EZIO MAURO.
Admin:
POLITICA
È polemica sul blog: "Che fine faremo, saremo invitati a una festa d'altri?"
Malumori anche in Forza Italia: "Se perdiamo nel Lazio sarà solo colpa loro"
Tra flop e mugugni monta l'ira in An
di FRANCESCO BEI
ROMA - La questione l'ha posta, senza troppi giri di parole, un militante sul blog di Azione giovani: "Dopo "il predellino" Fini ha attaccato Berlusconi e il suo gradimento fra la base è schizzato alle stelle, ora questo improvviso dietro-front sconcerta, irrita e sorprende". E ancora: "Checché ne dica il Secolo d'Italia, in cui si dipingeva una base tutta felice e contenta, i mugugni all'interno di An sono molti". Il "problema fondamentale", si legge sul blog dei giovani di An, "è questo: sarà una annessione o una fusione? Potremo dire la nostra o saremo solo invitati a una festa altrui?". "Che fine faremo noi di AG? - si è chiesto un altro sconsolato - Ci chiameremo i Ragazzi della libertà?".
Ecco, al di là dei proclami, alla prova dei fatti la fusione tra An e Forza Italia si sta dimostrando tutt'altro che una passeggiata. E basterebbe citare il dato forse più clamoroso, la presenza (meglio, l'assenza) dei militanti nelle piazze, per dare il termometro di come la base di An stia vivendo questo passo indietro del suo leader. Alla chiusura della campagna elettorale a Roma, due giorni fa, un incolpevole Fabrizio Casinelli, ufficio stampa del Cavaliere, è stato mandato davanti ai giornalisti ad annunciare che l'organizzazione stimava 30-40 mila partecipanti.
Peccato che il Tempo, non sospettabile di simpatie veltroniane, nei suoi articoli ne contasse al massimo duemila. La stessa "penuria" di elettori, secondo le notizie interessate della Destra, si è avuta in molti altri comizi di Fini, per non parlare del flop di Palermo. "A Tivoli e Mentana - racconta Storace - per sentire Fini c'erano 200 persone, a Monterotondo doveva inaugurare una sede di An e non s'è fatto vedere, facendo incazzare tutti. A Rieti c'era meno gente che al mio comizio, per non parlare del Corviale".
Già il Corviale. Nel grande falansterio alla periferia di Roma, dove ha preso avvio la campagna di Alemanno (alla presenza di Berlusconi e Fini), sempre le stesse maledette duecento persone. "Io Roma la conosco bene - confidava giorni fa sconsolato ad alcuni amici il forzista Fabrizio Cicchitto - e Alemanno l'avevo avvertito: al Corviale non bisognava andare, è stata una figura micidiale. A parte i giornalisti, i candidati e le scorte, ci saranno stati quattro elettori". Dentro Forza Italia l'umore è questo. Tanti a mezza bocca lamentano il disimpegno di An, riferiscono infuriati che a fare la campagna elettorale è stato solo Berlusconi. E già prevedono una resa dei conti se nel Lazio - tradizionalmente bacino elettorale di An - non dovesse scattare il premio di maggioranza al Senato .
A sentire gli uomini di Fini le cose filerebbero invece lisce come l'olio. "Certo, siamo gente che deve imparare a lavorare insieme - osserva Italo Bocchino - ma questa fusione avviene con il vento in poppa di un pronostico favorevole". Fabio Granata, uno dei meno berlusconiani di via della Scrofa, condivide l'impressione favorevole: "Ci sono dei mugugni, ma meno di quelli che mi sarei aspettato. Gli ambienti più avanzati dei due partiti vivono la cosa in modo naturale". Anche la presunta sottomissione di An al Cavaliere, di cui parla spesso Veltroni, secondo Granata sarebbe una leggenda da sfatare. "Noi abbiamo inciso in maniera considerevole sul piano programmatico - argomenta il responsabile cultura di via della Scrofa-, soprattutto sui temi della legalità e della difesa del patrimonio culturale e ambientale. Mai prima d'ora si era sentito Berlusconi chiedere in Sicilia "un voto contro la Mafia". Vorrà dire qualcosa no?".
La questione vera, al dunque, la riassume il professor Alessandro Campi, che ha appena mandato in libreria un saggio per raccontare proprio il passaggio "Da An al Popolo della libertà" (Rubbettino). "Fiuggi - premette Campi - in fondo è stato un passaggio meno traumatico di quello odierno, perché si trattava di un cambiamento di sigla nel solco di una continuità". Oggi invece Fini ha scommesso sulla disponibilità di Berlusconi a mettersi davvero in gioco, in un partito di cui, in teoria, domani potrebbe non essere più il leader.
"È un investimento di lungo periodo - ammette Campi - e Fini lo sa. Finche Berlusconi vive sarà lui il dominus incontrastato, ma si tratta di immaginare un percorso che vada oltre Berlusconi". Purtroppo, come dice il ritornello dell'inno forzista, per ora "Silvio c'è".
(12 aprile 2008)
da repubblica.it
Admin:
POLITICA L'EDITORIALE
L'eterno ritorno del Cavaliere
EZIO MAURO
Questa Italia del 2008 ha infine deciso di scegliere Silvio Berlusconi e la sua destra. È una vittoria elettorale che peserà a lungo sul Paese e sui suoi equilibri, non soltanto per i dati più evidenti, come il distacco di nove punti dall'avversario e la soglia di sicurezza raggiunta alla Camera e soprattutto al Senato grazie anche al concorso decisivo della Lega.
