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12/8/2010

Un futuro pieno di rischi per Internet

JUAN CARLOS DE MARTIN*

A parte gli addetti ai lavori, finora poche persone - soprattutto in Italia - hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet, ovvero la sua relazione con l’innovazione. Tutti sono testimoni - quando non beneficiari diretti - dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni. Ma relativamente pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tale esuberanza.

Ragioni che non sono legate ad un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti. La costituzione della Rete è caratterizzata, per esplicita volontà dei suoi inventori, da due aspetti essenziali: semplicità e apertura. Semplicità perché Internet, a differenza delle reti di telecomunicazione che l’hanno preceduta, è una rete «stupida», ovvero l’«intelligenza» - ciò che rende possibile i vari servizi online - è ai margini della rete stessa, nei nostri computer, non dentro la rete medesima, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile. Per introdurre un nuovo servizio, quindi, non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete (come invece occorre fare nella telefonia), basta pubblicare un software.

Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per innovare su Internet: una ragazza con una buona idea, un computer e una connessione a Internet ha tutto ciò che le serve per realizzare e poi lanciare la sua idea al mondo. Basta che il suo software parli la lingua di Internet, ovvero, il cosiddetto «Internet Protocol», liberamente e gratuitamente utilizzabile da chiunque. Inoltre, apertura perché la Rete, per il principio della cosiddetta «neutralità della rete» (o di «non discriminazione»), tratta tutti i bit (che siano un documento o un file MP3) e tutte le applicazioni (che sia posta elettronica o video streaming) allo stesso modo, indipendentemente da mittente e destinatario. In linea di principio, quindi, i bit della ragazza e quelli di una multinazionale viaggeranno in rete allo stesso modo, senza discriminazioni.

Questa rete strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione di innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati.

L’innovazione, però, è uno di quei concetti a cui tutti tributano grandi omaggi a parole, salvo poi risentirsi molto se l’innovazione altrui perturba interessi consolidati da tempo. Da questo punto di vista, da oltre un decennio registriamo il fastidio - quando non il furore - con cui settori industriali consolidati, spesso a bassissimo tasso di innovazione, hanno accolto l’innovatività dal basso, non controllabile, di Internet e dei suoi utenti.

Da un paio d’anni, però, diversi segnali suggeriscono che il confronto stia passando di livello, ovvero, non più battaglie di retroguardia da parte di attori incapaci di gestire il cambiamento, ma anche tentativi di apportare modifiche strutturali alla Rete da parte di alcuni grandi attori della Rete stessa. In particolare, da anni alcuni fornitori di servizio Internet vorrebbero essere autorizzati a far pagare un sovrapprezzo ai fornitori di contenuti o servizi (per esempio, YouTube o il sito di un quotidiano), che quindi si troverebbero a pagare più volte per gli stessi bit: una volta per accedere alla Rete tramite il fornitore A (come è normale) e poi di nuovo per raggiungere i clienti del fornitore B, quelli del fornitore C, e così via.

Lunedì, però, c’è stato un fatto oggettivamente nuovo: una delle aziende che rappresentano con maggior evidenza l’innovazione legata alla rete, Google (fondata nel 1998), ha emesso un comunicato congiunto con una delle aziende eredi dello storico monopolio telefonico americano, Verizon (fino al 2000 nota come Bell Atlantic). Comunicato reso ancora più visibile da un editoriale apparso martedì 10 agosto sul «Washington Post» a firma congiunta Eric Schmidt e Ivan Seidenberg, gli amministratori delegati delle due aziende.

In sostanza, con un documento molto conciso Google e Verizon chiedono al legislatore e al pubblico di includere in qualsiasi iniziativa normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, due punti in particolare stanno invece sollevando pesanti interrogativi e critiche. Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di «unicità» dell’accesso senza fili, nonché con la «dinamicità» di tali servizi. Se si considera che è proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, dall’accesso in mobilità da parte degli utenti alla cosiddetta «Internet delle cose», ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet.

