JUAN CARLOS DE MARTIN. -

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16/4/2011

Internet e il potere

JUAN CARLOS DE MARTIN

Quanto potere ha Internet? Quanto è in grado la Rete di influenzare o determinare comportamenti? E chi ha potere in Internet? Come si declina il concetto di potere sulla Rete? Chi lo detiene e in virtù di quali fattori?

Sono domande che è ormai ora di prendere in considerazione, anche per evitare che tali riflessioni stategiche vengano lasciate ai soli governi di alcuni paesi – come avverrà nel corso del prossimo G8, presieduto da Sarkozy e dedicato appunto a Internet - o ai soli addetti ai lavori. Sono infatti domande che toccano aspetti fondamentali delle nostre democrazie, come la formazione del consenso, la trasparenza dei poteri dello Stato, la libertà di espressione, il futuro dei partiti politici e altro ancora. Sul potere di Internet inteso come infrastruttura di comunicazione basta dire che nessun paese evoluto può più permettersi di spegnere la rete senza pagare un prezzo economico elevatissimo. L’economia, la pubblica amministrazione, persino le forze armate dipendono dalla Rete. È, quindi, semmai una questione di grado di libertà della Rete, come in Cina e in altri paesi autoritari; non più se averla o non averla.

Ma il potere di Internet sta crescendo rapidamente anche nel senso di capacità di influenzare o determinare i comportamenti. Capacità che deriva dalla grande facilità con cui la Rete veicola informazioni in tempo reale da persona a persona (email, chat, telefonia su Internet), da persona a moltitudini (blog, reti sociali) e da molti a molti (le matasse delle connessioni sociali). Un «big bang» che sta cambiando sia la dieta informativa dei cittadini, sia il modo in cui comunicano e si organizzano tra di loro - facilitando in particolar modo le mobilitazioni, come dimostrato dalla campagna elettorale di Obama del 2008. È l’onda di cambiamento che procede più rapidamente nei paesi amanti del nuovo, come gli States, ma che per motivi culturali e anagrafici sta arrivando ovunque, anche in paesi relativamente poveri come quelli del Nord Africa e del Medio Oriente.

È, quindi, importante cercare di capire chi ha potere su questa realtà. Col crescere del potere di Internet stanno crescendo le pressioni per ridisegnare la geografia del potere in Internet. Il potere ce l’ha chi costruisce i nostri computer e il software che li fa funzionare? O chi possiede i cavi e ci vende l’accesso alla Rete, potenzialmente monitorando tutti i nostri flussi? Chi ci permette di trovare cosa cerchiamo nell’oceano del virtuale? Chi ha tasche profonde per creare i siti più popolari e per garantire la miglior fruibilità dei contenuti? O chi gestisce le grandi piattaforme di aggregazione di blog, foto, video e le reti sociali? Ognuna di queste domande richiede risposte specifiche, spesso complementari e a volte tutt’altro che intuitive. Quel che è certo è che la libertà su Internet – ovvero un potere il più possibile nelle mani degli individui – richiede il mantenimento di uno strato trasversale di libertà a tutti i livelli, dall’effettivo controllo del nostro computer e dei nostri dati, alla possibilità di comunicare online riservatamente e senza discriminazioni.

Tale strato di libertà si può in parte assicurare con azioni dal basso, per esempio utilizzando software che protegga la riservatezza della corrispondenza elettronica e della navigazione. Ma l’intervento normativo rimane indispensabile. Da quelli volti a dichiarare l’accesso alla Rete un diritto costituzionale, come proposto dal giurista Stefano Rodotà e come ripetutamente richiesto anche dall’inventore del Web, Tim Berners-Lee, a una serie di interventi legislativi miranti a preservare le componenti fondamentali della libertà online a tutti i livelli. Se riusciremo ad applicare alla Rete i principi democratici, evitando in particolare le concentrazioni di potere, la Rete a sua volta potrà venire in aiuto delle nostre democrazie, spesso fragili, aiutandoci a renderle più compiute. In particolare, la Rete potrebbe aiutarci a riempire l’angosciante vuoto tra un evento elettorale e il successivo, articolando quel dialogo continuo tra eletti ed elettori che dovrebbe essere, al fianco dei dibattiti che avvengono tra eletti nelle istituzioni rappresentative, la fibra di ogni democrazia. Dialogo di cui c’è un urgente bisogno e che né i sondaggi né tanto meno il vociare spesso grezzo della televisione possono sostituire. È un tipo di dialogo – sia chiaro - che già avviene online tutti i giorni, coinvolgendo migliaia di cittadini. Ma sono ancora solo frammenti, avvisaglie di qualcosa che potrebbe essere e ancora non è. Occorre costruire su tali primi esperimenti, per dar loro forma e peso. In tal senso discutere del potere nella Rete coincide col parlare di una parte importante del futuro della democrazia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/

