EZIO MAURO.
Arlecchino:
La Rambla, l'integrazione che dobbiamo difendere
Dobbiamo dare un nome ai luoghi disarmati dove consumiamo la nostra libertà.
E il nome è quello della democrazia
Di EZIO MAURO
19 agosto 2017
Come una decimazione, hanno falciato uomini donne e ragazzi, indistintamente colpevoli di testimoniare un modo di vivere che loro rifiutano e combattono. Gli individui non contano: per loro conta la massa trasformata in bersaglio, la pura quantità stralciata sulle Ramblas dal popolo estivo della vacanza.
Il tam tam estremista porterà le cifre del massacro come un bollettino di vittoria nei villaggi dove l'Isis si sta ritirando, svanito il sogno del Califfato: 14 morti, 130 feriti, che sono venuti da 35 diversi Paesi - da tutto il mondo - per trovare la morte a Barcellona. Un condensato di strage universale, proprio mentre a Turku in Finlandia si accoltellano i passanti sulla piazza del mercato del sabato, al grido "Allahu akbar".
Quel van bianco, costruito come strumento di lavoro per ridurre la fatica degli uomini e noleggiato come arma da lanciare sulla folla, testimonia in apparenza la vulnerabilità del nostro meccanismo sociale, dove tecnica, modernità e tecnologia possono essere rovesciate nella primordialità di un'arma impropria, quasi invisibile perché nasce dalla quotidiana abitudine strumentale del nostro vivere, di cui siamo abituati a servirci, ma da cui non abbiamo mai pensato di doverci proteggere. Finché quel furgone salta fuori dal contesto di regole e normalità che lo controlla e si lancia come una bomba sopra la gente, ieri a Nizza, adesso a Barcellona.
Il fatto che questi attentati sorgano dall'interno del nostro costume civile rende difficile una prevenzione, perché possiamo difenderci da tutto, meno che dal nostro modo di vivere. Una sala da ballo a Parigi, un concerto a Manchester, una strada nel cuore della Spagna sono per definizione luoghi disarmati nel senso più ampio del termine, perché appartengono a quel tempo liberato dal lavoro che la nostra società si è conquistata per ordinarlo in un disegno di relazioni, appuntamenti, occasioni che organizzano una fruizione delle città, delle sere e delle notti urbane.
In realtà dobbiamo pensare che la presunta e apparente modernità di questi attentati nasconde l'opposto, una religione trasformata in ideologia e scagliata in ritardo di secoli contro un mondo che rappresenta l'eterno confronto, ineliminabile, contro cui l'Isis sa di aver perduto in partenza e per sempre l'arma dell'egemonia, della sfida culturale, tanto da regredire all'epoca primitiva degli omicidi rituali.
Ciò che ci rende vulnerabili è esattamente ciò per cui ci attaccano: la nostra libertà, di cui siamo custodi e praticanti imperfetti, ma consapevoli. La libertà dell'organizzazione della nostra vita, della sua combinazione con gli altri, della sottomissione spontanea alle leggi che ci siamo dati per regolare il nostro vivere sociale. Quei feriti di 34 Paesi falciati sulle Ramblas, testimoniano proprio questo, la libertà del movimento e della scelta, della vacanza e del lavoro, degli incontri e degli scambi, tutto ciò che fa di Barcellona - come di Roma, Parigi, Londra, Bruxelles e New York, dove tutto è cominciato con le Torri Gemelle - una città aperta, che guarda al mondo e sa ospitarlo nelle sue strade e nelle sue piazze, facendo mercato universale della sua storia, della cultura, dello stile di vita e dei suoi costumi.
Le Ramblas sfregiate a morte non sono dunque - non devono essere - una pura scena del delitto, un paesaggio inerte e indifferenziato. Sono espressione di un modo di vivere, parte del meccanismo quotidiano con cui la libertà si organizza in società, dopo essersi data norme, diritti, istituzioni. Noi dobbiamo dare un nome a questo spazio di quotidiana civiltà mondializzata, che l'Isis colpisce ipnotizzato proprio per marcare il suo particolarismo estremo, la sua irriducibilità, la radicalizzazione del suo rifiuto: solo così sarà possibile una lettura politica e non esclusivamente emotiva e sentimentale di quel che è accaduto e ancora accadrà. Il nome è quello della democrazia occidentale, di cui siamo cittadini infedeli e tuttavia testimoni inesauribili.