C'è qualcosa di più. Sopravanzato nell'innovazione per la prima volta dall'inizio della sua avventura pubblica, il Cavaliere si è trovato di fronte ad una forte novità politica come il Pd nell'altra metà del campo, capace di chiudere la storia troppo lunga del post-comunismo italiano e di posizionare una sinistra riformista al centro del gioco politico: ristrutturandolo attorno ad un partito a vocazione maggioritaria deciso a parlare a tutto il Paese, dopo essersi separato per la prima volta dalla sinistra radicale. Berlusconi ha inseguito l'avversario, ha inventato su due piedi una costruzione politica uguale e contraria - il Pdl - per impedire che il Pd diventasse il primo partito, si è liberato dei cespugli di destra e di centro, e con questa reincarnazione ha riordinato a sé l'area di centrodestra, riconquistando per la terza volta il Paese.
È questo eterno ritorno la scala su cui va misurato il fenomeno Berlusconi. La vittoria di oggi infatti va letta non tanto come il risultato di una campagna elettorale in do minore ma come il sigillo di un'epoca, cominciata quindici anni fa.
Il Cavaliere l'ha aperta con la sua "discesa in campo", le televisioni, la calza sulla telecamera, il doppiopetto, la riesumazione decisiva di Fini dal sepolcro postfascista, ma anche un linguaggio di rottura, un'ostile difesa di se stesso dalla giustizia della Repubblica, la fondazione di una "destra reale" che il Paese non aveva mai conosciuto, frequentando a quelle latitudini soltanto fascismo o doroteismo.
Quindici anni dopo lo stesso linguaggio che ci è sembrato stanco per tutta la campagna elettorale, lo stesso corpo del leader offerto come simulacro immutabile e salvifico della destra, la stessa retorica politica incentrata sul demiurgo hanno invece convinto ancora e nuovamente gli italiani, siglando il quindicennio. In mezzo, ci sono tre Presidenti della Repubblica, cinque Premier, due sconfitte e due vittorie per il Cavaliere, dunque un'intera stagione politica, che va sotto il nome in codice di Seconda Repubblica. Sopravvissuto a tutto, governi avversi e accuse di reati infamanti cancellati da un Parlamento trasformato in scudo servente e privato, partner internazionali che intanto hanno regnato e si sono ritirati, un conflitto d'interessi così perfetto da passare intatto attraverso le ere politiche, Berlusconi suggella il quindicennio con se stesso, unica vera misura dell'impresa, cifra suprema della destra, identificazione definitiva tra un leader e il destino della nazione, secondo la ricetta del più moderno populismo.
Cos'è questa capacità di mordere nel profondo del Paese, e di tenerlo in pugno? In un'Italia che non ha mai nemmeno rivelato a se stessa la sua anima di destra, ombreggiandola sotto l'ambigua complessità democristiana, il Cavaliere ha creato un senso comune ribelle e d'ordine, rivoluzionario e conservatore, di rottura esterna e di garanzia interna, che lui muove e agita a seconda delle fasi e delle convenienze, in totale libertà: perché non deve rispondere ad una vera opinione pubblica nel partito (che non ha mai avuto un congresso dal 1994) e nel Paese, bastandogli un'adesione, un applauso, una vibrazione di consenso, come succede quando la politica si celebra in evento, i cittadini diventano spettatori e i leader si trasformano in moderni idoli, per usare la definizione di Bauman. Idoli tagliati a misura della nuova domanda che non crede più in forme di azione collettiva efficace, idoli "che non indicano la via, ma si offrono come esempi".
Sta qui - e lo dico indicando l'assoluta novità del fenomeno - il fondamento del risorgente populismo berlusconiano, un populismo della modernità, che supera la cattiva prova di governo del quinquennio di destra a Palazzo Chigi, l'età avanzata, l'usura ripetitiva, la fatica del linguaggio ("sceverando", "mondialmente", "gerarchicizzare"), il gigantismo delle promesse, le ossessioni private trasformate in priorità della Repubblica, come il perenne regolamento di conti con la magistratura. E' un fenomeno che può allargarsi all'Europa, perché in tempi di globalizzazione e di disincanto civico può dare l'illusione di una semplificazione dei problemi, tagliando con la spada del leader i nodi che la politica si esercita con fatica a sciogliere. Ecco perché il populismo può fare da cornice coerente alle paure di cui la Lega è imprenditrice al Nord, rassicurando nella delega carismatica al leader lo spaesamento del Paese minuto, e il suo spavento popolare per ciò che non riesce a dominare.
Così, l'Italia del voto sembra più alla ricerca di rassicurazione che di cambiamento. Ecco perché ha sottovalutato la portata dell'operazione veltroniana di rottura con la sinistra radicale, una scelta che ha dato identità e credibilità al riformismo del Partito Democratico, posizionandolo nell'area della sinistra di governo europea, e che ha ristrutturato in una sola mossa l'intero quadro politico e parlamentare. Ma la novità del Pd non è passata, anzi si è fermata e di fronte ai gravi problemi della parte più debole del Paese è sembrata "politicista". Eppure la semplificazione del gioco politico, con la riduzione drastica del numero dei partiti è in realtà la prima vera riforma della nuova legislatura, e corrisponde a un sentimento diffuso dei cittadini.
