JUAN CARLOS DE MARTIN. -

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Editoriali
02/01/2013

Il digitale non può aspettare

Juan Carlos De Martin

In questa convulsa campagna elettorale si parla molto di liste, schieramenti e candidati, ma troppo poco di contenuti. Come se l’attenzione per nomi e simboli potesse sostituire quel confronto serrato sui problemi senza il quale non si capisce come gli elettori possano votare in maniera informata. E relativamente a poco servono i programmi elettorali, documenti spesso generici e comunque quasi mai oggetto di un vero dibattito pubblico. 

 

Tra le molte, pressanti questioni che deve affrontare l’Italia c’è anche quella del digitale. Uso apposta il termine «digitale» invece che Ict (Information and Communication Technologies) perché intendo qualcosa di decisamente più ampio delle tecnologie in quanto tali. Mi riferisco alla profonda trasformazione di società, cultura ed economia provocata dal digitale; trasformazione che è già uno dei fenomeni distintivi del presente, ma che caratterizzerà ancora di più i prossimi anni. Una rivoluzione che, pensando alla prossima legislatura toccherà trasversalmente tutti i Ministeri e tutte le commissioni legislative. Le forze politiche che tra meno di due mesi chiederanno il voto agli italiani cosa pensano di fare affinché l’Italia sia pronta a usare il digitale - la tecnologia chiave del XXI secolo - a proprio vantaggio? I loro esperti nei vari settori, - dall’istruzione ai trasporti, dalla difesa ai media - che idee hanno sul digitale? Non basta avere qualcuno che si occupi di «innovazione» o di Ict: il tema è ben più vasto e trasversale, e richiede consapevolezza e competenze nuove. Non a caso grandi Paesi come gli Usa e la Cina si sono dati, e non da ieri, vere e proprie strategie digitali a 360 gradi. Le ricadute, infatti, riguardano tutti i settori. Ricadute che è importante che le forze politiche siano in grado di analizzare con risorse interne sia per evitare di essere troppo influenzabili da interessi particolari, sia per articolare la loro propria visione politica in merito al digitale. Perché se è vero che certi obiettivi, come il superamento del divario digitale, sono sostanzialmente condivisi da tutti, altri sono suscettibili di venir declinati diversamente a seconda delle diverse visioni politiche. Si pensi in particolare alla scelta, squisitamente politica, di come bilanciare tra loro diversi obiettivi di fondo, come per esempio sicurezza e riservatezza. Oppure se e come dare peso al diritto stesso di accedere a Internet. Stefano Rodotà ha proposto di inserire un nuovo comma nell’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». 

 

Cosa ne pensano le forze politiche della proposta Rodotà? Ce n’è qualcuna pronta a sostenerla concretamente nella prossima legislatura? O, ancora, quali forze politiche sono disposte a prendere sul serio Internet nel ripensare i propri processi decisionali e i propri rapporti con iscritti, simpatizzanti e pubblica opinione? Non si tratta solo di andare su Facebook o di usare Twitter: il potenziale è molto più grande, c’è in gioco la possibilità di realizzare per la prima volta sul serio forme avanzate di democrazia partecipativa. E’ importante che su questi e altri temi le forze politiche si esprimano adesso: nel redigere i programmi, nel selezionare i candidati e poi quando formeranno il prossimo governo.

 

Nel digitale, infatti, l’Italia parte già in forte svantaggio, regolarmente collocata verso il fondo di tutte le classifiche europee e Ocse. Con gli altri Paesi che continuano a investire risorse - intellettuali oltre che economiche - sul digitale, non possiamo permetterci di non sfruttare al massimo l’occasione rappresentata dalla prossima legislatura.

da - http://lastampa.it/2013/01/02/cultura/opinioni/editoriali/il-digitale-non-puo-aspettare-ATNgncClJSfz1ekAHoJe1J/pagina.html

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Editoriali
05/05/2013

La nuova sfida: educare chi va sul web

Juan Carlos De Martin

Prima archivieremo la contrapposizione fumettistica tra perfidi cavalieri neri che vogliono azzittire la Rete e candidi cavalieri jedi che ne difendono l’immacolata libertà e prima ci faremo tutti un grande favore. La questione, infatti, è quella della libertà di espressione, uno dei cardini della modernità e della democrazia - questione troppo importante per permetterci semplificazioni.

