LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 03, 2010, 10:56:37 am



Titolo: MICHELE BRAMBILLA
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2010, 10:56:37 am
3/4/2010

Il mix di Bossi dai celti alla Chiesa
   
MICHELE BRAMBILLA


Martedì scorso su Il Fatto Massimo Fini ha rivelato un episodio di alcuni anni fa. Una sera a cena, convinto che il momento fosse propizio per una confessione, fece una domanda a Bossi.

Umberto, dimmi finalmente la verità: ma tu sei più di destra o più di sinistra?». Bossi rispose: «Più di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così». È un aneddoto che può apparire assurdo, in questi giorni in cui ci si chiede se la Lega non sia diventata un partito cattolico, anzi clericale. E in cui altri invece sostengono, come hanno sempre sostenuto, che è un partito xenofobo di estrema destra, quindi del tutto anticristiano. Insomma che cosa è la Lega?

La realtà è molto complessa. Nella battuta di Bossi a Massimo Fini c’è del vero. La Lega ad esempio non è in alcun modo assimilabile al berlusconismo. Chiunque abbia seguito le feste del popolo della libertà e quelle della Lega, o i comizi di Berlusconi e quelli di Bossi, sa bene che fra le due realtà c’è una distanza siderale. Non stiamo parlando tanto di una diversità politica, quanto di una diversità antropologica. L’uomo leghista è diverso da quello berlusconiano nei valori di fondo, negli obiettivi di vita, nei modelli da seguire, nel modo di vestire e perfino di mangiare. Certamente è un tipo umano molto più «popolare». Allo stesso modo il militante leghista è lontano anni luce dal mondo che viene dall’ex Msi: l’antifascismo tante volte proclamato da Bossi non è una dichiarazione di facciata.

Basta questo per dire che la Lega è «di sinistra»? Certo che no. Tuttavia non c’è dubbio che la Lega abbia attinto, oltre che dal serbatoio di voti dell’ex Dc, anche da quello dell’ex Pci: cioè da due partiti profondamente radicati nel popolo. Ovvio che non è, quella di Bossi, la sinistra degli intellettuali, dei giornalisti e dei testimonial del mondo dello spettacolo o della cultura. Ma sicuramente il mondo di Bossi non è quello dei palazzi - della finanza o della cultura che siano - bensì quello degli strati popolari del Paese. Un mondo che è un mix di valori che difficilmente si può etichettare «di destra» o «di sinistra».

Quali sono i valori della Lega? Non c’è dubbio che il primo sia stato la difesa di un interesse. Bossi ha raccolto consensi fra coloro che, a torto o ragione, ritenevano minacciato un proprio interesse. Le prime campagne furono contro i meridionali, poi rimpiazzati dagli immigrati. La paura che qualcuno che «viene da fuori» possa togliere qualcosa è stato il primo carburante. Ed ha finito con l’alimentare categorie diverse: dal mondo delle piccole e medie imprese che si sente tartassato dal fisco a quello degli operai che si sentono abbandonati da ciò che resta del vecchio Pci.

La battaglia contro i nemici esterni - il fisco di Roma e l’immigrato che toglie il posto di lavoro «alla nostra gente», come dice Bossi - ha finito poi per allargarsi a una più generale difesa della propria identità. La paura è diventata insomma anche quella di veder svanire il proprio millenario modo di essere: dal dialetto alla religione. Ed è qui che è nata la Lega «cattolica».

Bisogna intendersi bene. La Lega all’inizio era tutt’altro che filocattolica. Uno dei suoi primi slogan, «via da Roma», non è che la traduzione del motto di Lutero «los von Rom»: e più volte Bossi aveva minacciato, anni fa, una nuova Riforma, la nascita di una Chiesa del Nord. Poi c’è stata la fase pagana, con i riti sul Po e i matrimoni celtici. Solo da qualche anno la Lega ha fatto suo il cattolicesimo come fattore di difesa della propria tradizione. Da qui l’accusa di un cristianesimo senza Dio, utilizzato come religione civile: quanto di peggio, dal punto di vista di un credente.

Anche perché - parallelamente alla difesa del crocefisso e della vita dal concepimento alla sua fine naturale - la Lega ha proseguito in una politica sull’immigrazione che le ha provocato non poche tensioni con la Chiesa. Anche su questo punto comunque vanno evitate le banalizzazioni. Nei giorni scorsi la stessa Rosy Bindi ha riconosciuto che sul tema degli immigrati la Lega razzola assai meglio di quanto predichi: ne sono prova le politiche di molte amministrazioni leghiste. Però, osservava ancora la presidente Pd, un certo linguaggio e certe provocazioni contribuiscono lo stesso a diffondere un seme cattivo.

Certo è difficile identificare il militante padano con il cattolico volontario dei centri aiuti alla vita: sono anche quelli due mondi diversi. Tuttavia la Lega sul fronte pro life è sempre stata compatta forse anche perché sente che è una battaglia in sintonia con buona parte di un suo mondo popolare e tradizionale, non necessariamente cattolico. Alcuni commentatori hanno scritto che è solo una manovra per tenersi buona la Chiesa sul tema dell’immigrazione. Può darsi. Ma la Lega ha logiche e motivazioni che spesso ci sfuggono. Noi giornalisti per molti anni abbiamo preso abbagli colossali, sulla Lega: e forse continuiamo a non capirla del tutto.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE BRAMBILLA
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 11:51:00 am
23/4/2010

La scomoda questione del Nord

MICHELE BRAMBILLA

Fra le tante questioni che Fini ha ricordato (o meglio ha rinfacciato) a Berlusconi c’è quella del Nord. Lassù, ha detto il presidente della Camera, a destra l’egemonia non è più nostra, ma della Lega; ci hanno portato via un sacco di voti e ormai comandano loro.

La replica di Berlusconi è stata fulminea e velenosa: caro Gianfranco, non venire a farmi la morale su questo perché la colpa è proprio tua. I leghisti non hanno fatto altro che impadronirsi delle battaglie che un tempo faceva Alleanza Nazionale, e che tu hai abbandonato, anzi rinnegato; quindi i voti che abbiamo perso in favore di Bossi li ha persi tu, non io.

Apparentemente, uno a zero e palla al centro per Berlusconi. E’ vero o non è vero che An ha costruito parte della sua iniziale fortuna sul tema della sicurezza, includendo nella sicurezza pure la lotta ai clandestini? Ed è vero o non è vero che da qualche tempo Fini, quando parla di immigrazione, riceve più applausi dalla sinistra che dalla destra? Ed è vero o non è vero che di questo cambiamento di posizioni - o di questo voltafaccia, secondo i nemici di Fini - la Lega ha tratto profitto? Certo che è vero. E’ tutto vero. Come diceva Montanelli, Bossi è un maestro non nella semina, ma nel raccolto: «Lui sta lì, con una gerla, pronta a raccogliere le olive quando stanno per cadere». Così ha raccolto la delusione di molti ex missini ed ex An, i quali sulla sicurezza si sono sentiti traditi da Fini. Soprattutto in Veneto, il travaso di voti dal Pdl alla Lega è principalmente un travaso da An alla Lega.

Tuttavia sarebbe un grave errore liquidare la questione così, come se la battuta di Berlusconi avesse davvero messo a tacere Fini per sempre. La questione del centrodestra al Nord, infatti, è molto più complessa. Non basta il pentimento di Fini sugli immigrati per spiegare l’egemonia che la Lega si sta conquistando dall’Emilia in su. Ieri - ne siamo certi - i berlusconiani del Nord nel momento stesso in cui hanno applaudito il capo hanno anche pensato, dentro di sé, che le parole di Fini non erano campate per aria.

Non è solo una faccenda di numeri, cioè di voti. E’ anche una questione di un potere contrattuale ormai evidentemente sbilanciato. La Lega ha preteso e ottenuto due Regioni, il Veneto e il Piemonte. Ha vinto in tutte e due, e sono due vittorie pesantissime. In Veneto Zaia ha scalzato un uomo del Pdl; in Piemonte Cota ha portato al centro destra una regione che era del centro sinistra, e che pareva molto difficilmente espugnabile. Resta la Lombardia, dove ha vinto come al solito Formigoni. E Formigoni è del Pdl. Ma può essere definito un uomo di Berlusconi? Onestamente no. Formigoni ha una storia politica e culturale che affonda in altre radici, precedenti alla «discesa in campo» del Cavaliere. Ha tutto un mondo suo. Certo non vincerebbe se corresse da solo, ma insomma: nel profondo è qualcosa di «altro» rispetto al Pdl. Ecco perché la Lega dopo il voto si sente molto più forte di quanto dicano le semplici percentuali.

Certo in politica tutto può cambiare. Ma adesso la sensazione è che, al Nord, il futuro del centro destra sia tinto soprattutto di verde, non di azzurro. La Lega è più strutturata come partito, ha più contatto con il popolo, parla un linguaggio più diretto. Soprattutto ha un progetto politico per il Nord che va oltre il carisma del suo leader, e che quindi è destinato a sopravvivergli: cosa che non si può dire del Pdl.

