EZIO MAURO.

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POLITICA L'EDITORIALE

Antipolitica, per chi suona la campana
EZIO MAURO


C'è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora sull'assalto dell'antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese, l'indebolimento della coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea dell'Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti e bassi della politica, ai cicli dell'economia, all'autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o in televisione.

Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione del merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione parallela - ecco il punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione, e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti. Come se cambiare l'Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.

Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna. Un'Italia in forte perdita di velocità, dove l'unico leader capace di innovazione è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l'ambizione di un Paese che non può essere soltanto l'atelier dell'Occidente, o la sua casa di riposo.

Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è soltanto una spia - e parziale - dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento. Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni personali si riuniscono in uno show, come se cercassero "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri - la folla - consegna loro il carisma, capace a sua volta di trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l'evento prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.

Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico, che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale: il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi a una regola.

Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la classe politica. È l'establishment del Paese nel suo insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer dell'antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un'industria che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.

Quando la crisi è di sistema e l'indebolimento del Paese è l'unico risultato visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l'eredità. Meglio chiedersi, finché c'è tempo, per chi suona la campana.

(27 settembre 2007)
da repubblica.it

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POLITICA

L'EDITORIALE

Non sprecare questa forza

di EZIO MAURO


Non è solo un risultato politico straordinario, il voto che ha dato vita al Partito democratico ieri, con più di tre milioni di cittadini impegnati nelle primarie che hanno scelto Walter Veltroni come leader con una maggioranza schiacciante; ma è un segnale per tutti, al di là dei recinti di parte, che ci dice qualcosa di inedito e di imprevisto sull'Italia di oggi, qualcosa che va controcorrente e dunque merita di essere osservato con attenzione.

Il Paese, dice questo segnale, non è omologato ad un falso senso comune impastato con i materiali di un ribellismo antistatale borghese e proprietario da un lato, e di una protesta popolare nichilista dall'altro. Anzi. Se si apre lo spazio per una partecipazione nuova al discorso pubblico - nuova nelle persone, nel linguaggio, nei riti, nei contenuti - quello spazio viene occupato e dilatato, quasi rivendicato dai cittadini: che lo rendono simbolico e dunque immediatamente significativo dal punto di vista politico e persino culturale, distruggendo in un solo giorno la povertà del cortocircuito che trasforma la politica in vaffanculo, ma anche l'esibizione muscolare di piazze, minacce e sondaggi, che vede il confronto politico come pura prova di forza.

C'è infatti l'evidente ricerca di un barlume in fondo al grigiore di questi giorni, nella mobilitazione di un pezzo d'Italia per partecipare alla fondazione di un partito. C'è la voglia quasi disperata di un nuovo inizio.

C'è la condanna per contrappasso di riti e giochi al massacro e al piccolo lucro politico - qui parliamo della sinistra - che disamorano gli elettori ad ogni rilevazione statistica, e sembravano averli consegnati al disimpegno, separandoli dal destino dei partiti, vecchi e nuovi, e dal loro divenire. Invece, e nonostante tutto, nel cosiddetto popolo della sinistra c'è ancora una disponibilità alla speranza, a ripartire e a riprovare, se soltanto si mostrano gli strumenti e gli uomini, i modi e le forme con cui tutto questo potrebbe, forse, accadere. Nel cinismo dominante di oggi, non era affatto scontato. In una formula, e prima ancora di parlare di politica, la giornata di ieri dimostra come per un pezzo rilevante d'Italia non si debba rinunciare a credere che il cambiamento è ancora possibile. Per la sinistra, non è una scoperta da poco, pochi giorni dopo il referendum sindacale nelle fabbriche, la sua partecipazione, il suo risultato e soprattutto il suo significato. Come scoprire di avere un popolo, e di averlo attivo e reattivo, dopo il timore - diciamo la verità - di averlo perduto.

Ma è per il Paese che questa riserva di fiducia e di partecipazione può contare. Perché può ridare respiro alla politica - tutta - e alle istituzioni, entrambe braccate. E perché separa la protesta di questi mesi dalla sua frettolosa definizione: non era antipolitica, infatti, ma richiesta di una politica "altra", radicalmente diversa. In questo modo, la ribellione può prendere la strada (la spinta) dell'impegno a cambiare, separandosi sia dai pifferi dei demagoghi che pretendevano di guidarla, sia dai tamburi dei populisti che speravano di dirottare il corteo. E sia, soprattutto, dai sospiri impazienti di chi da fuori pesava già le macerie politico-istituzionali, sperando in una nuova supplenza imprenditorial-terzista-professorale capace di forzare con alleanze da rotocalco la costituzione, il bipolarismo e i partiti.