In Italia il dibattito su libertà di espressione e Web è in corso da anni, ma ora è stato rilanciato dai Presidenti Grasso e Boldrini, rispettivamente seconda e terza carica dello Stato. Accogliendo il loro autorevole invito, tentiamo allora di articolare una «cognizione delle cose particulari» (Machiavelli, «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», I, 47) evitando contrapposizioni e generalità. Con grande rispetto per il ruolo dei Presidenti, ma ancor di più per i fatti.

 

Primo fatto: il Web non è mai stato e non è una terra senza leggi. Tutti gli articoli del codice penale che regolano le espressioni umane (tra cui diffamazione, istigazione a delinquere, sostituzione di persona e trattamento illecito di dati personali) si applicano ai puntini luminosi che compaiono sugli schermi esattamente quanto alle goccioline di inchiostro sulla carta e alle onde sonore di voce, radio e televisione. Quindi non aiuta il pensiero, e men che meno l’azione politica, parlare di «anarchia» o evocare il «Far West». Si ritiene che gli attuali articoli del codice penale non siano sufficientemente precisi o esaurienti per coprire tutta la casistica dei comportamenti criminali? Se ne discuta; ma il primo passo della discussione dovrebbe essere l’identificazione delle specifiche attività non ancora contemplate dal codice che si ritiene che debbano diventare penalmente rilevanti.

 

Tuttavia, a leggere con attenzione le interviste e le dichiarazioni sembrerebbe che il problema in realtà consista nella carente applicazione delle norme esistenti, più che in carenze legislative. In particolare si lamenta la frequente lentezza del percorso giudiziario. Tale lentezza è in parte legata alle ben note caratteristiche del sistema giudiziario italiano, ma nel caso del Web si sommano altri due fattori: il carattere internazionale della Rete e la vastità del fenomeno, ovvero, l’elevato numero delle persone che ogni giorno sul Web diffamano, minacciano, incitano a delinquere, eccetera.

 

Riguardo al primo fattore, è un dato di fatto che il percorso che porta alla rimozione di un contenuto illecito può essere lungo, soprattutto se i server sono all’estero o se gli intermediari (quando ci sono) pretendono, come peraltro è giusto che sia, il pieno rispetto dei diritti dei loro utenti. Tuttavia non è un caso che non basti una semplice segnalazione per rimuovere un determinato contenuto: occorre infatti bilanciare diritti fondamentali contrapposti, bilanciamento che da molto tempo abbiamo collettivamente deciso di demandare, per la sua delicatezza, ai giudici e non, per esempio, a procedure amministrative.

 

Il secondo fattore, ovvero, l’elevato numero delle persone coinvolte, è a mio avviso quello decisivo. Le reti sociali, infatti, hanno improvvisamente permesso a chiunque con un accesso alla Rete (circa un italiano su due) di dire con estrema facilità quel che gli passa per la testa. Di conseguenza i pensieri meschini, violenti, ignoranti, razzisti, misogini (ma anche gentili, colti, poetici) che fino a ieri rimanevano confinati nell’ambito ristretto di pianerottoli, bar e tram ora compaiono su bacheche di portata potenzialmente planetaria. In altre parole, il contenuto delle teste di molti italiani (non tutti, tendenzialmente i più estroversi e disinibiti) si è riversato online. Il risultato può commuoverci o informarci, ma anche lasciarci allibiti, indignati o addirittura feriti. Ma, che ci piaccia o meno, sono nostri concittadini che pensano quelle cose - non alieni. Il Web mette loro in mano carta e penna e offre una bacheca a cui appendere i loro foglietti: sta agli utenti decidere come usare questa possibilità.

