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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66652 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:47:26 am »

politica
04/08/2013 - La manifestazione

Nessun ministro al sit-in di solidarietà

Saltata la “manifestazione oceanica” si riuniranno solo pochi militanti davanti a palazzo Grazioli

Michele Brambilla


Sarebbe ingeneroso dire che il Pdl oggi è un esercito in rotta: Maramaldo non è una nobile figura. Ma sicuramente il partito di Berlusconi, che pure ne ha passate tante, è ora in difficoltà come mai prima. E quando le cose vanno male le divisioni si accentuano. 

 

Torna così, prepotentemente, la spaccatura tra i cosiddetti falchi e le cosiddette colombe. I primi, contrariamente a quanto si crede, non sono affatto una maggioranza, anzi sono - dal punto di vista numerico - un’esigua minoranza. Influentissima però: Verdini, Capezzone e Santanchè. L’ultima soprattutto. «Non è un capo corrente perché non esiste una corrente dei falchi», ci dice una delle colombe, «ma ha un ascendente fortissimo sul capo».

 

E il capo in queste ore è facilmente influenzabile. «Non lo abbiamo mai visto così mortificato», dicono tutti i suoi. Pare che quando ha ricevuto notizia del ritiro del passaporto, si sia sentito crollare. Puoi anche avere la solidarietà di milioni di italiani, ma quando vedi che la libertà personale comincia davvero a ridursi, è terribile. «Per questo», dice ancora un esponente dell’ala moderata, «è particolarmente sensibile a quello che gli dice la Santanchè: e lei gli dice quello che lui vuole sentirsi dire». E cioè che è venuto il momento di passare alle maniere forti. 

 

Le colombe, in queste ore, sentono di non avere argomenti. «La verità è che abbiamo perso», dicono: «Per mesi abbiamo predicato la pazienza e la prudenza, e abbiamo convinto Berlusconi a scegliere la via della responsabilità: il governo con il Pd, eccetera. E oggi lui ci dice: che cosa ho guadagnato, ad ascoltarvi? Mi sono comportato da statista e loro mi hanno trattato da bandito».

 

Ecco perché, in un momento in cui tutti nel Pdl si sentono smarriti, e ognuno dice la sua più o meno in libertà, i falchi sono stati ad un passo dall’ottenere ciò che volevano: lo scontro frontale. Ad un passo, però. Perché al traguardo non sono ancora arrivati. Anzi. Nelle ultime ore, il partito delle colombe - Alfano, Gelmini, Lupi, Fitto eccetera - è riuscito, se non a prevalere, a ottenere quello che, quando si giocava da bambini, si chiamava un «crucis». Una pausa.

 

Dimostrazione evidente di questa frenata è il cambio di programma sulla manifestazione di oggi a Roma. Daniela Santanchè era stata l’ideatrice della grande adunata in piazza Santi Apostoli, alle sei del pomeriggio. Ma con il passare delle ore si è deciso di passare a un’iniziativa di ben più basso profilo: un sit-in, alla stessa ora, in via del Plebiscito davanti a Palazzo Grazioli, cioè su uno spartitraffico dove ci staranno sì e no cinquanta persone. È stato proprio il falco Verdini a comunicare al partito il cambio di programma, dopo una lunga mediazione di Gianni Letta. In serata arriva il dietrofront definitivo. Ad annunciarlo è il ministro Maurizio Lupi: nessun ministro parteciperà alla manifestazione. «Per evitare strumentalizzazioni, i ministri non parteciperanno», ha spiegato al Tg1 il titolare delle Infrastrutture, specificando che la decisione è stata presa come segno «di grande responsabilità».

 

Sta insomma succedendo questo: le colombe cercano di far capire a Berlusconi che se fa saltare tutto sarebbe peggio per il centrodestra e per lui, perché Napolitano andrebbe su tutte le furie, e il Pd farebbe un governo (e una legge elettorale) con i grillini. Un incubo, per Berlusconi, che così ha accettato un’altra tregua. Per ora è così. «Ma abbiamo solo guadagnato un po’ di tempo», dicono le colombe. Perché tutto può cambiare di ora in ora.

da - http://lastampa.it/2013/08/04/italia/politica/nessun-ministro-al-sitin-di-solidariet-hgfR41KvyQPsQOLbpADjTM/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 08, 2013, 04:43:18 pm »

Cronache

08/08/2013

Renzi rompe il silenzio e si riveste da rottamatore

Epifani, offensiva contro Berlusconi

L’attacco del Pdl

Sulla condanna a Berlusconi: «Le sentenze si rispettano e la legge vale per tutti».

Sfida a governo e Pd: «Letta faccia le cose, niente alibi»

Michele Brambilla
inviato a Castelfranco Emilia (Modena)

Forse mai come ieri sera Matteo Renzi ha abbandonato quel che resta della sua vecchia origine democristiana per parlare senza giri di parole. Dal palco della festa democratica a Bosco Albergati, fra Modena e Bologna, ha urlato un colossale «basta!». Un «basta» rivolto soprattutto al suo partito: basta pensare al proprio ombelico anziché ai problemi del Paese. 

«Basta con l’accusarmi di voler logorare il governo»; basta con i giochetti sul congresso; basta con l’ossessione di Berlusconi; basta con le campagne elettorali con la puzza sotto il naso.

Il Renzi di ieri sera è forse il Renzi più rottamatore fra quelli visti finora. Erano un po’ di giorni che taceva, e si pensava che dietro il suo silenzio ci fosse il timore di un passo falso. Che dire ad esempio della sentenza su Berlusconi? E del governo Letta? E delle primarie? E del governo? Meglio andare avanti o meglio votare? In una politica tutta fatta da dichiarazioni e controdichiarazioni, insomma da tutto un blablabla che non interessa per nulla ai cittadini ma che è l’unica preoccupazione dei professionisti del Palazzo, ogni parola di Renzi sarebbe stata soppesata, valutata, analizzata. Per questo il silenzio di Renzi veniva interpretato come una volontà di non esporsi.

E invece. Altro che preoccupazioni diplomatiche. Ieri è parso che Renzi abbia piuttosto taciuto qualche giorno per caricarsi meglio. E qui alla festa del Pd, davanti a quasi duemila persone, non si è sottratto ad alcuno degli argomenti più caldi del momento. La condanna a Berlusconi? «Le sentenze si rispettano e la legge è uguale per tutti». Stesso concetto espresso da Epifani. Ma, rispetto al segretario, Renzi rovescia la questione: «Qualcuno di noi oggi ha detto che prima di fare il congresso dobbiamo aspettare di vedere che cosa fa Berlusconi. Ma è vent’anni che aspettiamo Berlusconi! Possiamo fare il nostro congresso a prescindere da cosa farà lui, o no?». Non è solo questione che riguardi questi giorni confusi: è un profondo modo di essere del centrosinistra che Renzi contesta: «Siamo stati insieme per vent’anni anche e soprattutto perché di là c’era Berlusconi, salvo poi affossare noi i nostri governi quando abbiamo vinto le elezioni». Attacca Bersani come forse mai aveva fatto prima: «Durante le primarie abbiamo discusso su che cosa dovevamo fare per cambiare l’Italia. Il giorno dopo la fine delle primarie, il nostro motto è diventato “smacchieremo il giaguaro”». Cioè il ritorno della politica «contro» qualcuno e non «per» qualcosa.

Ma anche a Enrico Letta, Renzi non le ha mandate a dire. «Mi accusano di voler logorare il governo. Di sperare che non duri a lungo. Io invece faccio il tifo per il governo. Ma un governo non deve durare, deve fare». Letta sveglia, insomma. «Caro Letta, vai avanti e fai quello per cui sei stato votato. Ma se non sei in grado di farlo, non cercare alibi fuori dal Parlamento».

Parole pronunciate da chi sa che ancora una volta, così come al tempo delle primarie, i nemici li ha soprattutto in casa. Non però tra il popolo del Pd. No, i nemici Renzi li ha nell’apparato del Pd, in una burocrazia interna che pensa che gli italiani aspettino la mattina per conoscere sui giornali i pareri dei dirigenti del partito sulle regole delle primarie o sulla data del congresso. Masturbazioni mentali, per Renzi, mentre «le piccole e medie imprese soffrono o chiudono». «Caro Epifani, non passiamo il tempo a pensare come cambiare le regole delle primarie. Passiamolo a pensare come cambiare l’Italia».

E ancora: «Basta con il politichese, con il dire e il non dire. E basta con le lamentele, i “purtroppo”, il pessimismo». Insiste nel voler dare una sterzata al suo partito: «Negli anni scorsi abbiamo sbagliato troppi calci di rigore». Anche per una certa spocchia: «Ora più che mai bisogna dire che dobbiamo chiedere i voti dei delusi del Pdl e della Lega. A furia di avere certe puzze sotto il naso continuiamo a perdere le elezioni». Anche nel serbatoio dei grillini bisogna attingere, perché «Grillo è stato una grossa delusione per molti di coloro che lo hanno votato». Ma c’è anche una battuta velenosa: «E guardate che dobbiamo inseguire anche i voti dei delusi del Pd».

