: Rasputin
Nessuno sapeva che l'impero aveva le ore contate nella sua capitale eppure tutti gli spettri del caos si radunarono proprio qui, nel palazzo principesco, mentre cominciava lentamente a schiarire tra la nebbia che saliva dalla Mojka e sembrava come sempre fabbricata direttamente dal canale. Alla stessa ora, oggi, "Piter" è addormentata e silenziosa come allora, non c'è più il poliziotto Vlasjuk nella garitta che corre al primo sparo coi suoi stivali di feltro, dalle finestrelle del seminterrato non si allarga più nel cortile la musica americana di Yankee Doodle suonata dal grammofono dell'inganno, se n'è andato il profumo di marsala e madera della festa omicida. Soprattutto da cent'anni non c'è più Grigorij Efimovic Rasputin, il "santo diavolo", lo "starez di Dio", il "monaco nero" che è venuto a morire qui insieme con la dinastia imperiale, assassinato tra un sabato e una domenica nella notte sospesa sulla rivoluzione, in agguato alle porte della città magica.
Quel delitto è l'antecedente di ogni cosa perché è una vendetta e una ribellione ma anche un esercizio mistico, una specie di colpo di Stato, un sacrificio politico. È una predizione, un'evocazione, una rappresentazione. C'è una dinastia reale estenuata dall'autocrazia impotente dello Zar Nicolaj II e dalla nevrastenia religiosa della zarina, che separano la Corona dal Paese e la Corte dal suo tempo, togliendole ogni autonomia fino allo smarrimento. C'è la tempesta politica prossima ventura che si annuncia e ribolle nelle fabbriche e al fronte, pronta a ideologizzare l'anima russa appassionata, confiscandola. E c'è lui, il contadino siberiano semi-analfabeta, uomo di Dio nell'anima e peccatore nel corpo, sedicente guaritore e sicuramente incantatore, capace di coniugare fede lussuria e profezia nel fanatismo settario dei monaci "flagellanti". Ma pronto soprattutto a raccogliere nelle sue grandi mani spalancate e negli occhi color dei fiori di lino l'angoscia da fine-di-mondo che pesava sui sovrani e sull'impero, intercettando il sentimento dell'apocalisse e trasformandolo in tecnica di regno e di governo.
Quando entrò nel palazzo degli imperatori Rasputin aveva 36 anni, la barba arruffata, i capelli lunghi, sporchi e scuri, pantaloni e stivali da contadino, giubba di tela legata con un cordone. Ma la fama del taumaturgo gli aprì le porte di una reggia abituata a trasformare la fede in superstizione devota, in un Paese in cui spesso le chiese nascono sui siti degli idoli pagani e San Basilio sorge nel luogo dove regnava Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. La Corte è il punto di congiunzione dei misteri e delle premonizioni che li anticipano nell'angoscia, perché è il luogo dove regna questa sospensione magica e sacra della realtà, nell'attesa di un vaticinio perenne, soprattutto da quando Alix, l'imperatrice Aleksandra Fedorovna, non riesce a dare alla Russia un pretendente maschio ma solo femmine, quattro, Olga, Tatjana, Marija e Anastasija.
Ecco allora che arrivano nell'appartamento della zarina l'idiota beato Mitja, chiaroveggente scalzo, Matrjona profetessa stracciona, Darja santa pazza e bestemmiatrice, il curatore tibetano Badmajeff, monsieur Philippe occultista cristiano che quando si mette il cappello diventa invisibile, ma produce solo una gravidanza isterica, nonostante regali alla zarina un'icona coi campanelli che suonano quando si avvicina uno spirito maligno. Solo dopo un pellegrinaggio di tutta la famiglia col treno imperiale all'eremo di Sarov per pregare davanti alle reliquie di San Serafim, lunedì 30 luglio 1904 all'1,15 del pomeriggio nasce Aleksej, lo zarevic, erede al trono dei Romanov.