Ecco perché la questione posta da Fini è reale. Ed ecco perché nel Pdl del Nord - sotto sotto - non sono solo i finiani a essere preoccupati.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE BRAMBILLA. C'è bisogno della forza di indignarsi
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2010, 10:08:29 am
13/7/2010

C'è bisogno della forza di indignarsi
   
MICHELE BRAMBILLA

Sarebbe interessante un sondaggio sull’ultimo «scandalo» che vede il ritorno dei vecchi coscritti della P2 e il coinvolgimento, fra gli altri, di uno dei coordinatori del Pdl, Denis Verdini. È probabile, anzi quasi certo, che la stragrande maggioranza degli interpellati dichiarerebbe di non saperne nulla. Chiunque di noi può sincerarsene organizzando un mini-sondaggio fai da te. Provate a parlarne a tavola o al bar con un gruppo di conoscenti: persone di buona istruzione, anche lettori abituali di giornali, vi guarderebbero sbarrando gli occhi come per chiedervi «Verdini chi?».

È che ormai nessuno scandalo fa più veramente scandalo. Bisognerebbe modificare la stessa definizione del termine che ne dà il vocabolario: da «evento o incidente che provoca una vivace reazione nell’opinione pubblica» a «fatto ordinario registrato dai media come le previsioni del tempo e serenamente accettato dai lettori».

A beneficio di questa stragrande maggioranza di connazionali che comprensibilmente non sa neppure di che cosa stiamo parlando, proviamo a fornire una sintesi dei fatti. A Roma c’è un’inchiesta della magistratura su una presunta associazione segreta che avrebbe cercato di condizionare le istituzioni.

Ad esempio, influenzando la nomina di importanti giudici e quindi tutta una serie di sentenze; e promuovendo o stroncando, a seconda dei casi, le carriere di uomini politici. Secondo l’accusa ci sarebbero state, a casa di Denis Verdini, alcune cene durante le quali un gruppo di persone avrebbe ad esempio: 1) cercato (senza riuscirci) di influire sui giudici della Corte Costituzionale per far passare il lodo Alfano, cioè la sospensione dei processi penali per le alte cariche dello Stato; 2) deciso (riuscendovi) il nome del nuovo presidente della Corte d’appello di Milano; 3) attivato una strategia per screditare il candidato del Pdl alla presidenza della Regione Campania Stefano Caldoro, facendolo passare per un frequentatore di transessuali, e così rendendo un servigio a un altro esponente del Pdl, Nicola Cosentino, impresentabile alle elezioni in quanto accusato di rapporti con la camorra; 4) fatto pressioni sulla Corte di Cassazione affinché accogliesse il ricorso dello stesso Cosentino contro la richiesta di arresto della Procura di Napoli.

In questa inchiesta sono indagati appunto Verdini, Cosentino e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Altre persone sono addirittura state arrestate e tra costoro c’è un nome che è sicuramente sconosciuto ai più giovani, ma che è in grado di far sobbalzare sulla sedia i meno giovani con un meravigliato «ma come, è ancora vivo?». Si tratta di Flavio Carboni, che nelle cronache dei primi Anni Ottanta veniva presentato come «il faccendiere Carboni», e che era una delle anime nere della loggia massonica P2 di Licio Gelli (tra un po’, vedrete, rispunterà fuori anche lui: l’Italia è il Paese dei «rieccoli»).

È ovvio che siamo ancora ai preliminari e che nessun giudizio può essere azzardato. Tuttavia alcuni fatti sono innegabili. Intanto, Carboni ha nel cursus honorum una condanna a otto anni per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, un crac che rovinò decine di migliaia di famiglie: eppure è ancora in giro, fa riunioni con il coordinatore del partito di maggioranza e si occupa, come ha detto lui stesso, «di affari di Stato, di operazioni che riguardano lo Stato». Secondo, nella storia del trappolone a Caldoro qualche cosa di vero ci deve essere, visto che l’assessore regionale campano Ernesto Sica, indicato come uno degli attori del complotto, l’altro ieri si è dimesso. Eppure Nicola Cosentino, nonostante questa vicenda, e nonostante la precedente inchiesta per camorra, resta tranquillamente sottosegretario all’economia e coordinatore del Pdl campano. Non si è dimesso, come non si è dimesso Verdini e come non si è dimesso da senatore Marcello Dell’Utri, recentemente condannato in appello a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Come non si dimette quasi nessuno.

E questo accade proprio perché, come dicevamo all’inizio, tutto ormai scivola via, viene ingoiato nella normalità. Seguiamo poco, ci disinteressiamo. Un po’ per assuefazione, per noia. Ma un po’ anche perché, purtroppo, è cambiato - e molto - il comune senso della morale. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se un importante uomo politico, trenta o quaranta anni fa, fosse stato condannato per mafia e anche avesse solo partecipato a equivoci festini. Forse allora eravamo bacchettoni e ipocriti, ma l’ipocrisia è anche l’omaggio che il vizio rende alla virtù: nascondevamo le nostre malefatte perché sapevamo che c’era di che vergognarsi. Era l’Italia in cui finire sul bollettino dei protesti o più semplicemente andare in rosso in banca era un disonore: oggi, un rinvio a giudizio è una medaglia al valore. Ai politici perdoniamo molto perché molto abbiamo da farci perdonare.

Non stiamo facendo un elogio del professionista dell’indignazione: spesso l’indignato è colui che si indigna solo per i peccati altrui. Ma oggi il rischio è l’indifferenza, quando non la complice acquiescenza. Ed è questo che ci spaventa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7585&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA C'è peccato e peccato
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2010, 03:57:40 pm
13/8/2010

C'è peccato e peccato
   
MICHELE BRAMBILLA

Che ne è dell’inchiesta su Verdini? E di quella sulla P3? E Cosentino, l’ex sottosegretario sul quale pende un mandato d’arresto, e che continua a guidare il Pdl in Campania?

E che fine ha fatto Brancher, nominato ministro per cercare di sfuggire, grazie al legittimo impedimento, a un processo nel quale è poi stato condannato? E il ministero lasciato libero dal dimissionario, o meglio dimissionato Scajola, e ancora vacante? E il senatore Dell’Utri, condannato in appello a sette anni per concorso in associazione mafiosa e ancora ben ancorato al suo seggio in Senato?

Erano questi i temi che fino a pochi giorni fa occupavano le prime pagine dei giornali. Tutto svanito, tutto evaporato, tutto cancellato dall’inchiesta sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e finita in affitto al fratello della compagna di Fini. Sembra che l’intera «questione morale» ora sia ridotta solo a questo, solo alla casa di Montecarlo e alle presunte responsabilità di Fini.

Intendiamoci bene. Non è in discussione l’importanza della vicenda Fini-Tulliani. Anzi. «Il Giornale», sollevandola, ha dato una notizia; di più, ha fatto uno scoop, e quindi tanto di cappello. Quanto a Fini, ha davvero il dovere di chiarire fino in fondo ciò che non è stato ancora chiarito: anche prendendo per buona la sua autodifesa, resta da accertare chi ci sia dietro la misteriosa finanziaria che ha acquistato l’immobile. Il punto è un altro. È che c’è da chiedersi che razza di clima sia un clima in cui la politica vien fatta ormai esclusivamente a colpi di dossier sui peccati altrui; e un clima - quel che è peggio - in cui chiodo scaccia chiodo, e quindi ha dignità di attenzione soltanto l’ultimo, in ordine cronologico, degli scandali sollevati. Nei giorni scorsi Giuliano Ferrara ha scritto una riflessione interessante su dove ci sta conducendo questa politica del fango nel ventilatore. Ci permettiamo di aggiungerne qualche parola.

Il primo degli effetti perversi di questa politica (e di questa informazione) fatta di accuse e controaccuse, è appunto che sbandierando uno scandalo si ottiene l’effetto di cancellare i precedenti. Ma il secondo, forse finora sottovalutato, riguarda l’ancor più perverso risultato di attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre. Così, a chi contesta una condanna in appello per mafia, o un procedimento per camorra, o pressioni per condizionare gli incarichi di magistrati, si risponde che un altro ha forse favorito un cognato nell’acquisto di una casa, e tutto si azzera. E a chi ad esempio parla di una casa editrice che ha cambiato proprietà perché alcuni giudici sono stati corrotti (c’è una sentenza passata in giudicato che lo stabilisce) si replica di tacere perché il cognato di Fini gira con una Ferrari e ha uno polo griffata Ralph Lauren. Ripetiamo: non stiamo prendendo le difese di Fini, ma la domanda posta l’altro giorno da alcuni suoi uomini («Se deve dimettersi Fini, che peraltro non è ancora formalmente inquisito, perché non dovrebbe dimettersi Berlusconi con tutti i procedimenti che ha avuto e che ha tuttora?») non è priva di logica.

A uno scandalo si risponde contrapponendo un altro scandalo, vero o presunto. Dell’avversario non si risparmia alcun aspetto della vita, quella privata compresa. Coloro che, al tempo della questione Noemi-D’Addario, dicevano che non si mette il naso sotto le lenzuola altrui, sono gli stessi che hanno invocato e ottenuto le dimissioni di Marrazzo e del sindaco di Bologna Delbono, finiti nell’occhio del ciclone essi pure per storie di sesso; e hanno mandato all’ergastolo civile l’ex direttore di «Avvenire» Dino Boffo per un patteggiamento per molestie telefoniche. Che cosa c’entrasse poi Boffo nello scontro politico attuale, ogni persona dotata di un mimino di onestà intellettuale lo sa: zero.

