EZIO MAURO.

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Arlecchino:
L'Occidente che va in minoranza
Il presidente Usa è il capofila di una nuova cultura su cui si fonda un tentativo di nuovo ordine mondiale. E il pensiero politico liberale si avvia a non essere più maggioritario

Di EZIO MAURO
01 febbraio 2017

Travolti dall'azione, rischiamo di non vedere la teoria che la guida e il pensiero che la organizza. È l'equivoco politico che circonda i primi passi della presidenza Trump, tutta prassi, decisione, comando, shock, cambiamento. Si potrebbe dire che dalla svolta annunciata nel discorso d'insediamento ("non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un'amministrazione all'altra, ma da Washington al popolo"), al muro di confine col Messico, alla restrizione degli ingressi in Usa da sette Paesi musulmani, ce n'è abbastanza per spiegare la ribellione americana che scende in strada e il rifiuto di una politica che stravolge le radici e la natura stessa del Paese: che ha la frontiera nei suoi miti di conquista e l'assimilazione nella sua storia di costruzione perenne di una sola nazione, unendo le colonie originarie, le ondate migratorie successive, le lingue, le disperazioni e le speranze in un'unica entità, ricca delle sue diversità e della capacità di tenerle insieme.

Tuttavia si rischia di non capire ciò che accadrà, ciò che può accadere, se si guarda soltanto alla parte visibile del fenomeno Trump, e non si comprende che il presidente americano non è un fenomeno da baraccone.

È precisamente il capofila di una nuova cultura - per quanto il termine possa sembrare sproporzionato - che va studiata con attenzione, perché qui si fonda non soltanto la nuova politica americana, ma addirittura un tentativo di nuovo ordine mondiale. Di questo si tratta: chiamiamola pure contro-cultura, perché nasce nella rabbia e nell'opposizione, senza modelli positivi e senza antecedenti significativi, come frutto dello spaesamento democratico che il riflusso della crisi lascia sul territorio devastato della nostra parte di mondo, la parte dello sviluppo, del progresso, dell'innovazione, del potere tecnologico, delle libertà politiche e individuali. È quanto noi credevamo. Poi arriva questo Sessantotto alla rovescia che butta per aria la gerarchia dei valori, grida che le élite si sono confiscate sviluppo e progresso a loro uso e consumo, mentre le libertà politiche senza una vera rappresentanza valgono meno di nulla, anzi sono un inganno, e le libertà civili vengono dopo la forza, la sicurezza, la ricchezza.

Ricordiamoci la data, e il passaggio storico: perché è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi - il comunismo e il nazismo - e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall'incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica.

È esattamente tutto questo - una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi - che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo che ha appena riunito a Coblenza la nuova Internazionale della destra, coi cinque partiti populisti di Frauke Petry in Germania, di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Geert Wilders in Olanda, di Harald Vilimsky in Austria, cui si deve sommare l'Europa di mezzo guidata da Orbán, che teorizza il ritorno orgoglioso a un continente fatto di nazioni, con il "fallimento del liberalismo" come leit-motiv da cui nasce la tentazione di demolire la separazione dei poteri. Se si aggiungono le tentazioni protezionistiche della Brexit inglese, l'ambiguità mimetica del Movimento 5 Stelle in Italia - che nel giro di 24 ore può far capriole da Farage ai liberali e ritorno - si capisce che il contagio è profondo ed egemone, tanto da suonare l'ultima campana d'allarme, a cui nessuno di noi era preparato: il pensiero politico liberale sta diventando minoranza.

Tutto questo ha delle spiegazioni pratiche concrete. Tra tutte, lo scollamento tra libertà e sicurezza dal lato dei cittadini, tra sicurezza e governo dal lato delle istituzioni. Le tre emergenze concentriche di cui soffrono i nostri Paesi - ondata migratoria senza precedenti, terrorismo islamista che ci trasforma in bersagli rituali sul nostro territorio, crisi economico-finanziaria che lascia dietro di sé una crisi drammatica del lavoro - hanno un risultato comune nel riflesso congiunto di insicurezza per il cittadino, che si sente esposto come mai in precedenza, davanti a eventi fuori controllo e senza governo. Abituato a pretendere tutela, protezione, rispetto dei diritti e sicurezza dallo Stato nazionale in cui vive, dai parlamenti che vota, dai governi che concorre a nominare, quel cittadino capisce improvvisamente che le emergenze sfondano la sovranità nazionale, la sopravanzano e la svuotano, vanificandola. Ma se un governo nazionale non garantisce sicurezza, non serve a nulla, diventa un'entità burocratica. Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l'impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com'è avvenuto altre volte in passato, dovunque. La novità è che oggi nessuno è interessato a comprare la sua libertà, che deperisce da sola, e in ogni caso lo Stato non è più in grado di garantire nulla in cambio: mentre il nuovo potere sovranazionale che vive nei flussi finanziari e nei flussi d'informazione fa il fixing altrove.