È questa la cifra civile che oggi è sotto attacco e che dobbiamo difendere, per difendere ciò che noi siamo: o almeno ciò che vorremmo essere.
© Riproduzione riservata 19 agosto 2017
Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/19/news/la_rambla_l_integrazione_che_dobbiamo_difendere-173355955/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
Arlecchino:
Se la povertà è una colpa
Il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine
Di EZIO MAURO
26 agosto 2017
Dai casi di cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante.
La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi “banditi” della modernità, perché noi — i garantiti, gli inclusi — non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere.
Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge.
Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli.
Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano — crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis — non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità “scoperto” politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano.
Stiamo assistendo semplicemente — e tragicamente — al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il “bando”, accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove.
L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere.
È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza.
Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni “esemplari” che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica.
© Riproduzione riservata 26 agosto 2017
DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/26/news/se_la_poverta_e_una_colpa-173873845/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
Arlecchino:
Ius soli, la politica senza autonomia
Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti
Di EZIO MAURO
14 settembre 2017
Dunque la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra.
Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante.
Ci sono certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento.
Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza.
Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica.
Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba.
Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa.
Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti.
Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.
C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.
È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo.
La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi.
Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa.
© Riproduzione riservata 14 settembre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/14/news/isul_soli_la_politica_senza_autonomia-175436643/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.6-T2
Arlecchino:
Di Maio e i dadi truccati dei grillini
Di EZIO MAURO
20 settembre 2017
UNA paura inconfessata del mondo si specchia nell'unica sicurezza in cui si arrocca il Movimento 5 Stelle nel momento in cui lancia l'assalto al cielo: la chiusura oligarchica in sé, con una superstizione settaria e una fiducia religiosa. Come Ratzinger, anche Grillo è convinto che " extra ecclesiam nulla salus", perché non c'è salvezza fuori dal sacro recinto. È singolare come questi due sentimenti siano intrecciati nel procedere del partito, dal "V-day" fino alla farsa autolesionista delle primarie prefabbricate che investiranno Di Maio con una corona giocattolo, da grandi magazzini. Un movimento nato in piazza, convinto di essere generato direttamente dal popolo, alternativo al sistema, ai suoi riti stanchi e alle procedure più logore, si mostra incapace di darsi un metodo di democrazia interna coerente con quanto predica all'esterno e con l'idea di rinnovamento che propone, talmente radicale che dovrebbe semmai rovesciare l'antico motto cristiano, cercando il cambiamento ovunque si manifesti e in qualsiasi forma: " Ubi salus, ibi ecclesia".
L'anomalia è congenita e connaturata, come il conflitto d'interessi per Berlusconi o il bullismo politico per Renzi. Nasce cioè dalla concezione di sé, non come parte ma come un diverso tutto, che non vuole conquistare il sistema ma pretende di soppiantarlo. Ciò comporta, necessariamente, l'abolizione di ogni distinzione, e cioè del libero criterio con cui si forma ogni giudizio politico, per incasellare la realtà dentro uno schema di comodo basato sul pregiudizio, che accomuna tutta la politica precedente alla transustanziazione del comico in leader, come un'era barbara da rigettare in blocco. Non importa che in questa lunga stagione costellata di errori e anche di colpe ci siano tradizioni, esperienze, filoni culturali, testimonianze e personalità che hanno costruito la miglior storia d'Italia, avvicinandola all'Europa. E non importa neppure che nella capacità di distinguere, ogni volta e in ogni circostanza, risieda l'esercizio della libertà intellettuale del cittadino: l'unica cosa che conta è ridurre la politica "altra" a fascio indistinto, insieme con le istituzioni marce e i riti repubblicani vuoti.