Il risultato è un sistema incentrato su due grandi partiti che si contendono la guida del governo, che replicano nel nuovo secolo la coppia destra-sinistra secondo una nuova declinazione, ma restano alternativi. La vera sorpresa, nella scomparsa dal Parlamento di tutte le forze politiche sopravvissute al crollo della Prima Repubblica, è la sconfitta senza appello della sinistra radicale guidata da Bertinotti, che non entra alle Camere: probabilmente perché i cittadini ritengono i partiti dell'Arcobaleno responsabili del gioco di veti, attacchi, critiche e riserve che ha paralizzato e affogato nel dissenso il governo Prodi, e anche perché i militanti e i simpatizzanti non hanno creduto che l'accrocco della lista fosse davvero l'embrione di un nuovo partito-movimento, bensì un espediente puramente elettorale.
Alcuni destini personali dei leader sembravano marciare dritti, da tempo, verso questo esito, sconnessi dalla pubblica opinione. La mancata presenza in Parlamento non solo di una tradizione, ma di una rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia, indebolisce comunque il discorso pubblico italiano, atrofizza la rappresentanza, riduce il concetto stesso di sinistra. E crea, naturalmente, una responsabilità in più per il Partito Democratico, che deve re-imparare a declinare quel concetto, deve farsi carico di un'attenzione sociale e culturale più che politica, per non lasciare allo sbando e senza voce le domande più radicali del Paese.
Ciò non muta affatto l'identità del Pd, che la leadership di Veltroni ha posizionato nel luogo politico più utile a intercettare consensi dal centro e da sinistra. Quei consensi sono arrivati in misura inferiore alle attese: ma bisogna tener conto dell'abisso di impopolarità che il Pd ha dovuto colmare prima di poter incominciare a competere, un giudizio negativo sulla coalizione che ha divorato il governo Prodi nelle sue lotte intestine.
Veltroni doveva insieme - in questa prima volta - reggere quell'eredità e discostarsene, marcando il nuovo. Il risultato è la sconfitta, ma con una forza riformista del 33 per cento una quota mai raggiunta in passato (anche se bisogna ricordarsi che la sinistra così parla solo a un terzo del Paese) e un partito nuovo che ha retto il varo nella tempesta di una campagna elettorale troppo ravvicinata alla sua nascita. C'è lo strumento adatto ad una partita che il Paese non ha mai conosciuto, la sfida riformista per il cambiamento. Sarebbe un delitto se il cannibalismo tipico della sinistra si esercitasse adesso contro quello strumento e la sua leadership, ricominciando da zero un'altra volta, per procedere di fallimento in fallimento.
Il riformismo, naturalmente, chiede comportamenti conformi anche dall'opposizione, impedisce a chi ne avesse la tentazione di giocare col tanto peggio tanto meglio. D'altra parte la nettezza del successo di Berlusconi ha tolto di mezzo quel miraggio del pareggio che covavano da mesi molti che affollano la periferia della sinistra, pronti ad offrirsi da genio pontiere di un'intesa organica di governo tra Berlusconi e Veltroni. La questione è chiara, come abbiamo provato a dire prima del voto. Chi ha vinto governa.
La responsabilità, anzi il concorso di responsabilità è possibile e doveroso nell'ambito del Parlamento, alla luce del sole, dove si devono discutere con urgenza le necessarie riforme istituzionali. Su queste riforme, sulle regole, il Pd può mettere in campo e alla prova la sua cultura di governo anche dai banchi doverosi dell'opposizione.
In questa distinzione netta, che lascia alla destra il compito esclusivo di governare, ci saranno occasioni di confronto e anche di concordanza, senza scandalo alcuno, perché senza confusione. La speranza, d'altra parte, è che Berlusconi - giunto alla sua terza prova e liberato dal terrore di rendere conto alla giustizia repubblicana - possa sentire l'ambizione di governare davvero, scoprendo l'interesse generale dopo l'abuso di interessi privatissimi. Se questo accadrà, sarà un bene per il Paese, che non ha più né tempo né occasioni da perdere.
Quanto a "Repubblica", ha già fatto l'esperienza della destra, giocando la sua parte, e senza mai inseguire il ruolo di giornale di opposizione, perché non è un partito. Preferiamo semplicemente essere un giornale: con una certa idea dell'Italia, diversa da quella oggi dominante, un'idea certo di minoranza, e che tuttavia secondo noi merita di essere custodita e preservata.
(16 aprile 2008)
da repubblica.it
Admin:
POLITICA IL COMMENTO
Lezione capitale
di EZIO MAURO
Mancava soltanto Roma. Ieri è stata conquistata direttamente da An, che con Alemanno porta per la prima volta nel dopoguerra un suo uomo in Campidoglio, da dove si affaccerà non solo sul passato imperiale e sui simboli del ventennio, ma sul nuovo paesaggio politico italiano disegnato dagli elettori. Roma infatti non è soltanto la capitale che ha cambiato segno politico consegnandosi alla destra, mai salita su quel colle, nemmeno all'epoca del trionfale avvento berlusconiano. È, in più, una roccaforte storica della sinistra che l'ha governata ininterrottamente da quindici anni, e che proprio con Roma - come ha spiegato Ilvo Diamanti - usciva dalla tradizionale riserva delle regioni rosse, presentando una geografia politica più articolata e complessa, con la più grande città italiana fiore all'occhiello di una "sinistra dei sindaci" moderna e sperimentale, capace di coniugare buona amministrazione e nuovi linguaggi culturali, sviluppo e comunità, sotto gli occhi di tutto il mondo.