Il secondo punto, almeno altrettanto problematico, riguarda la possibilità di offrire «servizi online aggiuntivi». In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento – servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione. Gli interrogativi che solleva un tale scenario, se confermato, sono molti, ma ci si concentri sui potenziali effetti sull’innovazione. Se oggi la barriera all’ingresso per innovare in rete è, come abbiamo descritto, bassissima, l’innovatore del futuro potrebbe invece dover affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete «premium». Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet, quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.

Google e Verizon avranno modo nelle prossime settimane di chiarire, se lo vorranno, l’effettivo significato delle parti più controverse del loro documento. Più in generale, però, è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle lungimiranti decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare con forza l’apertura di Internet anche per le prossime generazioni di innovatori.

* Docente al Politecnico di Torino

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7701&ID_sezione=&sezione=

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31/8/2010

Le sfide per la neutralità di Internet
   
JUAN CARLOS DE MARTIN*

Il 9 agosto scorso Google (ricerca, pubblicità e altri servizi online, 22 mila dipendenti, 24 miliardi di dollari di fatturato) e Verizon (telefonia fissa e mobile negli Usa, 310 mila dipendenti, 157 miliardi di dollari di fatturato) hanno pubblicato una proposta congiunta relativa alla regolamentazione di Internet. Ora che sono passate tre settimane è possibile fare un primo bilancio delle reazioni. Innanzitutto, notiamo che raramente così poche parole, neanche due pagine, ne hanno causate così tante altre in così poco tempo: una ricerca con le parole chiave «google verizon proposal», infatti, restituisce più di tre milioni di risultati su Google e oltre un milione su Bing (il motore di ricerca di Microsoft). E se il web ha ruggito, la carta stampata non è stata da meno, con tutte le principali testate nazionali (questa inclusa) e internazionali impegnate a riferire gli estremi del dibattito - talvolta schierandosi, in genere su posizioni scettiche o critiche, come il New York Times. Perché una reazione così veemente a una proposta apparentemente così tecnica? I motivi principali sono due. Il primo motivo è che la proposta tocca, oltre al resto, un principio fondativo della rete, ovvero la sua cosiddetta «neutralità», proponendo di attenuarla in due contesti assai importanti (sia pure, come ha poi precisato Google, come mero compromesso temporaneo). Il secondo motivo è che, fino alla proposta con Verizon, Google era stata una sostenitrice «senza se e senza ma» della neutralità della rete, posizione rafforzata anche dall’avere come vice presidente dell'azienda uno dei padri storici di Internet, Vint Cerf. I cambi di direzione di una multinazionale, soprattutto se relativi ad argomenti scottanti, fanno ovviamente notizia, e quindi le reazioni alla proposta dei due colossi sono più che comprensibili.

Ma cosa è la «neutralità della rete» e perché è un argomento scottante? Una delle regole fondamentali di Internet è che gli utenti pagano esplicitamente solo per accedere alla rete, ovvero, per diventare - con il loro computer, smart phone o tavoletta - un nodo della rete stessa. L'accesso naturalmente costerà di più o di meno a seconda della dimensione del «tubo» dati e di altri aspetti del servizio. Ma una volta diventati nodi della rete, tutti gli utenti, che siano blogger o governi, possono raggiungere, sia in trasmissione sia in ricezione, qualsiasi altro nodo, senza più incontrare, ai guadi e ai valichi, gabellieri di sorta. L'importanza - e anche la naturalezza - di questo principio può essere illustrata da un'analogia automobilistica. Sarebbe concepibile che un operatore autostradale - oltre a far pagare a tutti, come è normale, l'accesso alla sua infrastruttura - stringesse anche accordi con marche automobilistiche, per esempio Renault e Toyota, e riservasse alle vetture di tali marche una o più corsie preferenziali, costringendo tutte le altre automobili ad affollarsi nelle corsie rimanenti? Oppure, sarebbe concepibile che ai caselli si ispezionassero i bagagliai, facendo accedere alla corsia preferenziale solo chi trasportasse, per esempio, libri Adelphi o banane Chiquita? Gli esempi fanno probabilmente sorridere tanto sono improbabili. Eppure, nonostante le naturali differenze del caso, è di qualcosa di simile che si sta parlando quando si discute di «neutralità della rete» e dei relativi punti della proposta Google-Verizon.