E invece, ecco la parola "partito" che spunta da questa palude in parte spontanea e in parte interessata di disgusto per la politica, o almeno di disincanto e di lontananza. La cifra di qualità del voto di ieri, a ben vedere, sta nel fatto che non si votava per un premier, non si toccava l'intera platea di una coalizione, non si testimoniava una presenza al gazebo contro Berlusconi al potere, com'era accaduto alle primarie di Prodi e Bertinotti, con 4 milioni di cittadini-elettori. Questa volta è il richiamo di un partito che ha mobilitato più di tre milioni di persone, in un momento di governo calante, berlusconismo quiescente, partitismo languente. Com'è stato possibile? Perché non si tratta di un partito, ma di un partito-nuovo, come il New Labour annunciato da Blair all'inizio della sua avventura. Nuova la leadership, anche generazionalmente, nuovi i programmi, nuova la liturgia e nuovo soprattutto lo strumento di partecipazione diretta dei cittadini. In nessun Paese al mondo un partito moderno è nato dal coinvolgimento diretto di tre milioni di persone, e dalla loro scelta attraverso il voto. L'ultimo grande partito nato da noi - Forza Italia - è scaturito da una cassetta tv registrata, nello studio del leader proprietario, che tra un ficus e la scrivania annunciava di amare il suo Paese, nella solitudine elettronica del messaggio televisivo.

L'Italia non è così distratta da non aver percepito la differenza, e forse persino il suono drammatico dell'autenticità in quest'ultimo tentativo di reinvenzione della sinistra, dopo i ritardi tragici della sua storia, che hanno tanta colpa nelle sue sconfitte. E ha evidentemente percepito anche la novità della leadership di Veltroni, se l'ha consacrata con un consenso così alto proprio in una fase di caccia grossa all'uomo politico e a tutti i suoi simboli. Anche la competizione molto dura con Rosy Bindi e il confronto aperto con Enrico Letta, davanti agli elettori, hanno avuto il suono della novità. Ma Veltroni ha significato qualcosa di più, qualcosa legato al personaggio e al ruolo di sindaco di Roma: una sinistra capace di considerare le ragioni degli altri, un professionismo con tocchi efficaci di dilettantismo, dunque decifrabile e non distante, un linguaggio aperto a codici nuovi, un orizzonte non più ideologico e tuttavia mitologico, una propensione dichiarata all'innovazione, che oggi resta anche a sinistra l'unica rivoluzione possibile.

Si capisce da quanto abbiamo detto come da tutto questo Veltroni riceva oggi una forza del tutto inedita nel mondo politico italiano. La riceve non solo dai numeri, ma dalla forma con cui sono stati espressi, dall'inedita coppia leader-cittadini uniti prima ancora che nasca il partito, dallo spiazzamento generale per una testimonianza politica massiccia in giorni di crisi della politica. Ha un solo modo per non sprecarla: usarla. Capendo, prima di tutto, che è una forza di cambiamento, per il cambiamento. Dunque, continuando a cambiare, subito, a costo di strappare, come sarà inevitabile. Altrimenti, la speranza che si è riaccesa si spegnerà, perché è l'ultima. Quel barlume che s'intravede in fondo alla crisi è come una miccia accesa. Che ci spinge a cambiare, tutti, ma con urgenza, per salvare il Paese.

(15 ottobre 2007)
da repubblica.it

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CRONACA

COMMENTO

Democrazia e religione
di EZIO MAURO


"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese.

"Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".

Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.

Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.

La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.

Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

(25 ottobre 2007)
da repubblica.it

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CRONACA

L'EDITORIALE

La struttura Delta

di EZIO MAURO


UNA versione italiana e vergognosa del "Grande Fratello" è dunque calata in questi anni sul sistema televisivo, trascinando Rai e Mediaset fuori da ogni logica di concorrenza, per farne la centrale unificata di un'informazione omologata e addomesticata, al servizio cieco e totale del berlusconismo al potere. L'inchiesta di "Repubblica" ha svelato fin dove può arrivare il conflitto d'interessi, che questo giornale denuncia da anni come anomalia italiana, capace di corrompere la qualità della nostra democrazia.