Tutto questo è saltato ieri, completando invece lo scenario politico berlusconiano, che teneva in mano il nord forza-leghista e il sud autonomista e clientelare come due spinte popolari alleate ma separate, senza un centro unificatore che non fosse l'autorità negoziale e politica del Cavaliere. Ora c'è anche il baricentro politico per questa alleanza che ha conquistato l'Italia: la capitale diventata di destra, con un sindaco di Alleanza Nazionale, come ha subito rivendicato Fini, archiviando per una notte il Pdl. Il risultato è chiaro: il Nord alla Lega, il Sud a Lombardo, Roma ad An, e l'Italia a Berlusconi.
Per la potenza dei simboli, che richiamerà a Roma giornalisti da tutto il mondo, il rovesciamento non poteva essere più radicale. Non solo arriva in Campidoglio per la prima volta un uomo venuto dal post-fascismo: ma ci arriva dopo sette anni di governo di un sindaco ex comunista, con un cambio dunque che non è una semplice alternanza ma un cortocircuito a fortissima intensità, che ha appena incominciato a bruciare. Aggiungiamo che Alemanno ha battuto il vicepresidente del Consiglio uscente, che era stato sindaco - e un ottimo sindaco, giovane e innovatore - per due mandati. Ricordiamo ancora che il vincitore fino a quindici giorni fa era dato per sicuro ministro del governo Berlusconi, nella convinzione generale (anche sua) che la battaglia per il Campidoglio sarebbe stata solo di bandiera. Tutto questo può dare l'idea dello spostamento d'aria della bomba capitolina, una bomba di portata nazionale: che tuttavia farà morti e feriti soltanto nel campo del Pd.
Il voto affonda con Rutelli uno dei padri fondatori del nuovo partito, ma colpisce direttamente lo stesso Veltroni, perché al giudizio degli elettori si è presentata anche la sua lunga sindacatura, che pure aveva ottenuto un larghissimo consenso due anni fa, dopo il primo mandato. Già questo dato testimonia l'inclinazione a destra del Paese, che dura da quindici anni, ma che è diventata un precipizio negli ultimi mesi, travolgendo persone, gruppi dirigenti, governi nazionali e locali. C'è nel voto di Roma un dato di "destra reale" così netto, addirittura biografico, fisico, concreto, che deve far riflettere. I moderni pasticceri delle intese più o meno larghe, per i quali tutto è uguale, Alemanno e Rutelli, Veltroni e Berlusconi, assicuravano da settimane che si trattava solo di un voto amministrativo, dove contavano i programmi, e nient'altro. Con ogni evidenza non è così. Non è per il programma che è stato scelto Alemanno, ma perché la sua alterità di post-fascista incarnava fino ad esasperarla in un urlo quella discontinuità di cui i cittadini sentivano il bisogno, e che il Pd non ha avvertito: fino al punto di decidere in una stanza chiusa per pochi intimi - il Pd, partito che ha fatto un mito delle primarie - il cambio di poltrona tra Veltroni e Rutelli. Senza capire che ciò che funziona in termini di esperienza e di attitudine può sembrare all'opinione pubblica, più che mai oggi, un'autogaranzia castale, un'autotutela collettiva, da "classe eterna", nomenklatura, più che da partito aperto.
E tuttavia, c'è un ideologismo pragmatico, sottaciuto ma praticato, ricercato come scelta radicale di cambiamento nella scelta di Alemanno: come uomo di An, e non "nonostante" An. Il nuovo sindaco, che ha subito dichiarato di voler governare a nome di tutti i cittadini, ha conquistato nel ballottaggio centomila voti in più rispetto ai 677 mila del primo turno. Certo, la forza della vittoria nazionale di Berlusconi, così netta, ha trascinato con sé quel pezzo di città indecisa, flottante, al vento, che negli anni precedenti ha votato Veltroni ed è pronta a stare con chi vince. Ma il farsi destra della capitale è impressionante, come i 7 punti e rotti che separano Alemanno da Rutelli. Viene da chiedersi che cosa i cittadini vedano e vogliano da questa classe dirigente finiana che è stata scongelata nel '94, ha rotto con il fascismo e con i padri missini a Fiuggi, ma poi si è fermata, trasformata d'incanto da Berlusconi da post-fascista a statista: anche perché la cultura liberale italiana non l'ha mai stimolata a quei passi avanti e a quel rendiconto a cui invece ha giustamente richiamato per decenni gli ex comunisti.
Certamente i cittadini vedono in questa destra una rottura, più ancora un sovvertimento, quella "modernizzazione conservatrice" di cui parla Berselli: che a Roma diventa subito ribellismo corporativo, con i taxisti che accompagnano col coro dei clacson contro le liberalizzazioni l'ascesa di Alemanno al palazzo senatorio, con la folla che chiede a Veltroni "dacce le chiavi", mentre urla "Roma libera", tra le braccia tese nel saluto romano.
E altrettanto certamente, questa rottura a destra ha un significato anti-establishment, plebeo nel senso politico del termine, dunque popolare. È come se il "rimandiamoli a casa" gridato dal leghismo xenofobo al Nord contro gli immigrati funzionasse anche nella capitale, ma contro il ceto politico di centrosinistra, concepito come forestiero. Il cuore del vero meccanismo politico inossidabile del quindicennio - Berlusconi e il suo sistema - riesce a fuoriuscire da questa maledizione, perché il populismo è esattamente questo: establishment ed outsider nello stesso tempo, ribellismo e professionismo, antipolitica e casta. Un miracolo dell'inganno, ma un miracolo che funziona.