Ha parlato di piccole e medie imprese come ne parlerebbe un elettore del centrodestra («I piccoli imprenditori italiani sono eroici a restare qui in queste condizioni, lo Stato deve smettere di considerarli come una controparte e l’Agenzia delle entrate deve essere loro alleato») e ha rivendicato l’orgoglio di essere del Pd («Solo il Pd può cambiare l’Italia»). Insomma, un discorso che sembrava già da campagna elettorale. Con un’avvertenza, però. Renzi vuole andare a palazzo Chigi, ma non a qualsiasi costo: «L’importante non è quello che farò io da grande. L’importante è quello che faremo noi». L’importante sono le idee di rinnovamento, insomma: «Nessuno si illuda di usarmi come acchiappavoti per permettere ai soliti di continuare a comandare da dietro le quinte. Non sarò la foglia di fico di nessuno».

Insomma, tutti uniti: ma io sono il leader e si combatte per le idee che ho esposto. La sfida al Pd è partita per la seconda volta. Rispetto alla prima, la gerarchia è ancora ostile. Ma fra la gente che va alle feste del partito, sotto un caldo tremendo come quello di ieri, il vento è cambiato.

da - http://lastampa.it/2013/08/08/italia/cronache/renzi-rompe-il-silenzio-e-si-riveste-da-rottamatore-mpELmhGr6F52YJlFSFLI4J/pagina.html
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« Risposta #107 inserito:: Ottobre 07, 2013, 05:06:17 pm »

EDITORIALI
07/10/2013

Letta-Alfano: è solo tattica politica

MICHELE BRAMBILLA

Quando ieri Enrico Letta e Angelino Alfano si sono messi a litigare (o a fingere di litigare: in politica è quasi la stessa cosa) è probabile che la stragrande maggioranza degli italiani abbia esclamato un nauseato «Ancoraaa? Bastaaa!». La crisi di governo è appena stata scongiurata; gli estremisti sembrano nell’angolo; la pace pare tornata per il bene di tutto il Paese, e adesso ricominciano?
 
La nausea degli italiani, e il loro timore di una ripresa delle ostilità, sono più che comprensibili. 
Ma siccome a volte, per non dire quasi sempre, le dichiarazioni dei politici vanno lette in controluce, ecco che forse le prese di posizione di ieri del premier e del vicepremier vanno interpretate, al contrario, come un fattore di stabilità piuttosto che di instabilità. Perlomeno a lungo termine. Vediamo perché.
 
Intanto, i fatti. Intervistato da Sky Tg24, Letta ha detto che una stagione ventennale si è chiusa per sempre, dando in questo modo per morto (politicamente) Berlusconi. «Alfano ha vinto, non ci saranno più tarantelle», ha aggiunto. Ma Alfano, anziché intascare i complimenti, ha risposto per le rime: «Nessuno, premier compreso, si permetta di interferire nelle vicende interne al Pdl. Berlusconi resta il nostro leader».
 
Sembrano i segnali di nervi di nuovo tesi all’interno della maggioranza, e verrebbe da chiedersi per quale ragione Letta e Alfano si sono messi l’uno contro l’altro. Ma in realtà sia il primo, sia il secondo, non potevano fare altro che dire quello che hanno detto.
 
Per quanto riguarda Letta, il motivo è evidente. Il premier voleva ribadire il discorso pronunciato alla Camera poche ore dopo il voto a sorpresa di Berlusconi sulla fiducia: la maggioranza è comunque cambiata, non accetterò più di governare sotto minaccia, basta con Berlusconi, d’ora in poi il mio alleato è Alfano che ha già mostrato senso di responsabilità.
 
A queste parole, però, Alfano ha - come dicevamo - replicato seccamente. Cerchiamo di capirne il motivo. Che è, o almeno dovrebbe essere, il seguente.
 
Nei giorni scorsi il segretario del Pdl e vicepremier ha vinto un’importante scommessa. Quando Berlusconi ha cercato di imporgli la caduta del governo, Alfano ha resistito; lo ha sfidato e lo ha battuto, costringendolo infine a un voltafaccia clamoroso. Quindi il «partito della crisi» interno al Pdl ha dovuto battere in ritirata.
 
Ma, salvato il governo, Alfano punta ora su un’altra scommessa: prendere la guida del centrodestra. In molti, nelle ore successive alla vittoria in Senato, gli hanno suggerito di staccarsi dal Pdl-Forza Italia e di dar vita a nuovi gruppi parlamentari che garantissero stabilità al governo. Alfano però sa che, se così facesse, correrebbe due pericoli: il primo è che si snaturerebbe, diventando una stampella centrista del governo guidato dal Pd; il secondo è che alle elezioni farebbe poi la fine di un Fli o di una Udc, perché alla sua destra resterebbe una Forza Italia comunque capace di raccogliere ancora molti voti.
 
Da qui la seconda scommessa di Alfano: prendere appunto la guida del centrodestra. Sicuramente anche per cambiarne stile e pelle, tenendolo sotto l’ombrello del Partito popolare europeo, al riparo dagli estremisti: ma comunque restando centrodestra, e non diventando centro. Per questo Alfano ha bisogno che non ci sia nessuno, in futuro, alla sua destra; per questo ha bisogno di dire che Berlusconi è il leader storico. Per questo, insomma, ha avuto bisogno di rispondere a muso duro a Letta, il quale avrà capito benissimo e sicuramente anche apprezzato: anche lui ha interesse ad avere, dall’altra parte, un centrodestra guidato da un Alfano, e non da un Berlusconi condizionato dai falchi.
 
Ecco perché, a gioco lungo, la divergenza di ieri tra Letta e Alfano potrebbe portare a una maggiore stabilità del Paese. Il quale ha necessità che il centrosinistra e il centrodestra siano due cose ben distinte; e che il centrodestra non sia più caratterizzato, come è stato fino alla scorsa settimana, da un clima di guerra. Alfano ci sta provando. Il tempo gioca probabilmente per lui, e sicuramente contro i nostalgici.

http://www.lastampa.it/2013/10/07/cultura/opinioni/editoriali/lettaalfano-solo-tattica-politica-xFr1DYAS8tKRFeNDrdhlbK/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Ottobre 15, 2013, 05:03:09 pm »

Politica
15/10/2013 - reportage

Renzi non scalda gli imprenditori veneti

Renzi a Bari, palco e slogan in stile Usa

Interesse più per lui che per Tosi, ma la scintilla non scatta


Michele Brambilla inviato a verona


L’impressione è che qualcosa si sia un po’ raffreddato rispetto a un anno fa. Matteo Renzi ieri a Verona, all’assemblea della Confindustria provinciale, è stato applaudito, sì, senz’altro: però dire che ha infiammato la platea, no. Molti più applausi - se è questo il metro di giudizio - li hanno avuti gli imprenditori che hanno parlato prima di lui.

 

Certo non era proprio come giocare in casa, per uno che è candidato alla guida del Pd. Il Veneto non ha mai votato a sinistra; qui è nata, con la Liga, l’avventura leghista; qui Berlusconi è stato a lungo la grande speranza di una classe imprenditoriale abituata a credere più in se stessa che nella politica. E ieri Renzi era ospite proprio di questi imprenditori, degli artefici del miracolo del Nord Est. Quindi non era facile.

Però giusto un anno fa, dicevamo, il feeling sembrava diverso. Il sindaco di Firenze aveva voluto che il suo camper partisse proprio da qui, da Verona, nel viaggio alla conquista di Palazzo Chigi. E la sensazione era che, se il Pd avesse candidato lui anziché Bersani, da queste parti di voti ne avrebbe presi parecchi. Renzi avrebbe sfondato tra i delusi della Lega e di Berlusconi; tra imprenditori cui non pareva vero di sentire uno di sinistra che parlava contro le tasse, lo statalismo e la burocrazia.

 

Oggi molte cose sono cambiate. Renzi ha capito che per conquistare il Paese deve prima conquistare il suo partito: e quindi parla un linguaggio un po’ diverso rispetto all’anno scorso. E poi questi imprenditori veneti sono gente concreta, e concretezza vuole che le larghe intese reggano il più possibile, perché «anche se fragile e lenta, una crescita c’è», ha detto il presidente di Confindustria Verona Giulio Pedrollo, e nessuno ha voglia di affrontare un’ennesima crisi e un’ennesima campagna elettorale per assecondare le ambizioni di Renzi.

 

Gli industriali veneti continuano comunque a vedere in lui un soggetto interessante, se non altro per realismo: il futuro vedrà nuovi referenti politici, e fra questi Renzi ci sarà sicuramente. Così, ieri, in un’assemblea che aveva uno slogan tutto proiettato al futuro, «Oltre», Confindustria ha voluto invitare Matteo Renzi e Flavio Tosi. Due politici con evidenti somiglianze. Tutti e due sono giovani (Renzi ha 38 anni, Tosi 44); tutti e due sono sindaci; tutti e due si sono scontrati contro le leadership storiche dei loro rispettivi partiti, ponendosi come il nuovo che avanza; tutti e due hanno potenzialmente un gradimento trasversale, perché se Renzi a un certo punto piaceva a destra, sicuramente Tosi ha preso tanti voti anche a sinistra. Tutti e due insomma sembrano essere il futuro.

