EZIO MAURO.
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CRONACA
I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo
"Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
Gli operai di Torino diventati invisibili
di EZIO MAURO
TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".
"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande.
L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?
Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.
"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".
I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.
Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.
Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.
"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"
Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.
E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.
E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.
"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".
Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.
da repubblica.it
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ESTERI
IL COMMENTO
Un'idea malata
di EZIO MAURO
SARA' un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa.
Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione.
Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.
Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.
Sbagliata l'occasione, puerili le proteste e le aggressioni, profondamente inadeguate le reazioni. Sbagliata l'occasione: l'inaugurazione solenne non è, in Italia e nell'università di Stato, un momento di severo bilancio dello stato di avanzamento delle conoscenze, un resoconto di ciò che ricercatori e istituzioni hanno fatto per progredire, un richiamo alle leggi sostanziali che sole governano la possibilità di ricercare e di conoscere ciò che non si sa.
Questo accade in altri luoghi; bisogna leggere il report annuale del Mit per avere un'idea della severità della scienza, non certo i documenti elaborati dalle nostre corporazioni accademiche sempre più immiserite e incanaglite.
L'inaugurazione è solo un momento di teatro, un rito di magniloquenza arcaica, di toghe e di ermellini e di alte uniformi, che si presta come pochi alla parodia e allo sberleffo (Totò lo sapeva bene). Un rito che passa per lo più inosservato - a parte gli intasamenti nel traffico e la noia di chi deve parteciparvi d'ufficio - in un paese dove molto si inaugura e poco si costruisce. Si taglia un nastro, si pronunziano parole solenni e poi le autorità se ne vanno e tutto resta come prima: ospedali, strade, ponti e certo anche i promessi istituti di "alta" ricerca, che fioriscono in luoghi diversi a seconda del ministro di turno.
Nelle università statali italiane di cui La Sapienza è sicuramente la più grande e la più nota la solennità del rito si misura dalle autorità che vi intervengono prima e più che dalle sonanti parole e dalle moralità alte che vi si predicano. E allora perché invitare il Papa? Tutti i giorni, spesso più volte al giorno, la parola del Papa è diffusa da tutte le televisioni italiane con una assiduità che non conosce l'eguale nel mondo. E perché non invitarlo? Gli si fa carico di una frase?
Dunque l'Università o una parte di essa si propone oggi come l'istituzione che ha il diritto di togliere la parola, di censurare un'opinione. Ma questo non è certo un risarcimento a Galileo, non è la vendetta postuma - a quanta distanza - del processo del 1632. E un rovesciamento grottesco dei ruoli grazie al quale l'erede dei giudici che allora imposero il silenzio allo scienziato fiorentino potrebbe - potrà - presentarsi da oggi col segno del martirio, come vittima dell'odiosa censura.
Ed è un vero peccato - nel senso banale della parola, beninteso - che nessuno degli attori, nemmeno il Papa, si sia dimostrato capace di andare al di là del canovaccio prevedibile. Perché rifiutarsi all'incontro? Perché non cogliere l'occasione di trasformare finalmente la seriosa noiosità delle inaugurazioni in una vera esperienza di comunicazione, di discussione, di parola libera e liberatrice in cui ciascuno si mette davvero in gioco abbandonando l'ingessata sicurezza della parola solenne e senza interlocutori? Qualcuno ricorderà il comizio di Lama: altri tempi, altri uomini. E non vogliamo comizi. Piuttosto, sarebbe bello se il mondo accademico italiano e tutte le autorità italiche imparassero il gusto dell'ironia, dell'amabile e graffiante intelligenza di chi ha veramente qualcosa da dire e cerca di dirlo pienamente.
Ora, alla contestazione è seguito il rifiuto. Sfrutterà il Papa quest'occasione di una specie di Porta Pia a rovescio? Ci auguriamo che nel suo animo di professore abituato alle vicende universitarie il senso della maestà offesa non prevalga sulla saggezza dello studioso e dell'insegnante obbligato al dovere di parlare, di ascoltare, di capire gli altri, di aprire le porte del dialogo per dare speranza di futuro alla specie umana in un pianeta a rischio.