Nel pozzo senza fondo di quel conflitto, tutto viene travolto, non soltanto codici aziendali e doveri professionali, ma lo stesso mercato, insieme con l'indipendenza e l'autonomia del giornalismo. Con il risultato di una servitù imposta alla Rai come un guinzaglio per un unico padrone, ben al di là dell'umiliante lottizzazione tra i partiti, e i cittadini-spettatori truffati e manipolati proprio in quella moderna agorà televisiva in cui si forma il delicatissimo mercato del consenso.

Ci sono le prove documentali di questa operazione sotterranea, che ha agito per anni alle spalle dei Consigli di amministrazione, della Commissione di vigilanza, dei moniti del Quirinale sul pluralismo dell'informazione. Si tratta - come ha documentato "Repubblica" - di un'indagine della magistratura milanese sul fallimento dell'Hdc, la holding dell'ex sondaggista di Berlusconi (e della Rai) Luigi Crespi, che è stato per un lungo periodo anche il vero spin doctor del Cavaliere.

Dopo il fallimento del gruppo, nel marzo 2004, sono scattate perquisizioni e intercettazioni della Guardia di Finanza. E gli appunti dei finanzieri sulle conversazioni telefoniche rivelano un intreccio pilotato tra Mediaset e Rai che coinvolge manager di derivazione berlusconiana e uomini che guidano strutture informative, con scambi di informazioni tattiche e strategiche, mosse concordate sui palinsesti per "coprire" notizie politicamente sfavorevoli al Cavaliere, ritardi truffaldini nella comunicazione al pubblico di risultati elettorali negativi per la destra: con l'aggiunta colorita e impudente di notisti politici Rai che si raccomandano a Berlusconi, dirigenti Mediaset che danno consigli alla Rai sulla preparazione del festival di Sanremo. E un lamento, perché durante le riprese televisive dei funerali del Papa, "Berlusconi è stato inquadrato pochissimo dalle telecamere".

Non si tratta, com'è evidente, soltanto di un caso di malcostume politico, di umiliazione professionale, di vergogna aziendale. E' la rivelazione di un metodo che mina alle fondamenta il mito imprenditoriale berlusconiano, perché sostituisce la complicità alla concorrenza, la sudditanza all'autonomia, la dipendenza al mercato. Il tutto in forma occulta, con la creazione di una vera e propria rete segreta che crea un "gioco di squadra" - come lo chiamano le telefonate intercettate - che ha un unico capitano, un unico referente e un unico beneficiario: Silvio Berlusconi.

Trasmissioni d'informazione, come quella di Vespa, per la quale il direttore generale Rai garantisce che il conduttore "accennerà al Dottore ad ogni occasione opportuna", dirigenti della televisione pubblica che quando vengono a conoscenza di un discorso di Ciampi a reti unificate per la morte del Papa hanno come unica preoccupazione quella di organizzare un contraltare di Berlusconi al capo dello Stato, che potrebbe essere messo troppo "in buona luce", serate elettorali in cui si decide di "fare più confusione possibile" nel comunicare i risultati "per camuffare la loro portata".

In che Paese abbiamo vissuto? La politica - avversari e alleati di Berlusconi, tutti quanti defraudati da questa rete sotterranea costruita per portare acqua ad un mulino solo - è consapevole della gravità di queste rivelazioni, che dovrebbero spingerla ad approvare una seria legge sul conflitto d'interessi nel giro di tre giorni? E il Cavaliere, quando sarà sceso dal predellino di San Babila dove le sue televisioni lo hanno inquadrato in abbondanza, vorrà spiegare che mandato avevano i suoi uomini (spesso suoi assistenti personali) mandati ad occupare posizioni-chiave in Rai e Mediaset, se i risultati documentali sono questi?

La realtà è che in questo Paese ha operato e probabilmente sta operando da anni una vera e propria intelligence privata dell'informazione che non ha uguali in Occidente, un misto di titanismo primitivo e modernità, come spesso accade nelle tentazioni berlusconiane. Potremmo chiamarla, da Conrad, "struttura delta". Un'interposizione arbitraria e sofisticatissima, onnipotente perché occulta come la P2, capace di realizzare un'azione di "spin" su scala spettacolare, offuscando le notizie sgradite, enfatizzando quelle favorevoli, ruotando la giornata nel senso positivo per il Cavaliere.