Col parto atteso da tutta la Russia Alix ha salvato la dinastia ma ha condannato suo figlio, perché gli ha trasmesso l'emofilia tedesca di famiglia, allora incurabile, tanto che la malattia dello zarevic viene subito circondata da un segreto di Stato malinconico e cupo protetto dal marinaio Derevenko che lo segue ad ogni passo per prevenire cadute, urti, ematomi e lividi capaci di degenerare. Finché Rasputin nell'autunno del 1907 entra nella stanza del bambino imperiale senza luce elettrica, si inginocchia come in chiesa sotto i lumi delle icone, accarezza la mano del piccolo zarevic, lo calma raccontandogli la storia siberiana del cavallo gobbo e del cavaliere senza gambe e infine annuncia ai sovrani che crescendo Aleksej guarirà completamente, vincendo la malattia. Per la prima volta Alix, l'imperatrice, si inchina a baciare la mano del santo contadino.
"Ho fatto la conoscenza d'un Uomo di Dio, di nome Grigorij, della provincia di Tobolsk", scriverà lo Zar il giorno dopo, ed è la prima traccia di un affidamento al taumaturgo delle due anime regnanti ma smarrite, e di un impossessamento graduale ma impetuoso di una sovranità esausta da parte del monaco, che in pochi anni dalle faccende familiari passerà alle questioni religiose, agli affari di Stato, alle vicende diplomatiche, alle scelte di guerra, alle nomine dei vescovi e dei ministri. Salito al trono senza essere preparato, il sovrano regna senza passione ("gli manca qualcosa nel ventre", dice l'aristocrazia pietroburghese) rifiutando i riti di Corte, cercando rifugio e sollievo solo nella famiglia che vive ormai quasi sempre nel palazzo Aleksandr a Zarskoe Selo, dove Alix e Nikolaj erano rimasti soli per la prima volta dopo le nozze, dove lei ogni sera nel budoir tra i fiori freschi avvertiva il suo arrivo nel corridoio quando il lampadario incominciava a tintinnare.
Nel castello rimbalzano le voci dei miracoli dello starez nei villaggi e nei campi, durante il pellegrinaggio che lo ha portato a Pietrogrado: ha espulso il diavolo da una monaca, ha guarito le mandrie, ha sospeso la pioggia per tre mesi. La zarina ha bisogno di sentirlo vicino, di chiamarlo quando il figlio sta male, di affidargli l'angoscia per un destino che sta declinando, di decifrare la catastrofe sconosciuta che li sta sovrastando. Quando lo Zar diventa comandante in capo dell'esercito in guerra con la Germania, lei gli affida una striscia di stoffa che l'uomo di Dio ha impregnato col suo fluido. Quando Nikolaj deve avere un colloquio delicato, gli ricorda di passarsi tra i capelli, prima, il pettine che gli ha regalato Rasputin. E attorno al castello crescono i sospetti, le invidie, le maldicenze, soprattutto adesso che lo Zar sta al quartier generale militare di Mogilev e gli affari di Stato finiscono nella stanza della zarina, con il parere, i veti e il visto di padre Grigorij.
"Tra queste dita - si vantava Rasputin - io tengo l'impero russo". E aveva ragione. Come in una corte stregata, un monaco analfabeta dall'istinto animale decideva di cambiare il capo del governo, di sostituire il ministro dell'Interno, di nominare il direttore della polizia, di selezionare i candidati alle cariche pubbliche scrutandoli negli occhi, di suggerire le scelte dello Zar: "Quest'uomo è amato da Dio, puoi procedere". "Fermati e caccialo, sento puzza di diavolo". Con il deperimento della sovranità regale, i rovesci dell'esercito in guerra, una serie di governi che procedevano come nella favola russa il cigno, il gambero e il luccio - l'uno verso l'alto, uno indietro, uno verso il fondo - la capacità di scelta e di decisione del monaco di Dio diventava l'unica certezza. Ecco perché ogni mattina, tornando da messa ad Afonskoje Podvorje il contadino trovava l'anticamera piena di soldati, ragazze, banchieri, politici, infermi venuti fin qui in via Gorochovaja 64, passati davanti al gabbiotto della portiera Gurolevna con le spie dell'Okhrana attorno al samovar di stagno nero, saliti al secondo piano per bussare alla porta dell'interno 20 (rossa oggi come allora) con una supplica, una raccomandazione, una benedizione, la speranza di un incontro mistico e sessuale, di una guarigione.