 

Va detto che Renzi non ha cercato l’applauso facile. Nessuna blandizia. Certo ha ripetuto cose che, a onor del vero, dice da sempre: che bisogna smantellare la burocrazia, che «il sistema fiscale è allucinante», che gli studi di settori sono assurdi. Ma a una classe imprenditoriale che è molto orgogliosa («Gli imprenditori italiani sono i migliori del mondo», hanno detto quasi tutti i relatori, da Giulio Pedrollo a Santo Versace, da Nerio Alessandri a Giorgio Squinzi) e che vede i politici come unici responsabili della crisi, Renzi ha detto con eguale orgoglio di essere «un politico che crede nella politica». E ha avuto il coraggio di dire che, se è vero che «bisogna rottamare i politici, è vero che bisogna rottamare anche un certo modo di concepire i rapporti tra economia e politica», ricordando che «con lo sperpero di denaro pubblico si sono arricchiti molti finti imprenditori».

 

Insomma davanti agli imprenditori Renzi non ha fatto finta di essere uno di loro. Ha parlato da politico, e le riforme che ha invocato sono tutte politiche: «Prima di tutto occorre una riforma elettorale chiara, dove vince uno solo; poi via il Senato, basta con il ping pong tra le due Camere; quindi va riformata la giustizia civile, perché non è possibile che in Italia occorrano milleduecento giorni per avere una sentenza contro i trecento della Germania». Ha ribadito il suo «no» all’amnistia («È diseducativa per i nostri giovani») e ha perfino rivelato, ai veneti che non lo sapevano, che da sindaco di Firenze si è messo di traverso agli imprenditori edili.

Dicevamo che non si è avuta l’impressione che sia scoccata la fatale scintilla. Però va detto pure che quando Renzi è sceso dal palco per farvi salire Tosi, molti se ne sono andati. Un po’ perché Tosi lo conoscono già. Ma un po’ anche perché Matteo Renzi, pur qualche entusiasmo in meno rispetto a un anno fa, ai tradizionali elettori del centrodestra continua a destare curiosità. 

da - http://lastampa.it/2013/10/15/italia/politica/renzi-non-scalda-gli-imprenditori-veneti-VshVpzaqYcldyIoYvbZ7FL/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Novembre 01, 2013, 06:25:18 pm »

Editoriali
01/11/2013

Ma un ministro non può avere amici

Michele Brambilla

Sarà certamente vero, come assicura la Procura di Torino, che se Giulia Maria Ligresti è stata scarcerata, non lo è stata per l’intervento del ministro Cancellieri. Però la storia non è bella. 

E soprattutto non è una di quelle storie di cui abbiamo bisogno in questo momento di - come si usa dire - «disaffezione alla politica». 

I fatti sono questi. Nel luglio scorso, praticamente l’intera famiglia Ligresti finisce agli arresti nell’inchiesta sulla compagnia assicurativa Fonsai. Agli arresti Salvatore Ligresti, il capostitite, e tre suoi figli, tra cui Giulia Maria. Per quest’ultima ci sono parecchie preoccupazioni, perché in passato ha sofferto di anoressia. Come potrà reggere al carcere? Il 17 agosto Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti, parla al telefono con Antonino, il cognato, e dice che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, sua vecchia amica, «potrebbe fare qualcosa per Giulia». Il 28 agosto le porte del carcere, per Giulia, si aprono.

Grazie a un intervento dall’alto? Alcune telefonate tra la Fragni e il ministro lo fanno sospettare. Lei, Annamaria Cancellieri, viene interrogata dai magistrati torinesi e conferma di essersi interessata, di avere «sensibilizzato i due vice capi dipartimento del Dap (...) perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati». È stato, spiega ancora, «un intervento umanitario». E senza alcuna violazione di legge.

Certamente sarà così, nessuna violazione della legge. Ma la storia, dicevamo, è brutta lo stesso. O almeno imbarazzante. Perché?

Annamaria Cancellieri è una specie di incarnazione di quel che gli italiani chiedono, anzi pretendono, dopo tanti anni di malcostume politico: una figura super partes, al servizio delle istituzioni e non di una parte politica. Così è sempre stata: ha fatto il prefetto, poi il commissario a Bologna e a Parma, amministrando (bene) i Comuni in sostituzione di giunte e di sindaci travolte da scandali. Quando, terminato il commissariamento a Bologna, il Pdl le chiese di candidarsi a sindaco, lei rispose di no, per non perdere la sua imparzialità. È stata ministro dell’Interno in un governo tecnico, quello di Monti; e lo è della Giustizia in uno di larghe intese. Sempre senza essere «in quota» a nessuno. La stima che si è conquistata, Annamaria Cancellieri se l’è meritata: e non è un caso se il suo nome è a un certo punto circolato perfino per il Quirinale.

Quando è diventata Guardasigilli, ha preso subito a cuore la condizione dei carcerati, e s’è data da fare, per quanto ha potuto, per alleviarne le sofferenze. Se dice che il suo intervento in favore di Giulia Maria Ligresti era motivato dalla preoccupazione per le condizioni di salute, c’è da crederle. Però, c’è un però. Annamaria Cancellieri è appunto amica da decenni di Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti; e suo figlio, Piergiorgio Peluso, è stato dirigente della Fonsai. Così quelle telefonate e quell’intervento - per legittimo e ininfluente che possa essere stato - dà agli italiani l’impressione che come al solito ci sono cittadini (in questo caso detenuti) di serie A ed altri di serie B, senza alcuna suocera o zio amici del ministro.

Si dirà che le impressioni non sono fatti. È vero. Ma fino a un certo punto. Mai come in questo periodo la politica ha bisogno che perfino la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto: troppi scandali o scandaletti, favoritismi e raccomandazioni, troppe buone parole e dì che ti mando io hanno indotto gli italiani a pensare che sia tutto uno schifo, anche peggio di quello che è. 

Per questo, anche se si è intervenuti in favore pure di altri detenuti, quando chiama un’amica bisognerebbe rispondere «agli altri sì ma a te no, proprio perché sei mia amica». Oggi viene richiesto, a chi è in politica, un supplemento quasi disumano di impeccabilità.

Da - http://lastampa.it/2013/11/01/cultura/opinioni/editoriali/ma-un-ministro-non-pu-avere-amici-GmLzX9C6TpI1fpysHbvXSM/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Novembre 29, 2013, 07:25:31 pm »

Cronache
27/11/2013 - la storia

Il sindaco-bancario che ha fatto sparire il tesoro “in nero” della Val Seriana
Valbondione e gli altri paesi della bergamasca erano conosciuti come la «Cina d’Italia» per la presenza di numerose aziende
Dopo mesi di omertà le prime denunce: “Gli versavamo i risparmi sulla fiducia”

Michele Brambilla
Fiorano al Serio (Bergamo)

C’è un’Italia che non compare nei report sulla crisi: è un’Italia dove i soldi vengono portati in banca dentro una borsa o una scatola di cartone, e dietro rilascio di una ricevuta scritta a biro su un pezzo di carta, magari quella del formaggio. È un’Italia che rimane sommersa fino a quando succede un imprevisto, e cioè che i soldi spariscono: a quel punto non resta, seppur dopo tanti imbarazzi, che fare denuncia. Nella storia che andiamo a raccontare, proprio ieri è arrivata la denuncia numero tredici: l’ha presentata la vedova di un operaio, la quale sostiene che dal deposito in banca del marito sono spariti 180 mila euro. In totale, i soldi scomparsi ammonterebbero, in un minuscolo mondo di provincia, a trenta milioni di euro. A quanto pare, il «nero» di una valle: la Val Seriana. 

Tutto si svolge fra due paesi che, per estensione territoriale, sono il più piccolo e il più grande della provincia di Bergamo: nell’ordine, Fiorano al Serio e Valbondione. Di anime, poche: tremila a Fiorano, che sta in centro alla valle, e un migliaio a Valbondione, che è su in cima, ultimo paesino in fondo alla strada. È un Nord in cui i cartelli all’ingresso dei paesi sono orgogliosamente bilingue, per cui Gazzaniga è Gagenica, Vertova è Erfà, Albino è Albì. Paesini in cui l’estraneo, o meglio l’ingenuo, non capisce che cosa ci stia a fare un Private Banking, cioè una banca di grandi investimenti: eppure a Fiorano al Serio c’è un Private Banking di Intesa Sanpaolo.

Forse, anzi sicuramente, è perché la Val Seriana ha avuto fama di essere, a partire dagli anni Sessanta, la Cina d’Italia: qui si racconta ancora di mamme che, mentre accudivano i piccoli, facevano andare i telai della seta. Fu così, con la caparbietà e la laboriosità di questi bergamaschi, che la valle è andata accumulando negli anni un’immensa ricchezza. Adesso c’è la crisi e lungo la strada si vedono pubblicità di «capannoni nuovi/usati»: ma le antiche ricchezze messe via con parsimonia - e forse, chissà, anche guadagni recenti tenuti gelosamente nascosti - sono parte del patrimonio finito negli anni, appunto, nel Private Banking di Fiorano al Serio, e ora materia di uno scandalo di cui tutta la valle parla, anche se sottovoce, con particolare cura di non essere sentiti da orecchie di forestiero.