Ma, se non lui, altri si occuperanno sicuramente di sfruttare questa censura e di amplificarla allo scopo di rendere ancor più salato il conto da presentare alle impaurite compagini governative, agli scalpitanti candidati alla successione del governo in carica. Tutto questo è anche, inevitabilmente, ridicolo, ma è vietato riderne: è, purtroppo, tragico, Appartiene al ciclo dell'implosione italica che dura da troppo tempo e non accenna ad arrestarsi.
Condividiamo tutto il senso di umiliazione di Vittorio Foa, che trova intollerabile, incomprensibile, stupefacente l'immagine di un'"Italia debole e infragilita" vista con uno sguardo che viene da lontano. Ma Foa sa bene che oggi l'arroganza dell'aggressione clericale viene dai pulpiti più imprevedibilmente: "laici" ne abbiamo un esempio nel rotolare di una parola - "moratoria" - dai seggi dell'Onu agli ambulatori ospedalieri una parola che rotolando muta di significato: significava sospensione della pena di morte, oggi diventa moratoria di quella legge 194, che fu a suo tempo esattamente una moratoria: quella della sentenza capitale incombente sull'aborto clandestino.
Dunque, moratoria della moratoria, sospensione della sospensione. Da chi verrà una parola di chiarezza, di conoscenza libera da bandiere e paraocchi, se le università che dovrebbero praticare l'unica ricerca degna di questo nome - la conoscenza di ciò che ci è oscuro e che ancora non sappiamo, una conoscenza quindi che non è né laica né ecclesiastica ma è solo e soprattutto fatta di libertà intellettuale anche dai propri presupposti del ricercatore - se queste università si abbandonano al gioco infantile del fare dispetti ai potenti, se le forze politiche non si decidono a dare alla scuola e all'università italiana i mezzi e gli strumenti per risalire la china della barbarie in cui vengono fatte precipitare da anni? Eppure questo, solo questo sarebbe un bel modo per celebrare coi fatti la memoria di Galileo Galilei.
(16 gennaio 2008)
da repubblica.it
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POLITICA IL COMMENTO
Così muore il centrosinistra
di EZIO MAURO
Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.
Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.
Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani.
Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.
I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico.
Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose.
Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno.
Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.
Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata.
Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.
Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese.
Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo.
Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.
(25 gennaio 2008)
da repubblica.it
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POLITICA
L'EDITORIALE
Il cambiamento
di EZIO MAURO
COME se ogni volta il Paese aspettasse l'anno zero, dopo lo scioglimento delle Camere la destra guarda al voto di aprile come a un giudizio di Dio ritardato, che dovrà finalmente riconsacrare l'unione tra il Capo e il suo popolo nel destino della nazione. Nient'altro: si sente il filo della spada che taglia corto tra gli indugi della politica, che rassicura gli indecisi e ammonisce gli avversari, mentre raduna i reprobi e i convertiti, dopo l'ora d'aria.
Naturalmente, la sinistra italiana porta la piena responsabilità di tutto questo. In meno di due anni, la finta alleanza dell'Unione ha sperperato l'idea di un'alternativa credibile di governo, di classe dirigente, di cultura. Ha divorato nelle risse intestine i meriti del governo Prodi, ingigantendo nelle polemiche tutti i demeriti. Non ha trovato un'interpretazione dell'Italia capace di parlare al Paese, di portarlo a credere e a scommettere su se stesso. Ha dovuto dichiarare fallimento, riconsegnando le chiavi del governo come se il Paese le fosse non solo ostile, ma addirittura sconosciuto.
Ma con la sinistra colpevole, e dunque obbligata a cambiare radicalmente, nessuno in realtà può considerarsi assolto. Quando il capo dello Stato denuncia "l'anomalia" di uno scioglimento così anticipato delle Camere, parla per tutti e rivela l'impotenza di ognuno. Improduttivo sul piano politico, il sistema è bloccato sul piano istituzionale. E le istituzioni riguardano tutti, anche la destra che non ha saputo cambiare una legge elettorale sbagliata e dannosa, e non ha voluto due riforme essenziali per la governabilità e la legittimità del sistema: la riduzione del numero dei parlamentari (con la fine del bicameralismo perfetto) e la riduzione del numero dei partiti.