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14/7/2011

Missione di soccorso per l'Italia non digitale

JUAN CARLOS DE MARTIN


La direzione è quella giusta, ma i valori assoluti sono ancora tra i peggiori del mondo sviluppato, e per di più con forti diseguaglianze interne.

Si potrebbero riassumere così i numeri dell’ultimo rapporto del Censis, intitolato «I media personali nell’era digitale», di cui ieri è stata resa disponibile una sintesi. Un’Italia spesso a due velocità, come peraltro ci aveva già detto l’Istat: giovani e persone istruite a livelli nord-europei, ma anziani e classi svantaggiate ancora a livelli da Paese in via di sviluppo. I numeri sono chiari: una fascia sempre più ampia della popolazione – anche se ancora troppo limitata se si guarda al totale - vive immersa nel web. I giovani urbani, in particolare, sono quasi tutti sui social network, guardano sempre meno televisione (che giudicano nettamente meno affidabile di Internet), leggono meno giornali di carta preferendo le informazioni online, cercano strade e località grazie agli smartphone, ritengono che Internet sia un potente mezzo al servizio della democrazia. È quanto ci aspetteremmo all’arrivo di qualsiasi nuova tecnologia: i giovani hanno meno abitudini da rompere nonché una innata propensione al nuovo.

Tuttavia non possiamo adagiarci sull’anagrafe, delegando solo all’intraprendenza dei giovani il futuro digitale dell’Italia. Per due motivi: non solo i giovani diventano adulti troppo lentamente rispetto alle esigenze del Paese (e lì c’è poco da fare, alla natura non si comanda), ma i giovani italiani sono anche sempre di meno rispetto alla popolazione complessiva. Una pattuglia entusiasticamente digitale, ma con, purtroppo, un peso economico, sociale e politico in costante decrescita (almeno fino a quando la politica non si deciderà a fare qualcosa in proposito, come raccomandato, tra gli altri, dal demografo Alessandro Rosina).

Occorre quindi concentrare le energie sui gruppi sociali ancora lontani dal digitale: anziani, lavoratori non specializzati, persone con basso livello di istruzione, abitanti di piccoli centri. Sono gruppi eterogenei che chiedono strategie diverse a diversi livelli. Impresa non facile per un Paese come il nostro, poco abituato a dispiegare strategie complesse che su più anni, magari a cavallo di più legislature. Ma non impossibile. Soprattutto se riuscissimo a far capire alla politica che la questione è allo stesso tempo non di parte e di grande importanza per lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. I dati in proposito sono eloquenti: secondo il Boston Consulting Group, l’Internet economy italiana valeva 31,6 miliardi di euro nel 2010 (il 2% del Pil), ovvero, il 10% in più rispetto al 2009, contro il circa 2% dei settori più tradizionali. Impatto che sale a 56 miliardi di euro se si tengono in conto anche gli effetti indiretti del Web sull’economia, come e-procurement e acquisti nel mondo fisico di merci ricercate online. Continuando così l’Internet economy italiana arriverà a rappresentare nel 2015 tra il 3,3% e il 4,3% del Pil, ovvero tra i 59 e i 77 miliardi di euro. In altri termini, 15 centesimi di ogni euro di crescita del Pil italiano da oggi al 2015 saranno riconducibili a Internet.