La sinistra, d'altra parte, deve temere soprattutto se stessa. Di fronte alla spinta di destra "realizzata" che ha dato centomila voti in più ad Alemanno, Rutelli ne ha persi 85 mila. In più l'astensionismo ha galoppato a sinistra, favorendo la destra. Non solo.
C'è un dato più inquietante, che lacererà la sinistra italiana per mesi e peserà sul futuro: Rutelli al Comune ha preso 55 mila voti in meno di quanti ne ha conquistati sul territorio cittadino Nicola Zingaretti, neopresidente eletto della Provincia di Roma. Poiché le schede bianche e nulle per Rutelli sono la metà di quelle per Zingaretti, questo significa che decine di migliaia di cittadini - di sinistra, evidentemente - hanno votato per Zingaretti alla Provincia e contro Rutelli (dunque per Alemanno) al Comune. Un voto, bisogna dirlo con chiarezza e subito, del tutto ideologico, che viene in gran parte dalla sinistra radicale, così convinta dalla tesi autoassolutoria che vede nel Pd la colpa della sua scomparsa dal Parlamento, da far pagare al Pd la battaglia di Roma, lavorando contro Rutelli. Per questi cannibali fratricidi, grillisti e antagonisti, Rutelli era il bersaglio ideale, come anche per qualche estremista del Pd: troppo cattolico, importatore della Binetti, amico dei vescovi, come se la scommessa fondativa e perenne del Pd non fosse quella di tenere insieme, a sinistra, cattolici ed ex comunisti. Un ideologismo a senso unico: che serve ad azzoppare la sinistra, facendola perdere, mentre non scatta per bloccare l'uomo di An in marcia verso il Campidoglio. Anzi.
È da qui, oggi, che deve partire Veltroni. Guardando in faccia questo problema grande come una casa, la sindrome minoritaria della sinistra. Con il vantaggio che Roma dimostra - sommando il fuoco amico su Rutelli e le astensioni - come con la sinistra radicale e il suo ideologismo suicida non si possano ipotizzare alleanze, se non per perdere. Ma nello stesso tempo, quel voto reclama una copertura politica dello spazio vuoto a sinistra: cominciando dalla pronuncia di quella parola, l'unica che il dizionario politico veltroniano ha evitato per tutta la campagna elettorale, e tuttavia l'unica che può mobilitare - coniugata con la modernità, con il cambiamento, con l'innovazione, con la capacità di parlare al centro - quella fetta di apolidi messi in libertà dal fallimento dell'Arcobaleno. Cittadini che esistono, che sono una forza potenziale di alternativa al berlusconismo, solo che qualcuno sappia convertire in politica spendibile il loro peso senza rappresentanza.
Veltroni ha incassato due sconfitte pesanti, e tuttavia ha varato un vascello che può andare lontano, un partito della sinistra di governo, che l'Italia non ha mai avuto. Eviti di negare la realtà, come talvolta fa, usi le parole di chi sa di aver perso, ma sa anche dove vuole andare. A cominciare dalla navigazione interna del partito. Un leader ammaccato, depotenziato, frastornato e commissariato non serve a nessuno, se non agli oligarchi. La discussione interna deve essere all'altezza di un partito che è democratico davvero, vuole essere nuovo e non può più accettare procedure d'altri tempi. Valuti Veltroni se non è il caso di strappare di nuovo, per andare avanti, oppure rinunciare. Ci sono sempre quei tre milioni e mezzo delle primarie, pronti a contare nei momenti che contano. Se qualcuno si ricorda di loro.
(29 aprile 2008)
da repubblica.it
Admin:
POLITICA L'EDITORIALE
L'ossessione al governo
di EZIO MAURO
DUNQUE Silvio Berlusconi dice di non essere ossessionato dai giudici. Se così fosse, tutto sarebbe più semplice. Il Cavaliere è il legittimo capo del governo del Paese, ha ottenuto un forte consenso popolare, guida una maggioranza compatta di parlamentari che ha potuto scegliere e nominare personalmente, è alla sua terza prova a Palazzo Chigi, può finalmente trasformarsi in uomo di Stato. Intanto i suoi avvocati lo difendono con sapienza, libertà e ampia fantasia tecnica nel processo di Milano, dov'è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l'accusa di aver spinto l'avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri all'estero della galassia Fininvest.
Due poteri dello Stato - l'esecutivo e il giudiziario - svolgono il loro ruolo, nelle loro prerogative autonome, ed entrambi nell'interesse del libero gioco democratico, al servizio della Repubblica. Poi, l'opinione pubblica giudicherà gli esiti. Si chiama separazione dei poteri, è uno dei fondamenti dello Stato moderno, e realizza il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, anche per chi ha vinto le elezioni e governa il Paese. Perché l'eguaglianza, come spiega Rawls, "è essenzialmente la giustizia come rispetto della norma".
Ma si può dire che sia così? Stiamo ai fatti. Ieri Berlusconi è entrato tra applausi e invocazioni da stadio all'assemblea della Confesercenti, pronta ad ascoltare la ricetta del governo per una categoria che ad aprile ha visto i consumi in caduta libera (-2,3 per cento), con i piccoli negozi in calo del 4,1, il settore non alimentare del 3,4.