Deriva dunque dalla differenza, più che dalla proposta, l'autocandidatura grillina non all'alternativa ma alla sostituzione di sistema. Una differenza che si vive come antropologica, irridendo gli avversari e sbeffeggiandoli, che si presenta come metodologica (nel culto elettronico del sacro Graal che dovrebbe garantire trasparenza e invece la confisca), ma in realtà è profondamente ideologica. Non si tratta infatti di tornare agli ideali democratici su cui è nata la repubblica, ma di trasportare il sistema nell'altrove grillino dove una casta di puri sostituirà un meccanismo corrotto e inaugurerà finalmente l'era della grande semplificazione, banalizzando - come avviene quotidianamente in Campidoglio - i problemi e purtroppo le loro soluzioni. Solo un piccolo mondo nuovo, compatto, rigidamente controllato, impermeabile e autosufficiente può sostituire il grande vecchio mondo che non si può emendare, selezionare, discernere, ma soltanto mandare al macero in blocco.
Soltanto che la rigidità del meccanismo cozza contro l'elasticità della teoria. C'è un capo supremo che tutti riconoscono ma che nessuno ha eletto, con titoli aziendali, manageriali e religiosi ben più che politici: il "fondatore", il "capo politico", l'"elevato". Nessuno ovviamente disconosce il carisma di Grillo sui suoi adepti, e nemmeno l'istinto politico. Solo che lo statuto speciale che si è attribuito lo colloca in un luogo esterno al controllo, alla verifica, alla trasparenza, al metodo democratico che l'articolo 49 della Costituzione prescrive ai partiti, un luogo di permanente arbitrio e di totale insindacabilità, che lo rende nello stesso tempo responsabile finale di ogni cosa, e a piacere irresponsabile di tutto. Quando poi Davide Casaleggio scende nel campo politico e amministrativo incontrando sindaci e parlamentari, dirimendo conflitti, decidendo priorità e strategie, l'affare si complica perché la mancanza di ogni investitura democratica è in più distorta dall'elemento dinastico, come se si potesse ereditare il ruolo di co-fondatore, l'approccio imprenditoriale per regolare dall'alto la politica, le chiavi misteriose del caveau battezzato con sprezzo del pericolo Rousseau, che custodisce solo per gli iniziati i percorsi e i destini di tutti.
È evidente che tutto questo cozza con la predicazione della trasparenza, con il principio della democrazia diretta (anche con quella indiretta, a dire il vero), con lo streaming inflitto a Bersani, con il disvelamento di ogni meccanismo decisionale, con il rovesciamento dei vecchi metodi castali, che ancora resistono nei partiti e determinano in buona parte il successo del movimento. L'unico principio che regge alla prova dei fatti è il famoso "uno vale uno", ma rovesciato rispetto alla rivoluzione che prometteva: davvero conta sempre e soltanto quell'uno nascosto in alto, che ha potestà di nomina e di veto come i signori feudali, ben più di qualsiasi leader di ogni vecchio partito. Quelli, infatti, dichiarandosi di destra o di sinistra si impongono un vincolo politico-culturale, a cui devono in qualche modo rispondere, e in base al quale vengono giudicati, mentre qui ogni piroetta è lecita, nel nulla identitario. Quelli, in più, devono fare i conti con il libero gioco delle correnti, qui invece totalmente assenti come dimostrano le primarie addomesticate coi figuranti attorno a Di Maio, e il silenzio amaro dei dissidenti, che hanno paura del fulmine dall'alto, capace di incenerire ogni dissenso.
Le finte primarie sono dunque il risultato di un metodo, che è un'aperta trasgressione ai principi fondativi del movimento, una deformazione delle sue teorie, una falsificazione politica. La miseria politica degli altri partiti non giustifica affatto la clamorosa anomalia grillina. Chi non ha altra base culturale che la purezza e la trasparenza, nascendo ogni giorno dal seno del popolo per riporre proprio lì la virtù salvifica di ogni scelta, ha infatti il dovere politico della coerenza: se non nei programmi, che sono più complicati perché dipendono anche da variabili esterne, almeno nel metodo con cui costruisce il suo gruppo dirigente, la sua leadership, la sua struttura interna.