«Moralista» è l’aggettivo-scomunica con cui si riduce al silenzio chiunque osi sollevare una questione morale. Il principio è che siamo tutti peccatori (c’è sempre qualche commentatore col turibolo che cerca di dare dignità cristiana a questo giochetto) e quindi nessuno può impartire lezioni, né chiedere chiarimenti, a chicchessia. Ora, non c’è dubbio che siamo tutti bisognosi di essere perdonati per qualcosa, non esistendo per alcuno l’impeccabilità. Ma l’imbroglio è appunto quello di equiparare ogni «peccato», di silenziare chi ti contesta una corruzione ricordandogli la sua multa per sosta vietata.

Questa battaglia contro i «moralisti» ha lo scopo neanche troppo recondito di cercare un’autoassoluzione, di portare a un «tutti colpevoli quindi tutti (anzi, noi) innocenti», di mettere ogni cosa sullo stesso piano, di confondere le pagliuzze con le travi. E il guaio è che molti italiani ormai si sono assuefatti, e a simili incantatori hanno finito per credere.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7705&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Ma prima va rispettata la legge
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2010, 11:11:10 am
24/8/2010

Ma prima va rispettata la legge
   
MICHELE BRAMBILLA

Quando si comincia a parlare di espulsioni di rom, come ha fatto il nostro ministro degli Interni e come stanno facendo in Francia, è inevitabile che tornino subito in mente immagini fra le più sinistre di quel macabro film che per certi versi è stato il Novecento. Viene in mente persino quella celebre poesia di Bertolt Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti. E io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Anche se erano altri tempi e altri regimi, non c’è dubbio che già il termine «espulsioni» suoni macabro. In Italia si discute ormai da anni se siamo un popolo razzista oppure no, ed è una discussione destinata a finire in un vicolo cieco perché essa pure viziata da quella specie di bipolarismo culturale per cui la risposta esatta deve per forza e immancabilmente essere o tutta da una parte oppure tutta dall’altra, mentre invece non sempre è così, anzi quasi mai è così. E quindi anche per la domanda ricorrente «siamo razzisti oppure no?» l’unica vera risposta esatta è che non si può generalizzare né in un senso né nell’altro: esiste in Italia un solidarismo che ha radici culturali e religiose profonde, ma esiste anche una mai superata paura dell’altro, sia esso straniero o anche soltanto cittadino del comune accanto.

La xenofobia c’è, insomma: inutile negarlo. C’è, e non solo nei confronti degli zingari. Sottovalutare questo aspetto è un errore, così come è un errore non capire che la storia dell’umanità è fatta di migrazioni e di meticciati, e che la «contaminazione» s’è sempre rivelata alla fine un arricchimento e non una perdita.

Ma, detto tutto questo, sarebbe un errore speculare e non meno dannoso pensare che quel che sta accadendo in Francia - e che Maroni vorrebbe replicare in Italia - sia solo il frutto di un’anacronistica «difesa dell’identità» o peggio di vecchi pregiudizi contro gli zingari. C’è anche e innanzitutto, invece, un problema di legalità. Perché «innanzitutto»? Perché all’origine di tante fiaccolate anti-rom, all’origine di tanta paura e spesso di tanta avversione c’è innanzitutto la percezione di una minaccia alla propria sicurezza. Certo che non tutti i rom «rubacchiano», per usare le parole di Brecht: ma spesso succede che i loro campi abusivi tolgano la tranquillità a interi quartieri. E attenzione: si tratta di quartieri popolari, spesso di povera gente. Si fa in fretta a dirsi tolleranti quando si abita nelle isole pedonali.

Ma non è solo un problema di paura di essere derubati. C’è anche - ripetiamo: soprattutto in chi abita nelle periferie - la sensazione di essere addirittura, come dire, più poveri dei nuovi poveri. La Commissione europea ha fatto benissimo a richiamare Italia e Francia. Tuttavia la stessa Commissione ricorda che il cittadino comunitario immigrato - qual è un rom - deve avere mezzi di sostentamento propri, non deve pesare sul sistema di sicurezza sociale, deve avere un’assicurazione sanitaria e non deve costituire un pericolo per la pubblica sicurezza. Sono i quattro criteri-cardine: ma se questi criteri non vengono rispettati, di fatto non c’è possibilità di espulsione. È anche questa contraddizione che fa percepire a molti italiani una sorta di disparità di trattamento.

Se insomma è vero che il razzismo e la xenofobia esistono, è anche vero che a volte prima di gridare al razzismo e alla xenofobia bisognerebbe pensare che sono sensazioni più banali e materiali a motivare tante paure. A partire da comportamenti minimi: a New York oggi, dopo le leggi sulla «tolleranza zero», è impensabile immaginare che ci sia chi blocca il traffico per cercare di lavare i vetri e abbia atteggiamenti minacciosi con chi non paga a sufficienza; e gli Stati Uniti sono un Paese che ha una tradizione di accoglienza antica e radicata. L’Italia è invece uno strano luogo, dove si vorrebbe usare il pugno di ferro con le espulsioni ma non si riesce a garantire neppure la legalità nella vita ordinaria. Di questo il primo responsabile è ovviamente chi ha attualmente la responsabilità dell’ordine pubblico: il centrodestra ha fatto della sicurezza una delle sue bandiere in campagna elettorale e ora non può pretendere che sia Bruxelles a garantire la sicurezza nelle città. Ma non meno responsabile è chi ha fatto e continua a fare demagogia, urlando al razzismo anche quando il razzismo non c’entra nulla, e agitando il fantasma di Hitler quando basterebbe agitare l’immagine, ad esempio, di uno Zapatero, tanto celebrato a sinistra ma tutt’altro che più morbido, in materia di immigrazione e sicurezza, di un Maroni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7741&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Quei "pezzi" che perde il Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:31:16 pm
7/9/2010

Quei "pezzi" che perde il Cavaliere
   
MICHELE BRAMBILLA

È azzardato cercare qualche punto in comune fra il botto che ha provocato Gianfranco Fini e quello che ha ottenuto il nuovo tg di Enrico Mentana? Forse no. E vediamo di capire perché.

Fino a qualche tempo fa i due appartenevano in qualche modo all’universo berlusconiano. Il primo, dopo una vita passata in quell’angolo in cui era relegato il neofascismo italiano, fu sdoganato nel 1993 con una battuta che è il vero esordio politico di Berlusconi («Se fossi un cittadino romano voterei Fini sindaco»). Dopo di che, per sedici anni Fini è stato per il Cavaliere un alleato fedele: per certi versi ancora più fedele di Bossi, visto che mai si è presentato alle politiche da solo (a differenza della Lega); e visto che meno di tre anni fa ha accettato di sciogliere il suo partito, An, per fondersi con Forza Italia.

Il secondo, Mentana, dei giornalisti delle aziende di famiglia non è mai stato uno dei più zelanti adulatori del capo: ma neppure si può dire che sia stato frondista, o men che meno infedele. Dal nulla, ha fatto del Tg5 un grande tg, regalando alla macchina mediatica di Berlusconi un formidabile strumento.

Adesso tutti e due se ne sono andati. Un po’ se ne sono andati e un po’ sono stati cacciati, mettetela come volete. In ogni caso, sono due «pezzi» importanti che il Cavaliere ha perso. Come è potuto succedere?

I berlusconiani più fedeli non hanno dubbi. Per loro la spiegazione è semplice: Fini è un ingrato e un traditore che se n’è andato in cerca di gloria personale; e Mentana è sempre stato, in realtà, «uno di sinistra».

Naturalmente ogni opinione è lecita. Ma come non riflettere su quanti «pezzi» ha ormai già perso il Cavaliere? Nessuno dimentica quella vecchia foto in cui sul palco della Casa delle Libertà Berlusconi era a fianco di Fini e Casini; ora è rimasto solo. Fini e Casini se ne sono andati, così come anni prima se n’era andato Montanelli prima ancora di cominciare, e così come poi se ne sono andati i professori arruolati per dare spessore e programma a Forza Italia, e così come appunto se n’è andato Mentana. Anche Giuliano Ferrara e forse Gianni Letta sono meno ascoltati di un tempo. Contemporaneamente sembrano essere andate via via ingrossandosi le file di consiglieri, collaboratori e parlamentari, insomma di tutta una schiera di fedelissimi che senza offesa non paiono dotati né di autonomia, né di grande acume, quasi a conferma di quel sempre ricorrente vizio che a un certo punto prende molti uomini di successo: il vizio di circondarsi di figure nelle quali l’accondiscendenza conta più del talento. In parallelo, sono diventati più schierati e soprattutto più aggressivi i media che in qualche misura sono riconducibili al premier.