Alle 10 suonava il telefono che troneggiava nell'ingresso come nelle case dei ricchi (numero 646/46) e c'era una lunga conversazione col palazzo imperiale. Intanto il monaco distribuiva biscotti neri che le donne portavano via come reliquie sante nei fazzoletti di seta, insieme con la biancheria di padre Grigorij che volevano lavare personalmente, e lui le baciava tre volte sulla bocca. Poi si chiudeva con una di loro nello studio, sul divano di ferro con la spalliera sfondata e coperto da una pelliccia di volpe, davanti a una sola finestra, un tavolo con due sedie, le lampadki accese sotto le icone. Qui prendeva un bigliettino con la croce dal mucchio già pronto sulla scrivania ("Fate quel che vi chiede, Cristo è risorto ") e lo consegnava alla supplicante come passepartout nel potere, in cambio di baci, carezze, sesso, denaro: o anche gratuitamente. Alle visitatrici dava appuntamento per domani, per il pomeriggio, per la sera, nelle salette riservate dell'hotel Astoria, di Villa Rodè, del Donon o di Jar o di Strelna dove la notte finiva all'alba con orge, bevute e le romanze cantate dagli zingari, immancabili. Ubriaco, ballava e raccontava la sua intimità con i sovrani, svelando quel potere arcano, superstizioso e materiale che lo faceva definire dal popolo "lo zar sopra lo Zar".
Ciò che restava del potere istituzionale finì per ribellarsi. La famiglia Romanov era passata in pellegrinaggio da Nikolaj chiedendo inutilmente di liberare la Corona dall'umiliazione di Rasputin, la sorella della zarina, Ella, fu accompagnata in silenzio alla carrozza per aver osato criticare il Santo. Ma ormai lo scandalo di una reggia plagiata e sottomessa divampava ben oltre la corte. Disegni osceni della sovrana con Rasputin, chiacchiere, allusioni inquietano l'Imperatrice Madre. Fino al primo giorno di ottobre, quando alla Duma va in scena l'indicibile: "Il nome della zarina viene ripetuto sempre più spesso insieme a quello di delinquenti che la accompagnano - accusa il deputato d'opposizione Pavel Miljukov - Che cos'è, stupidità o tradimento? " Ancora più pesante l'attacco del deputato Puriskevic, monarchico, il 19 novembre: "Porto ai piedi del trono l'amarezza delle masse russe e dei soldati al fronte per i ministri diventati marionette in mano a Rasputin e all'Imperatrice, che è rimasta tedesca sul trono russo, estranea al Paese e al popolo".
Frastornato, braccato, il contadino prova a rassicurare lo Zar con un biglietto: "Dio vi darà forza, vostra è la vittoria, vostra la nave, nessuno ha il potere di salire a bordo". Ma lo Zar sente la pressione esterna, e anche quella interna alla famiglia dove il "Nostro Amico", come lui e Alix lo chiamano, pesa sempre di più. "Tutti ti ingannano - gli dice in quel mese il Granduca Nikolaj Michailovic - anche tua moglie ti ama appassionatamente ma sbaglia per i perfidi inganni di chi la circonda, e quel che esce dalle sue labbra è frutto di un'abile mistificazione, non di verità". Il 10 novembre l'Imperatore vede il suo nuovo primo ministro, Aleksej Trepov, fischiato dalla Duma in piedi. Decide di sacrificare l'odiato ministro dell'Interno Protopopov, protetto da Rasputin. Scrive alla moglie che il cambiamento è ormai indispensabile: "Solo ti prego di non coinvolgere il Nostro Amico. La responsabilità è mia e desidero essere libero nella mia scelta". Ma Alix resiste, a difesa della santità dell'Intermediario e del suo cerchio ristretto di potere: "Ricorda ancora una volta che hai bisogno dell'acume, delle preghiere e dei consigli del Nostro Amico. Ah caro, prego con fervore Dio perché ti illumini e ti faccia capire che lui è la nostra salvezza". Il ministro resterà al suo posto, nelle mani del contadino.