Ecco perché non condivido il collegamento che lo scorso 18 agosto su questo giornale Luca Ricolfi ha stabilito tra la proposta americana e problemi, per usare le sue parole, di eccesso di libertà positiva (la «libertà di») e di carenza di libertà negativa (la «libertà da»). Non condivido il collegamento perché la proposta Google-Verizon tocca in realtà altri aspetti (le Renault e le Toyota), ma non condivido neanche ampi tratti della sua analisi delle libertà in rete (tralasciamo la critica a Internet come «mondo aperto, magico e buono», dato che da più di un decennio è arduo trovare qualcuno con idee simili). I problemi, infatti, che lamenta Luca Ricolfi - le informazioni inaccurate, i contatti indesiderati, le interruzioni, eccetera - sono, da una parte, problemi naturali, per quanto a volte fastidiosi, in società che hanno scelto di essere aperte come le nostre, e dall’altra parte hanno già numerose soluzioni, a vari livelli. Soluzioni tecnologiche: filtri anti-spam, opzioni di privacy, sistemi di rating, filtri di classificazione automatica della posta elettronica e altro ancora. Soluzioni lato utente: in proposito cito solo, oltre all'ampia letteratura su come usare con efficacia e moderazione la posta elettronica, la possibilità, alla portata di chiunque, di imparare a valutare l'attendibilità di un sito Web proprio come nei secoli scorsi abbiamo imparato a valutare l'attendibilità di libri, case editrici, giornali, riviste e volantini. Soluzioni sociali: si stanno rafforzando e meglio articolando - basta dare tempo al tempo - norme di comportamento relative alle varie attività online, come già successo in passato per ogni invenzione largamente diffusa.

Tecnologia, maggior discernimento e norme sociali più evolute renderanno forse l'esperienza Internet perfettamente «libera da»? Certamente no. E andrà benissimo così. Perché è di gran lunga preferibile muoversi tra il rumore e la polvere di una piazza Internet forse caotica, ma libera e vitale, decidendo ciascuno di noi individualmente a quale angolo fermarci e a chi dare ascolto (e credito), piuttosto che essere ridotti a scegliere da un menu patinato di contenuti (o di contatti) preconfezionato o, comunque, filtrato. E poco importa che il confezionatore sia lo Stato (la Cina ci prova da anni e non è purtroppo la sola) o entità private come Google, Verizon, Apple o Microsoft. Dopo l'invenzione di Gutenberg ci è voluto qualche secolo, ma alla fine abbiamo capito qual è la risposta giusta a simili proposte: grazie, ma no grazie.

demartin@polito.it
*docente del Politecnico di Torino

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7765&ID_sezione=&sezione=

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6/9/2010

La nostra esistenza riflessa negli schermi

JUAN CARLOS DEMARTIN

Una volta le tecnologie della comunicazione stavano al loro posto, sia come luogo fisico, sia come regole d’uso. Il telefono stava nell’ingresso, o comunque in una posizione centrale della casa, facilmente raggiungibile, e controllabile, da tutti. Il televisore era posizionato in salotto, davanti al divano, vicino a dove prima aveva troneggiato, nei decenni precedenti, la radio.
E le regole d’uso erano più o meno sviluppate, ma comunque piuttosto chiare. Ricordo ancora, per esempio, lo stupore - misto a un po’ di apprensione - che coglieva la mia famiglia se qualcuno per caso telefonava all’ora dei pasti: «Ma chi è il maleducato che telefona a quest’ora?», si mormorava. Mentre il televisore, col suo palinsesto, imponeva regole di fruizione rigide e, per un lungo periodo, senza alternative; per non parlare, a livello familiare, di regole come «a letto dopo Carosello» per i bambini.

Insomma: gli strumenti erano pochi, molto semplici da usare e con un rapporto con la nostra vita definito da decenni - se non generazioni - di abitudine all’uso.