Tutto comincia quest’estate, quando le chiacchiere sui depositi prosciugati arrivano ai vertici di Intesa Sanpaolo, che manda cinque ispettori a controllare l’operato del direttore di Fiorano, vale a dire Benvenuto Morandi, 53 anni, dal 2006 sindaco di Valbondione per una lista civica di centrodestra. Gli ispettori si accorgono subito che qualcosa non quadra e avvertono la magistratura. Il primo luglio il direttore viene sospeso. Ormai è uno scandalo al sole, anche perché un grosso imprenditore di Gazzaniga, Gianfranco Gamba, ha fatto la prima denuncia ai carabinieri di Clusone: si è accorto che dal suo conto è partito, senza che nessuno lo autorizzasse, un bonifico di 400 mila euro. A questo punto la gente della valle rompe gli indugi: una mamma e suo figlio di quarant’anni presentano la seconda denuncia, in cui si parla di un saldo di 150 euro a fronte di versamenti per seicentomila. Benvenuto Morandi viene indagato per appropriazione indebita aggravata e licenziato da Intesa Sanpaolo.

Nelle denunce si parla di soldi versati sulla fiducia («Sul Benvenuto avremmo messo tutti la mano sul fuoco», dicono in valle) e di ricevute scritte a mano su «fogli volanti - raccontano - alcuni firmati ma senza data, altri con data ma senza firma». Ci sarebbero anche distinte taroccate: «Ho visto quelle di alcuni miei clienti: sono stampate su carta di Banca Intesa ma non originali», ha raccontato all’Eco di Bergamo il commercialista di Leffe Riccardo Cagnoni, che è anche sindaco pidiellino di Vertova. Sempre all’Eco di Bergamo sono arrivate le finora uniche parole pubbliche dell’indagato Benvenuto Morandi: «Le dichiarazioni di alcuni miei clienti che ho letto sui giornali non rispondono a verità, motivo per cui mi riservo di agire nelle sedi opportune».

Morandi ha ricevuto la visita dei carabinieri a casa sua a Valbondione, mentre la Guardia di Finanza - mossa dal sospetto di un colossale «nero» depositato in banca - è andata alla filiale di Fiorano all’inizio di agosto. Va detto che Morandi non è sospettato di aver intascato per sé. Dei trenta milioni di buco, si ipotizza che dieci siano stati sottratti ai conti di Gianfranco Gamba per finanziare gli impianti di risalita di Lizzola, gestiti da una società partecipata dal Comune di Valbondione, la Stl; e gli altri venti, presi dai conti di una sessantina di piccoli commerciati o imprenditori, siano andati perduti in operazioni finanziarie sbagliate. Morandi comunque non molla la poltrona di sindaco a Valbondione e ha la solidarietà di tanti: «Vai Benvenuto, làghei fa», lasciali fare, gli ha detto un collega di partito in Consiglio comunale dopo che l’opposizione aveva chiesto il passo indietro.

Ma il clima è brutto, anche perché nei giorni scorsi un incendio doloso ha distrutto lo chalet di montagna - sul monte Bue, a Cene - di Gianfranco Gamba, e c’è chi teme che la storia del buco in banca non sia estranea. La valle aspetta gli sviluppi dell’inchiesta con qualche timore. Ma anche con orgoglio, perché come mi dice un imprenditore non c’è niente da vergognarsi: «Grazie al nero della Val Seriana e della Val Gandino abbiamo creato ricchezza e posti di lavoro. I guai sono cominciati quando i soldi abbiamo iniziato a mandarli a Roma».

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/27/italia/cronache/il-sindacobancario-che-ha-fatto-sparire-il-tesoro-in-nero-della-val-seriana-YQNw8N8M1qrT4lczRW9RLI/pagina.html
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« Risposta #111 inserito:: Dicembre 04, 2013, 12:05:56 pm »

Editoriali
04/12/2013 - questione nordista

La Lega è morta il leghismo è più vivo che mai

Michele Brambilla

Nessuno parla più della Lega. Quando si fanno ipotesi su come andrebbe a finire in caso di elezioni in primavera, tutti si chiedono se un Pd di Renzi potrebbe vincere da solo, se Grillo farà il bis, se Berlusconi compirà l’ennesimo miracolo, se il Nuovo Centrodestra morirà in culla o risulterà determinante. Ma nessuno, appunto, parla della Lega. 

Quando se ne parla, se ne parla come di roba da Storia illustrata. Infatti nei giorni scorsi sulle prime pagine dei giornali la Lega è sì tornata, ma c’è tornata appunto per vicende passate: il processo contro il cerchio magico, il tesoriere infedele, la laurea finta del Trota. Fatterelli, o misfatterelli, un po’ provinciali, in fondo la prova del mesto tramonto di un’epopea durata anche troppo. Soprattutto la scomparsa dalla scena politica di Umberto Bossi - che della Lega era non solo il fondatore, ma anche l’unico vero leader - fa pensare che una stagione sia finita per sempre.

Tutto questo è innegabile. Ma comporta il rischio di una grave sottovalutazione politica. 

Il rischio di non vedere che, se la Lega è morta, il leghismo è più vivo che mai. Per leghismo non intendo un progetto politico, federalista o secessionista che possa essere, ma la rabbia del Nord. Una rabbia che è ancora più forte di quella sul cui fuoco poté soffiare, ormai quasi trent’anni fa, l’allora politico da bar Umberto Bossi e, ancor prima di lui, l’orgoglio veneto che diede vita alla Liga. Allora infatti si recriminava contro l’occupazione dei meridionali nelle scuole e negli uffici pubblici, contro l’arrivo dei primi immigrati, contro Roma ladrona e sì, certo, anche contro le tasse e la burocrazia: ma non c’era, ad aggravare tutto, la drammatica crisi economica di oggi. Il Nordest era in pieno miracolo, e la Lombardia il Piemonte e la Liguria erano sempre e comunque il triangolo industriale d’Italia.

Oggi, chi uscisse dai Palazzi della politica (per Palazzi intendendo anche l’astrazione di molte analisi giornalistiche) e incontrasse gli imprenditori (grandi, medi e piccoli) del Nord - ma anche i professionisti, gli artigiani e pure molti lavoratori dipendenti a rischio disoccupazione - si accorgerebbe che la crisi ha acuito a dismisura il rancore contro Roma e contro l’Italia, più che mai ritenuti capitale corrotta e Nazione infetta, o come minimo inetta.

Lunedì sera, a Milano, c’è stata una cena con Maurizio Lupi e un centinaio di imprenditori. A un certo punto uno di questi imprenditori si è alzato e ha detto: «Caro ministro, la mia azienda ha un carico fiscale di quasi il settanta per cento. Sa che c’è di nuovo? Che con il mio socio abbiamo deciso di aprire un’altra fabbrica in Svizzera, dove produrremo le stesse cose e risparmieremo fin da subito il venticinque per cento di tasse». Tutti i presenti hanno dimostrato di pensarla così, e il problema è che nessuno stava contestando Lupi, al quale anzi riconoscevano buone idee e buona volontà. Il problema è che ormai questo mondo pensa che, anche se c’è un ministro che dice cose giuste, non lo faranno lavorare. Il problema insomma è una sfiducia insuperabile in un sistema che stritola le migliori persone e le migliori intenzioni.

Anche un mese fa, a Verona, all’assemblea della Confindustria provinciale, ho sentito discorsi del genere. E quando, la scorsa settimana, sono stato nella Bergamasca per raccontare una storia di «nero» depositato in banca, ho sentito quanto gli imprenditori siano solidali con chi fa appunto «il nero». E badate bene: se è vero che la furbizia e l’egoismo non sono estranee a queste inclinazioni, è vero pure che sarebbe miope non cogliere anche una giusta esasperazione per un carico fiscale al di là di ogni confronto internazionale («Quest’anno chiudo in perdita, perché devo pagare l’Irap?», mi ha detto uno) e per una burocrazia che rende quasi impossibile l’apertura di una nuova impresa.

Non sappiamo chi raccoglierà, nelle urne, i frutti di questa rabbia: probabilmente nessuno. Ma non è questo, comunque, l’aspetto che deve preoccupare la politica. L’aspetto principale è che il declino della Lega non deve illudere: al Nord c’è qualcosa di più profondo di una protesta, c’è una voglia di andarsene. E una rabbia che non è più contro i politici, ma contro lo Stato, il che è molto peggio.