Ma ormai circolano piani governativi, ecclesiastici, parlamentari con un unico obiettivo: uccidere Rasputin per salvare la Russia. Strangolarlo o avvelenarlo? Rapirlo e poi pugnalarlo in auto? Assalirlo a casa di una delle sue amanti? Narcotizzarlo, sopprimerlo e seppellirlo nella neve? Usare le rivoltelle di mariti gelosi e farli irrompere in casa, com'è già avvenuto? Intanto il colonnello Komissarov porta sul tavolo del ministro cinque diverse polveri velenose e ne sceglie una letale, dopo averla sperimentata su un gatto. La corda che lega insieme Zar, governo, Dio e il monaco è tesa fino all'inverosimile, sta per spezzarsi. "Finché vivrò io, vivrà anche la famiglia imperiale - prova a esorcizzare la catastrofe Rasputin, e non si accorge che è una profezia - Ma con la mia fine perirà anch'essa". E il nodo si scioglie a metà novembre, quando proprio dall'interno della famiglia imperiale nasce il progetto di morte che diventa realtà. È infatti un principe- conte direttamente imparentato con lo Zar la mente dell'assassinio. Feliks Jusupov aveva trent'anni, secondo la zarina assomigliava a un bellissimo paggio, discendeva da dignitari del Khan Tamerlano e dal camerlengo di Pietro il Grande, ma soprattutto aveva sposato Irina Aleksandrovna, nipote dello Zar.
L'aristocrazia frustrata dal monaco-contadino, il suo successo in società, la vergogna delle sue orge sessuali, il pervertimento della fede cristiana, la sottomissione indecente degli Imperatori, tutto si congiungeva per Felix in un piano eroico di ribellione, vendetta e riscatto: bisognava eliminare Rasputin. Il principe cercò il nemico pubblico dello starez, il deputato Periskevic, che lo odiava per non essere diventato ministro e lo aveva attaccato alla Duma. Trovarono facilmente un'intesa, e il parlamentare arruolò il medico polacco Lazovert e l'ufficiale di cavalleria Suchotin. Il principe portò nell'operazione il suo migliore amico, il Granduca Dmitrij Pavlovic, luogotenente nel terzo reggimento di cavalleria della Guardia, in modo di garantire all'intero complotto quella speciale immunità che discendeva dai membri della Casa imperiale, svincolati dalla giustizia ordinaria, soggetti solo allo Zar.
Andarono in giro per Pietroburgo di notte e di mattino, cercando un luogo per gettare poi il corpo facendolo scomparire, trasformarono lo scantinato di palazzo Jusupov - che ancora oggi ha lo stesso pavimento di pietra, il soffitto a volta, due finestrelle basse - in una sala da pranzo con lanterne dai vetri colorati, un tavolo e un armadio intarsiato (con gioco di specchi, colonne, cassetti segreti) e un salotto con tappeti persiani, ricche tende e una pelle d'orso. Coi guanti di caucciù il dottore fece in polvere il cianuro di potassio e infarcì i petit four rosa, poi versò da una fiala il veleno in due calici di vino su quattro. Feliks aveva da tempo avvicinato Rasputin, fingendo di avere dolori al petto e lasciandosi imporre le mani, e soprattutto gli disse che sua moglie Irina - probabilmente la donna più bella di tutta la capitale - voleva finalmente conoscerlo. Tutto era ormai pronto. A mezzanotte del 16 dicembre il dottor Lazovert si vestì da chauffeur e portò il principe imbacuccato in una lunga pelliccia di renna e un berretto nero a prendere il santo contadino. Salì al buio dalla scala di servizio, lo trovò vestito con una camicia di seta azzurra con disegni di fiordalisi, probabilmente regalo della zarina. Scesero nel buio e Rasputin si appoggiò al braccio del suo assassino. Alle loro spalle, nello stipite della porta del monaco divino adesso è infilato un ritratto della famiglia imperiale, incrociando quei destini lungo tutto il secolo.