È una chance imperdibile per l’Italia, un Paese senza materie prime, ma con un immenso patrimonio culturale, commerciale, artigiano, industriale per il quale il web potrebbe rappresentare un volano eccezionale. A patto, però, di identificare la Rete come priorità strategica nazionale e di agire di conseguenza. A livello infrastrutturale, per rendere l’accesso a Internet più capillare e più facile in tutto il Paese. A livello economico, per favorire l’accesso alle tecnologie digitali e alla rete stessa. E, soprattutto, a livello culturale. È quest’ultimo l’obiettivo su cui concentrare le maggiori energie. Senza cittadini istruiti – e l’Italia, come ci ricorda spesso Tullio De Mauro, è il Paese sviluppato con la percentuale più bassa di cittadini che padroneggiano la loro lingua madre, appena il 20% - non avremo mai cittadini digitali. Non è facile recuperare, ma tutt’altro che impossibile. A beneficiarne sarebbe tutto il Paese, digitale e non.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8979

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14/8/2011

Spegnere il Web? Così l'Occidente fa un assist ai raiss

JUAN CARLOS DE MARTIN

Giovedì scorso alle quattro del pomeriggio a San Francisco sta iniziando l’ora di punta per cui molte persone si dirigono verso le stazioni della Bay Area Rapid Transit (Bart) per prendere un treno per tornare a casa. In quattro stazioni, però, capita qualcosa di inaspettato: per ben tre ore, fino alle sette di sera, tutti i telefoni cellulari smettono di funzionare. Medici in reperibilità, manager, genitori ansiosi e tanti altri si riducono a fissare schermi muti e a interrogarsi sul motivo del black out. Loro non lo sanno ancora, si saprà solo il giorno dopo, ma la causa non è - come verrebbe naturale pensare - un serio problema tecnico. Piuttosto Bart, con una decisione senza precedenti, ha spento, senza preavviso, i cellulari dei propri clienti.

Che cosa ha spinto Bart - che è un ente pubblico - a fare quello che la Rete in queste ore sta chiamando «un Mubarak», ricordando lo spegnimento dei telefoni cellulari e di Internet ordinato dal deposto raiss egiziano durante l’insurrezione di pochi mesi fa? Motivi di sicurezza, ha dichiarato ieri Bart. Giovedì in quelle ore e in quelle stazioni, infatti, era prevista una manifestazione di protesta contro l’uccisione il 3 luglio scorso di un senza tetto da parte di un agente della sicurezza Bart. Manifestazione che Bart ha cercato di ostacolare - apparentemente con successo, dal momento che non si è poi tenuta - spegnendo indiscriminatamente tutti i telefoni cellulari nelle zone previste come calde.

Riflettiamo un momento: un’azienda di trasporti, con un processo decisionale esclusivamente interno, decide senza preavviso di interrompere la capacità di comunicare di privati cittadini (capacità per la quale i cittadini peraltro pagano) invocando generiche opportunità di sicurezza.

Non sorprende che, oltre all’indignazione della Rete, le principali associazioni americane per i diritti civili, come Aclu e Eff, abbiano già severamente condannato le azioni di Bart, preannunciando battaglie legali. La compressione della libertà di parola, nella sua versione di poter manifestare pacificamente, è infatti evidente.

Tuttavia colpisce che proprio nelle ore in cui Bart si preparava a sconnettere i telefoni, il primo ministro britannico David Cameron annunciava che il suo governo avrebbe preso seriamente in considerazione l’ipotesi di sospendere i servizi di Facebook, Twitter e Blackberry in caso di «credibili minacce di violenza».

Una reazione ufficiale al ruolo della tecnologia nelle recenti violenze inglesi. Dopo il «Mubarak» californiano, avremo dunque presto un «Mubarak» londinese? Dopo piazza Tahir e Embarcadero Station, Trafalgar Square?

È urgente ricordare a tutti i coloro che sono tentati dal girare l’interruttore che appena pochi mesi fa quella stessa tecnologia - cellulari, Facebook, Twitter - era stata giustamente celebrata come importante fattore abilitante della primavera nordafricana.

L’Occidente in altre parole in questo momento sta correndo il grave rischio dell’ipocrisia: ciò che a Teheran o il Cairo è censura, sarebbe invece ragionevole misura di sicurezza se fatta a San Francisco o a Londra. Paesi autoritari come Iran e Cina non aspettano altro: per poter rispedire al mittente eventuali nostre critiche future e magari anche per comprare con maggior tranquillità le nostre migliori tecnologie di sorveglianza.