Dire che chi se n’è andato è un traditore, sedotto dalla sinistra, è una risposta ricorrente nel mondo berlusconiano. Ma a parte il fatto che se così fosse si tratterebbe di un singolare caso di salita sul carro degli sconfitti, non è mai diventato di sinistra Montanelli, non lo sono diventati i «professori», non s’è alleato con la sinistra Casini. E nonostante certe battute, con la sinistra non passa Fini, che anzi a Mirabello ha rispolverato icone e citazioni da vecchio Msi. E non fa certo un tg di sinistra, a La7, Enrico Mentana.

Tanti abbandoni sono piuttosto il sintomo, forse, della delusione di tutto un mondo moderato che comincia a considerare non mantenuta quella promessa di «rivoluzione liberale» (meno tasse, Stato più leggero eccetera) e che comincia a essere stufo di un’informazione e una politica fondate più sullo scontro e sulle contumelie che sui contenuti. Sarebbe un grave errore pensare che quelli di Fini e di Mentana siano solo casi di una personale revanche. Il successo che i due stanno ottenendo in questi giorni (nonostante certe battute su «percentuali da prefisso telefonico», i sondaggi danno Futuro e Libertà attorno al sei per cento; e Mentana ha portato il Tg di La7 dal 2,5 al 10 per cento di ascolti) ci dicono invece che c’è un popolo che non ci sta più al gioco dell’«o di qua o di là», e che vorrebbe qualcosa di nuovo dalla politica e dall’informazione. Ci dicono, insomma, che forse qualcosa sta cambiando davvero.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7793&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Le maschere della crisi
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2010, 09:40:43 am
20/9/2010

Le maschere della crisi
   
MICHELE BRAMBILLA

È probabile che «l’inconfutabile dato» sull’aumento dei furti nei supermercati sarà già da questa mattina oggetto del dibattito politico. Ciascuno sosterrà che siamo di fronte a una prova evidente dell’impoverimento degli italiani. Ma quanto alla ricerca della causa ci sarà un serrato ed elevato confronto: i tremontiani diranno che tutto dipende dalla recessione globale.

I brunettiani dalla mancata riduzione delle tasse, l’opposizione dirà che è una vergogna che non sia ancora stato sostituito il ministro delle attività produttive e che comunque è sempre e solo colpa di Berlusconi (ma Veltroni dirà che anche Bersani ci ha messo del suo), i leghisti se la prenderanno con Roma ladrona e qualcun altro con la coppia Fini-Tulliani. Quel che nessuno metterà in discussione è il dato di partenza: e cioè che i furti nei supermercati sono aumentati perché c’è la crisi e siamo tutti più poveri. Così il Barnum mediatico ha infatti immediatamente presentato la notizia. Al primo lancio d’agenzia già alla seconda riga si dava per scontato che siamo diventati mariuoli per necessità, ladri di biciclette come negli anni del neorealismo. Leggo testualmente: «Il furto costa caro ai supermercati italiani, ancor di più in tempo di crisi economica… A pesare sull’aumento dei furti è stata la recessione». Ma come no: d’altra parte l’indagine è stata fatta da alcuni «retailer» e c’è anche il parere di un «chairman marketing» che ci ha spiegato l’importanza della «loss prevention».

Andando a caccia di qualche residuo vocabolo italiano leggo tuttavia nelle ultime righe, buttato lì come ininfluente dettaglio, che gli articoli andati più a ruba (in senso letterale) sono «capi di abbigliamento, soprattutto firmati e accessori, e cosmetici». Un’altra agenzia parla di «soprattutto profumi, bottiglie di liquore, parmigiano e salumi vari, ma anche materiale elettronico». Prodotti non propriamente indispensabili per il sostentamento. Fanno eccezione il parmigiamo e i salumi ma, visto l’andazzo, non è da escludere che siano stati razziati per l’happy hour. Resisto alla tentazione di essere altrettanto facilone di chi sostiene l’equazione «aumento dei furti uguale crisi e povertà» sostenendo che, viceversa, questi dati testimoniano ancora una volta la cialtronaggine di noi italiani. Mi permetto invece di chiedere quale sia l’attendibilità delle indagini che ci vengono proposte ogni giorno. Solo ieri, ad esempio, abbiamo scoperto che esiste un «Barometro mondiale dei furti»; ed è singolare che a un’ora dall’annuncio del suo studio se ne sia materializzato sul computer un altro identico, eseguito dal mitico «Osservatorio di Milano».

Qualche giorno fa uno studio ci ha documentato come noi italiani, in tempo di crisi, ci siamo rimboccati le maniche e siamo tornati a fare i lavori più umili, togliendoli agli immigrati; ora parrebbe invece che neanche in crisi rinunciamo alla polo griffata e alla crema antirughe. Chi ha ragione? Chissà. Del resto anche istituti grandi e seri si contraddicono spesso, spiegandoci un giorno che siamo fuori dal tunnel e il giorno dopo che siamo alla canna del gas. Ci vorrebbe insomma una bella indagine sull’inaffidabilità delle indagini. Che magari arriverebbe alla conclusione che tanta confusione è, in fondo, colpa della recessione.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7853&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA. Il governo è salvo l'Italia no
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 05:01:04 pm
23/9/2010

Il governo è salvo l'Italia no
   
MICHELE BRAMBILLA

A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.

No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.

Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.

E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.

Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa – lasciata in eredità ad An – è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.

Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».

E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7867&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La Lega sente aria di elezioni
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 12:02:22 pm
28/9/2010

La Lega sente aria di elezioni

MICHELE BRAMBILLA

La battutaccia di ieri di Umberto Bossi sui «romani porci» non stupisce più di tanto: si inserisce in un’ormai più che consolidata tradizione di linguaggio da caserma, anzi da lupanare. Del resto il leader della Lega (che tra le altre cose è anche un ministro della Repubblica) già in passato ci aveva spiegato che cosa si puliva con il tricolore, aveva già urlato a Casini dove glielo aveva messo Berlusconi (aprile 2008), aveva già mostrato il dito medio, fatto pernacchie, e via con questi tocchi di classe. Nella sua ormai lunga carriera non ha risparmiato nessuno: nemmeno Berlusconi, al quale ha dato del «Goebbels» (24 gennaio 1995) e del «mafioso» (15 settembre 1995), tanto che il Cavaliere in più di un’occasione si era sentito in dovere di reagire: «Bossi quando parla sembra un ubriaco al bar»; «Bossi è un disastro, una mente contorta e dissociata, un incidente della democrazia italiana, uno sfasciacarrozze con il quale non mi siederò mai più allo stesso tavolo». Perfino il professor Gianfranco Miglio, al quale oggi un sindaco leghista ha intitolato una scuola, aveva espresso un giudizio non esattamente lusinghiero.

Si era espresso così: «Bossi è un incolto, buffone, arrogante, isterico, arabo levantino mentitore, se mi si ripresenta lo caccio a pedate nel sedere» (18 maggio 1994).

Il lettore ci perdoni tante squallide citazioni, ma questo è il livello, ormai da troppi anni, del dibattito politico in Italia. Vogliamo dire che da un certo punto di vista le esternazioni di Bossi a Lazzate, in Brianza, rientrano in una desolante routine. Chi ha occasione di seguire i suoi comizi - e soprattutto i suoi dopo-comizi - sa bene che Bossi è così: quando è con «la sua gente» non rinuncia al cabaret, e neppure al trivio e qualche volta alla dichiarazione di guerra. Tutto viene ammorbidito da un clima da strapaese, e quindi minimizzato, infine lasciato perdere nelle cronache da noi giornalisti, che quasi sempre ci limitiamo a riportare le dichiarazioni che ci paiono di spessore politico, nella convinzione che dobbiamo attenerci alla realtà ufficiale, mentre forse sarebbe più istruttivo per i lettori descrivere la realtà per quella che è, tutta intera, cabaret compreso.

Passa l’idea che tutto vada ricondotto al folclore leghista. E anche allo spirito giocherellone di Bossi, il quale soprattutto dopo la malattia è diventato meno aspro e più spiritoso, può apparire anche simpatico quando ad esempio dice che a Roma al massimo si può far la corsa delle bighe, e non delle automobili. Diciamola tutta, altrimenti è ipocrisia: molti dicono pure che Bossi è un po’ «andato».

Ma non è così. Da dopo la malattia, Bossi è sicuramente blindato da un gruppo di fedelissimi che lo tengono sotto scorta, che cercano di evitargli strapazzi ma anche esternazioni fuori controllo (da quanto tempo Bossi non rilascia più un’intervista?), insomma è particolarmente accudito e protetto. Ma è tutt’altro che «andato». La sua intelligenza politica, o se preferite la sua astuzia, è intatta: e quando Bossi dice qualcosa destinata a far rumore è perché vuole che si faccia rumore, e che quel rumore produca un risultato.

Senza voler far dietrologia, crediamo sia perlomeno lecito avanzare il sospetto che il «sono porci questi romani» di ieri non sia dovuto a qualche bicchiere di troppo, come hanno ipotizzato per minimizzare alcuni del centrodestra, ma sia piuttosto un sasso in piccionaia per agitare gli animi dei suoi. Dotato di fiuto come pochi altri, Bossi ha capito che nel centrodestra non c’è tregua che tenga, e che le elezioni anticipate sono inevitabili. E così ha cominciato a scaldare i motori, o meglio il suo elettorato, sapendo bene che per scaldarlo non c’è niente di meglio che riesumare il nemico di sempre: Roma. Contro Roma ladrona aveva cominciato la sua battaglia, contro Roma la riprende sempre ogni qual volta si avvicinano le urne. Intanto a Roma è al governo e gestisce ministeri chiave. E non si astiene né quando c’è da votare per Roma capitale, né ci sono da salvare Caliendo e Cosentino dalla giustizia.