Con la cittadinanza, salta la soggettività politica: io non sono più niente, soprattutto in un'epoca in cui i partiti si riducono a semplici comitati elettorali e non trasformano i miei problemi in un problema comune. Anzi: quelle che erano grandi questioni collettive stanno diventando preoccupazioni individuali, insormontabili. Così salta la rappresentanza, deperisce la politica. Quel cittadino non si sente soltanto in minoranza, come spesso è accaduto in precedenza. Si considera escluso. Il meccanismo democratico non funziona per lui. Le istituzioni non lo tutelano. La politica lo ignora, salvo usarlo come numero primo e anonimo nei sondaggi. La Costituzione vale solo per i garantiti. La democrazia si ferma prima di arrivare a lui, perché la materialità della democrazia è fatta di lavoro, dignità, crescita, esercizio di diritti e doveri che nascono da un sistema aperto e partecipato, dall'inclusione. Alla fine, anche la libertà è condizionata.

Nel 2017 arriva qualcuno, con una tribuna universale com'è l'America, che chiama tutto questo "popolo", evoca il "forgotten man", lo contrappone all'establishment, racconta la favola del golpe permanente che ha confiscato la democrazia per trarne un vantaggio privato, derubando i cittadini. Eccita la contrapposizione ("loro festeggiavano, il popolo pativa"), evoca lo spirito di minoranza ("le loro vittorie non sono state le vostre"), configura un'usurpazione ("un piccolo gruppo ha incassato tutti i benefici, il popolo pagava i costi"), denuncia l'esclusione ("Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro Paese"), fino alla promessa finale: da oggi un movimento "di portata storica" scuoterà il mondo, "portando il popolo a ritornare sovrano".

Un discorso identitario - l'identità degli arrabbiati che devono rimanere tali - , quasi un'impostura di classe, che si basa su finte promesse frutto di una semplificazione del mondo che reintroduce sotto forme moderne l'ideologia: una falsa credenza che si sovrappone alla verità e la deforma in un racconto di comodo, utile a raccogliere adesioni sentimentali e istintive, cancellando bugie, falsificazioni e contraddizioni evidenti, come quella del miliardario campione degli esclusi. Tutto questo rompendo la corazza del politicamente corretto e dei suoi eccessi ma rovesciandolo nel suo contrario, liberando la scorrettezza come forma di libertà, la menzogna come arma legittima, l'ignoranza come garanzia di innocenza.

Questa rottura, come dice Karl Rove, il consigliere di George W. Bush, ha bisogno di stravolgere lo stesso partito repubblicano, annullare persino l'eredità reaganiana dei Baker, Shultz, Weinberger, fare tabula rasa addirittura del pensiero conservatore così come lo abbiamo conosciuto, e del compromesso di un linguaggio comune istituzionale, di un vocabolario costituzionale condiviso. Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all'isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest'avventura. E l'Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere. Qualcuno in Europa - magari a sinistra, se la sinistra alzasse gli occhi sul mondo - dovrebbe dire che tutto questo non è a disposizione di Trump.

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01 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/01/news/occidente_minoranza-157326683/?ref=HRER2-1

Arlecchino:
Il groviglio dei fedelissimi
"Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti"

Di EZIO MAURO
04 marzo 2017

TUTTI i nodi non sciolti negli anni del comando stanno soffocando Matteo Renzi oggi, nei mesi della sconfitta, e ciò che più conta rischiano di trascinare a fondo con lui l’intera parabola del Pd, tra scissioni, tesseramenti gonfiati, avvisi di garanzia. Sono nodi politici e giudiziari, riassumibili in un unico concetto: il groviglio del potere cresciuto intorno all’ex presidente del Consiglio, che lo ha coltivato o tollerato nell’illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato.