Ma il Cavaliere, dopo aver ringraziato per l'accoglienza "tonificante" ha mimato con le mani incrociate le manette, ha assicurato che "certi pm vorrebbero vedermi così", ha spiegato che i giudici politicizzati sono "una metastasi della democrazia", una democrazia peraltro "in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco" dalla magistratura ideologizzata "che vuole cambiare chi è al governo, ledendo con accuse fallaci il diritto dei cittadini a essere governati da chi hanno scelto democraticamente": mentre il Pd, difendendo i magistrati, ha spezzato il dialogo che Berlusconi ormai rifiuta, perché non vuole discutere "con un'opposizione giustizialista".
Siamo dunque davanti alla rappresentazione istituzionale di un'ossessione. Anzi, ad un'ossessione che si fa governo, che si trasforma in legge, che rompe una politica e ne avvia un'altra. Un'ossessione che si fa verbo e carne, misura di una leadership, orizzonte di una maggioranza, cifra definitiva dell'avventura di questa destra italiana talmente impersonata dal Cavaliere da precipitare intera nei suoi incubi.
Si capisce perfettamente la scomodità di fronteggiare un processo per corruzione mentre si è appena riconquistata con un trionfo elettorale la legittimità a governare il Paese. E tuttavia questa scomodità è anche una delle prove della democrazia sostanziale di una Repubblica. Perché non è in gioco, com'è ovvio e com'è evidente, il pieno diritto e la piena libertà dell'imputato Berlusconi a difendersi con ogni mezzo lecito nel processo, facendo valere fino in fondo le sue ragioni, sperando che prevalgano. In gioco, c'è il privilegio improprio di quell'imputato, che può contare sull'aiuto del Premier Berlusconi. Un aiuto attraverso il quale il potere politico diventa ineguale perché abusando della potestà legislativa costruisce con le sue mani - le mani del Presidente del Consiglio, che sono le stesse mani dell'accusato in giudizio - un vantaggio indebito contro un altro legittimo potere della Repubblica (il giudiziario) e contro i cittadini che si trovano nelle sue stesse condizioni, ma non possono contare su quel privilegio.
Per salvarsi da un potere che opera in nome di quello stesso popolo italiano da cui ha avuto un consenso amplissimo, il Cavaliere ha infatti deciso di trasformare il suo personale problema in un problema del Paese e la sua ansia privata in un'urgenza nazionale. Dopo aver ritagliato dentro la procedura penale una misura di sospensione dei processi che ha il profilo della sua silhouette, per bloccare la sentenza in arrivo a Milano, ha provato a trasformare in decreto legge (dunque un provvedimento con carattere di necessità e di urgenza) il nuovo lodo Schifani che per la seconda volta tenta di garantirgli l'immunità penale. Com'è evidente, è proprio l'urgenza di legiferare sotto necessità impellente che rende le due norme inaccettabili, perché patentemente ad personam. È il legame tra le due misure che le svilisce a strumento di salvacondotto meccanico. È tutto ciò, più la coincidenza democraticamente blasfema tra la persona dell'imputato, del capo del governo e del capo della maggioranza legislativa che fa del caso italiano qualcosa di molto diverso dal sistema costituzionale della garanzie per le alte cariche in vigore in alcuni Paesi: dove i Parlamenti - almeno in Occidente - legiferano su tipologie astratte nell'interesse del sistema e non su biografie giudiziare specifiche per dirottarne l'esito nell'interesse privato, spinti dal calendario di un processo in corso.
A due mesi appena da un voto che aveva garantito maggioranza certa, leadership sicura, alleanze blindate, opposizione dialogante, stiamo dunque assistendo ad un incendio istituzionale in cui tutto brucia, nel rogo di un leader che ogni volta consegna i suoi talenti ad un demone, sempre lo stesso. Brucia anche l'autorevolezza del premier e la sua credibilità se non come uomo di Stato almeno come uomo d'ordine: proprio ieri, mentre attaccava i giudici in preda ad un'ira visibile, la platea plaudente dei commercianti ha cominciato a mormorare, poi a rumoreggiare, infine a gridare, con i primi fischi che solcano il miele di questa luna berlusconiana, luminosa per due mesi, e improvvisamente nera.
Dice la commissione del Csm incaricata di preparare il plenum che la norma salvapremier farà fermare oltre la metà dei processi in corso, scegliendo arbitrariamente tra i reati, introducendo casualmente uno spartiacque temporale, violando la Costituzione quando parla di "ragionevole durata" del dibattimento, fino a realizzare nei fatti una "amnistia occulta". Sullo sfondo, per tutte queste ragioni, si annuncia un conflitto con il Capo dello Stato che ancora ieri ha chiesto rispetto tra politica e magistratura, ma senza illudersi: "Con la moral suasion lancio messaggi in bottiglia, non sapendo chi vorrà raccoglierli".
Rotto il dialogo, perché ieri Veltroni ha chiuso definitivamente la porta, il Cavaliere è dunque solo davanti alla sua ossessione. Che non è politicamente neutra, e nemmeno istituzionalmente, perché sta producendo giorno dopo giorno una specialissima teoria dello Stato che potremmo chiamare monocratico, con un potere sovraordinato perché di diretta derivazione popolare (il governo espressione della maggioranza parlamentare) e tutti gli altri poteri della Repubblica subordinati: al punto da diventare illegittimi quando mettono in gioco nella loro autonoma funzione il nuovissimo principio di sovranità che vuole il moderno sovrano legibus solutus. I costituzionalisti hanno previsto questa forma di "autoritarismo plebiscitario", e Costantino Mortati ha parlato di "sospensione delle garanzie dei diritti" per la necessità "di preservare l'istituzione da un grave pericolo che la sovrasta" e per la precisa esigenza "di sottrarre a controlli l'opera del capo": ma nessuno avrebbe detto che eravamo davanti a questa soglia.