Anche su questo giudicherà ora il popolo sovrano. Dopo tante paure ideologiche e altrettante gabbie, il cambiamento sarà la leva del voto, l'innovazione la sua misura. Chi pensa a nuove alleanze finte, a destra e a sinistra, non ha capito il disincanto del Paese, la propensione al cambiamento, l'effetto della nuova solitudine repubblicana che nasce dalla disconnessione di molti cittadini dalla vicenda pubblica. Qualcosa che la destra ha incoraggiato corteggiando l'antipolitica e che oggi potrebbe mutare il quadro, cambiando natura e carattere di quel soggetto delicatissimo di una democrazia che è la pubblica opinione: e nessuno sa come.
(7 febbraio 2008)
da repubblica.it
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POLITICA
L'EDITORIALE
Niente pasticci con questa destra
di EZIO MAURO
L'attacco al Quirinale era previsto, ma non così presto, non con questa violenza impolitica, nemmeno con questa improvvisazione istituzionale e costituzionale. E invece ieri Berlusconi, quasi cedendo al crescendo di frenesia che scambia per politica, ha apertamente ipotizzato che la sua vittoria alle urne possa portare addirittura all'uscita di scena del capo dello Stato Giorgio Napolitano, costretto a dimettersi per conformarsi in fretta e furia al nuovo ordine, anzi alla nuova era.
Non eravamo ancora giunti fin qui, nel punto più basso della Repubblica, dove si confondono ambizioni e istituzioni, con il demiurgo che dà gli ordini e le massime cariche dello Stato che si devono adeguare. Il Quirinale, di cui si è misurata nei fatti in questi anni travagliati la funzione di garanzia e di tutela della Costituzione, era rimasto fuori dagli appetiti di lottizzazione, inserito in un gioco istituzionale più alto, a cui si misuravano con rispetto anche le legittime ambizioni dei leader. La cosa grave, è vedere un uomo che ambisce a guidare il Paese fissare per convenienza personale e calcolo privato la scadenza anticipata del settennato della massima magistratura, dopo nemmeno due anni dal suo inizio. La cosa gravissima, è la meschinità impolitica della motivazione: la destra, ha detto il Cavaliere, potrebbe anche pensare di "dare" una Camera all'opposizione se il presidente della Repubblica "decidesse di dimettersi" per "fare un gesto nei confronti della nuova situazione italiana" che dovrebbe nascere da una vittoria del Popolo delle Libertà.
Non sono dunque bastati due cicli da Premier del Paese, la doppia conquista di Palazzo Chigi, per trasformare il Capo della destra italiana in un uomo di Stato.
A quattro giorni dal voto, Berlusconi trascina il presidente della Repubblica (salvo poi, come ormai sempre, correggersi) nella battaglia elettorale, come se l'urgenza di prendere il suo posto ascendendo al Quirinale facesse premio su prudenze politiche, doveri istituzionali, galateo costituzionale. La lotta in corso tra destra e sinistra non è per la conquista del governo, come avviene ovunque in Occidente, ma per l'ascesa al potere supremo e incontrollato. Tanto che la vittoria di Berlusconi determina da sola, nel destino della Patria redenta, uno scarto d'epoca e una nuova gerarchia delle istituzioni: che possono soltanto conformarsi alla moderna presa dello Stato. È ancora e sempre, in questo senso, una concezione tecnicamente rivoluzionaria, che fa ogni volta ricominciare la storia dall'anno zero di ogni nuovo avvento berlusconiano.
Se Berlusconi vince, dunque, non c'è un nuovo governo come ovunque in democrazia, ma "una nuova situazione italiana", perché la vittoria - la riconquista - disegna un nuovo ordine, secondo un'interpretazione schiettamente populista della lotta politica, del confronto tra i partiti, del libero gioco tra maggioranza e opposizione. Di più: il destino personale del Cavaliere scandisce il destino delle istituzioni, fissa i tempi degli organi costituzionali, rompe e riordina la continuità repubblicana. La biografia del leader offerta come moderna ideologia della destra.
Ma a questo punto, c'è ancora qualcosa da dire, e non solo a Berlusconi. Chi sosteneva che destra e sinistra in Italia sono uguali, che Pd e Pdl hanno lo stesso programma e lo stesso linguaggio, che dunque Veltrusconi è la soluzione obbligata e perfetta per risolvere i problemi italiani, oggi improvvisamente tace. È bastato che i sondaggi - unica religione riconosciuta nel paganesimo vagamente idolatra di Berlusconi - rendessero incerto l'esito della contesa, almeno al Senato, e soprattutto mostrassero l'erosione del distacco che la destra aveva accumulato qualche mese fa, per far risuonare la vera lingua del Cavaliere, il suo dizionario politico, la cultura profonda che lo domina.