È infatti la concezione del potere del leader che merita fin d’ora un giudizio, mentre giustamente si attende che le ipotesi d’accusa dei magistrati inquirenti vengano accertate, e intanto gli indagati hanno il diritto di essere considerati giudiziariamente innocenti fino a prova contraria. Dunque l’inchiesta dirà se Tiziano Renzi approfittava del ruolo pubblico del figlio per influenzare nomine e appalti, se il ministro Lotti ha avvisato i vertici Consip dell’indagine in corso e addirittura delle “cimici” negli uffici, in modo che venissero rimosse.

Se Romeo teneva a libro paga il padre del premier, come credono i carabinieri che hanno materialmente ricostruito dalla spazzatura dell’imprenditore un appunto stracciato dove una “T.” figura accanto all’indicazione: 30 mila per mese.

Ma nell’attesa è inevitabile chiedere conto a Renzi di ciò che è già evidente, e soprattutto è sufficiente: il meccanismo di controllo e influenza che ha creato intorno a sé, nominando uomini di provata fedeltà personale nei centri più sensibili del potere pubblico, lasciando germogliare filoni di interesse privato che intersecano quei punti decisionali, mescolando come nei peggiori anni della nostra vita lobby, Stato e famiglia, perché da noi la degenerazione del potere pubblico passa spesso per scorciatoie affettive e tentazioni domestiche.

Ogni leader ha naturalmente il diritto di scegliersi gli uomini di fiducia, e può certo farlo rivolgendosi ai più vicini. Ma quando ha una responsabilità generale, perché non risponde soltanto di sé ma del governo del Paese e del destino di un partito, ha anche il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in Renzi una confusione tra Paese e paese. Ma c’è qualcosa di più, che si spiega in termini politici, non geografici o sociologici.

È l’eterna sindrome minoritaria di leader che non riescono a liberarsene nemmeno quando conquistano la maggioranza, senza capire che la vera supremazia sta nell’egemonia e non nelle tessere, nella nuova cultura che si installa e non nelle correnti che si contano, alleandosi oggi per separarsi domani. Potremmo dunque dire, paradossalmente per un leader egocentrico, che il vero limite di Renzi è di ambizione: pensare eternamente a proteggersi dai colpi e a colpire invece che a convincere e conquistare. Con un progetto capace di presentare una nuova sinistra come leva del cambiamento di un Paese in crisi, in un discorso di verità, tenendo insieme le eccellenze e le sofferenze italiane, in un nuovo disegno di società. Un disegno in cui si riconoscano tutte le anime della sinistra italiana, nella legittima e libera interpretazione che il leader del momento è chiamato a dare, facendosi però carico di una vicenda comune, di storie personali, di una tradizione che parla a un terzo del Paese.

Tutto questo non c’è stato. Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti. L’ex premier deve dire al Paese — e al suo partito che sta per scegliersi il segretario con le primarie — se sapeva, se sospettava, se immaginava: e se no, deve dire cos’ha pensato quando ha scoperto che l’uomo da lui messo alla guida della centrale degli appalti pubblici toglie le “cimici” perché un ministro e il vertice dei carabinieri lo avvertono, quando lo stesso capo della Consip rivela che proprio da Tiziano Renzi dipendeva il suo destino professionale, fino alla revoca della nomina.

L’unica cosa che Renzi non può fare è stare zitto o rovesciare il tavolo attaccando la magistratura come lo incitano i berlusconiani, memori di una pratica abituale a destra. Ma la comunità politica a cui Renzi si rivolge e dalla quale deriva la sua legittimità ha sensibilità differenti, e pretese diverse. E infatti ieri Renzi ha incominciato a sciogliere il nodo famigliare dicendo che se suo padre è colpevole deve pagare due volte.

