JUAN CARLOS DE MARTIN. -
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Editoriali
27/07/2013
Crowdfunding, le “collette” per il rilancio
Juan Carlos De Martin
Da oggi arriva in Italia il regolamento Consob sul finanziamento delle start-up col «crowdfunding». È il primo regolamento del genere in Europa.
I cittadini potranno finanziare le nuove imprese innovative che abbiamo determinati requisiti. «Crowdfunding» e «crowdsourcing» sono due tra le parole più di moda del momento. Indicano, rispettivamente, finanziamenti (funding) o contributi di altra natura (outsourcing) provenienti da semplici individui (crowd, ovvero, la folla).
Ma se entrambe le parole hanno solo pochi anni di vita (sono state coniate nel 2006), i due concetti sono antichi di secoli. I più disincantati infatti potrebbero dire che invece di «crowdfunding» si potrebbe semplicemente dire colletta e citare le raccolte di fondi che hanno permesso di realizzare, per esempio, sia molti monumenti (da quelli dedicati a eroi del Risorgimento alla Statua della Libertà) sia numerosi libri (come l’edizione dei lavori di Martin Lutero pubblicata da Johann Heinrich Zedler nel ’700). E potrebbero ridimensionare anche la novità del «crowdsourcing» ricordando, per esempio, i 6 milioni di contributi inviati da persone di tutto il mondo per arricchire l’Oxford English Dictionary a partire dalla metà dell’800.
Tutto vero. Eppure rispetto al passato qualcosa di nuovo c’è davvero e quel qualcosa è, come spesso capita in questi anni, una conseguenza della rivoluzione digitale. Grazie a Internet, infatti, raccogliere sia fondi sia contributi di altra natura (purché rappresentabili sotto forma di bit) è diventato immensamente più facile rispetti ai tempi di Johann Zedler o dell’Oxford English Dictionary.
E’, infatti, diventato più facile comunicare, raccogliere i contributi e restare in contatto con i contributori. E’ diventato più facile comunicare che cosa si chiede e perché lo si chiede: basta un sito web, magari arricchito da video accattivanti. E’ diventato più facile ricevere i contributi: per i soldi basta saper accettare carte di credito o bonifici, mentre per i contributi basta la posta elettronica, un «wiki» o una cartella condivisa.
E’ diventato più facile rimanere in contatto con la comunità dei contributori: basta un sito web o anche solo Facebook.
Processi vecchi di secoli vengono dunque fortemente democratizzati, permettendo a chiunque in grado di usare con un minimo di abilità la Rete di chiedere a una platea potenzialmente mondiale aiuto per la realizzazione di un proprio progetto. Per fare cosa? I campi di applicazioni del crowdfunding sono moltissimi.
Nel 2008 Obama nel corso della sua prima campagna elettorale sfrutta con sapienza il Web per raccogliere milioni di piccoli contributi; un chiaro segnale, fortemente politico, di affrancamento dai poteri forti e dai loro assegni. L’anno dopo viene fondata Kickstarter.com, che diventa in breve tempo la più famosa piattaforma di «crowdfunding». Grazie a Kickstarter vengono incisi album, girati film, scritti libri, realizzati prototipi innovativi e molto altro ancora. Parliamo di oltre centomila progetti, di cui quasi la metà realizzati, per contributi che ammontano complessivamente a 717 milioni di dollari (quasi 540 milioni di euro).
L’evoluzione continua e oggi le piattaforme di crowdfunding si stima che siano quasi cinquecento, tra cui alcune italiane, per un giro di contributi di circa tre miliardi di euro nel 2012, e di circa il doppio, secondo alcune stime, per il 2013. Si è, quindi, stabilmente affermato un nuovo, importante canale per il finanziamento di iniziative di vario tipo, che si affianca ai canali tradizionali, come il finanziamento pubblico e gli sponsor. E’, però, bene aver presente che il crowdfunding richiede non solo una generica competenza nell’uso degli strumenti digitali, ma anche e soprattutto la capacità di catturare l’attenzione dei navigatori e di convincerli a contribuire.