Da - http://lastampa.it/2013/12/04/cultura/opinioni/editoriali/la-lega-morta-il-leghismo-pi-vivo-che-mai-fw62rsPCo09JsVbLQvRnxK/pagina.html
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« Risposta #112 inserito:: Dicembre 11, 2013, 11:51:40 am »

Editoriali
11/12/2013

In piazza ci sono i figli della crisi
Michele Brambilla

Nella protesta dei cosiddetti Forconi c’è senz’altro un mix di elementi inaccettabili e inquietanti. Inaccettabili sono i disagi creati ai cittadini (non c’è causa che li giustifichi) e a maggior ragione le vetrine spaccate e le automobili rovesciate. Inquietanti sono le infiltrazioni estremiste e addirittura (pare) mafiose. Aggiungiamoci poi le strumentalizzazioni politiche, che vengono soprattutto da destra, e le istigazioni al linciaggio, che vengono dal solito Grillo.

Basterebbe tutto questo per esprimere una netta condanna. 

Tuttavia, bisogna stare attenti a liquidare la questione solo come un problema di ordine pubblico. Vanno infatti colti, a mio parere, due fenomeni nuovi, e particolarmente preoccupanti.

Innanzitutto. Le manifestazioni di questi giorni sono le prime, a memoria d’uomo, che in Italia si tengono a pancia, se non vuota, quasi vuota. Diciamo più correttamente che si tengono con la testa piena (di paura) per una pancia che potrebbe essere presto vuota (di cibo). Nel Sessantotto e nelle sue derivazioni, in piazza ci si andava un po’ per ideali e un po’ per conformismo, perché come diceva Longanesi in Italia siamo tutti estremisti per prudenza. Ma nessuno era mosso dalla fame. Anzi, al contrario si andava in piazza perfino contro il consumismo, come fece Mario Capanna durante le feste natalizie, mi pare, del millenovecentosessantotto o sessantanove. Il paradosso di quegli anni, semmai, era che nell’Italia del post-boom si prendevano a modello Paesi, come la Cina o Cuba, molto più poveri di noi.

Oggi no. Oggi c’è la crisi. Oggi ci sono i suicidi, i debiti, il timore di non poter più dare da mangiare ai propri figli. Questa è la prima novità preoccupante, perché si sa che finché si tratta di questioni ideali, le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola: ma quando la tavola è vuota, può davvero succedere di tutto.

La seconda novità è che per la prima volta (almeno in queste dimensioni) in piazza non vediamo studenti o lavoratori dipendenti, ma imprenditori. Diciamo pure piccoli imprenditori: padroncini, agricoltori, allevatori, ambulanti, tassisti, negozianti, partite Iva. Ma comunque imprenditori.

È gente che in Italia si sente, da sempre, senza patria. Come dice Daniele Marantelli, un deputato varesino del Pd che da anni cerca di capire le ragioni della protesta nordista, «la sinistra ha sempre avuto un pregiudizio negativo nei confronti del piccolo imprenditore, considerato un evasore fiscale che pensa solo a fare il proprio interesse». Nel loro sentirsi soli, l’artigiano, il commerciante, il trasportatore e più in generale tutti i piccoli imprenditori ritengono di avere ottime ragioni. Si considerano «lavoratori» anch’essi, e lavoratori che rischiano un proprio capitale, piccolo o grande che sia, e creano posti di lavoro, pochi o tanti che siano. Certo negli anni di vacche grasse guadagnano più dei lavoratori dipendenti: ma in quelli di vacche magre non hanno paracadute, né sindacato né cassa integrazione, e non di rado devono mettere in azienda il patrimonio di famiglia.

Anche riguardo all’evasione fiscale ritengono di essere vittime di faciloneria e pregiudizi. Invocano la distinzione fra loro - che producono lavoro e sono schiacciati da una pressa fiscale senza eguali - e i veri grandi evasori, finanzieri che vivono di speculazioni, o professionisti che non creano occupazione. Abbiamo evaso? Sì, dicono: ma ricordano che perfino Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha ammesso qualche tempo fa che in Italia esiste «un’evasione da sopravvivenza».

Insomma. Speriamo non succeda, ma non ci sarebbe da stupirsi se nei prossimi mesi accanto a questo un po’ ambiguo popolo dei forconi dovessero scendere in piazza, con eguale rabbia e violenza, tanti altri italiani ridotti allo stremo dalla crisi, dalle tasse, dalla burocrazia. Dovesse succedere, saremo qui tutti a dire che con la violenza si peggiorano solo le cose, che gli estremisti la mafia... Eccetera. Ma sarebbe ormai difficile fermare una deriva barricadiera. Non dimentichiamoci che in Grecia abbiamo visto, nelle piazze incendiate, anche insospettabili pensionati. La disperazione può trasformare chiunque.

Scrivevamo, la scorsa settimana, della rabbia anti-Stato che cova al Nord. Ora questa rabbia sta cominciando a sfogarsi nelle strade e nelle piazze. C’è un solo modo per fermarla, e per non lasciarla strumentalizzare da nessuno: venire incontro veramente a chi cerca di creare lavoro per sé e per gli altri.
http://lastampa.it/2013/12/11/cultura/opinioni/editoriali/in-piazza-ci-sono-i-figli-della-crisi-

2M5Gho7sxKHxZEsaxgacHI/pagina.html
Da – la stampa.it
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« Risposta #113 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:01:20 pm »

Politica
23/02/2014

L’entusiasmo dell’accentratore Renzi a Palazzo travolge tutto
Il rito si accorcia e diventa più interessante.
Lui scherza con tutti, e anche esagera

Michele Brambilla
Roma

Abbiamo un premier che, almeno per adesso, pare il ritratto della felicità. Chi conosce Matteo Renzi è abituato a vederlo scherzoso, divertente, pronto alla battuta. Ma in questi giorni ci appare ilare, diremmo addirittura sovreccitato, come mai prima. 

Ieri ha riso, o sorriso, tutto il giorno. Anche quando aveva a fianco un Napolitano che sembrava l’incarnazione della solennità delle Istituzioni; anche quando Alfano - che non gli è simpatico, e al quale non è simpatico - gli ha giurato davanti; anche e perfino all’inizio del passaggio di consegne più gelido che si ricordi, quello con Letta a Palazzo Chigi.

L’uomo, sia detto senza offesa, è come si sa discretamente ambizioso. Sembra mosso da una sorta di insofferenza nel restare dov’è. Sulla rete circola l’apocrifo di un suo appunto nel quale, sotto il titolo «Cose da fare», si elencano sette passaggi successivi. I primi tre sono spuntati perché raggiunti: sindaco di Firenze; segretario Pd; presidente del Consiglio. Restano: vincere Sanremo; capocannoniere mondiali; Oscar miglior attore; Papa. 

Ma l’ambizione è la molla che ha mosso ogni grande uomo e ogni grande impresa. Fa parte del carisma del leader, e indubbiamente Renzi è un leader carismatico. Se finora è arrivato dov’è arrivato, lo deve soprattutto a questo: al carisma. A Palazzo Chigi non entra perché eletto dal popolo, né perché abbia un curriculum da servitore dello Stato, e neppure per chissà quali protezioni. Semplicemente, vi entra trascinato dalla forza della sua personalità. Non si propone: si impone. È uno che riempie la scena. Ieri mattina, nel Salone delle feste al Quirinale, si faticava a trovare non diciamo un posto, ma anche un minino spazio vitale: «C’è il triplo delle telecamere dell’anno scorso quando ha giurato Letta», ha detto un teleoperatore, e chissà come mai.

Eppure avrebbe dovuto prevalere un senso di noia, o almeno di stanca ripetitività. Era il quinto giuramento davanti a Napolitano; il terzo nel giro di soli ventisette mesi, una frequenza che ci riporta ai tempi delle convergenze parallele e dei governi della non-sfiducia. Ma c’era Renzi: più brillante di Monti, più eccitante di Letta. In una parola, esplosivo. S’è detto che è il più giovane presidente del Consiglio della storia della Repubblica: ma anche Mussolini, che pure di esplosività se ne intendeva, quando arrivò a Palazzo Chigi era più vecchio di lui, di due mesi.

Renzi s’è imposto per la sua diversità da una classe politica che vuole mandare in soffitta per sempre. E anche ieri ha cercato di farla vedere, questa diversità. L’hanno finalmente costretto ad avere una scorta, ma lui è uscito dal suo normalissimo albergo come un normalissimo padre di famiglia, con la moglie Agnese che pare aver tutti i requisiti della perfetta first lady ombra (i grandi leader hanno sempre mogli che sanno stare nell’ombra) e i tre bambini. Ha scherzato con il macellaio che sta all’angolo, ha scambiato due battute con i passanti, poi è salito su una Alfa Romeo grigia fuori produzione con la moglie e la figlia più grande, mentre i due piccoli l’hanno seguito al Quirinale su un’altra auto guidata da Luca Lotti, l’amico di una vita, quello con i riccioli biondi.

Arrivato sul Colle, come detto è entrato nel palazzo del capo dello Stato come una forza della natura. Aveva, questa volta, l’abito giusto, quello scuro. Ha sbrigato la pratica del giuramento in quindici minuti, dalle 11,33 alle 11,48. Poi se n’è andato a palazzo Chigi, e solo lì lo abbiamo visto assumere un’espressione seria, quasi grave, mentre attraversava il cortile passando accanto al picchetto d’onore. Ma poco dopo, quando ha preso in mano la campanella, già era tornato quel tipico fiorentino che pare uscito da Amici miei, nonostante avesse accanto un Letta livido, al quale ha poi dato la mano senza degnarlo di uno sguardo, e senza esserne degnato.