Poi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, c’è stato un «big bang» - silenzioso, ma dagli effetti ben visibili - che ci ha fatto entrare nell’Età degli Schermi. Da qualche anno siamo circondati da schermi in ogni camera della casa, schermi per strada, schermi sui mezzi pubblici, schermi nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, schermi in automobile, schermi negli uffici pubblici, schermi sulle scrivanie e, soprattutto, schermi nelle tasche e nelle borse. Alcuni di questi schermi ci sono imposti - spesso non sono altro che veicoli per pubblicità o informazioni di servizio - ma altri sono oggetti del desiderio che vogliamo avere vicini, che vogliamo poter guardare in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Su tutti, il telefono, che ormai significa sempre meno, soprattutto per i giovani, «sentire e farsi sentire a distanza con la voce» e sempre più «schermo connesso», ovvero porta visiva verso il mondo lavorativo, affettivo e ricreativo. Rettangolo luminoso che, rispondendo al tocco di un dito, può mostrarci all’istante quasi qualsiasi immagine, fissa o in movimento, desideriamo vedere, per lavoro o per capriccio: un disegno di Leonardo, un messaggio del capo, le foto dei figli, la scena finale di «Casablanca», un sms della fidanzata, le poesie di John Keats, il backstage di un concerto.

Nei confronti di questa invasione di schermi siamo ancora palesemente nella fase dello stupore. La proliferazione, infatti, ha avuto luogo così in fretta da non darci il tempo né di capire le conseguenze di ciò che sta capitando, né di sviluppare una reazione sotto forma di regole d’uso mature e socialmente condivise. Cosa significa per ciascuno di noi e per la società nel suo complesso vivere nell’Età degli Schermi (invece che dello Schermo Unico, ovvero della televisione)? In che modo è opportuno comportarsi nei confronti dei propri schermi - telefono, tavoletta o notebook - sia da soli, sia soprattutto in presenza di altri?

Riguardo al secondo aspetto, quello delle regole di comportamento, prendiamo il caso della scuola. Come è opportuno trattare gli schermi in classe? In particolare - a parte eventuali schermi istituzionali, come le celebri «lavagne interattive multimediali» o i computer in dotazione alla scuola - come trattare gli schermi personali degli studenti e dei docenti, notebook, telefoni evoluti o tavolette che siano: proibirli? Tollerarli? O, addirittura, incoraggiarli? La domanda ricorre ormai da anni a ogni riapertura di anno accademico e scolastico.

L’avvento della prima tavoletta di successo, l’iPad della Apple, ci sta aiutando a rispondere con più consapevolezza alla domanda. Il problema, infatti, non è tanto lo schermo in sé, ma il fatto che lo schermo sia spesso privato, cioè visibile solo agli occhi dell’utilizzatore e non anche a chi sta condividendo con tale persona uno spazio e uno scopo, come quello di fare insieme lezione. La tavoletta, invece, per l’inclinazione con cui la si usa è molto più facilmente condivisibile di un computer fisso o portatile.

Permette al docente di vedere, anche solo con la coda dell’occhio, se lo studente sta facendo o no qualcosa di connesso (o comunque di, in qualche modo, compatibile) con la lezione, per esempio, una consultazione di Wikipedia. Un risultato analogo si potrebbe ottenere anche con i normali computer tramite un software che, all’interno dell’aula, preveda la condivisione degli schermi con i compagni e col docente, realizzando così un ragionevole compromesso tra la libertà (e il piacere) di muoversi secondo traiettorie di apprendimento almeno in parte individuali e lo scopo comune di passare alcune ore insieme a imparare qualcosa in maniera strutturata.

Questo è solo un esempio di come sia possibile iniziare a dare un ordine, né proibizionista né supino, alla tecnologia, agli schermi della nostra vita. Sforzi analoghi sono necessari anche negli altri contesti, visto che gli schermi saranno inevitabilmente sempre più numerosi e sempre più potenti (si pensi solo all’imminente diffusione di massa della tecnologia 3D). Con la riflessione, individuale e collettiva, riusciremo a mettere al loro posto anche queste colorate tecnologie della comunicazione, per arricchirci, a tutti i livelli, senza farci troppo sedurre o sviare.

demartin@polito.it
*docente al Politecnico di Torino

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7789&ID_sezione=&sezione=

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1/11/2010

Il vero potere è calcolare velocemente

JUAN CARLOS DE MARTIN

Giovedì scorso a Tianjin, una metropoli di 12 milioni di abitanti nel Nord-Est della Cina con non trascurabili tracce della ottocentesca presenza italiana, Tianhe-1A è diventato il più veloce calcolatore del mondo. Tianhe-1A, infatti, grazie a oltre ventimila microprocessori connessi in maniera innovativa, ha iniziato a effettuare più di due milioni di miliardi di operazioni al secondo, circa il 40% in più del precedente campione, un calcolatore americano ospitato in un laboratorio del governo Usa in Tennessee.