Abbiamo ripetuto molte volte e inutilmente, davanti ai periodici grovigli del Pd, che un moderno partito è forte se disarmato, è nuovo in quanto aperto, è democratico perché scalabile e contendibile. Vale per tutti, naturalmente. E invece proprio nei 5 Stelle c'è il timore non solo di ogni convergenza democratica nei parlamenti (dove pure non esiste per definizione una verità assoluta, ma tante verità parziali che si possono combinare in quel gioco che si chiama politica), ma anche di ogni contatto esterno per definizione "impuro", e adesso addirittura di ogni possibile contaminazione interna che scombini la scelta dell'oligarchia di vertice, blindata proprio mentre si convocano le primarie, con una contraddizione clamorosa. La prova del 9 è l'intolleranza per l'informazione proclamata direttamente da Grillo ieri davanti ai giornalisti, mentre l'uomo del cambiamento, Di Maio, si inchinava a baciare la teca di San Gennaro: "Vi mangerei, anche per il gusto di vomitarvi". Non fa ridere, qualcuno dovrebbe dirglielo. Per paura, tacciono gli oppositori interni. Per connivenza, stanno zitti gli intellettuali esterni, pronti a crocifiggere ad ogni passo la seconda repubblica, come se non si facesse male da sola. Quanto alla terza, non resta che aspettare la ribellione cibernetica di Rousseau, come un moderno Hal, per dichiarare il gigantesco "tilt" democratico di questa odissea spaziale coi dadi truccati.
© Riproduzione riservata 20 settembre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/20/news/di_maio_e_i_dadi_truccati_dei_grillini-175977944/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
Arlecchino:
Fiducia su legge elettorale, un colpo di mano
Giunge a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell'impotenza dell'intero sistema politico: l'incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un'intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte
Di EZIO MAURO
11 ottobre 2017
Non è un colpo di Stato, come urlano i grillini in piazza, ma questa decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale è un colpo di mano: gravissimo per la materia delicata di cui tratta (una materia di garanzia per tutti) e per il momento in cui avviene, a pochi mesi dalle elezioni politiche.
Giunge così a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell'impotenza dell'intero sistema politico, e della vacuità della legislatura tutta intera, e cioè l'incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un'intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte, ma su un meccanismo in grado di restituire ai cittadini la piena potestà di scegliere i loro rappresentanti, con una regola riconoscibile dagli elettori e riconosciuta dall'intero sistema, capace di durare nel tempo al di là dei calcoli miopi di breve periodo. Restituendo così al meccanismo della rappresentanza quella stabilità e quella neutralità che sono parte indispensabile della fiducia nella politica e nelle istituzioni, oggi perduta.
C'è una contraddizione logica nel chiamare indecentemente in causa nell'atto finale il governo che non è intervenuto nel percorso della riforma - Gentiloni lo aveva sempre escluso, dunque deve spiegare cosa l'ha convinto a cambiare idea - perché faccia scattare il lucchetto della fiducia, troncando il confronto parlamentare per paura delle imboscate nascoste nel voto segreto.
Proprio lo spettro dichiarato dei franchi tiratori, che agita questa legge elettorale come i fantasmi abitano i castelli d'Inghilterra, è la prova patente di quanto poco i partiti-padri di questa legge si fidino della sua capacità di convincere e coinvolgere i loro parlamentari, come capita ad ogni confisca di sovranità politica da parte dei vertici più ristretti.
C'è poi una contraddizione tutta politica, clamorosa e sotto gli occhi di tutti: cosa c'entra un patto di maggioranza (riconfermato e blindato a forza con il voto di fiducia) con un provvedimento che nasce trasversale, a cavallo tra gran parte dell'area di governo e una certa opposizione, anzi per dirla tutta da un'intesa tra il Pd e Forza Italia con il concorso interessato della Lega e del partitino di Alfano? In questo modo si svilisce anche l'istituto parlamentare e lo stesso voto di fiducia, uno dei momenti più significativi del rapporto tra il governo e le Camere: qui invece ridotto a puro espediente tecnico, dove non è in gioco la fiducia e nemmeno il governo, ma entrambi diventano puri strumenti servili di un consenso indotto e forzato, con la destra che esce dall'aula per far passare in un giorno pari la fiducia ad un governo a cui si oppone nei giorni dispari.
L'ultima contraddizione - in realtà la prima - è del Pd, il partito che regge la maggioranza, il governo e ha chiesto la fiducia. In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un'autotutela ad ogni costo, dando fiato
ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia.
© Riproduzione riservata 11 ottobre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/11/news/un_colpo_di_mano-177932199/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
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