È solo un’ipotesi, e forse qualcuno dirà che il bicchiere di troppo lo abbiamo bevuto noi. Ma snobbare le sparate di Bossi, ridurle a espressione di ignoranza e maleducazione, è un atteggiamento che per troppo tempo ha portato a una sottovalutazione delle mosse della Lega e dei loro effetti politici.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7886&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Le nuove radici dell'odio
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2010, 05:23:57 pm
2/10/2010

Le nuove radici dell'odio

MICHELE BRAMBILLA


E’ naturale che l’agguato a Belpietro susciti – oltre che solidarietà incondizionata per la vittima – una domanda: stiamo vivendo tempi simili a quelli che prepararono i maledetti Anni Settanta?

Molti osservano che le modalità del fallito attentato sono talmente (e fortunatamente) maldestre da marcare una netta diversità con la tragica efficienza delle Brigate Rosse. E’ un’osservazione che porterebbe a tranquillizzarci e a minimizzare l’allarme.

Ma è un’osservazione sbagliata. Anche i primi brigatisti erano goffi artigiani del terrore. Cominciarono a incendiare qualche auto nei garage, poi disseppellirono vecchi fucili dei partigiani, quindi passarono a qualche sequestro “dimostrativo” che si concludeva, dopo qualche ora, con il rilascio dell’ostaggio. Poi però ci fu il salto di qualità. E quando si cominciò a uccidere, si cominciò a farlo senza la “geometrica potenza” (terribile espressione) dispiegata in via Fani. Chi sottolinea l’imperizia dimostrata dall’oscuro attentatore del direttore di Libero forse non sa, oppure dimentica, che all’inizio degli Anni Settanta ci fu un episodio del tutto simile: un estremista di Lotta Continua (che pure era cosa ben diversa dalle Brigate Rosse) venne bloccato con un revolver in mano sulle scale del condominio in cui abitava il deputato missino Franco Servello.

I motivi di preoccupazione quindi ci sono tutti, anche perché l’episodio dell’altra sera segue ad altri fatti gravi. Il fumogeno lanciato contro Bonanni e la statuetta scagliata in faccia al presidente del Consiglio, tanto per dire i primi due che vengono in mente: fatti che avrebbero potuto anche avere conseguenze peggiori. Ma poi: per convincersi che non c’è dubbio che si stia vivendo un brutto clima, basterebbe riflettere sul fatto che i direttori di giornali (e non solo quelli di destra) sono costretti a girare con la scorta. In quale altro Paese europeo, in questo momento, i direttori di giornali debbono guardarsi le spalle quando portano a scuola i figli?

Tutte queste considerazioni inducono quindi a pensare che il rischio di un ritorno agli Anni Settanta c’è. La storia però non si ripete mai uguale, e quindi vanno sottolineate almeno due differenze fondamentali. La prima è che i cosiddetti anni di piombo appartenevano a un’epoca in cui lo scontro ideologico era fortissimo e non solo in Italia. Il mondo figlio del dopoguerra era spaccato in due: da una parte il blocco occidentale, dall’altro quello comunista. Il comunismo è stato all’inizio del Novecento il sogno e la speranza per milioni di persone: ma quel sogno, laddove si era realizzato, si era trasformato in una dittatura. Una parte dell’umanità il comunismo lo subiva, e avrebbe fatto di tutto per liberarsene; ma un’altra parte l’avrebbe voluto importare dove c’era la democrazia. Qualcuno per via elettorale; ma qualcun altro per via rivoluzionaria. Stiamo parlando di un «qualcun altro» che era fortunatamente una minoranza: ma una minoranza agguerrita che - è scomodo ricordarlo, ma è così - poté godere per molti anni di un sotterraneo consenso nelle fabbriche e soprattutto della vile compiacenza di tanto milieu intellettuale.

Così nacque il terrorismo di estrema sinistra degli Anni Settanta: per inseguire il folle progetto di una rivoluzione proletaria armata. Il terrorismo di estrema destra nacque per reazione al «pericolo rosso»: quello delle Br, ma prima ancora anche quello di una vittoria per via elettorale. Questo terrorismo «nero» si nutrì di una varia umanità: esaltati neonazisti, nostalgici fascisti, generali golpisti, uomini dei servizi segreti in combutta con i bombaroli. Il risultato fu la guerra che ahimè ricordiamo ancora.

Tutto questo è uno scenario oggi riproponibile? Lo escluderemmo. Le ideologie che divisero così duramente il mondo sono per fortuna morte e sepolte.

L’altra differenza è che negli Anni Settanta i toni accesi, le cronache mistificatorie e le campagne di odio venivano scatenate principalmente da una sola parte dei media, e cioè da quelli di estrema sinistra e da quei molti «borghesi» che a un simile andazzo si accodarono nella meschina speranza di potersi appuntare sul petto - a rivoluzione proletaria compiuta - qualche medaglia da militante antemarcia. Oggi l’insulto, la delegittimazione dell’avversario, la scelta sistematica di un «nemico» da offrire in pasto ai lettori, insomma il killeraggio mediatico è purtroppo ampiamente trasversale. Si dimentica, o si finge di dimenticare, che il quinto comandamento («Non uccidere») include pure la calunnia, perché si uccide anche con le menzogne, magari sulla vita privata o sulle personali inclinazioni sessuali.

Insomma ecco in che cosa è simile, il nostro tempo, agli Anni Settanta: nel rischio reale che qualche testa calda traduca in piombo il veleno. Ed ecco in che cosa è invece profondamente diverso: nel fatto che certi toni un tempo riservati ai fogli estremistici ormai sono i toni consueti del dibattito politico e giornalistico. Passate le grandi ideologie, le nuove radici dell’odio stanno in una guerra tra interessi di parte combattuta senza più un minimo di rispetto né per la verità né per le persone. Così l’Italia è ripiombata in un clima che gli altri Paesi occidentali hanno consegnato da un pezzo alla storia.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7906&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA. La spazzatura della classe dirigente
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2010, 11:32:35 am
29/10/2010

La spazzatura della classe dirigente

MICHELE BRAMBILLA

Quando uno dei suoi giornalisti si accingeva a scrivere un editoriale, Montanelli lo istruiva così: «Se il tuo soggetto è una persona, scrivi che è un incapace; se è un Paese, scrivi che è un Paese allo sbando. Parlare male è sempre più efficace che parlare bene».
Tornasse in vita - e magari ci tornasse: avrebbe di che divertirsi, e di far divertire noi - il grande Indro non avrebbe bisogno di ripetere quei suggerimenti, tanto la realtà ha superato, e da un pezzo, ogni più tragicomica immaginazione.

Non occorre neppure far ricorso alla satira per mettere alla berlina la nostra classe dirigente: basta ahimè la cronaca.
Proviamo a sfogliare a ritroso le raccolte dei giornali, e ricordiamo quali sono stati i grandi temi di dibattito in questo ultimo anno e mezzo. Alla fine di aprile del 2009 è scoppiato il «caso Noemi», preceduto dal «caso Veronica», che della vicenda della minorenne di Casoria è stato in qualche modo anticipatore. Poi il «caso D’Addario»: diverso dai precedenti solo per il soggetto, non per il tema, trattandosi sempre di pecoreccio.

Passata l’estate, il dibattito politico s’è incentrato tutto sul «caso Boffo», cioè sulla crocifissione dell’incolpevole direttore di «Avvenire», considerato reo di aver fatto del moralismo sul presidente del Consiglio, e accusato di essere «attenzionato» dalla polizia come «noto omosessuale» in base a un documento risultato poi falso. Boffo è stato tardivamente riabilitato, quando ormai le coltellate lo avevano ferito per sempre. Nel frattempo la maggioranza di governo, che appariva granitica dopo il risultato elettorale, ha cominciato a diventare fragile per i dissensi fra Berlusconi e Fini. Questi, colpevole di dissentire su alcune questioni (o di fare la fronda per interessi personali, a seconda dei punti di vista) è stato di fatto buttato fuori dal partito. Dopo di che è cominciato il tormentone sulla casa di Montecarlo che avrebbe fatto comperare al cognato a prezzo di favore.

Ora - ammesso che non abbiamo dimenticato nulla, il che è probabile - è scoppiato il «caso Ruby», una diciassettenne marocchina la quale ha raccontato una storia che, se fosse vera anche solo per la metà, basterebbe per far saltare sulla seggiola tutti gli italiani.
A parte i presunti festini ad Arcore, pare certo che questa ragazzina, fermata per furto dalla polizia, sia stata rilasciata su pressioni di Palazzo Chigi. L’ex questore di Milano, intervistato dal nostro Paolo Colonnello, ha confermato l’episodio. Silvio Berlusconi ieri ha evitato l’argomento ma ha buttato lì una battuta che pare anch’essa una conferma: «Sono una persona di cuore, mi muovo per aiutare le persone che hanno bisogno». Probabilmente oggi il premier smentirà, dirà che non si riferiva al rilascio della ragazza, ma avrebbe fatto meglio a chiarirlo ieri perché, così com’è è stata sentita, la sua frase è stata percepita come una conferma. E se davvero Palazzo Chigi ha fatto pressioni per far rilasciare una persona arrestata per furto, beh: in qualunque Paese normale sarebbe sufficiente per far cadere il governo.