Resta il nodo politico, intatto. E qui, infine, c’è una risposta che Renzi deve dare a se stesso. Dove lo ha portato quel sistema fondato sugli amici degli amici, asfittico e famelico? La presidenza del Consiglio non meritava qualche ambizione in più di una gestione toscana degli appalti? Domande inevitabili, perché non si può predicare l’innovazione e poi rinchiudersi nella cerchia ristretta di un Consiglio comunale in gita premio a Roma, con visita fugace alle istituzioni. Mentre bisognerebbe sapersi accontentare della sovranità legittima appena conquistata, senza cercare una quota ulteriore e ambigua di sovranità impropria.
Tutto questo Repubblica lo ha chiesto pubblicamente all’ex presidente del Consiglio in un’intervista all’inizio dell’anno: perché scegliere i fedelissimi fiorentini per guidare la macchina governativa, dalla Manzione a Lotti, fino a Carrai incredibilmente proposto per la guida delle cyber security invece di qualche ufficiale dei carabinieri laureato al Mit dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e non al premier? Perché un capo della Rai scelto nel bouquet della Leopolda? Perché governare con Verdini, e usare il Pd come un taxi per arrivare a Palazzo Chigi? Perché questa attrazione fatale per gli imprenditori e per le banche? Perché non pretendere che quando si ha l’onore di guidare la sinistra e la responsabilità di presiedere il governo i propri familiari si astengano da affari che riguardano il potere pubblico?

Le questioni erano tutte sul tavolo, tre mesi fa. Renzi ha perso tempo, e il tempo non è neutrale. Non ci sarà nessun nuovo inizio se non si parte da qui, dalla denuncia di un sistema di potere malato, e da un sovvertimento radicale di uomini, di metodi, di mentalità. Dopo gli amici, è arrivato il tempo di parlare ai cittadini.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/04/news/il_groviglio_dei_fedelissimi-159704569/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T

Arlecchino:
Il "forgotten man": quando il risentimento diventa populismo
"Nighthawks" di Edward Hopper (1942)
Così l'uomo dimenticato dalla politica scatena la sua rivolta e la sua vendetta.

Il saggio di Marco Revelli

Di EZIO MAURO

Come se fossimo entrati all'improvviso dentro un quadro notturno di Hopper, bisogna sbirciare ogni tanto quell'uomo col cappello in testa e il bicchiere tra le mani sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fronte, da solo sotto la luce al neon. Non parla, rimugina. Si capisce che ha un pezzo robusto di vita alle spalle, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza. Non crede più in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di averlo già visto? Perché è la nuova figura politica universale che attraversa l'Occidente dall'America all'Europa, il risentimento che ovunque si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l'outsider che infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver scalciato l'establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, si vedrà.

Poiché non abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest'ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi, antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo. Ad una ad una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca - i partiti - si spalancano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il conflitto.

Tra le macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è accaduto nell'ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, il forgotten scopre che nell'improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente. Non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo. Ma basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa per tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una rivoluzione, creando una nuova classe dirigente. Ma è capace di realizzare la delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l'energia degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di domani, intanto oggi si scalcia.

Che cos'è tutto questo? Marco Revelli, che unisce da anni nei suoi studi la scienza della politica con l'indagine sociale, lo chiama "Populismo 2.0" nel suo ultimo saggio Einaudi, dando una declinazione modernissima a una storia ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla. Ma se un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di questa inclusione inconcludente.

Il populismo dunque ritorna come sintomo di un indebolimento dell'organismo democratico, una febbre della rappresentanza malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente. Ma oggi per Revelli siamo davanti a un populismo di terza generazione dopo l'esperienza russa dell'Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra: alla crisi della democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto medio, atomizza l'universo del lavoro, inverte l'ascensore sociale. Il risultato è una rottura non tanto nel linguaggio politico - come si dice di fronte al politicamente scorretto - ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da maggioranze e opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il parlamento viene anzi contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono denunciate come la cattiva politica che le deforma, come se il contenitore fosse responsabile del contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi la viola, per accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza distinguere.

Una rivolta della plebe, l'"oclocrazia" evocata da Polibio "quando il popolo ambisce alla vendetta"? Ma la massa oggi in movimento, avverte Revelli, è stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e stabilità, altro che plebe. Scopriamo che i vituperati partiti erano "banche dell'ira", come le chiama Peter Sloterdijk, che la intercettavano, le davano un segnale di riconoscimento e la trasponevano dentro contenitori programmatici e ideologici, convogliandola in un progetto che la decantava nella nobiltà della politica. Oggi la rabbia sociale è allo stato brado, i nuovi leader politici si limitano ad alimentarla per cavalcarla, pensando che la materia sociale incandescente convenga per radicalità, e dunque meglio usarla come politica primordiale, rinunciando a raffinarla.