Obiettivo non facile in generale, ma che col crescere del numero dei progetti, e quindi della competizione, diventerà per forza di cose sempre più difficile da raggiungere. Tanto più se l’economia non riprenderà a girare, rimettendo qualche soldo in tasca a tutti noi, folla di potenziali finanziatori di poeti e ricercatori.
da - http://www.lastampa.it/2013/07/27/cultura/opinioni/editoriali/crowdfunding-le-collette-per-il-rilancio-Bxn2UuqOFQ51bzGrL4Ub6H/pagina.html
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Editoriali
03/11/2013 - L’analisi
La soluzione vera si chiama democrazia
Juan Carlos De Martin
Vecchio contro nuovo, generazione dei «padri» contro quella dei «figli»: una formula che funziona alla meraviglia nei media come in politica. E’ quello che devono aver pensato quelli del «Financial Times» quando hanno deciso di enfatizzare le differenze tra Bill Gates e Mark Zuckerberg in materia di priorità sociali.
Da una parte il principale esponente della prima generazione di imprenditori digitali, quella del personal computer, il fondatore di Microsoft, 58 anni, secondo uomo più ricco del pianeta. Dall’altra forse il più visibile rappresentante della generazione Web, il fondatore di Facebook, 29 anni, quasi 17 miliardi di dollari di patrimonio personale.
Un confronto «padre-figlio» tra miliardari famosi in tutto il mondo: come resistere? Al di là degli aspetti mediatici, però, il tema dello scontro Gates-Zuckerberg è importante. Si tratta, infatti, di decidere come spendere quei miliardi di dollari che i magnati digitali decidono - seguendo una meritoria tradizione anglosassone - di restituire ogni anno alla società. Dedicarli al digitale portando online i cinque miliardi di esseri umani che ancora non lo sono, come vorrebbe fare, per altro in buona compagnia, Zuckerberg? D dedicarli a combattere piaghe devastanti come la malaria, come invece si è impegnato a fare, oltre al resto, Bill Gates con la sua potente fondazione?
Sono due modi, radicalmente diversi, di intendere le priorità sociali del nostro tempo: tecnocentrico il primo, più umanista il secondo. Tutti, Gates incluso, concordano che dare Internet a ogni essere umano sia un obiettivo molto importante (a proposito: Mark, per favore ti occupi anche dell’Italia? Da noi quasi una persona su due è ancora offline. Grazie!). Ma ha ragione Gates quando dice che la priorità dovrebbe essere data ai «bisogni umani», ai «bambini che non devono morire», alle persone che hanno bisogno di istruzione.
Bisogna insomma avere l’umiltà di mettersi al posto delle persone che si vogliono aiutare e capire che il loro bisogno di acqua potabile, cibo, cure mediche, protezione dalle discriminazioni per motivi sessuali, religiosi o politici vengono in generale molto prima del loro bisogno di smartphone e banda larga. O, in ambito educativo, che viene prima il bisogno di un’aula pulita, un insegnante preparato e di avere 20 alunni invece di 60, e poi - solo poi - il bisogno di tablet e «app».
Tuttavia, nonostante queste differenze, Gates e Zuckerberg (e molti altri come loro) sono in realtà molto simili. Sono, infatti, dei tecnocrati. Per loro conta solo l’organizzazione, l’evidenza scientifica, la logistica. E così non si accorgono del carattere profondamente politico delle loro scelte. È più importante combattere la malaria o la fame nel mondo? È socialmente più utile dare telefoni cellulari alle donne a rischio violenza o carrozzelle ai paralizzati? L’algoritmo per rispondere a queste domande, cari amici digitali, semplicemente non esiste. O meglio, esiste, ma non è quello a cui pensano Gates, Zuckerberg, Page e Bryn. Si chiama democrazia. Imparate a sostenerla e ad apprezzarne la sua saggezza.
Da - http://lastampa.it/2013/11/03/cultura/opinioni/editoriali/la-soluzione-vera-si-chiama-democrazia-7zYXFwJhHWHInoR3LYCO8J/pagina.html
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17/02/2014
Le condizioni per l’Internet europeo
Juan Carlos De Martin
Fa un po’ sorridere l’idea che un capo di governo europeo - come la Cancelliera Merkel ieri - scopra all’improvviso che molto traffico Internet europeo passi fisicamente per gli Usa.