Chiariamo: della miserevole storia del «bunga bunga», dei gioielli regalati a una minorenne e delle donnine facili scortate ad Arcore dai carabinieri, non sappiamo quanto ci sia di vero, e ci auguriamo che di vero non ci sia niente. Vogliamo solo dire che è un fatto che ancora una volta si sia costretti a parlare di vicende per cui noi italiani ci stiamo facendo ridere dietro da mezzo mondo, mentre il Paese avrebbe problemi ben più seri di cui occuparsi: solo per fare un esempio, ieri il governatore della Banca d’Italia ha lanciato l’allarme disoccupazione, dicendo che i senza lavoro sono l’undici per cento; e il ministro Tremonti ha confermato.

A questo punto uno potrebbe dire che è colpa dei giornali: sono loro che danno tanto spazio a gossip, dossier, killeraggi. Berlusconi ha detto ieri che tutto ciò è «spazzatura», e non c’è dubbio che lo sia. Ma resta da vedere se è spazzatura mediatica, o spazzatura prodotta da una classe dirigente che non ha altri spunti di discussione da offrire ai giornali. Siamo noi giornalisti che perdiamo tempo appresso a stupidaggini, o è una certa classe dirigente a essere responsabile di un degrado da basso impero? Non ci convince neppure chi dice che «certe questioni riguardano la sfera privata, al massimo la morale, ma non la politica». A parte il fatto che gli uomini con responsabilità pubblica hanno diritto alla privacy solo fino a un certo punto, saremmo curiosi di sapere se gli elettori sono davvero disinteressati di ciò che gli eletti fanno nel tempo libero.

E poi non è che nella sfera pubblica si dia prova di occuparsi di problemi più seri.

Il partito di maggioranza è ormai logorato da una crisi che nemmeno un Bondi può più nascondere: l’esodo dal Pdl verso Futuro e Libertà sta assumendo numeri impensabili fino a poco tempo fa. Quanto ai lavori parlamentari, sono paralizzati - tanto per cambiare - dalla questione giustizia, cioè da come evitare che il presidente del Consiglio venga perseguito dalla magistratura. E così il Paese è fermo, mentre i problemi corrono. Ecco, Montanelli avrebbe detto che non c’era nulla da inventare, né da colorire.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8015&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Basso impero
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 04:42:13 pm
12/11/2010

Basso impero   

MICHELE BRAMBILLA

Non è detto, non è affatto detto che l’impero di Silvio Berlusconi sia arrivato al capolinea: l’uomo ha più di sette vite e lo ha già dimostrato tante volte.

Magari rivincerà le elezioni e non farà prigionieri. Ma in questi giorni il clima è un clima da fine impero, e quando finisce un impero si scatenano gli istinti più bassi, la ribalta è degli ex fedelissimi che tradiscono e dei nemici che infieriscono, e questa è una delle cose peggiori perché non c’è niente di più vile che infierire su chi cade.

Sono giorni già tante volte vissuti in questo Paese, i giorni del «mai stato fascista, io» e del «mai stato craxiano, io». Pare si attenda da un momento all’altro un’immancabile apocalisse, forse anche una catarsi, crescono da una parte la voglia anzi la necessità di riciclarsi e dall’altra quella del regolamento di conti. Per un po’ sarà il caos, come dopo il 25 aprile: si starà alla finestra, un po’ di qua e un po’ di là in attesa di capire come va a finire. Un vecchio collega raccontava di quel che accadde al suo paese, in Veneto, dove l’ex podestà, diventato primo sindaco provvisorio dopo la Liberazione, stava - con un fazzoletto rosso al collo - nella piazza principale a fianco del parroco: un cittadino si presentò davanti ai due sollevando contemporaneamente entrambe le braccia, la destra per il saluto romano e la sinistra per il pugno chiuso, esclamando: «Sia lodato Gesù Cristo».

Ogni fine impero è però preceduto dal basso impero, il cui tratto distintivo è lo scadimento della corte. Successo dopo successo, il re si convince di essere invincibile e soprattutto infallibile, così da non avere bisogno di consiglieri saggi ma di chi gli dà sempre ragione. Mussolini cominciò con Giovanni Gentile e Alfredo Rocco e finì con Achille Starace. A chi lo metteva in guardia dicendogli «Duce, Starace è un cretino», lui rispondeva: «Lo so, ma è un cretino obbediente».

Lungi da noi fare paragoni di persone e di sistemi politici - l’equiparazione tra berlusconismo e fascismo è una via di mezzo tra una barzelletta e una bestemmia storica - ma è innegabile lo sconcerto provato, anche fra tanti elettori di centrodestra, nel vedere quale sia il livello del materiale umano che pare il più vicino a Berlusconi in questi ultimi tempi. Lo sconcerto ad esempio nell’aver visto i filmati - messi in rete dal settimanale «Oggi» - che documentano il trasporto delle ragazze di Lele Mora a casa Berlusconi. «Mi piacciono le donne», ha detto Berlusconi, ma ci si chiede se abbia bisogno di andare a una festa a Casoria, di frequentare Gianpaolo Tarantini e Patrizia D’Addario, di spacciare una disinvolta minorenne per la nipote del Presidente egiziano per tirarla fuori da una camera di sicurezza.

Quello che sta venendo fuori sulla corte di Berlusconi è difficilmente difendibile anche dai berlusconiani antemarcia. Lele Mora ed Emilio Fede sono indagati per favoreggiamento della prostituzione, e con loro Nicole Minetti, una ragazza di 25 anni che il presidente del Consiglio ha conosciuto come igienista dentale quando è stato ricoverato per la statuetta del Duomo tiratagli in faccia, e che poi è stata catapultata alla Regione Lombardia nel listino bloccato: eletta consigliere, cioè amministratrice dei lombardi, senza neanche passare per l’incognita del voto. Per quali meriti? Leggiamo poi che una tale Perla Genovesi, già assistente di un senatore di Forza Italia e arrestata nel luglio scorso con l’accusa di traffico di droga, tra il 2003 e il 2007 ha avuto 48 contatti telefonici con la residenza privata di Berlusconi ad Arcore; leggiamo che sempre questa Perla ha avuto 500 contatti con una sim intestata a Sandro Bondi e che un non precisato «assistente di Formigoni» l’aveva avvisata di avere il telefono sotto controllo. Poi c’è un’altra presunta escort (adesso si chiamano così perché il politicamente corretto ha ribattezzato perfino il meretricio) che risponde al nome di Nadia Macrì e che sostiene di avere avuto rapporti «con il presidente Berlusconi tramite Lele Mora per cui lavoravo» e anche con il ministro Brunetta, che ha smentito.

Leggiamo tutto questo e ci chiediamo: è davvero così la corte dell’ultimo Berlusconi? Ieri Fabrizio Corona ha detto che dei festini ad Arcore ci sono pure le foto. E Fabrizio Corona, di cui Lele Mora ha assicurato essere stato l’amante, è già stato condannato: eppure in questa Italia è un idolo di tante ragazze e sulle reti Mediaset è andato spesso a fare il maître à penser.

Forse tra vent’anni diremo: ma com’è stato possibile tutto questo? Alcuni tra i vecchi amici e consiglieri di Berlusconi sotto voce spiegano: «Ha voluto sostituire Gianni Letta con Daniela Santanchè e Fedele Confalonieri con Lele Mora». Vero o falso? Ferdinando Adornato, in un intervento alla Camera, ha rimproverato a Berlusconi di aver cambiato gli «intellettuali di riferimento» passando «da Lucio Colletti» (e si potrebbero aggiungere Marcello Pera, Paolo Del Debbio, Piero Melograni, Giuliano Ferrara) a giornalisti che parlano alla pancia della destra più becera e usano la tastiera come un manganello.

Ieri con un’intervista a Luca Telese del «Fatto» anche Vittorio Feltri ha preso le distanze. Ha detto che «tanta gente di destra si è rotta le balle di tutte le veline di Berlusconi», che il caso Ruby non gli è piaciuto, che Berlusconi «non doveva andare a Casoria», che «è stanco, confuso, non ha fatto tante cose che doveva fare»; ha distinto la posizione del direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti, che è per fare quadrato attorno al Cavaliere, dalla sua, che è per la libertà di critica. Ha fatto capire, forse addirittura annunciato, che se ne andrà dal «Giornale» per fondare un altro quotidiano. Anche Maurizio Belpietro di «Libero», uno dei più agguerriti, nei giorni scorsi ha dedicato al premier un editoriale intitolato «È dura aiutarlo se non inizia ad aiutarsi da sé».