In questo momento, l’Occidente deve resistere all’emotività e mostrare coi fatti di credere in ciò che predica agli altri: ovvero, pieno rispetto dei diritti dei cittadini, anche se questo comporta apparentemente maggior lavoro e maggior complessità. In modo da garantire che se il telefono diventa improvvisamente muto è solo perché ci si è dimenticati di caricarlo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9092

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5/9/2011

Internet sfida e occasione per le librerie

JUAN CARLOS DE MARTIN

A volte dico, esagerando un po’, di essere cresciuto in una libreria. Una piccola libreria indipendente di Torino i cui proprietari, marito e moglie, per anni accettarono - sempre col sorriso sulle labbra - di aver tra i piedi, a volte per interi pomeriggi, un ragazzino che sfogliava molto e comprava poco. Ragazzino che quando non era da loro era a perlustrare gli scaffali della non lontana biblioteca civica. Quanta gratitudine nei loro confronti (che spero stiano bene) e anche nei confronti della mia città, che mi garantì, in un momento cruciale della mia formazione, il diritto di accedere gratuitamente a libri e riviste. Da allora sono diventato quello che gli analisti chiamano un «lettore forte», ovvero, qualcuno che sa fin troppo bene cosa significhi comprare libri, sia in Italia sia all’estero. Allo stesso tempo però sono diventato un forte utilizzatore di qualcosa che Rocco Pinto - e la cosa un po’ mi sorprende - non menziona mai nella sua lettera, ovvero, di Internet. E da utilizzatore di Internet mi sembra impossibile parlare oggi di libri, librerie e biblioteche senza prendere in considerazione l’impatto delle tecnologie digitali inclusi gli eBook, altra parola che non compare nella lettera di Pinto.

Come amante dei libri nonché utente Internet, non ho dubbi: le librerie dovranno cambiare. Dovranno infatti prima o poi inesorabilmente fare i conti con i vantaggi garantiti dalle librerie online tra cui un catalogo vastissimo consultabile dall’utente senza intermediari, consegna puntuale quasi ovunque nel mondo, liste dei desideri, suggerimenti personalizzati e recensioni spesso utili per orientarsi. Le librerie online più evolute consentono persino di sfogliare elettronicamente i libri prima di comprarli, proprio come in libreria.

In questo nuovo scenario le librerie - più che combattere una battaglia di retroguardia - dovrebbero a mio avviso provare a sfruttare il loro vero vantaggio competitivo, ovvero, quello di essere uno spazio fisico immerso nel tessuto urbano in cui i loro clienti vivono e lavorano. Spazio che cooperando con entità online (che offrono gli innegabili vantaggi di cui sopra) potrà offrire qualcosa che l’online non potrà mai dare, ovvero, esperienze umane dirette. Con librai intelligenti, ma anche con autori, critici e, soprattutto, con altri amanti della lettura nonché, perché no?, di altre arti. Insomma, spazi di socializzazione e di confronto mirati a vendere prodotti, certo, ma anche - e forse soprattutto - esperienze. Una metamorfosi tanto più importante in vista dell’inevitabile affermarsi degli eBook.

Da questo punto di vista il vero limite, anche se certamente non il solo, della legge Levi sul prezzo del libro è che sembra una legge degli Anni 70 del secolo scorso più che uno stimolo - come pure avrebbe potuto essere - ad affrontare il nuovo con intelligenza. Internet, però, piaccia o non piaccia a legislatori, editori e librai, non sparirà: sempre più persone useranno la rete, sempre più persone apprezzeranno gli eBook e i tablet e il flusso di innovazione, anche nei modi di fare business, non si interromperà. E’ quindi facile predire che non passerà molto tempo prima che si torni a discutere di libri e di librerie. Quando capiterà, però, questo amante dei libri sommessamente supplicherà di staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore e di volgerli al parabrezza: c’è un mondo là davanti, diverso dal passato, ma probabilmente altrettanto entusiasmante, se non di più, per chi ama la parola scritta. Si tratta solo di capirlo e di costruirlo per tempo.