Più che a un movimento e tantomeno a un partito, siamo davanti a uno stato d'animo (e infatti parliamo di istinti e risentimenti), a un'espressione senza forma del disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili: con la retorica del "popolo", del "basso contro l'alto", del "tradimento' da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati. È la strutturazione drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, vissuto come morale, dunque totale. Naturalmente il neopopulismo non è in vitro, perché ha bisogno di un ambiente storico-politico talmente particolare da risultare eccezionale e oggi lo trova nell'emergenza conclamata di tre crisi congiunte, quella economica e del lavoro, quella migratoria, quella del terrorismo jihadista. Un fenomeno da passaggio di secolo, dice Revelli, esattamente come il neoliberismo in cui si specchia simmetricamente, entrambi trasversali, impermeabili e universali.

Ovviamente tutto questo è esploso come un bengala sotto gli occhi impreparati del mondo con l'elezione di Trump, che infatti subito dopo il trionfo non ha ringraziato il Paese, l'establishment o il partito ma esattamente lui, il forgotten man, portandolo a capotavola della sua avventura. Non solo il popolo delle campagne e gli hillbilly delle terre alte, ma un popolo disperso che per il 75 per cento denuncia il peggioramento della sua vita negli ultimi decenni e tuttavia segue il piffero di un miliardario perché più della differenza sociologica e della diffidenza ideologica pesa la dipendenza "etologica" che Revelli spiega così: un meccanismo del riconoscimento che nasce dai segni elementari, dai gesti, dai suoni e dai colori, dai modi e dalle reazioni che garantiscono nel leader la tenuta dell'odio della base, la sicurezza nell'opposizione al sistema, la comunanza nell'alterità.

A questo punto bisogna cercare i tratti comuni tra Trump e la Brexit (con i beneficiati della new economy che votano in massa per il "remain", mentre i naufraghi della globalizzazione fanno il contrario), con la Francia di Marine Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del padre, col muro sovranista di Orban in Ungheria, con gli umori neri dell'AfD in Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi. Revelli ne identifica tre, tralasciando la virata di Salvini dall'indipendentismo padano al nazionalismo xenofobo di imitazione lepenista. Quello anticipatore di Berlusconi, una sorta di populismo geneticamente modificato dal peccato originale dell'incrocio con l'azienda, che lo trasforma in eroe teleculturale con un partito istantaneo per una "politica dell'immediato", coprendo con la vernice moderata un'anima di destra radicale e ideologica.

Quello di Grillo, un cyberpopulismo che, dopo il declino della tv, ibrida la politica con la retorica della rete intervallata dai "V-day" nelle piazze, dove le invettive sovrastano un modello culturale intermittente e balbettante. Quello di Renzi, post-ideologico, post-novecentesco e post-identitario, pencolante tra la tentazione della lotta e la seduzione del governo, col risultato di scolorire i colori della sinistra nell'indistinto democratico di un partito-nazione.

Questo record italiano è il risultato dell'"età del vuoto", come la chiama Revelli, che porta al grado zero della semplificazione politica, riassumibile in un "vaffa", una ruspa, la parola rottamazione. È un vuoto che riguarda soprattutto la sinistra, assimilata in un pensiero unico che non prevede un'obiezione culturale, spingendo la rabbia del forgotten a credere che un'alternativa sia possibile solo fuori dal sistema: mentre in realtà la vera alternativa nasce in questi mesi nella destra populista, che attacca il pensiero liberale, il concetto stesso di Europa e di Occidente.

Ci dev'essere il modo di parlare a quell'uomo che sta nel bar da solo, prima che arrivi Trump a portarselo via. Ci dev'essere un pensiero democratico in grado di convincere l'operaio col casco giallo davanti a un grattacielo a Londra, che nello schermo della Bbc spiega il Brexit con un semplice gesto della mano: "Quelli lassù hanno votato per restare nella Ue, noi quaggiù per uscire".
 