Un uomo che arriva a Palazzo Chigi direttamente da Palazzo Vecchio, a 39 anni, senza essere mai stato in parlamento, e dopo quattordici mesi dalla sconfitta alle primarie contro Bersani, è il trionfo della volontà, la vittoria di chi vuole fortissimamente vuole. Avrà anche la forza per durare? Renzi è un uomo intelligente e scaltro. Sa che in questi primi mesi si gioca tutto. Lui non è come gli altri politici che possono permettersi di non mantenere le promesse: lui non ha detto che farà delle riforme, ha detto che farà una rivoluzione. E le rivoluzioni non si fanno a metà. Perfino uno come Di Pietro è riuscito a durare vent’anni: ma Renzi o funziona subito o non funzionerà mai.

Dicono che abbia scelto ministri di non grande personalità perché è un accentratore e gli garba comandare solitario. A Firenze, in un solo mandato da sindaco, è riuscito a cambiare tutti i suoi assessori. Un po’ dittatore? Forse siamo in uno di quei momenti in cui gli italiani uno un po’ dittatore sono anche disposti a digerirlo. E questa è una delle fortune di Renzi: ridotti come siamo, è difficile trovare qualcuno che, magari sotto sotto, non faccia il tifo per lui.

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/italia/politica/lentusiasmo-dellaccentratore-renzi-a-palazzo-travolge-tutto-GJrQvNcCzgO49SBusDeTMK/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Febbraio 28, 2014, 07:16:32 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 25/02/2014.

La strategia: popolare e genuino è sempre il Matteo della Leopolda
Renzi ha voluto ribadire che intende cambiare il Palazzo, non viceversa

Ha parlato a braccio, spesso con le mani in tasca, ha citato Gigliola Cinquetti invece di Benedetto Croce: dicono che non si presenta un programma di governo in questo modo. Ma ieri Matteo Renzi non ha presentato un programma di governo: ha presentato se stesso. E non ha parlato ai senatori: ha parlato agli italiani.

Si può pensare che abbia sbagliato, che sia stato impertinente o addirittura irriverente; che vista l’occasione avrebbe potuto prepararsi meglio.

Può darsi. Ma è molto probabile che la sua sia stata una scelta precisa. Cioè è probabile che Renzi abbia voluto far vedere agli italiani che la presa del Palazzo non lo ha ancora contaminato, che lui è sempre quello che al rapporto con i politici preferisce il rapporto con la gente. Non è un caso, credo, se ha parlato dei mercati rionali e non di quelli finanziari; se ha citato più volte la sua esperienza di sindaco a contatto con il popolo; se ha ricordato quando va a incontrare i familiari dei ragazzi morti negli incidenti stradali; se non ha annunciato appuntamenti con i grandi leader mondiali ma quelli, fissati per ogni mercoledì, con alunni e studenti delle scuole. 

Ha cominciato il discorso leggendo parole che parevano ingessate e solenni, usando il noi, «ci avviciniamo in punta di piedi e con il rispetto profondo e non formale che si deve a quest’Aula» eccetera eccetera, ma subito dopo altro che punta di piedi, ha messo giù il testo scritto e ha cominciato a muoversi come un bulldozer. Ai senatori cui stava chiedendo il voto di fiducia ha detto subito, giusto per ingraziarseli, che sono tutti più vecchi di lui («Non ho l’età per sedermi qui dentro») e che saranno presto i rappresentanti di un ente inutile, visto che il Senato, nel suo programma, sarà abolito: «Spero sia l’ultima volta che si vota la fiducia a un governo qui dentro». Ha detto che si avvicinava all’assemblea «con stupore»: ma è probabile che siano rimasti più stupiti i senatori nel vedere questa specie di intruso, di marziano della politica.

Si dice anche che sia rimasto sul generico, che abbia lanciato tanti slogan ma nessun intendimento concreto. Non mi pare sia così. Certo non ha toccato tutti i punti programmatici di un governo che si sta insediando. Ma alcune cose concrete le ha annunciate. Il taglio del cuneo fiscale «a doppia cifra»; i fondi per le piccole e medie imprese; lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione; gli interventi su una giustizia troppo lenta; la messa in rete di ogni centesimo di denaro pubblico che verrà speso; lo sforamento del patto di stabilità per l’edilizia scolastica; la licenziabilità dei dirigenti della pubblica amministrazione; la riforma elettorale, del Senato, del titolo V.

Certo tutto questo non l’ha detto come lo dice di solito un neo premier. Ma probabilmente, per non dire certamente, lo smarcarsi da quel «di solito» fa parte di una strategia studiata: Renzi ha voluto essere se stesso. Chissà che cosa ha pensato, ad esempio, di fronte a certe procedure: la seduta si apre con una dichiarazione del presidente del Senato che dice di aver saputo da una lettera (!) del cambio di governo; e s’interrompe quando il nuovo primo ministro deve portare personalmente alla Camera dei deputati il testo del discorso che ha appena pronunciato e che gli stenografi hanno trascritto. Liturgie ottocentesche insopportabili per uno che comunica via Twitter anche quando è a colloquio con il capo dello Stato al Quirinale.

A chi lo segue da tempo, il Renzi di ieri è parso lo stesso della Leopolda, delle primarie, delle feste del Pd con le salamelle. Qualcuno può pensare che quel Renzi stia a pennello su un camper, ma non a Palazzo Madama. Può pensare, insomma, che ieri l’enfant prodige della politica italiana si sia rivelato inadeguato. Difficile, però, immaginare che certe osservazioni Renzi non le avesse messe in conto. Più probabile che il nuovo premier la parte del marziano l’abbia recitata di proposito, per mostrare che il suo obiettivo è quello di cambiare il Palazzo, non di esserne cambiato. Che poi ci riesca, a cambiare la vecchia politica, è tutto da vedere, e realisticamente molto difficile. Ma a volte la storia è imprevedibile, e sistemi considerati immutabili cadono, o crollano, anche per mano di persone cui all’inizio non si dava un gran credito.

Michele Brambilla

Da - http://lastampa.it/2014/02/25/italia/politica/popolare-e-genuino-sempre-il-matteo-della-leopolda-VsuDNtSSVLIAyirn7OQcNN/premium.html
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« Risposta #115 inserito:: Marzo 29, 2014, 11:18:09 am »

Esteri
27/03/2014 - il commento

Barack intimidito in Vaticano davanti al carisma di Bergoglio

Michele Brambilla

Qualcuno ha notato che durante l’incontro tra Obama e Papa Francesco il primo era raggiante, il secondo serio, compassato, con la faccia di chi sta vivendo un momento tutto sommato «normale». Molti hanno osservato pure che il presidente americano mostrava di essere piuttosto in soggezione, e il Papa no.

Se è così - e guardando le immagini pare proprio che sia così - è forse la prima volta che un presidente degli Stati Uniti, cioè colui che per definizione è l’uomo più potente del mondo, avverte una specie di «stato di inferiorità», se ci si passa il termine, davanti a un interlocutore. È probabile che Obama, che già aveva incontrato Papa Ratzinger, abbia avvertito, fin quasi a intimidirsi, tutto il carisma di un uomo che sta stupendo il mondo non tanto per quello che dice, ma per quello che vive e che ha sempre vissuto. È ancor più probabile che Papa Francesco - pur con tutto il rispetto e la consapevolezza dell’importanza del suo interlocutore - non abbia sentito l’incontro di oggi più importante di tanti altri incontri con «gente normale»: poveri della sua parrocchia di Buenos Aires, penitenti che entrano in confessionale, malati senza speranza di guarigione, genitori preoccupati per un figlio.

Si parlerà molto, ovviamente, dei contenuti del colloquio tra Obama e il Papa. Sulle questioni di politica internazionale, sul disarmo e sulla povertà, sulle cose che uniscono e su quelle che dividono, ad esempio l’aborto e il matrimonio gay. È giusto, naturalmente, tener conto di questi discorsi, che senz’altro ci sono stati. Ma sarebbe sbagliato fare come si fa di solito, cioè considerare l’incontro di oggi come l’incontro tra due capi di Stato. Obama lo è, un capo di Stato; il Papa no. Sono due persone che viaggiano su piani differenti. Uno si occupa delle cose del mondo; l’altro delle cose del mondo pensando che il mondo non è l’ultima parola sulla vita.  

Certo anche Obama, per la sua storia, ha incarnato e incarna ancora una speranza. Ma la speranza incarnata dal Papa, e riposta da miliardi di uomini e donne in un «capo» senza esercito e senza impero, è il segno di qualcosa d’altro, di una risposta non solo alle nostre domande penultime sul senso della vita, ma anche alle ultime.