Naturalmente con le telecamere Rai e Mediaset che ruotano a comando intorno a questa giornata artificiale, a questo mondo camuffato, a questa cronaca addomesticata. In una finzione umiliante e politicamente drammatica della concorrenza, del pluralismo, dei diritti del cittadino-spettatore, alterando alla radice il mercato più rilevante di una democrazia, quello in cui si forma la pubblica opinione.

Lo abbiamo già scritto e lo abbiamo denunciato più volte, ma oggi forse anche la politica più sorda e cieca riuscirà a capire. In nessun altro luogo si è formato un meccanismo "totale", così perverso e perfetto da permettere ad un leader politico di guidare legittimamente la più grande agenzia newsmaker del Paese (il governo) e di controllare insieme impropriamente l'universo televisivo, con la proprietà privata di tre canali e la sovranità pubblica degli altri tre.

A mettere in connessione le notizie trattate secondo convenienza politica e i canali informativi, serviva appunto la "struttura delta", ricca del know-how specifico del mondo berlusconiano, specializzato proprio in questo. Da qui alla tentazione di costruire il palinsesto supremo degli italiani, manipolando paesaggio e personaggi della loro vita, il passo è breve. E se la mentalità è quella che punta ad asservire l'informazione alla politica, la politica al comando, il comando al dominio, quel passo è probabilmente quasi obbligato.

E' ora possibile fare un passo per uscire da questo paesaggio truccato, da questa manipolazione della nostra vita. Purché le istituzioni, la libera informazione, il mercato e la politica lo sappiano. Sappiano che un Paese moderno, o anche solo normale, non può sopportare queste deformazioni delle regole e della stessa realtà: e dunque reagiscano, se ne sono capaci. La stessa mano che domani proporrà le larghe intese, è quella che ha predisposto il telecomando con un tasto unico. E truccato.

(22 novembre 2007)

da repubblica.it

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CRONACA

Viaggio nella crisi della democrazia.

A Napoli tra politici impotenti e ribelli delle discariche.

E alla paura della gente si mescola la camorra

Così lo Stato affonda tra rifiuti e violenza

I termovalorizzatori non esistono.

I depositi sono gonfi di spazzatura pressata "talquale" per un esito finale che però non ci sarà

di EZIO MAURO


NAPOLI - Il giorno in cui lo Stato sembrò arrendersi, era un sabato qualunque. Ventinove dicembre 2007, Capodanno alle porte e una gran paura che i botti (venti tonnellate scoperte a San Giuseppe Vesuviano, una famiglia arrestata a Massa di Somma mentre acquistava cento chili tondi di razzi, tre quintali di petardi proibiti sequestrati al bidello della scuola materna di Afragola, che li teneva nascosti nella caldaia) incendino i rifiuti, bruciando la plastica e liberando diossina. Per il resto, un giorno normale: temperatura media 12,1, cielo sereno, vento debole da Nordovest.

All'inizio di via della Montagna Spaccata, in sette lanciano le corde attorno al primo lampione stradale, poi lo piegano, lo curvano saltandoci sopra e lo abbassano fino ad attraversare la strada, bloccandola. Attorno massi di cemento, il sedile di un divano, cassette di legno. Quel lampione abbattuto e sospeso è come un passaggio a livello che separa la città che produce rifiuti dalla città che deve ospitarli. Perché quella strada che spacca la montagna, attraverso tre curve, tre rotonde e una discesa al buio porta direttamente al Mostro: la discarica di Pianura che per 42 anni ha ingoiato l'immondizia di tutti, Napoli, la Campania, pezzi d'Italia e d'Europa, gonfiandosi di colline marce d'erba falsa e ingannevole, di alberi malati, di odori e vapori. Poi ha chiuso, giurando che era per sempre, nel 1996, promettendo al posto dell'immondizia un campo da golf a 18 buche, con una passeggiata aperta a tutti.

Adesso, all'improvviso, Pianura riapre e il fantasma ritorna, perché Napoli non sa più dove mettere i suoi rifiuti, abbandonati come una minaccia e una resa a ogni angolo di strada. Può soltanto sotterrarli, dove l'ha sempre fatto dai tempi di Lauro in poi.