© Riproduzione riservata 10 aprile 2017

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/10/news/il_forgotten_man_quando_il_risentimento_diventa_populismo-162607299/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S3.3-T1

Arlecchino:
Quel diavolo borghese della sinistra di Francia che non vota Macron

"Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione"

Di EZIO MAURO
04 maggio 2017

DUNQUE si può essere di sinistra e non votare contro Marine Le Pen: pur di non votare per Macron. È il nuovo mantra — “né né” — che attraversa un pezzo di elettorato francese radunato nel 19,58 raccolto da Mélenchon al primo turno, e lo assolve preventivamente mentre viaggia verso l’astensione al ballottaggio decisivo per il futuro della République, e forse dell’intera Europa. Manca il tripode con l’acqua di Ponzio Pilato per lavarsi le mani sullo spazio imperiale del Pretorio, all’ora sesta di un giorno in cui il cielo si oscurò. Tutto il resto è pronto. Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione.

Naturalmente c’è la ribellione allo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, radunate in una trimurti ingigantita e resa così simbolica delle sofferenze di questi anni da diventare il nemico assoluto, ideologico, politico, culturale, addirittura morale. Basta guardarsi intorno per capire le ragioni di questo rigetto. E se non basta, si può ricordare una vecchia frase di Camus: «mai il numero di persone umiliate è stato così grande».

Ma qui, con ogni evidenza, c’è qualcosa di più. Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico — che non ha nulla a che fare con la politica — per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post- ideologica. Tutto quello (in una versione franco-centrista) che nel malandato e diseredato lessico della sinistra italiana abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”, qualcosa che non c’è, e dovrebbe in poche parole coniugare la speranza dell’emancipazione sociale con la responsabilità di governo.

Tra i “né né” naturalmente Michel Onfray è in prima fila, con una vecchia patente di sinistra e una furia iconoclasta che lo ha reso popolare da anni: da Valls ad Attali, a Kouchner, a Cohn-Bendit, «sono i promotori forsennati di una politica liberale che hanno permesso a Marine Le Pen di fare il botto e arrivare al secondo turno». E lo storico Emmanuel Todd gli fa eco nell’intervista ad Anais Ginori: «Votare Front National è approvare la xenofobia, ma votare Macron è accettare la sottomissione. Per me è impossibile scegliere. Considero il lepenismo e il macronismo come due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, Macron è la servitù alle banche e alla Germania. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore».

Con l’astensione ovviamente la sinistra pura e dura ingigantisce il rischio che Marine Le Pen riempia questa attesa accomodandosi sulla poltrona dell’Eliseo. Ma non importa più. L’odio nei confronti del riformismo ha bisogno di minimizzare i rischi del post-fascismo, per sdoganare l’astensione tranquillizzando le coscienze inquiete davanti alla xenofobia del Front. Se Macron è uguale a Le Pen, allora Marine definitivamente non viene più dall’inferno, è una nemica ma come tanti, anzi non è nemmeno la peggiore, entra nella normalità del gioco politico francese, culturalmente accettata, moralmente scusata, storicamente amnistiata. Anzi, esercita una sorta di tacita egemonia culturale, quando la sinistra per accusare la finanziarizzazione macronista usa i termini tipicamente lepenisti di “sottomissione” e “servitù”, che non hanno più al centro il cittadino come soggetto politico universale, secondo la lezione francese, ma lo spirito di Francia, collettivo, nazionalista e patriottico, che Marine vuole resuscitare, per scagliarlo contro l’Europa tiranna.

La frattura culturale e l’infiltrazione avviene anche a destra, nel campo repubblicano, con “tradimenti” singoli e furbizie isolate, come denuncia Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, che non ha dubbi: «la vittoria di Le Pen sarebbe uno scisma geopolitico, un disastro economico, una sconfitta morale. Per questo serve un appello solenne a resistere alla tentazione di rompere tutto, di rovesciare il tavolo». È il vero sentimento nazionale, per il bene della Repubblica, che affiora a destra e fatica ad emergere nella sinistra (due terzi degli elettori di Mélenchon sono per l’astensione) ipnotizzata invece dal risentimento per il nuovo nemico, al punto da perdere quel senso della responsabilità nazionale che l’ha sempre contraddistinta.