Irina era rimasta in Crimea, terrorizzata dal piano che la voleva come esca. Mentre il principe Feliks e lo starez scendevano dalla scala a chiocciola nello scantinato, i quattro complici al primo piano azionarono il grammofono parlando a voce alta, fingendo la coda di una festa con gli invitati che stavano per andarsene. Aspettando Irina, Grigorij prese dal vassoio del principe i pasticcini avvelenati, bevve due coppe di madera col cianuro. Forse le dosi erano sbagliate, forse i tempi erano calcolati male. Terrorizzato, Feliks lo guardava bere e mangiare senza crollare, cominciava a credere nelle leggende stregonesche, non riusciva a reggere lo sguardo del Santo e trovò una scusa per salire al piano di sopra. Prese la rivoltella del Granduca e scese tenendola dietro la schiena. "Sto guardando questo strano armadio", stava dicendo Rasputin in piedi di spalle. "Faresti meglio a guardare il crocefisso e dire una preghiera", gli rispose il principe puntando l'arma. Il contadino si voltò, in tempo per urlare mentre Jusupov sparava e poi cadde a terra sulla pelliccia d'orso.
Scesero tutti, guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava, spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l'occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, tutti uscirono, Puriskevic esplose i primi due colpi fallendo il bersaglio, poi due proiettili (forse del Granduca, esperto di armi) centrarono lo starec alla schiena e alla testa. Incredibilmente, Rasputin era ancora vivo e allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante, in una furia parossistica che sembrava riunire sul cadavere tutte le maledizioni di tutti i nemici per anni impotenti del monaco santo.
Lo avvolsero in un telo, legato con la fune, lo caricarono sulla limousine Delaunay-Belleville del Granduca, a ogni curva il cadavere sembrava sobbalzare e uno di loro si sedette sopra fino al ponte Petrovskij (ancora oggi poco illuminato e deserto a quell'ora) dove lo gettarono in un buco aperto nel ghiaccio, insieme con uno stivale che si era sfilato dal corpo in macchina. Lo trovarono tre giorni dopo. Prima una sovrascarpa, che le figlie dello starec riconobbero. Poi il cadavere gonfio con la camicia ghiacciata nella Malaja Nevka, le mani gelate verso il cielo. Ci fu un funerale segreto davanti alla famiglia imperiale, con la bara di zinco sepolta nella crociera della chiesa in costruzione a Zarskoe Selo, dedicata a San Serafim che aveva previsto sangue e disgrazie per l'inizio del secolo russo. Oggi una croce di legno ricorda il posto, una piccola custodia di ferro piegato a mano ripara dalla neve i lumini che sembrano ardere da allora. "Che cosa posso fare? Solo pregare e pregare - dirà la zarina al marito - Anche il Nostro caro Amico dall'aldilà prega per te. Quindi è ancora più vicino a noi. E tuttavia che voglia ho di sentire la sua voce rasserenante e incoraggiante...". La sentirà in sogno con l'ultima terribile profezia: "Vi bruceranno sul rogo".
La storia e la leggenda si contendono il finale. Finché il capitano Klimov dopo la rivoluzione porta i suoi uomini nella cappella: scoperchiano la tomba, aprono la bara cercando preziosi, trovano un'icona con la firma della zarina e delle principesse e la mandano al Soviet della capitale. Poi il cadavere di Rasputin con le braccia in conserta viene trasportato in treno a Pietrogrado, camuffato nell'imballaggio da pianoforte. Un camion porta la bara sulla carrozzabile fuori città, nei boschi tra Lesnoe e Peskarjova lo posano su una catasta di legna, lo cospargono di benzina e lo bruciano tra le sette e le nove, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento.
Ho cercato il posto del fuoco, dove l'onnipotenza del monaco diventa cenere della rivoluzione. Non riuscivo a trovarlo, la campagna russa incolta sembra tutta uguale, sul limitare indistinto del bosco che mi avevano indicato veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia di buoi che tornavano a casa. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte il segno della croce. Lui sapeva, cent'anni dopo. Il santo diavolo era lì per sempre, come la Russia eterna.
© Riproduzione riservata 09 dicembre 2016
Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/12/09/news/rasputin_ezio_mauro_cronache_rivoluzione-153773778/
Arlecchino:
L'inversione morale
Di EZIO MAURO
09 agosto 2017
CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa. Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.
Ora il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.
Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono.
Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.
Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.
Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.
Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.
© Riproduzione riservata 09 agosto 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/09/news/l_inversione_morale-172679630/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S4.3-T1
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