Tutta la Campania geme sotto il peso di centomila tonnellate di rifiuti, e Napoli da sola (otto per cento del territorio regionale, 40 per cento della popolazione) ne produce 1500 al giorno. È sempre così, ma adesso sembra di vederle tutte. Hanno provato a ripulire il centro per i giorni di festa, ma non ci sono riusciti.

Dovunque c'è un cassonetto, sembra funzionare soltanto come un richiamo e come un segnalatore d'emergenza. Sta con la porta in alto spalancata, traboccando, e tutt'attorno è un lago bianco, azzurro, marrone, nero di sacchi, sacchetti, pacchi, cartoni, bottiglie, bicchieri colorati di plastica. Anche davanti all'ingresso del palazzo della giunta regionale, a Santa Lucia, dove i sacchi si allargano per strada. Anche in via Toledo, la strada dello shopping, proprio all'incrocio con Santa Brigida e poi davanti al Disney store, tappa natalizia: cumuli di rifiuti alti fino a due metri, larghi dieci, con fornelli arrugginiti, stufe rotte, ventilatori fuori stagione coricati tra gli imballaggi. Al Vomero in via Caldieri e via Martini si arriva fino al primo piano delle case. A piazza Trieste e Trento, a due passi dal Plebiscito, i sacchi oscurano le vetrine, coprono i saldi. In via Scarfoglio, dove c'è il comando Nato del Sud Europa, si è formato un lago di liquame e pioggia, perché i tombini sono intasati dall'immondizia che esce dai sacchi neri accatastati dovunque.

Eppure il sangue di San Gennaro si era sciolto, poco prima delle feste, dunque nulla lasciava intravvedere questa emergenza, nelle strade e nelle piazze che il cardinale Crescenzio Sepe si chinò a baciare quando entrò per la prima volta da arcivescovo di Napoli nella paura di Scampia. Cos'è successo? Semplice, dice il senatore Roberto Barbieri, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite che si tira dietro: è successo che in cinquant'anni Napoli non ha saputo inventare altro che i buchi delle discariche - quelle legittime e quelle illegali gestite dalla camorra - per nascondere i suoi rifiuti seppellendoli, e adesso sono finiti i buchi. Dunque dai sette impianti Cdr, combustibili da rifiuti, che accumulano le ecoballe (e già sarebbero fuori norma perché non sono frutto di uno smaltimento differenziato, come vogliono le procedure, e dunque non sono bruciabili perché si brucerebbe di tutto) non sanno più dove portarle.
 
I termovalorizzatori, dove finiscono le ecoballe in tutto il mondo, qui in Campania non esistono. I depositi sono pieni, gonfi di immondizia "talquale" pressata per un esito finale che non ci sarà. C'è soltanto il buco, ma i buchi sono ormai saturi e per di più circondati e piantonati dalle paure e dalle diffidenze dei cittadini.

Dietro i sacchi dei rifiuti sparsi in ogni angolo, c'è dunque l'immondizia condensata inutilmente in sei milioni di ecoballe, simbolo gigantesco di un Paese che segue le procedure a metà, avvia un processo sapendo che non arriverà mai in porto, mima una regola che non è capace di seguire e finge una normalità che non esiste. Ma c'è forse qualcosa di più, che conferma quel "magma sociale" che a giugno un'inchiesta di Giuseppe D'Avanzo definì "vittima e carnefice" della falsa emergenza rifiuti, un'emergenza che dopo 14 anni, 780 milioni di euro ingoiati all'anno, un bilancio fallimentare di 15 mila miliardi di lire in dieci anni, è purtroppo normalità quotidiana.

Ma il prefetto Alessandro Pansa aggiunge ancora un dubbio. La verità, spiega, è che a ottobre Napoli era uscita dalla crisi dell'immondizia, stava per tirar fuori la testa, poteva farcela. E la cosa non è piaciuta per niente a troppa gente: ai sindaci dei Comuni che incassano la Tarsu (la tassa sui rifiuti) e non la versano al commissariato, che vanta 250 milioni di crediti solo dalle amministrazioni municipali, ma deve farsi dare i soldi dallo Stato, perché i comuni non pagano.