Segnali che l’impero è davvero al crepuscolo? Nelle aziende del Cavaliere, Mediaset e Mondadori in testa, la preoccupazione si tocca con mano. Perché ci si chiede: come sarà il dopo? Lasceranno in pace il Berlusconi non più premier? O ci sarà la vendetta? Di sicuro, se vendetta sarà, avrà il contorno di tante tricoteuses, tra cui molti adulatori dei tempi beati. Perché questa è l’Italia. Non c’è nulla di male nel cambiare idea, anzi. Ma va distinto chi se ne va quando il capo è ancora potente da chi se ne va quando la barca affonda. Come cantava Francesco Guccini: bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8074&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA. Stragi italiane, l'ignoranza dei negazionisti
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:50:42 am
19/11/2010

Stragi italiane, l'ignoranza dei negazionisti
   
MICHELE BRAMBILLA

L’altra sera alla Camera l’onorevole Viviana Beccalossi, ex missina oggi pidiellina, ha commentato a modo suo (e purtroppo non solo suo, come vedremo) la sentenza con cui martedì la Corte d’Assise di Brescia ha assolto gli ultimi imputati per la strage di piazza della Loggia. «Non condivido - ha detto - chi definisce quella strage come una strage di destra. Le indagini sono state indirizzate solo verso la destra estrema, ma questa direzione si è rivelata sbagliata».

Naturalmente non è mancata, nel discorso, la parola chiave con cui si usa delegittimare il lavoro degli inquirenti: teorema. La convinzione che quella strage fu opera di estremisti neri, secondo la Beccalossi, è frutto di «un teorema». Lo stesso concetto lo abbiamo letto su alcuni giornali, per i quali a furia di indagare su una parte sola, che sarebbe poi stata la parte sbagliata, i veri colpevoli l’hanno fatta franca.

Simili portavoce di questo negazionismo diciamo «di destra» forse non si rendono conto di mettersi sullo stesso piano di altri negazionisti che tanti danni hanno prodotto nel Paese: quelli «di sinistra», che nei primi anni Settanta gabellavano i brigatisti rossi per fascisti o poliziotti travestiti; e che ancora oggi, quando parlano degli assassini di Moro, di Bachelet, di Alessandrini, di Rossa e di tanti altri, concludono sospirando: «Ah, chissà chi c’era, dietro di loro».

Va detto che se i negazionisti di sinistra non hanno altri argomenti che il proprio pregiudizio ideologico, quelli di destra possono farsi forti di tutta una serie di sentenze che negli anni hanno mandato assolti i neofascisti imputati di strage. Ma il loro difetto - se non sono in malafede - è l’ignoranza, per ignoranza intendendo la mancata conoscenza di quanto avvenuto nei processi per le stragi. Ad esempio, forse non sanno che in quei processi ci sono state, accanto alle assoluzioni, condanne per depistaggio di dirigenti dei servizi segreti: Maletti e Labruna per piazza Fontana; Pazienza, Musumeci e Belmonte (oltre a Gelli) per la stazione di Bologna. Se tanti colpevoli «l’hanno fatta franca» è perché settori deviati dello Stato li hanno protetti: e la certezza di queste avvenute coperture è una conferma, non una smentita, che le piste seguite erano quelle giuste. Lo sa Viviana Beccalossi - che pure è bresciana e dovrebbe essersi informata - che al controspionaggio di Padova c’erano informative scritte che annunciavano la strage di Brescia, e che ne attribuivano la preparazione a ordinovisti veneti? E lo sa che queste informative non furono trasmesse ai giudici? Se lo sa, si è mai chiesta perché?

Delle sentenze, poi, non si può prendere per buono solo il dispositivo, cioè lo stringato comunicato con cui si annunciano le assoluzioni o le condanne. Vanno lette anche e soprattutto le motivazioni. Lo sanno questi nuovi negazionisti che nelle motivazioni dell’ultima sentenza su piazza Fontana è scritto che, con gli elementi oggi a disposizione, Freda e Ventura sarebbero stati condannati? E che ormai non erano più condannabili solo perché già giudicati in un precedente processo?

La sentenza ultima di Brescia assolve per insufficienza di prove. Leggeremo le motivazioni. Ma è evidente che per i giudici l’impianto accusatorio non era campato per aria. Semplicemente non erano dimostrabili le responsabilità individuali, e siccome la responsabilità penale è personale, e non di gruppo, bene ha fatto la Corte a non condannare. Ma da qui a dire che la sentenza ha dimostrato che la pista non era quella dell’estrema destra, c’è di mezzo più che il mare.

Forse non sanno neppure, i negazionisti, che ai processi gli stessi estremisti di destra non hanno mai nascosto che nel loro ambiente c’era gente che metteva le bombe. Certo ci si chiede quale interesse avrebbero avuto nel metterle. Dopo ogni strage, la destra - tutta la destra, anche quella non violenta - invece di progredire finiva sempre più chiusa in un ghetto. Chi non capisce il «cui prodest?», insomma, non difetta di ragionevolezza. Ma erano i bombaroli, a difettarne. Anche i brigatisti rossi sapevano che sparando non aiutavano la sinistra: eppure sparavano.

Inutile tentare di entrare nella testa dei terroristi: i loro ragionamenti non appartengono al mondo della ragione. E poi come diceva Alexis Carrell, premio Nobel per la Medicina, «poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Basta osservare la realtà, e magari leggere qualche carta, per capire che ogni negazionismo su quegli anni è, oltre che assurdo, un oltraggio alla nostra storia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8106&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Complotto il vecchio vizio della sinistra
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:52:53 pm
16/12/2010

Complotto il vecchio vizio della sinistra

MICHELE BRAMBILLA

C’erano infiltrati tra i ragazzi che l’altro ieri hanno manifestato per le vie di Roma, con i risultati che sappiamo?

Tutto è possibile, per carità.

Per affermarlo occorrerebbero però, se non delle prove, perlomeno degli indizi seri. Invece ieri, sulla base di alcune foto fatte girare su Internet - e rivelatesi poi in alcuni casi tutt’altro che chiare, e in altri delle autentiche patacche - è partito il tragicomico déjà vu di accuse alla polizia cattiva e complottista al servizio della Reazione.

Tutto è cominciato perché in alcune immagini scattate durante la guerriglia si vede un ragazzo con un giubbotto beige e il volto coperto da una sciarpa bianca che impugna un manganello e tiene, nell’altra mano, un paio di manette. E chi può avere un paio di manette, se non un questurino? Altre foto, poi, evidenziano che alcuni teppisti calzano scarponi identici a quelli in dotazione alla polizia. Tanto è bastato per dare il via al tam tam: ecco le prove, i violenti sono in realtà poliziotti travestiti e manovrati da un governo che ha interesse a dare, di chi protesta pacificamente, l’immagine degli estremisti pericolosi.

Se tutto questo veleno fosse stato messo in circolo da, che so, esponenti di alcuni centri sociali, o comunque dal cosiddetto «mondo antagonista», non meriterebbe neppure di essere commentato. Purtroppo i sospetti, le illazioni, la consueta patologica caccia a registi occulti sono venuti da pulpiti che godono di grande autorevolezza. Giornalisti e politici dell’opposizione hanno chiesto spiegazioni al ministro degli Interni e perfino una persona solitamente assennata come il capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, ha detto: «Vogliamo sapere chi erano questi che evidentemente erano infiltrati, chi li ha mandati, chi li paga e che cosa devono provocare».

Siccome anche gli avverbi a volte sono pietre, quell’«evidentemente» uscito dalla bocca della Finocchiaro è una cosa che fa male. «Evidentemente», e quindi senza dubbi. Sarebbe bastato che la senatrice, e con lei molti altri (l’ex ministro della Giustizia Diliberto, ad esempio) avessero fatto ricorso alla prima delle virtù cardinali, che è la prudenza. O almeno alla pazienza: avessero aspettato un paio d’ore, avrebbero visto altri filmati, ad esempio quello in cui si vede che il misterioso «infiltrato» viene poi fermato dalla polizia, e che mentre implora clemenza ripetendo più volte «sono minorenne» non si cura della telecamera che lo riprende. Fosse stato uno sbirro in missione segreta, avrebbe permesso (e avrebbero permesso i suoi «colleghi» poliziotti) quelle riprese? Con un po’ di pazienza, poi, i sostenitori del complotto avrebbero appurato che le fotografie in cui si vedono manifestanti con gli stessi scarponi dei poliziotti non sono state scattate a Roma martedì, ma a Toronto quattro mesi fa. Infine, un po’ di paziente attesa avrebbe permesso la lettura del comunicato con il quale la questura ha fatto sapere che ieri sera ha identificato e arrestato il ragazzo, che è un estremista di sinistra, e non un brigadiere.

Purtroppo questo ricorso al complottismo e al vittimismo è un vizio antico della nostra sinistra. Già negli Anni Settanta si cercò goffamente, e per anni, di negare la vera matrice delle Brigate Rosse; e anche allora, negli scontri di piazza, secondo una certa vulgata c’erano da una parte i giovanotti inermi, e dall’altra la polizia assassina. È un vizio che forse ha origine nella pretesa di una immacolata concezione, per cui è impossibile che «qualcuno dei nostri» possa anche comportarsi male; e nella tentazione di cercare sempre un alibi ai propri insuccessi, per cui se non si vince è perché qualcuno rema contro in modo sporco.