E invece, questo è un esito possibile - istintivo e necessitato più che teorizzato, e tuttavia perfettamente coerente - del populismo italiano all'opera da quindici anni, capace non solo di conquistare consenso ma di costruire un senso comune dominante, d'ordine e rivoluzionario insieme, tipico della modernizzazione reazionaria in atto. Nel quale può infine crescere senza reazioni questa sorta di opposizione dal governo tipica della destra populista, una speciale forma di "disobbedienza incivile" come atto contrario alla legge, con la maggioranza che detiene il potere politico impegnata a chiamare il popolo alla ribellione.
Questa, non altra, è la posta in gioco. Si può far finta di non vederla, per comodità, pavidità, complicità o per convenienza. Lo stanno facendo in molti, dentro il nuovo senso comune che contribuiscono a diffondere. Sarà più semplice per Berlusconi compiere il penultimo atto, l'attacco finale alla libera stampa. Poi il privilegio prenderà il posto del governo della legge, rule of law. Ecco dove porta l'ossessione del Cavaliere. C'è ancora tempo per dire di no: non tutta l'Italia è acquisita, indifferente e succube.
(26 giugno 2008)
da repubblica.it
Admin:
POLITICA IL COMMENT0
Il privilegio che fa del leader un sovrano
di EZIO MAURO
Mancava, Silvio Berlusconi, nell'aula di Montecitorio radunata ai suoi ordini, ieri, per votargli l'immunità disegnata su misura per la sua persona, consentendogli di evitare in extremis la sentenza nel processo per corruzione in atti giudiziari in corso a Milano, dove il Cavaliere è accusato di aver spinto l'avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri Fininvest all'estero. Penso che l'imbarazzo - politico, morale, istituzionale - lo abbia tenuto fuori dalla Camera dove, a due mesi dalla nascita del suo governo, l'abuso della forza ha ieri raggiunto il culmine, rivelando una debolezza che peserà come un destino sul resto della legislatura.
Nel Paese che continua a proclamare la legge uguale per tutti, dopo il voto di ieri e in attesa urgente di quello del Senato il Cavaliere si avvia a diventare "più uguale" dei suoi concittadini, sottraendo l'imputato Berlusconi al suo legittimo giudice che lo sta processando per reati comuni, per nulla legati all'attività politica. Per fare questo, l'imputato ha dovuto chiedere soccorso al premier Berlusconi, che non ha esitato a usare fino in fondo il potere esecutivo per imporre al legislativo una norma capace di bloccare il giudiziario. Anzi, di più. Finché non è stato sicuro dell'approvazione del "lodo", predisposto dal ministro-ombra della Giustizia Alfano (il vero Guardasigilli è l'avvocato del Cavaliere, Ghedini), il premier ha mandato avanti come norma d'urgenza un emendamento che fermava 100 mila procedimenti giudiziari pur di arrestare il suo. Ieri, avuta la sicurezza che l'immunità diventerà subito legge, Berlusconi ha acconsentito a disfare la norma blocca-processi, dimostrando così platealmente che la norma non aveva alcuna urgenza reale ma era solo strumentale alla sua difesa, in una combinazione legislativa meccanica che piegava due volte la procedura penale e l'uguaglianza dei cittadini per costruire un salvacondotto personale su misura ad un imputato eccellente.
Qui sta l'imbarazzo della democrazia italiana, in questa concatenazione tra l'interesse privato e la legislazione pubblica, che forma un abuso, deforma l'imparzialità della giurisdizione, trasforma la separazione dei poteri. Le tre funzioni (legiferare, amministrare, rendere giustizia) nello Stato moderno sono affidate a organi distinti in posizione di reciproca indipendenza e autonomia proprio per garantire che anche l'esercizio delle attività sovrane è sottoposto al diritto. Montesquieu ha spiegato una volta per sempre che "tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e giudicasse delle infrazioni". Ma che accade quando il medesimo uomo fa le leggi, ne esegue i comandi e così fa in modo che nessuno possa giudicare delle sue infrazioni? Quanto è "perduto" in questo uso abusivo del potere?
Naturalmente questo ragionamento viene evitato dai costruttori del nuovo senso comune berlusconiano. Si prescinde dai fatti (un'ipotesi di reato, un'inchiesta, un processo, e la corsa politica a bloccarne l'esito) e si preferisce ragionare in termini generali: qui - si dice - non si discute di Berlusconi, ma di un sistema di guarentigie, che esiste anche altrove e riguarda le quattro principali cariche della Repubblica. Con ogni evidenza è una mistificazione. A parte il fatto che l'immunità del Capo del governo non esiste nelle democrazie europee, si può discutere in astratto di immunità se e in quanto serva a disegnare un sistema generale di garanzie, non quando urga la necessità di sottrarre un imputato al suo giudizio, strappandolo all'aula del Tribunale che sta per concludere il processo.
Questo anzi è il caso in cui la garanzia si trasforma in privilegio, e l'immunità studiata dalla dottrina costituzionale in considerazione della funzione pubblica e della sua tutela - nell'interesse non già del singolo, ma della collettività -, si riduce a impunità costruita nell'interesse esclusivo non di una carica ma di una persona, che con un vantaggio improprio viene sottratta ad oneri e responsabilità che valgono per tutti gli altri cittadini.