In due giorni, Berlusconi ha chiesto la perizia psichiatrica per i magistrati che indagano, si è rifiutato di sottoscrivere un patto bipartisan di lealtà repubblicana, ha accusato di comunismo il suo avversario, ha denunciato brogli elettorali prossimi venturi, fino all'attacco al Quirinale e alla denuncia della "mancanza di un regime di piena democrazia nel nostro Paese" perché la sinistra "occupa" tutto. Mentre il suo amico più fidato, costruttore di Forza Italia - Dell'Utri - ha annunciato che la destra dopo la vittoria riscriverà i libri di storia per espellere la Resistenza, e ha indicato agli elettori plaudenti la fulgida figura dello stalliere mafioso Mangano, definendolo (con l'esplicito consenso del leader) un "eroe" perché "condannato in primo grado all'ergastolo" non ha fatto dichiarazioni "contro di me e Berlusconi". Poco importa che i magistrati inquirenti lavorassero in nome del popolo italiano, e al servizio della Repubblica.
Questa "destra reale" che si è infine palesata, non è una novità, ma una costante del quindicennio. La novità è che qualcuno lo dimentichi, ipotizzando le "larghe intese" tra Veltroni e Berlusconi come esito auspicabile del voto. A vantaggio di chi? Non certo del Paese e del quadro repubblicano, che vedrebbe insediato e garantito dal concorso della sinistra il populismo come progetto politico per la nazione, così come vedrebbe il conflitto d'interessi sanato per collusione ed elusione, le leggi ad personam rivalutate come strumento propedeutico alla nuova era consociativa. Proviamo a dire le cose come stanno, o come dovrebbero stare in una normale democrazia dell'alternanza.
1) Chi vince, governa. Non importa quanto grande, o minimo, sia lo scarto. Oggi siamo di fronte ad un bipartitismo che si contende la guida del governo, più altri attori politici. Se Berlusconi prevale, formerà il suo gabinetto, qualunque sia la difficoltà di costruire e reggere una maggioranza governante, e la stessa cosa dovrà fare Veltroni in caso di vittoria. Chi perde, va all'opposizione, possibilmente senza denunciare brogli (come fa il Cavaliere ogni volta che è sconfitto) e preparando la rivincita.
2) La responsabilità politica ed istituzionale davanti alla palese urgenza di alcune riforme (prima fra tutte la legge elettorale, ma anche i regolamenti delle due assemblee elettive, il bicameralismo perfetto, la riduzione del numero di deputati e senatori) va garantita a pari titolo da maggioranza e opposizione.
Ma questa responsabilità si esercita sul piano parlamentare, non su quello del governo. Come dice la lezione della Costituente, ci si confronta anche duramente per mezza giornata dai ruoli divisi e distinti di chi governa e chi si oppone, e per l'altra mezza giornata si collabora in Parlamento cercando di ridare efficienza e funzionalità alle istituzioni con le riforme necessarie.
3) In caso di pareggio, perché chi prevale in una Camera non è riuscito a prevalere nell'altra, si apre uno schema di gioco inedito. Ma in questo caso non è a Berlusconi, alla sua presunta mano tesa, all'improvvisa e necessitata sua buona volontà che il Pd dovrà rispondere. Ma ad un altro soggetto: il Capo dello Stato, che diventa arbitro di una partita senza vincitori, e dunque esplora - nella sua responsabilità non di parte - le soluzioni più utili per sbloccare con le riforme un sistema inceppato e improduttivo, in modo da portare il Paese alle urne con uno schema che consenta agli elettori di decidere davvero, e permetta la governabilità.
Sono tre punti chiari e semplici. Il Paese ha bisogno di chiarezza, di scelte nitide, di responsabilità distinguibili e precise. Ha bisogno, come ogni democrazia normale, che ci sia una destra e una sinistra. Chi punta a confonderle, ha già accettato un destino berlusconiano per l'Italia, che può ancora farne a meno.
(10 aprile 2008)
da repubblica.it
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