O che i giganti del Web basati oltre-Oceano non siano pienamente soggetti alle regole sulla privacy dell’Unione Europea. E’ possibile, infatti, che i suoi analisti non l’abbiano mai informata che per motivi economici da molti anni, forse da sempre, spesso è più conveniente passare dagli Usa anche se si vuole mandare una email da, per esempio, Torino a Berlino? E’ possibile che il suo ministro che si occupa di privacy non l’abbia mai informata che dal lontano 2000 esiste un accordo Europa-Usa (approvato anche dalla Germania) chiamato «Safe Harbor» («porto sicuro») che di fatto consente alle aziende web Usa di operare in Europa senza il pieno rispetto delle rigorose norme europee sulla privacy?
Ovviamente un politico attento come la Cancelliera Merkel non può non conoscere questi dati di fatto fondamentali relativi a Internet e ai dati personali dei cittadini europei. Tuttavia, da politica navigata qual è, sa bene che in questi casi è politicamente conveniente fingersi ignari del passato in modo da poter chiudere un occhio sulle responsabilità - sue, dei suoi predecessori e dei suoi colleghi europei - e guardare avanti.
Ma veniamo al merito delle intenzioni che Angela Merkel ha espresso alla vigilia del suo incontro col presidente francese.
La prima intenzione è quella di far sì che il traffico Internet che collega mittenti e destinatari europei non esca, lungo la strada, dall’Europa, e in particolare non passi dagli Stati Uniti. Così come una raccomandata da Voghera a Lione di norma non passa per Dallas, così come una telefonata da Amsterdam a Barcellona di norma non passa per Mosca, allo stesso modo si vuole che la posta elettronica e gli altri flussi dati tra europei non passino per New York o Pechino. Ora non è così.
Come già accennato, infatti, per motivi che sono quasi sempre banalmente economici - ovvero, di minimizzazione dei costi - il traffico Internet tra due destinazioni europee passa non infrequentemente per l’estero, e in particolare passa per gli Stati Uniti che, anche per aver inventato e sviluppato Internet, hanno una infrastruttura di trasmissione dati molto competitiva. Tenere il più possibile in Europa i flussi dati intra-europei è un obiettivo ampiamente condivisibile. Paesi come Usa, Cina e Russia sono probabilmente da sempre attenti alle traiettorie fisiche dei propri dati web, ed è un bene che anche l’Europa si ponga finalmente il problema. L’effettiva implementazione, però, non sarà semplice. Da una parte, infatti, bisognerà mettere da parte il dogma che la mano invisibile del mercato sia la risposta, sempre e comunque, a qualsiasi problema. Dall’altra, bisognerà accuratamente evitare di «balcanizzare» la Rete, ovvero, di spezzare l’attuale Rete globale in sotto-reti nazionali o macro-regionali. A mio avviso è possibile farlo adottando un appropriato mix di «moral suasion», incentivi e regole, ma, ripeto, non sarà semplice: occorrerà molta accortezza, anche tecnica, e un acuto senso per le possibili conseguenze inattese di scelte in apparenza innocue.
Il secondo obiettivo della Cancelliera Merkel riguarda i dati personali.
Tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che in Europa esiste un’asimmetria tra le aziende Usa e quelle europee. Le prime, infatti, possono usufruire del «Safe Harbor», l’accordo Usa-Europa sopra ricordato, che di fatto consente loro di operare con regole sulla privacy meno stringenti di quelle che invece valgono per i loro concorrenti europei. Questa asimmetria - che struttura il mercato dei dati personali a favore degli Usa - deriva, però, da una precisa politica europea, Germania inclusa.
Si è trattato all’epoca - con ogni probabilità - del risultato di qualche compromesso tra i molti dossier che giacciono sempre sul tavolo Usa-Europa. Ora Merkel sta forse segnalando l’inizio della messa in discussione del «Safe Harbor» sulla privacy. Se questo annuncio avrà seguito dipenderà dal sostegno che la Cancelliera riceverà dagli altri Paesi europei, sostegno che a sua volta dipenderà in larga misura dal prezzo che inevitabilmente ci sarà da pagare in qualche altro settore degli scambi Usa-Europa. Nei prossimi mesi vedremo se i nostri governi, italiano incluso, saranno disposti a sacrificare qualcosa in nome di una più stringente tutela dei dati dei cittadini europei.
Twitter: @demartin
Da - http://www.lastampa.it/2014/02/17/cultura/opinioni/editoriali/le-condizioni-per-linternet-europeo-bwwi0SY2cAs3k5i0jSsCCO/pagina.html
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