Qui sta tutta l'eccezionalità (uso la parola in senso tecnico) di ciò che sta accadendo in un parlamento ridotto a collegio di difesa di un imputato di corruzione, costretto a votare leggi speciali a sua tutela, impegnato a costruire un regime esclusivo di salvaguardia per un leader a cui non basta la politica, il trionfo elettorale, la forza della maggioranza, la dignità della funzione che ricopre nel nostro Stato. Sul piano culturale, c'è qualcosa di più. Una forzatura nella costituzione materiale del Paese, nella struttura politica del sistema, per cui da questo eccesso d'autorità scaturirà una nuova concezione dello Stato, con la supremazia del Leader che ha vinto le elezioni e per questo è intoccabile perché è un tutt'uno con la volontà dei cittadini, in un'unione sacra al punto che nessuna legge, nessun diritto, nessun potere può intervenire a sindacarla. Attraverso questa concezione, il leader legittimo del Paese diventa sovrano di fatto, perché si appropria di una sovranità che per Costituzione appartiene al popolo: non "emana" dal popolo verso qualche potere come oggi si vuole far credere e come pretende la teoria del moderno populismo, ma nel popolo risiede perché è il popolo che la esercita, "come contrassegno ineliminabile - si disse nella discussione in Costituente - del regime democratico".
Questa è la posta in palio negli eventi a cui stiamo assistendo, nonostante la riduzione interessata a stanca contesa tra politica e magistratura, nonostante la banalizzazione accurata della sostanza politica, istituzionale e costituzionale di questa vicenda: non per caso immersa in un grande pettegolezzo sessuale su presunte intercettazioni in parte già distrutte dai magistrati e in parte prossime alla distruzione e tuttavia evocate e sceneggiate senza posa dai costruttori del paesaggio politico berlusconiano, secondo la modernissima strategia feticista che - come spiega la psicanalista Louise J. Kaplan - "mette in rilievo un dettaglio particolare per poter distrarre l'attenzione da altre caratteristiche considerate inquietanti", "per immobilizzare e ammutolire, vincolare e dominare".
Proprio per questo, a mio parere, è importante e significativo che migliaia di persone abbiano sentito il bisogno martedì scorso di uscire dalla solitudine repubblicana in cui viviamo per andare nella piazza di Roma dov'era annunciata una manifestazione di testimonianza e di protesta per le leggi ad personam predisposte dalla destra berlusconiana. Nella nuova egemonia culturale che domina l'Italia e che mette l'azione e le decisioni del governo al primo posto, trasformando la legittimità in nuova sovranità, e chiedendo alla legalità di non intralciarla, la vera domanda è se c'è una capacità di reazione liberale e democratica, costituzionale e repubblicana. Quella piazza, fatta di cittadini sconosciuti che hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato (e in molti casi hanno dovuto farlo da soli, senza il tradizionale canale dei partiti) è appunto un principio di reazione.
Ma alla domanda tutta politica - finalmente - che veniva dai cittadini in piazza (e dai molti altri che non hanno partecipato per molte ragioni, ma anche perché non si riconoscevano nelle forme, nei modi e nel programma dell'organizzazione) è stata servita una risposta di segno opposto, tutta impolitica. Anzi, antipolitica. Con un crescendo da "Corrida" che mescolava denunce planetarie e racconti da Calandrino sul Cavaliere, accuse a Napolitano (come se fossero le istituzioni di garanzia il vero problema del Paese), e al Pd come principale nemico, secondo la tradizione consolidata della peggior sinistra, per cui il vero avversario è il tuo compagno. Attraverso questo meccanismo che ha sostituito gli "idoli" dello spettacolo ai leader, trasformando il loro linguaggio in discorso politico e riducendo i cittadini a spettatori che applaudono, si è rotta la cornice istituzionalmente drammatica in cui si sta compiendo la prova di forza di Berlusconi. Anzi, si è persa l'"eccezionalità" di quanto la nuova destra berlusconiana sta facendo, l'unicità di questo passaggio, smarrito nella denuncia antipolitica grillina che urlando vuole tutti uguali: dunque Berlusconi è come gli altri e tutti insieme sono "un comitato d'affari", col risultato che lo show convince il cittadino della sua impotenza, lo depriva della sua scelta di partecipare, depotenzia la sua reazione di ogni qualità politica, infine lo restituisce al privato con la convinzione che ogni azione pubblica collettiva è impossibile, peggio, inutile. Salvo battere le mani all'idolo che urla a vuoto, contro tutti e nessuno.
Si possono recuperare le ragioni che hanno portato quei cittadini in piazza, provando a dar loro un indirizzo politico, un percorso democratico, uno sbocco possibile? Molti "girotondi" hanno capito i limiti dell'antipolitica, che probabilmente ha consumato qui la sua stagione. Il Pd dovrebbe aver compreso che il vuoto della politica, anche lui genera mostri, e bisogna costruire un orizzonte riformista che sappia mobilitare e rispondere, dando radicalità ai valori e ai diritti, soprattutto quando sono sotto attacco. La sinistra sparsa, il centro cattolico, i moderati che non accettano il passaggio di sovranità hanno a disposizione un'idea semplice e necessaria: la democrazia come idea comune, nell'Italia sfortunata del 2008.
(11 luglio 2008)
da repubblica.it
Navigazione