Non è la prima volta che la supremazia americana nel supercalcolo viene sfidata. Era già successo nel 2002 quando i giapponesi avevano inaspettatamente prodotto un supercalcolatore nettamente più veloce del campione americano dell’epoca.
Il successo giapponese non era però durato a lungo: già nel 2004 cospicui finanziamenti governativi avevano riportato gli Usa in prima posizione.

Ora la nuova sfida, questa volta da parte della cinese Università Nazionale di Tecnologia per la Difesa. È probabile che anche questa volta gli Usa, che ospitano più della metà dei 500 più veloci supercalcolatori al mondo contro gli appena 24 della Cina, recuperino rapidamente il titolo. Sia per motivi scientifici - le sfide sono spesso utili per portare avanti ricerche che altrimenti verrebbero condotte più lentamente, nonché per attrarre le migliori menti - sia per motivi simbolici: nell’età della conoscenza, infatti, possedere il più veloce elaboratore del mondo ha un valore difficile da quantificare, ma comunque non trascurabile.

Ci sono però anche motivi molto pratici per avere a disposizione le migliori capacità di supercalcolo possibili. I supercalcolatori sono, infatti, strumenti di notevole utilità in numerosi settori nei quali è essenziale elaborare grandi quantità di dati, come gli studi sul riscaldamento globale, le previsioni meteorologiche, la ricerca di idrocarburi, analisi finanziarie in tempo reale, ricerche molecolari, simulazioni militari e altro ancora. Chi dispone dei calcolatori più veloci arriva prima al risultato, acquisendo così un vantaggio competitivo rispetto agli altri.

Tuttavia, dovremmo prestare attenzione non solo a fuoriserie come Tianhe-1A, ma anche alle incarnazioni più prosaiche ma non meno importanti del supercalcolo, ovvero le «fattorie web» («web farms», in inglese). Dietro, infatti, alle risposte fulminee di motori di ricerca come Google o Bing, agli scorrevoli carrelli di negozi online come Amazon o Yoox, e dietro a molti altri servizi online, ci sono gigantesche «fattorie» di migliaia e migliaia di computer e di dischi fissi a basso costo abilmente connessi fra loro. Sono «fattorie» che possono arrivare a estendersi su spazi equivalenti a venti campi di calcio, che consumano energia come cittadine di medie dimensioni, e con costi di realizzazione che possono arrivare al miliardo di dollari.

È in queste «fattorie» che si stanno concentrando, per motivi economici, non solo i servizi di numerose aziende, ma anche i documenti di molti di noi, attratti dalla comodità di avere, spesso gratuitamente, accesso ai nostri dati da ovunque ci troviamo, senza doverci preoccupare di fare copie di sicurezza o di effettuare altre attività di manutenzione.

Dopo oltre tre decenni di decentralizzazione molto spinta di potenza di calcolo, dati e software in centinaia di milioni di computer sparsi nelle case e negli uffici di tutto il mondo e sotto il diretto controllo di tutti noi, è dunque in atto un poderoso processo di centralizzazione. Nelle mani degli utenti continueranno a esserci terminali sempre più potenti e intuitivi, ma anche sempre più dipendenti dalla loro connessione con alcune, poche grandi «nuvole» (il termine spesso usato in questo contesto è infatti «cloud computing») situate per lo più in altri Paesi, se non in altri continenti, e quindi soggette a norme diverse dalle nostre.