Perdendo intanto anche il senso morale delle proporzioni, quando Todd teorizza che c’è più da temere «nella fanatizzazione dei benpensanti che nella risorgenza del fascismo». Faceva tristemente eco, nel corteo del Primo Maggio e a poche ore dalla più pericolosa sfida lepenista alla Repubblica, quello striscione sindacale in boulevard Beaumarchais che archiviava ogni criterio di distinzione, base di qualsiasi buona politica: “Peste o colera, né l’una né l’altra”. Per la sinistra, non è ancora passata l’ora sesta.

© Riproduzione riservata 04 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/04/news/quel_diavolo_borghese_della_sinistra_di_francia_che_non_vota_macron-164577532/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2

Arlecchino:
I tre tavoli di Renzi e Berlusconi

Di EZIO MAURO
26 maggio 2017

Ci sono tre tavoli apparecchiati in mezzo al campo malandato della politica italiana. Il primo riguarda la legge elettorale, il secondo il governissimo, il terzo la Rai. I commensali sono sempre due, Renzi e Berlusconi, necessari l’uno all'altro: non per i numeri e per la forza, che non hanno più, ma al contrario per le due diverse ma reciproche debolezze che provano a puntellarsi a vicenda fingendo di reggere il sistema e addirittura di riformarlo, mentre ciò che li muove è un puro istinto difensivo.

Naturalmente anche quello della difesa è un istinto politico, dunque legittimo. Ma qualcosa andrebbe spiegato mentre accade, soprattutto a sinistra. Qual è il profilo culturale, strategico, della stagione convulsa e precipitosa che si sta aprendo? E in nome di quale mandato Renzi consegna il Pd appena riconquistato all’intesa con la destra? Qui nasce la terza domanda, che è la più importante e non ha mai avuto una vera risposta da quattro anni: che idea di se stesso ha il Pd, che lettura fa del Paese, qual è la sua interpretazione oggi del concetto di sinistra, che è la sua ragione sociale scritta nell’atto di nascita e nel patto coi cittadini?

È evidente che proprio l’indeterminatezza identitaria domina la fase, rendendo possibile ogni evoluzione strategica e ogni performance tattica, senza alcun vincolo culturale. Ad ogni stormir di Macron, nasce qualche nuova tentazione subitanea, qualche mimetica gregaria, qualche imitazione subalterna, come se i partiti non avessero un’anima e un corpo e bastasse cambiar loro l’abito a ogni cambio di stagione. Soprattutto, come se l’anima non l’avessero gli elettori. L’indeterminatezza si raddoppia, oggi, perché il commensale Berlusconi non ha nemmeno ancora deciso se si subordinerà all’OPA radicale di un Salvini mezzo lepenista e mezzo padano, o se si risveglierà improvvisamente europeista e temporaneamente moderato. Dunque non si sa con chi si tratta, o lo si sa fin troppo bene.

È altrettanto evidente che per mettere fine in extremis allo scandalo di un Paese senza legge elettorale bisogna cercare un’intesa larga e dunque un compromesso parlamentare. Ma lo si deve fare alla luce del sole, con proposte chiare e pubbliche e un’idea del sistema politico che garantisca governabilità e rappresentanza, non piccoli interessi di parte e di autogaranzia. Non si sconfigge il populismo grillino con intese elettorali difensive e innaturali, che trasmettono al contrario l’immagine di un blocco di autotutela, chiuso in sé al punto da lasciar credere che una diversa lettura della crisi sia possibile solo fuori dal sistema.
La vera battaglia con il populismo è culturale, dunque ha bisogno di identità forti, riconoscibili, dichiarate — in difesa del pensiero liberale, del principio di Occidente, dell’idea di Europa — non di minimi comun denominatori che possono produrre soltanto governi-badanti di un Paese che non sa più crescere.

Un sistema politico arroccato, devitalizzato in un’opportunistica rincorsa al centro, confuso dentro l’indistinto democratico,

è un sistema spaventato. Che non per caso ha bisogno di una Rai ancora meno autonoma e indipendente, ma spartita e fedele: come se la partita italiana del futuro si giocasse ancora nel chiuso di un tinello italiano degli anni Settanta, mentre il mondo in subbuglio sta sfondando la porta.

© Riproduzione riservata 26 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/26/news/i_tre_tavoli_di_renzi_e_berlusconi-166421464/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2

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