La fine dell'emergenza non piace, secondo il prefetto, nemmeno a tutti coloro che non vogliono la trasparenza, non vogliono la gestione pubblica, perché si sottrarrebbe al mercato di smaltimento più caro d'Italia quella quota enorme che viaggia in nero e finisce nelle casse della camorra o dei suoi consanguinei. Infine, non piace nemmeno ai politici, perché la trasparenza dei problemi, delle scelte e delle responsabilità - invece della politica dei buchi - crea impopolarità. E allora, spiega Pansa, meglio ingigantire le paure vere e inventarne altre finte, così se muore una pecora ad Acerra si urla contro il termovalorizzatore, dimenticando che in tutta la Campania non ce n'è nemmeno uno in funzione.
 
Ma la paura è una brutta bestia, e Napoli deve farci i conti. Basta risalire via della Montagna Spaccata per vederla in faccia ai ragazzi, alle madri che portano ai blocchi stradali i bambini in carrozzella per evitare le cariche di polizia, ai vecchi che al tramonto attraversano la strada con due sacchi chiusi di immondizia in mano dirigendosi verso i cassonetti, come se la situazione fosse normale. Come se fosse la strada che porta all'inferno, e non solo alla discarica, i ribelli hanno bloccato tutto, gli accessi, le uscite e soprattutto la raccolta dei rifiuti. Ci sono quattro posti di blocco, incarogniti e nervosi, dopo quel lampione abbattuto per fermare il traffico. Alla prima curva, i rifiuti sono accatastati in massa sul lato destro della strada, contro i cancelli delle case. Un muro di rifiuti, come non avevo mai visto, e che spiega i 25 topi per abitante di questa città, contro i 4 della media nazionale. Sacchetti con tutte le marche dei supermercati, pacchi di pompelmi tagliati a metà e spremuti al caffè Moreno, bottiglie di aranciata a metà, una lavatrice, cartoni di ogni genere, file di lampadine fulminate a Natale su qualche albero, addobbi natalizi spiegazzati e curvati nei sacchi.

All'altezza del Circolo Caritas, un prefabbricato dove ci sono state le primarie dell'Ulivo e dove adesso quattro uomini anziani e due donne giocano a carte, i cassonetti sono rovesciati come ovunque su questa strada, per far barriera ma anche per significare che i rifiuti devono pesare sulla città, debordare per strada, occupare Napoli, sporcarla e in qualche modo imprigionarla. A ogni rotonda, la folla di ribelli aumenta. I capi, pochi, fermano le auto di abitanti del quartiere che hanno il permesso di muoversi dentro il recinto chiuso, gesticolano, spiegano e quando è il caso urlano. Gli altri guardano, fumano, stanno chiusi nei loro giubbotti, partecipano in piedi sui muretti. Ci dev'essere un'organizzazione, perché qualcuno davanti al supermercato Despar è andato in qualche cantiere a prendere una decine di barriere d'acciaio e le ha disposte come una rete notturna attraverso la strada, spaccando i blocchi di cemento usati per la base, e trasformandoli in sassi pesanti.

Cinquecento metri più avanti, lo spartitraffico è stato spezzato e girato da qualche gru, e ora occupa la strada come una barriera invalicabile. Più in alto ancora, superato l'ultimo rondò, c'è uno sbarramento finale fatto di pneumatici di camion, più un materasso e la carcassa di una Smart. A qualche segnale, i rifiuti bruciano, una fila intera, si anneriscono i segnali stradali delle scuole e dei pedoni, la plastica si attorciglia, resta nell'aria l'odore che dura giorni interi.

Oltre le barriere, dentro la rete d'acciaio s'infilano soltanto i ragazzi in scooter col berretto e la sciarpa, quelli che hanno riempito i muri delle case di scritte da ultras, e che adesso passano su e giù, guardano, controllano, sfiorano e accompagnano, portando ordini, allarmi, messaggi, voci. Alle sette, i blindati della polizia e le camionette col vetro protetto dalla rete mettono in moto, lasciano il parcheggio sotto una stella cometa dorata che non era stata ancora spenta, e se ne vanno in colonna. La notizia corre e risale via della Montagna Spaccata, va oltre l'ultimo sbarramento, scende nella strada al buio e arriva al presidio davanti all'ingresso della discarica. Abbiamo vinto, dicono quattro ragazze trionfanti, Prodi ha capito che avevamo ragione e i poliziotti se ne vanno.