 

A mio avviso, quindi, la vera sfida che abbiamo davanti è educativa. Parafrasando d’Azeglio: abbiamo fatto la Rete, ora dobbiamo fare gli internauti. Sfida educativa non solo nel senso di Tullio De Mauro, ovvero, di portare a livelli di civiltà la percentuale di italiani - al momento appena il 20-25% - dotati degli strumenti cognitivi per orientarsi ed esprimersi in una società moderna. Ma anche nel senso specifico di istruire gli italiani (semplici cittadini ma anche insegnanti, magistrati, giornalisti, politici) su possibilità e limiti della comunicazione online, sui principi etici che dovrebbe regolarla, sulle norme sociali che la Rete stessa ha prodotto fin dagli Anni 70 (la cosiddetta «netiquette») e, infine, sui limiti invalicabili imposti dalla legge.

Solo così potremmo superare con successo questa primissima fase dello sviluppo di massa della Rete, questa tumultuosa adolescenza. Con gli italiani un po’ più consapevoli e senza scorciatoie potenzialmente dannose per la democrazia.

da - http://lastampa.it/2013/05/05/cultura/opinioni/editoriali/la-nuova-sfida-educare-chi-va-sul-web-lSPPIHDJmwrx60VG3j37dJ/pagina.html

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Editoriali
08/06/2013

Quello scambio fra libertà e sicurezza

Juan Carlos De Martin


Per capire il senso delle rivelazioni di questi giorni, è opportuno fare un passo indietro, fino ai campus americani di metà Anni 60. Allora, a Berkeley e altrove, gli studenti protestavano contro una macchina che per loro era il simbolo del Sistema che volevano riformare, ovvero, il computer. Nato durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, il computer era rapidamente diventato una delle macchine cardine della Guerra Fredda. Cardine perché strumento in grado di effettuare i calcoli balistici e scientifici necessari a garantire la supremazia militare americana. E cardine perché il computer consentiva di padroneggiare, tramite l’acquisizione e l’elaborazione di informazioni, sia lo scacchiere internazionale, sia, in parte, la società.

Appena pochi anni dopo, però, negli Anni 70 e 80, la situazione sembra

ribaltarsi: il computer, infatti, da macchina grande, costosa e controllata dal «Sistema», diventa piccolo, economico e personale. Il simbolo del controllo e persino dell’oppressione viene celebrato da molti, e non senza ragione, come strumento di liberazione e di «empowerment» dell’individuo. Col decollo di Internet, poi, l’entusiasmo dei libertari digitali è alle stelle, come dimostra in modo emblematico la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1994.

Ma proprio a metà degli Anni 90 diversi fattori convergono per cambiare lo scenario.

Il primo è l’emergere delle grandi piattaforme che da una parte rendono molto più facile pubblicare online, blog, foto, video, ecc., ma che dall’altra rendono possibili forme altamente efficienti di sorveglianza delle attività degli utenti. Con l’emergere di piattaforme dominanti, poi, i Governi - e in particolare quello americano, visto che quasi tutte le piattaforme sono basate negli Usa - tornano ad avere la situazione preferita ovvero alcuni, pochi interlocutori a cui chiedere favori o dare ordini.

Il secondo fattore è la diffusione di massa degli «smartphone», computer sempre connessi che contengono e producono una quantità enorme di dati sulla nostra vita personale e professionale.

Il terzo fattore è l’incredibile riduzione dei costi di immagazzinamento dati, costi così bassi che a un certo punto diventa possibile, anche per governi non particolarmente dotati di mezzi, memorizzare le tracce digitali prima di alcuni cittadini, poi di milioni di cittadini e infine di tutti i cittadini.

Con l’11 settembre 2001 la politica americana (e non solo), consapevole dei fattori di cui sopra, reagisce all’attentato cambiando il corso della storia digitale. Torna prepotente il desiderio, nato con la Guerra Fredda, di sviluppare una «consapevolezza informativa totale», che però questa volta si realizza davvero, visto che è diventato economicamente sostenibile ciò che una volta avrebbe richiesto risorse che nemmeno il Paese più ricco del mondo poteva mettere in campo.