twitter @demartin

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9162

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15/12/2011
 
Dati pubblici per tutti, ecco la società aperta

JUAN CARLOS DE MARTIN

Lunedì scorso a Bruxelles la Commissaria europea Neelie Kroes ha lanciato un'iniziativa di quelle di cui l'Europa ha un enorme bisogno in questo momento, ovvero, a basso costo ma col potenziale di generare forti rendimenti. «Trasformare in oro i dati della pubblica amministrazione», questo il titolo dell'annuncio che, in concreto, consiste nella revisione della Direttiva europea del 2003 sui dati del settore pubblico.

Stiamo parlando dei dati prodotti, raccolti o acquisiti dalla pubblica amministrazione, dati che, se messi a disposizione di aziende e società civile, rendono possibili iniziative imprenditoriali, culturali e civili. Parliamo, per esempio, di dati cartografici, meteorologici, statistici, ambientali, turistici, marittimi, scientifici, culturali, sui trasporti. A Boston, dove mi trovo in questo momento, l'autorità dei trasporti locali (la MBTA) mette a disposizione i dati sulla posizione in tempo reale di bus, treni, metropolitana, permettendo a chiunque di usarli senza vincoli. Col risultato che sono state sviluppate ben trentacinque applicazioni per smartphone - alcune gratis, altre a pagamento - che permettono di usare i mezzi pubblici locali con intelligenza ed efficienza.

Siamo solo all'inizio di questo movimento dei «dati aperti». A Boston come a Torino man mano che nuovi dati verranno resi pubblici, sarà possibile incrociarli permettendo lo sviluppo di applicazioni ancora più efficaci nel facilitare la vita di cittadini e aziende.
Interessati, per esempio, ad andare in centro città a vedere uno spettacolo? Una applicazione potrà incrociare in tempo reale i dati - di diversa provenienza - relativi a cinema e teatri, mezzi pubblici, traffico, parcheggi e ristoranti, offrendo nel giro di pochi secondi soluzioni intelligenti per la serata. E' facile immaginare quanto un turista (e non solo) troverebbe utile un simile strumento. Altro esempio: la messa a disposizione di dati dettagliati sulla spesa pubblica permetterebbe ad associazioni e a singoli cittadini non solo di conoscere più a fondo in che modo vengono spesi i soldi delle tasse - e di identificare eventuali sprechi - ma anche di sviluppare una coscienza civica più matura.

Siamo solo all'inizio, ma l'annuncio di lunedì della Commissione Europea - annuncio che è uno dei pilastri dell'Agenda Digitale per l'Europa - alzerà certamente il livello di attenzione in tutti i Paesi membri, Italia inclusa. Anche perché il ritorno economico atteso è stimato dalla Commissione in ben 140 miliardi di euro l'anno per l'Europa a 27.

L'Italia in questo settore per una volta, però, non parte tra gli ultimi. Anzi, lunedì la Commissione europea ha citato, a fianco di Francia, Regno Unito e Catalogna, il portale «open data» della Regione Piemonte, dati.piemonte.it, il primo del suo genere in Italia e uno tra i primi in Europa. E sulla scia del Piemonte si sono attivate sia altre regioni italiane, come l'Emilia Romagna, sia il governo nazionale, che recentemente ha lanciato il portale dati.gov.it.

E' un buon inizio, ma c'è ancora molto da fare per catturare almeno parte di quei 140 miliardi: bisogna aumentare la quantità e la qualità dei dati disponibili, favorire alleanze tra pubblico e privato, e, soprattutto, superare le resistenze di molti funzionari pubblici che si comportano come se i dati fossero loro proprietà personale e non patrimonio della collettività.
Sfruttando l'iniziativa europea - che tra l'altro chiede agli Stati membri specifiche azioni - il governo Monti ha una splendida occasione per rafforzare il ruolo dell'Italia, facendola diventare davvero l'avanguardia d'Europa in questo settore. Un obiettivo che tutta la politica, senza distinzioni, dovrebbe appoggiare senza riserve.

twitter: @demartin

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9547

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