Da - http://lastampa.it/2014/03/27/esteri/barack-raggiante-in-vaticano-e-francesco-compassato-lincontro-normale-del-papa-u0RvOCinw1o8iQGQsGh6lN/pagina.html
« Ultima modifica: Marzo 29, 2014, 11:19:44 am da Admin » Registrato
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« Risposta #116 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:38:28 pm »

Cronache
02/04/2014
La voglia d’indipendenza che si trasforma in farsa

Michele Brambilla

Solo pochi giorni fa, su La Stampa, scrivevo che la voglia di indipendenza del Veneto è una questione troppo vera (citavo il sondaggio di Ilvo Diamanti, secondo il quale l’80 per cento dei veneti è favorevole a un referendum sul tema) e troppo seria (ragioni storiche ed economiche) per lasciarla in mano a personaggi che stanno a metà tra la farsa e l’operetta: dai Serenissimi del ’97, che occuparono piazza San Marco con un «tanko» di cartone, all’ultima consultazione on line, dai contatti misteriosi, compresi voti arrivati dal Cile. L’inchiesta giudiziaria di cui si è avuta notizia oggi conferma questa impressione. I magistrati contestano reati gravissimi, terrorismo compreso: ma francamente pare di assistere, più che a un caso giudiziario, a un caso psichiatrico.

Se anche fosse vero, infatti, che alcuni degli arrestati avevano assemblato un «tanko» meno folcloristico di quello di diciassette anni fa, e addirittura in grado di sparare, ci vuole una buona dose di pazzia nel pensare di poter arrivare, con simili mezzi, alla secessione del Veneto. Se anche ne avessero cento e veri, di carri armati, saremmo comunque nel campo del delirio. Ecco perché ripeto il concetto dei giorni scorsi: è davvero singolare che un’istanza come quella del Veneto sia sempre incarnata da personaggi che finiscono nel gettare tutto in burletta. 

In Veneto la voglia di indipendenza è infatti fondata, come dicevo, su ragioni storiche ed economiche. Quelle storiche. La nostalgia della Serenissima non s’è mai spenta. Anche quando la vecchia Liga, squassata dalla proprie divisioni interne, s’è trovata costretta ad allearsi con la Lega lombarda, l’ha fatto obtorto collo. Che a comandare fosse un lombardo, Bossi, provocava il mal di pancia: i lombardi, per i veneti, sono storicamente dei sudditi. Il Veneto si sente poi, a differenza della Lombardia o del Piemonte, non una regione, ma una Nazione. Non a caso si parla di «venetismo» ma non di «lombardismo» o di «piemontismo». 

Prendiamo il dialetto. In Lombardia, se un cittadino di Milano e uno di Bergamo (quaranta chilometri di distanza) si parlano in dialetto, non s’intendono per nulla; figuriamoci se provano a dialogare uno di Sondrio e uno di Mantova. Nel Nordest, invece, la lingua (guai a chiamarla dialetto) è - salvo piccole differenze - la stessa da Verona a Trieste, ed è il cemento di una cultura, di un popolo. Anche il concetto di Padania, per i leghisti veneti, è sempre stato riduttivo. Vogliono un Veneto che sia indipendente da tutto e da tutti.

Quanto alle ragioni economiche, sono facilmente intuibili. Ex regione più povera d’Italia, il Veneto è diventato una delle più ricche, e lo è diventato anche grazie a un eccezionale spirito imprenditoriale. Ma l’imprenditore veneto non ha mai digerito di dover dipendere da una Roma che è vista solo (e con qualche ragione) come tasse e burocrazia; tanto meno riesce a digerirlo adesso che il tempo delle vacche grasse è finito.

Morale: qualunque cosa si accerti sugli arrestati di ieri e sul referendum on online, la questione del Veneto non può essere liquidata con un’alzata di spalle, perché è molto più seria dei suoi paladini usciti finora, grottescamente, allo scoperto.

Da - http://lastampa.it/2014/04/02/italia/cronache/la-voglia-dindipendenza-che-si-trasforma-in-farsa-1cR0fT5zoXZWarAgCCoTsO/pagina.html
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« Risposta #117 inserito:: Aprile 10, 2014, 06:36:13 pm »

Cronache
14/10/2012 - LOMBARDIA- IL PRESIDENTE

Il Ventennio di Formigoni
L’uomo vittima del suo potere
Una carriera costruita sbandierando povertà e castità

Michele Brambilla
Milano

Forse più della mannaia dei leghisti colpisce il silenzio di quello che una volta era il suo mondo. Nessuno, a quanto pare, considera più difendibile Roberto Formigoni: neanche gli amici, i quali per tempo, ma inutilmente, gli avevano consigliato di cambiare frequentazioni e di abbandonare supponenza e ostinazione. 

Finisce così, salvo colpi di scena (quando c’è di mezzo la Lega c’è sempre da aspettarsi di tutto) una delle più lunghe monarchie della democrazia italiana. Il vero ventennio della Seconda Repubblica non è stato infatti quello di Berlusconi, ma quello di Formigoni.

Il quale diventa presidente della Regione Lombardia, per la prima volta, nel 1995: solo un anno dopo la prima vittoria di Berlusconi alle politiche. Ma quando Formigoni si insedia al Pirellone, il Cavaliere è già stato fatto sloggiare da palazzo Chigi. Quando poi Formigoni, presumibilmente nell’aprile dell’anno prossimo, lascerà il suo trono, Berlusconi sarà lontano dal comando già da quasi due anni. E comunque: in questo ventennio Berlusconi a volte ha vinto e a volte ha perso le elezioni; a volte è stato al governo e a volte all’opposizione. Formigoni, invece, ha sempre vinto, anzi stravinto (quattro vittorie elettorali con la maggioranza assoluta) e ha sempre governato, sia pure su scala regionale.

In questa cronologia, probabilmente, c’è già la spiegazione di una parabola politica e umana. Per troppo tempo Formigoni è rimasto al potere: nello stesso potere. E quando si rimane troppo al potere, nello stesso potere, si finisce con il convincersi di essere infallibili, intoccabili, immortali. E si perde il contatto con la realtà.

Vedendo in questi giorni Formigoni sorridere ironico e spavaldo ai cronisti e alle telecamere, tornano alla mente i leader democristiani e socialisti di vent’anni fa, quando liquidavano i primi arresti di Di Pietro come gli avventurismi di un incauto che presto sarebbe stato trasferito a fare il vigile urbano a Gallarate. Solo un paio di anni dopo, e solo davanti alla bava alla bocca di Forlani al processo Enimont, quei politici (che pure erano vecchie volpi) tornarono sulla terra.

 

Quante volte il potente finisce con il credersi onnipotente. E cade. Rovinando anche il tanto di buono che aveva costruito. Perché Formigoni, in quasi quattro mandati da presidente, di cose buone ne ha fatte tante. Quando dice che «Regione Lombardia è un modello di buona amministrazione» (proprio così: «Regione Lombardia» senza l’articolo determinativo, come se fosse una persona: è il linguaggio dei manager, e lui è un presidente-manager), Formigoni certamente tira acqua al suo mulino, ma non dice una falsità. La Regione Lombardia marcia con molti meno dipendenti di tante altre. I suoi conti sono senz’altro più virtuosi. I suoi ospedali sono i migliori d’Italia.

Ma proprio perché il potere finisce con l’ottenebrare anche le menti migliori, Formigoni - l’ultimo Formigoni - è giunto a pensare che tutto gli sarebbe stato permesso. Passi per l’igienista dentale nel suo listino bloccato. Ma la giunta? In giunta Formigoni ha imbarcato di tutto. Cinque assessori finiti in manette non possono essere un caso: se un manager mette ai posti chiavi dell’azienda cinque disonesti, o cinque incapaci, vuol dire come minimo che ha perso il controllo.

E poi, mentre crescevano efficienza e potere cresceva anche, nell’uomo Roberto Formigoni, un’ambizione, una voglia di grandeur di cui la costruzione del mega-galattico Palazzo Lombardia è l’immagine più eloquente. Quanto diverso, il Formigoni di oggi, dal giovane barbuto che sembrava sempre appena uscito da un oratorio, e che iniziava l’attività politica non nascondendo - per non dire sbandierando - la sua scelta personale di vita, improntata a povertà e castità.

La politica come servizio: questa era la vocazione del Formigoni dei primi anni Ottanta. Quando cominciava a cercarsi uno spazio nella Dc con il suo Movimento popolare. C’erano, allora, meno di quattro soldi e vecchi uffici vicino alla stazione centrale di Milano, in via Copernico. A dargli una mano niente manager o consulenti d’immagine, ma un po’ di volontari, giovanotti accorsi per la Causa. Formigoni aveva contro i notabili del partito, che ne temevano l’ascesa, ma aveva dalla sua un piccolo popolo. Alle elezioni Europee del 1984 fu il primo degli eletti della Dc con 450.000 preferenze. Quando De Mita gli telefonò per complimentarsi, al centralino c’era una ragazza che rispose più o meno così: «Formigoni non può rispondere perché è in bagno». Ma un attimo dopo si corresse in questo modo: «Aspetti aspetti, sento che ha tirato lo sciacquone, adesso glielo passo».