Al posto dell’Unione Sovietica, c’è ora il terrorismo. Al posto di pochi «mainframe», ci sono miliardi di telefoni e di computer nelle tasche e nelle case di molti. Al posto del web decentralizzato degli esordi, c’è una manciata di grandi piattaforme, usate da miliardi di persone e praticamente tutte americane.

Se oggi gli studenti tornassero a protestare avrebbero, quindi, un bersaglio molto più difficile dei loro predecessori degli Anni 60. Un bersaglio nelle tasche di ciascuno di loro, un bersaglio profondamente ambiguo perché portatore anche di grandi benefici personali e collettivi.

La protesta dovrebbe allora necessariamente abbandonare l’attenzione alla macchina in quanto tale per concentrarsi sulle grandi questioni della democrazia e dei diritti. Ponendo con forza soprattutto due domande: quanta libertà siamo pronti a sacrificare in cambio di (forse) più sicurezza? E quanto a lungo può sopravvivere la democrazia se le attività dei governi non sono soggette a limiti e a controlli?

da - http://lastampa.it/2013/06/08/cultura/opinioni/editoriali/quello-scambio-fra-libert-e-sicurezza-byK5Zs6QCih72lbQoO9FeN/pagina.html

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14/06/2013

Un passo avanti, ma nella banda larga l’Italia è ferma

Juan Carlos De Martin


Il presidente del Consiglio, con un tweet, ha annunciato la nomina di Francesco Caio a “Mr Agenda Digitale”. Al di là delle innegabili competenze della persona, la creazione di un Mister Digitale che risponde direttamente a Enrico Letta è un passo potenzialmente importante per almeno due motivi: perché supera il rischio di conflitti tra ministeri e perché aumenta la rilevanza politica dell’agenda digitale. Era decisamente ora.

 

Proprio ieri, infatti, la Commissione europea ha pubblicato i dati relativi alla situazione dell’Agenda Digitale europea e l’Italia, ancora una volta, arranca. Qualche dato: in Italia le connessioni a banda larga mediamente veloci (sopra i 10 milioni di bit al secondo, Mb/s) sono appena il 14%, contro una media europea del 59%; solo Cipro fa peggio di noi. Per non parlare delle connessioni veloci (sopra i 30 Mb/s) e velocissime (sopra i 100 Mb/s), quasi inesistenti in Italia, ma che in Europea sono già rispettivamente il 15% e il 2%. Basso anche il numero di utenti che usano Internet almeno una volta alla settimana - sono il 53%, contro il 70% della media europea - e la percentuale di individui che hanno usato servizi di eGovernment: solo il 19%, ultimi in Europa dopo Bulgaria, Croazia e Cipro. Deprimenti anche quasi tutti gli indicatori sul commercio elettronico e sull’uso di servizi Internet.

 

E’, dunque, impegnativa l’agenda finita nelle mani di Francesco Caio, che dovrà articolare una strategia di intervento con almeno tre filoni principali. Il primo è quello infrastrutturale: portare la larga banda dove ancora non c’è e aumentare velocità e qualità di tutte le connessioni. Se ne discute da anni, ma ora è tempo di passare ai fatti per evitare che il distacco rispetto al resto d’Europa aumenti ulteriormente. Il secondo filone è quello economico: particolarmente nel mezzo di una recessione economica di portata storica, davvero speriamo di portare online quella considerevole parte della popolazione che fa fatica ad arrivare a fine mese senza qualche forma di aiuto? Sia attrezzando biblioteche e spazi pubblici con computer e Wi-Fi sia con sostegni all’acquisto dobbiamo trovare modi efficaci e sostenibili per chiudere il divario economico. Infine il terzo filone, ovvero, quello della lotta al divario culturale. Sono milioni, infatti, gli italiani ai quali mancano gli strumenti culturali per beneficiare della Rete. Mr Agenda Digitale, d’intesa col Ministro dell’Istruzione, dovrà occuparsi anche di loro. Cavi e schermi, infatti, servono a qualcosa solo se ci sono cittadini e lavoratori in grado di metterli a frutto.

 DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-avanti-ma-nella-banda-larga-litalia-ferma-BgpJCuYEUWFJs7HqFubevO/pagina.html

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23/07/2013

La palla al piede del Wi-Fi italiano

Juan Carlos De Martin


Il Wi-Fi in Italia sembra affetto da una maledizione. Ogni volta, infatti, che il suo uso sembra sul punto di venir finalmente liberalizzato qualche contraddizione nelle norme, qualche codicillo ignorato, qualche lacciolo ancora vigente salta fuori e si mette di traverso.

 

Ritardando, quindi, il diffondersi in Italia di un’esperienza che all’estero è da anni normale, mentre da noi è ancora rara, ovvero, sedersi in un caffè, una biblioteca o un aeroporto e connettersi direttamente, semplicemente a Internet. Senza compilare moduli più o meno complessi, senza fornire i dati della propria carta di credito, senza doversi iscrivere a servizi di autenticazione. Sembra scontato, ma in Italia non lo è. E non da ieri: sono, infatti, ben otto anni che l’Italia ci tiene a far sapere al mondo che il Wi-Fi - la modalità di accesso a Internet più semplice, più economica, la più disponibile in dispositivi di tutti i tipi - proprio non le garba.

 

Otto anni inaugurati nel luglio 2005, quando, subito dopo l’attentato di Londra, il governo Italiano fece, emanando il cosiddetto decreto Pisanu, una scelta senza paragoni nel mondo sviluppato, ovvero, impose non solo l’identificazione con documento d’identità di chiunque accedesse a Internet da una postazione pubblica (Wi-Fi o fissa), ma anche la preservazione delle relative tracce della navigazione. Così facendo, veniva, in nome della sicurezza, affibbiata una palla al piede del Wi-Fi italiano precisamente nel momento in cui il Wi-Fi si accingeva a esplodere in tutto il mondo, nelle catene di negozi come nelle biblioteche, nei campus universitari come nei giardini pubblici. In Italia, infatti, il bar o la biblioteca che avesse voluto offrire connettività ai propri utenti doveva non solo dotarsi di connessione a Internet e degli appositi punti di accesso Wi-Fi, ma doveva anche preoccuparsi di identificare in maniera forte ogni singolo utente e di dotarsi di apposito software per l’archiviazione dei relativi dati di navigazione.

 

Troppo per un paese già poco digitale di suo come l’Italia.

 

Veniva quindi a mancare il terzo pilastro che, a fianco dell’accesso fisso e del cellulare, altrove è servito e tuttora serve a diffondere Internet, appunto, il Wi-Fi. Lasciando agli italiani in mobilità una sola scelta, ovvero, l’accesso a Internet tramite la rete cellulare, non a caso uno dei pochi ambiti dove gli Italiani primeggiano nel panorama digitale internazionale.

 

Nel maggio 2010, però, il lancio dell’Agenda Digitale europea aumenta la consapevolezza dell’arretratezza digitale dell’Italia, che secondo un gran numero di indicatori oscilla intorno al 24° posto su 27 paesi. Si rafforzano, quindi, le voci che sottolineano l’assurdità del decreto Pisanu in un paese in così grave ritardo digitale come il nostro.

 

A fine 2010 parti cruciali del decreto Pisanu non vengono prorogate, aprendo varchi importanti verso la piena liberalizzazione del Wi-Fi in Italia. Ma rimangono ancora alcuni dubbi normativi, sufficienti a spaventare la maggior parte degli esercizi commerciali e la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni (con la lodevole eccezione della Regione Piemonte).

 

E’ da allora, quindi, che si attende un intervento legislativo che spazzi via gli ultimi ostacoli e dia il via libera definitivo al Wi-Fi italiano. Ancora nei giorni scorsi un emendamento al decreto del governo ha riproposto i vecchi ostacoli. Il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia ieri sera ha promesso che le difficoltà saranno superate e l’accesso diventerà finalmente libero. Sarà vero? Oggi lo sapremo.

da - http://www.lastampa.it/2013/07/23/cultura/opinioni/editoriali/la-palla-al-piede-del-wifi-italiano-ycZk3jrLxJ65pEaEwwvTTJ/pagina.html

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