Non è, quindi, infondato aspettarsi che nei prossimi anni sentiremo parlare più spesso di «fattorie web» e di «cloud computing» più che dei pur importanti Tianhe-1A e fratelli. La concentrazione di potenza di calcolo e di immagazzinamento dati, infatti, sarà presto, se non lo è già adesso, uno dei principali fattori della geopolitica del XXI secolo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8026&ID_sezione=&sezione=

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10/2/2011

Agenda digitale l'Italia è in ritardo


JUAN CARLOS DE MARTIN

Incalzata dalla competizione globale e con una popolazione sempre più anziana, come potrà l’Europa garantirsi un futuro all’altezza del suo passato recente? In altre parole, come fare a garantire un tenore di vita adeguato, uno sviluppo rispettoso dell’ambiente, società coese e inclusive, elevati livelli di occupazione? Per la commissaria europea Neelie Kroes non ci sono dubbi: il futuro dell’Europa passa per un governo delle trasformazioni digitali che stanno cambiando il mondo intorno a noi, un piano per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dalla rete. È lì il motore non solo della nostra produttività futura, ma anche di una società più dinamica, più colta, più rispettosa dei diritti fondamentali. È per questo che nel maggio 2010 la Commissione Europea ha pubblicato «Un’Agenda Digitale per l’Europa», un documento strategico che articola intorno a otto temi principali un piano di azione, con obiettivi e scadenze, sia per la Commissione sia per i Paesi membri dell’Unione. A giugno si terrà già la prima assemblea plenaria, durante la quale verranno valutati i passi in avanti dei singoli Paesi rispetto a una serie di indicatori.

L’Italia in tutto questo come si colloca? Le motivazioni addotte dall’Europa per un’ambiziosa Agenda Digitale sono ancora più valide per l’Italia. Anziano, senza importanti risorse naturali, infatti, e con un gravissimo gap di produttività, il nostro Paese ha un disperato bisogno di cogliere le opportunità offerte dal digitale - a tutti i livelli: nelle imprese (in media piccolissime), nella pubblica amministrazione, per i lavoratori e i cittadini. Eppure la sensazione diffusa di chi si occupa di digitale è che l’Italia stia clamorosamente mancando anche questo appuntamento. Gli altri Paesi pianificano, si pongono obiettivi, realizzano piani ambiziosi, mentre da noi la rete è perlopiù oggetto di polemiche estemporanee, non il focus di un’attenzione strategica, seria, sostenuta nel tempo. Un’attenzione che dovrebbe essere una priorità nazionale, indipendentemente dalla parte politica e dall’emergenza - vera o presunta - del momento.

È per questo che 100 persone di estrazione molto varia (tra cui chi scrive) - imprenditori, giornalisti, professori, esperti, ecc. - hanno creato un sito, www.agendadigitale.org, per lanciare un appello alla politica e alla pubblica opinione italiana, chiedendo qualcosa di semplicissimo, ovvero che entro cento giorni venga definita un’Agenda Digitale per l’Italia. Nel giro di pochi giorni, tra sito e Facebook, quasi ventimila persone hanno aderito all’appello: un risultato straordinario in assoluto, ma a maggior ragione per un’iniziativa su base volontaria, senza altre risorse che l’entusiasmo di alcuni appassionati. Ieri a Roma la prima presentazione pubblica: alcuni sottoscrittori hanno spiegato i motivi che li hanno spinti a pubblicare l’appello, hanno ricordato il contesto europeo e hanno descritto alcuni esempi di cosa si potrebbe fare nell’immediato per riagganciare l’Italia al futuro. La politica ha immediatamente risposto. Gli onorevoli Gentiloni, Lanzillotta, Berbareschi e Rao, presenti all’incontro, infatti, hanno non solo raccolto l’invito, ma anche iniziato a prospettare provvedimenti concreti potenzialmente attuabili già nelle prossime settimane. Negli stessi minuti da Bruxelles la commissaria Neelie Kroes via Twitter incoraggiava a proseguire. Mancano ancora novanta giorni, e c’è ancora molto lavoro progettuale da fare. E, dopo di quello, moltissimo lavoro per realizzare quanto deciso. Ma forse possiamo cominciare a sperare che il futuro digitale stia iniziando - finalmente - a delinearsi. È solo un inizio, ma è comunque una buona notizia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali

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