Un altro secolo, un’altra galassia. Oggi Formigoni a Palazzo Lombardia ha un ufficio forse senza eguali in Europa. Praticamente tutto il trentacinquesimo piano. E l’eliporto. E una vista spettacolare per abbracciare tutto il suo regno. Il regno del Governatore (mai nessun presidente di Regione s’era chiamato così, prima di lui). Il regno del Celeste.

Sbaglia però chi oggi lo mette nello stesso calderone di molti altri politici finiti nel mirino della magistratura. Uomo sicuramente dotato come pochissimi, Formigoni è forse vittima di quel narcisismo che egli stesso ha recentemente riconosciuto. La sua metamorfosi - ahimè riconoscibile anche dalle orribili giacche colorate, dalle disgustose camicie a fiori e dagli imbarazzanti filmati che ha voluto mettere su You Tube - lo ha portato a credersi tanto infallibile da non ascoltare più nemmeno i vecchi amici di Cl. 

Infatti anche pensare che Formigoni sia tutt’uno con Cl è una semplificazione, un errore. Invano lo avevano esortato a evitare, ad esempio, un certo Daccò. Invano gli è stato ricordato che don Giussani chiedeva, in politica, una «presenza»: non una «egemonia». Julián Carrón, il successore di don Giussani, in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica ha espresso concetti che Formigoni non ha recepito. Fino ad andare al Meeting - tra lo sconcerto di tutti - a informare che il Papa prega per lui.

Uomo che comunque non meritava un capolinea così, Formigoni cade senza realizzare il sogno del passo vincente da Milano a Roma. Cade anche per i suoi errori. Tocca a lui, adesso, sperimentare come passa la gloria di questo mondo.

Da - http://www.lastampa.it/2012/10/14/italia/cronache/il-ventennio-dell-uomo-vittima-del-suo-potere-IRRrEJzikK17CAO4ncmYjM/pagina.html
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« Risposta #118 inserito:: Maggio 03, 2014, 12:14:22 pm »

Editoriali
03/05/2014

Lo strabismo sulle violenze di piazza
Michele Brambilla

Quanto siamo strabici in Italia quando guardiamo alle violenze di piazza. Vediamo molto bene gli errori della polizia e siamo prontissimi a denunciarli (giustamente, sia chiaro a scanso di equivoci: giustissimamente) ma chiudiamo un occhio, se non tutti e due, di fronte agli «eccessi» di certi «manifestanti» che protestano, che poi non sono eccessi ma atti di guerriglia, e che poi non sono manifestanti che protestano ma delinquenti che delinquono.

L a cronaca di queste ultime giornate è lì a dimostrare questo strabismo. Per giorni ci si è stracciati le vesti per gli applausi che un sindacato di polizia ha tributato agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. Anche qui, deve essere chiaro che non può esserci alcuna esitazione nel condannare quegli applausi. Benissimo ha fatto il ministro Alfano a non ricevere i membri di quel sindacato e a dire che pure la polizia, oltre ai familiari di Aldrovandi, esce offesa da una simile porcheria. Ma se a quel fatto è stato dato il giusto risalto, pochissimo si è detto e ancor meno si dice oggi, a due giorni di distanza, delle violenze scatenate in piazza, a Torino, da soggetti che chissà perché anche noi dei giornali non abbiamo il coraggio di definire per quel che sono, e chiamiamo «antagonisti», «no Tav», «spezzoni sociali» o altre scemenze del genere. Questi elementi hanno trasformato la manifestazione del primo maggio in una caccia all’uomo e alla fine diversi agenti sono finiti all’ospedale, chi con la testa rotta, chi con il braccio fratturato, e così via. Ma qualcuno ha detto una parola di solidarietà nei confronti di questi uomini che, per poco più di mille euro al mese, erano lì a cercare di garantire la sicurezza di tutti noi? Quei pochi che lo hanno fatto vengono emarginati come «reazionari», ed è già tanto che non siano chiamati «fascisti» come era di moda una volta. 

Intendiamoci. La violenza di chi è in divisa non può essere equiparata a quella di un privato cittadino. È chiaro che è più grave. E quindi è ovvio che quando la si scopre l’impatto mediatico diventa straordinario. Ma come negare che accanto a una simile e doverosa reattività ci sia, in Italia, una particolare indulgenza nei confronti di chi considera una manifestazione di piazza come l’occasione per sfasciare vetrine e incendiare automobili? Provate a vedere se in Francia, o in Germania, o in Inghilterra o in Spagna si fa passare per «democrazia» la pretesa di andare in piazza con i caschi integrali e i bastoni. Solo in Italia si ha un concetto tanto elastico di libertà. Ne ricordiamo a decine, di giornate come il primo maggio torinese: e sono giornate delle quali, alla fine, rimangono solo le discussioni su come è intervenuta la polizia. Chi abbia cominciato a scatenare l’inferno, è sempre un dettaglio. 

Una volta la polizia in Italia era sacra. Anche la malavita le riconosceva uno status particolare: quando cominciai a lavorare come cronista, i vecchi colleghi della «nera» mi ricordavano sempre che quando all’Isola, quartiere allora malfamato di Milano, un rapinatore aveva ucciso un poliziotto, tutti i delinquenti del quartiere si erano dati da fare per prenderlo e consegnarlo alla giustizia. Poi sono venuti anni in cui si è cominciato a disquisire su chi sono, in fondo, i veri criminali (i fuorilegge o la legge?), sul disarmo della polizia, sul diritto costituzionale del passamontagna.


Quegli anni maledetti, grazie al cielo, sono passati. Ma più di una scoria è rimasta, e fa sentire i suoi effetti. A furia di ripetere che bisogna dubitare sempre delle istituzioni – cosa anche giusta – abbiamo finito con il non dubitare mai: nel senso che siamo sempre certi che il potere sia marcio; e siccome la polizia e i carabinieri sono i suoi custodi, chi ce lo fa fare di difenderli.

Eppure, solo se non si fosse tanto strabici si potrebbe essere ancora più inflessibili nei confronti di chi, tra le forze dell’ordine, si rende responsabile di abusi, di violenze, insomma di reati. Invece tanta faziosità finisce anche con l’alimentare, in chi si trova in piazza con la divisa, un senso di frustrazione, di abbandono, di ingiustizia; insomma finisce con il sedimentare rancori che sono poi all’origine di tanti errori, forse anche di certi applausi sbagliati.

Da - http://lastampa.it/2014/05/03/cultura/opinioni/editoriali/lo-strabismo-sulle-violenze-di-piazza-lww8ONOcY6iCf0L1F7tscP/pagina.html
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« Risposta #119 inserito:: Maggio 08, 2014, 05:23:20 pm »

Cronache
08/05/2014 - l’analisi

Il contrappasso dell’ex “Compagno G”
Salvò il Pci-Pds da Tangentopoli, finisce in carcere per l’Expo del centrodestra

Michele Brambilla

Qualche vecchio democristiano o socialista forse avrà pensato, questa mattina leggendo dell’arresto di Primo Greganti, alla legge del contrappasso, e sul suo viso sarà comparso quel ghigno che bene esprime la vendetta compiuta.

Greganti, allora detto «il compagno G», era – vent’anni fa o poco più, al tempo del ciclone di Mani Pulite – uno degli amministratori del Pci-Pds e un pm di Milano, Tiziana Parenti, gli contestò svariati milioni incassati «in nero», e quindi dalla provenienza più che dubbia.

A quel tempo Dc e Psi erano già stati decimati dall’inchiesta. E decimati in questo modo: gli inquirenti arrivavano a qualche segretario amministrativo, gli contestavano delle tangenti, dopo di che dicevano che i segretari politici non potevano non sapere, e cominciavano ad indagarli. Quindi, un interrogatorio dietro l’altro, qualche prova arrivava. Così, ad esempio, Forlani e Craxi erano stati impallinati. Ecco dunque che l’arresto di Greganti parve, a molti, il momento in cui sul banco degli imputati sarebbe finalmente finito anche il terzo grande partito della Prima Repubblica, il Pci, fino a quel momento rimasto fuori.

Ma Greganti, in galera, tenne duro, e non ammise nulla. L’allora procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio scavalcò di fatto Tiziana Parenti nelle indagini e concluse che Greganti, i soldi, se li era tenuti per lui, per comprarsi vari appartamenti. Così, il Pci-Pds nazionale uscì illeso anche in quella circostanza.

Naturalmente questa conclusione delle indagini lasciò a rosicare democristiani e socialisti, i quali accusarono D’Ambrosio di benevolenza nei confronti dei comunisti. Tiziana Parenti finì addirittura – per dire come montarono le polemiche politiche – in parlamento con Forza Italia.

Oggi, a distanza di un’era geologica (politicamente parlando) Greganti finisce dentro per affari nati attorno all’Expo, che è una creatura del centrodestra milanese, dalla Moratti a Formigoni. Ecco perché qualcuno penserà alla legge del contrappasso. A meno che Greganti, anche questa volta, non riesca a dimostrare che le cose stanno diversamente, e a uscirne pulito, cosa ovviamente possibilissima.

Da - http://lastampa.it/2014/05/08/italia/cronache/il-contrappasso-dellex-compagno-g-hhOytUbs4wAFW1oCNu7FZP/pagina.html
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