C'è quasi una festa notturna davanti alla discarica, i ragazzi si aggrappano alle reti, salgono sui cancelli, vogliono vedere. Ma i vecchi continuano a spostare i sacchi dei rifiuti, come un'autoprotezione, un esorcismo, una garanzia, come se solo l'immondizia potesse proteggerli. Quando alle nove il sindaco e il governatore Bassolino finiscono la riunione in prefettura, e tra mille cautele dicono che Pianura deve riaprire, certo insieme a tutte le altre discariche della Campania, ma deve riaprire, scatta la delusione, la rabbia, la furia. Un autobus viene trascinato fino alla rotonda Russolillo, messo di traverso come un trofeo, bruciato, un camion paralizza gli accessi in via Sartania.

O la discarica di Pianura riapre, o è finita, dice Bassolino prima di partire per Roma: mi piange il cuore perché l'ho chiusa io, ma non c'è altro modo, in attesa di quel maledetto termovalorizzatore che arriverà tra un anno. Doveva arrivare nel 2007, poi nel 2008, conta a voce alta il sindaco Iervolino, adesso dicono nel 2009. Speriamo che non sia il 2025. E le responsabilità, per favore, se le prenda chi le ha, e anche chi ha i poteri: è il commissario, non siamo noi.

Bassolino ammette che ha pensato di dimettersi, di mandare tutto al diavolo, di finire questa rincorsa infinita all'immondizia che dura da più di dieci anni, visto che già nel '95 doveva scortare personalmente, a piedi, i camion che raccoglievano i rifiuti strappandoli alla camorra che voleva invece bruciarli: ma io, aggiunge, non lascio la città a chi non è in grado di prendersela democraticamente, dopo che contro i termovalorizzatori ho visto marciare tutti, destra e sinistra, giornali e intellettuali, e in prima fila i vescovi con la croce in mano come se ci fosse da respingere il demonio. E con loro, la camorra, naturalmente. Per questo il governatore non vuole andare alla Montagna Spaccata a parlare ai ribelli: quella, dice, è camorra a 18 carati, con loro non tratto. Usiamo un po' di Stato, mettiamo un po' di gente in galera, poi parlamentiamo.

Ma in realtà, come sempre nella disperazione, come spesso a Napoli, con la camorra si mescola la gente comune, che ha paura. Che devo fare, si chiede il prefetto, lanciare le cariche contro questa gente, sapendo che finirebbero sotto le donne, i vecchi e i bambini? Preferisco parlare, trattare, ascoltare, anche se si perde tempo, e noi non ne abbiamo più. Tu prefetto, mi chiedono, manterrai le promesse? Chi ce lo assicura? E io li ascolto, ma penso che siamo con le spalle al muro, il nostro tempo è già scaduto, ormai raccogliamo e smaltiamo solo una piccolissima parte dei rifiuti che Napoli produce. Dobbiamo riaprire subito la discarica di Pianura.

E la discarica è qui, in fondo al buio della Montagna Spaccata. Fuori dai cancelli la gente dice che qualcuno ha bucato il prato davanti alla prima collina con il bastone, ed è uscito un fumo verde. Una donna racconta dei rifiuti delle concerie finiti qui. Un vecchio assicura che hanno sotterrato rifiuti tossici tedeschi.

Uno dice scarichi medicinali. Tutti guardano le montagne intossicate, col falso verde notturno, l'erba malata nata dai rifiuti, gli alberi giganteschi ma con le radici che pescano giù sotto, in quel terreno che si muove e che dopo aver formato una montagna alta 220 metri, negli ultimi undici anni di quiete e di chiusura si è abbassato di venti metri. La verità - dice Cesare Moreno che fa il maestro di strada, rifiuta i sacchi di plastica dai negozi, tiene i rifiuti in giardino - è che noi ci specchiamo nella nostra immondizia, e il cittadino suddito le uniche cose che riconsegna a una classe dirigente che lo amministra male sono gli escrementi.

Vado via dalla montagna del mostro pensando alla crisi di una democrazia che si arrende ai rifiuti in una sua capitale: peggio, che usa i rifiuti per parlare, per protestare, per dialogare con il potere. Poi, in via del Parco Margherita, vedo un signore col cappotto e la sciarpa che porta un'intera cucina davanti al cassonetto stracolmo, e la posa accanto a due valige, come se tutto a Napoli fosse normale, in quel mare di sacchetti abbandonati.

(8 gennaio 2008)

da repubblica.it

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