E invece uno dei - non il solo: ma uno dei - motivi per cui la sinistra italiana non ha vinto è anche questo suo ahimè ricorrente atteggiamento, che l’ha resa agli occhi di molti poco simpatica e ancor meno credibile. Ne ha sicuramente, la sinistra, di argomenti per fare opposizione. Lasci perdere i complotti della polizia.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8204&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Disunità d'Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2011, 03:42:34 pm
5/1/2011

Disunità d'Italia

MICHELE BRAMBILLA

La grande mobilitazione popolare per chiedere l’estradizione di Cesare Battisti s’è risolta con circa cinquecento persone in piazza a Roma, una cinquantina a Milano e addirittura cinque a Firenze. Pochi e non senza sbavature. A Roma si sono visti saluti romani che non si capisce che cosa c’entrassero; a Milano lo slogan più gettonato rivolto al console brasiliano è stato: «A noi Battisti, a voi i travestiti». Che tristezza.

Ma il mesto spettacolo offerto dalla piazza riesce comunque a vincere il confronto con quello offerto dalla classe politica. Se i cittadini indignati erano pochi, i politici sono stati pocos, locos y mal unidos, secondo la definizione con cui gli spagnoli liquidarono i rivoltosi sardi al tempo di Carlo V. Soprattutto mal unidos, dal momento che neppure sulla necessità di assicurare alla giustizia un assassino pluricondannato destra e sinistra hanno saputo trovare coesione. In piazza Navona ci sono andati sia gli uni che gli altri: ma curandosi bene di andarci in orari diversi per non correre il rischio di brutti incontri. E questo è un primo elemento di sconforto. Nella tanto bistrattata prima Repubblica democristiani e comunisti - che pure erano ideologicamente ben più divisi di quanto lo siano adesso i due cosiddetti «poli» - sul terrorismo seppero trovare un’unità di intenti che fu alla base della vittoria della democrazia sui kalashnikov dei brigatisti.

Il secondo motivo di sconforto sta nelle motivazioni che paiono aver indotto destra e sinistra a scendere in piazza. Il governo protesta energicamente, ma non senza preoccuparsi - ogni due per tre - di ribadire che l’amicizia con il Brasile non è minimamente in discussione. E soprattutto tanta energia viene profusa adesso, a babbo morto, e non quando forse si potevano ancora evitare la beffa della mancata estradizione e l’oltraggio delle sue motivazioni. Quanto all’opposizione, il caso Battisti sembra più che altro un pretesto per accusare il governo di insipienza, impotenza, scarso prestigio internazionale. Insomma, l’impressione è che la maggioranza abbia preso ora ad agitarsi tanto per tenere buoni i propri elettori, e la minoranza per colpire, più che Battisti, il nemico di sempre: Berlusconi.

In una simile situazione, naturalmente, tutti accusano «gli altri» di essere i soli responsabili dello scempio, dimenticando che la vicenda Battisti è in realtà molto più complessa di quanto si creda. Non c’è dubbio, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, che tutto sia partito da una campagna di disinformazione finalizzata a far credere che l’indegno omonimo sia stato vittima di una giustizia punitiva; e che questa campagna di disinformazione sia stata prontamente recepita dai soliti intellos francesi sempre pronti a bersi qualsiasi balla sulla repressione degli scrittori (perché uno dei risvolti tragicomici di questa vicenda è che Battisti sia stato considerato uno scrittore, e non un assassino).

Non c’è dubbio, dicevamo. Ma non c’è dubbio anche - e questo è un po’ più difficile da spiegare - che tale campagna abbia poi condizionato un governo di centrodestra qual era quello, con Sarkozy ministro degli Interni, che consentì a Battisti di scappare in Brasile con un passaporto falso. Chi sostiene che Sarkozy abbia agito sotto l’influenza della moglie, forse non sa che all’epoca il futuro presidente e Carla Bruni non si conoscevano neppure. Né si può accusare, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri, la famosa «dottrina Mitterrand»: la Corte francese che concesse l’estradizione si appellò proprio a quella dottrina, in base alla quale l’asilo in Francia era escluso ai responsabili di omicidio.

Ci sono tante parole in libertà, insomma, in questi giorni. L’unica - e modesta - consolazione è che per una volta la nostra politica non è stata peggiore di quella degli altri Paesi coinvolti. Infatti è la politica, ovunque, la responsabile del ghigno beffardo con cui Battisti saluta le nostre patrie galere. La magistratura ha fatto il proprio dovere dappertutto: in Italia condannando; in Francia e in Brasile concedendo l’estradizione. Se Battisti non rientra in Italia è perché la politica italiana non si è fatta valere, quella francese l’ha fatto scappare e il presidente del Brasile ha smentito i propri giudici.

All’imputato Battisti bisognerebbe purtroppo dire non «alzatevi», come si usava durante i processi, ma «sedetevi»: non è lui il soggetto delle preoccupazioni e delle contese di questi giorni. Né tantomeno, ovviamente, lo sono i poveri morti da lui ammazzati.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8258&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA. La madre di tutte le inchieste
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2011, 11:24:22 am
15/1/2011

La madre di tutte le inchieste

MICHELE BRAMBILLA

Berlusconi indagato: dov’è la novità? Sono anni che è indagato e sono anni che le inchieste e i processi contro di lui non spostano un voto perché ormai gli italiani sono tutti preventivamente schierati.

E non cambiano idea neanche se gli si punta contro una pistola. Chi detesta Berlusconi sostiene che tutti questi processi dimostrano la sua inadeguatezza, per non dire di peggio, a governare. Chi lo ama è convinto che si tratti di una congiura ordita dalle toghe rosse. Insomma l’opinione su Berlusconi è fideistica nel bene e nel male, gli italiani reagiscono «a prescindere» dalla sostanza dei fatti. Dovremmo dunque pensare che anche questa volta la tempesta giudiziaria non porterà nulla di nuovo né a Palazzo, né nell’opinione pubblica. Eppure, eppure. Adesso una novità sembra esserci. Forse addirittura una novità decisiva (in un senso o nell’altro, poi vedremo perché). La novità è la straripante sicurezza ostentata dalla Procura di Milano.

Mai si era visto un comunicato, letto dal capo dell’ufficio, così dettagliato. Mai si erano annunciate prove documentali inconfutabili (si parla perfino di foto e di filmati). Mai ci si era spinti ad allegare queste presunte prove all’invito a comparire inviato all’indagato: è come se i pm fossero sicuri che tanto ormai non c’è più nulla da «inquinare». Mai, soprattutto, una Procura si era spinta a chiedere per Berlusconi il rito immediato. Ai non addetti ai lavori va spiegato che una Procura chiede il rito immediato quando ritiene che le prove siano evidenti e definitive, e che non ci sia bisogno di altre indagini o interrogatori.

Forse è davvero una svolta, perché i casi sono due. O la Procura di Milano non ha le prove documentali che ieri ha fatto intendere di avere, oppure ce le ha davvero. Nel primo caso, non soltanto il premier verrebbe assolto con l’aureola del martire, ma i pm in questione dovrebbero cambiare mestiere e calerebbe una pietra tombale su tutta la cosiddetta «via giudiziaria» usata, secondo i berlusconiani, per sconfiggere il nemico della sinistra. Nel secondo caso, Berlusconi sarebbe invece in difficoltà come mai è stato prima.

Perché siamo così tranchant? Per due motivi. Il primo è che in tutti i precedenti processi l’impianto accusatorio era tale da lasciare lo spazio - ai fan pro o contro Berlusconi - per assumere comunque una posizione colpevolista o innocentista. Una posizione, beninteso, ideologica, non fondata sulla conoscenza delle carte (figuriamoci se gli elettori leggono tutte le carte di un processo). Adesso invece la Procura parla di una «pistola fumante», e quella o c’è o non c’è. Se c’è, anche i berlusconiani più inossidabili non potranno negare l’evidenza del reato. Se non c’è, anche gli anti-berlusconiani più accaniti non potranno negare che la Procura, annunciando prove schiaccianti che non ci sono, ha commesso una grave ingiustizia e alimentato sospetti di una manovra politica.

Il secondo motivo è forse ancora più forte. Senza nulla togliere ovviamente alla gravità di altri reati contestati a Berlusconi, come la corruzione o la frode fiscale, non c’è dubbio che da un certo punto di vista ciò che gli viene contestato adesso colpisce ancora di più l’opinione pubblica. È inutile che qualcuno dica che nella propria camera da letto ciascuno può fare ciò che vuole. Un presidente del Consiglio non è un «ciascuno» qualsiasi, e se organizza feste con escort in vari palazzi, è diverso che se le organizza il signor Pincopallino. Se poi a queste feste fa sesso a pagamento con minorenni (è un reato) e poi telefona alla questura per far liberare una di queste, arrestata per furto, e la spaccia per nipote di un altro capo di Stato estero, allora è ancora più diverso.

Gli italiani si sono assuefatti a certi costumi sessuali? Fino a un certo punto. E poi, potrebbero i centristi appoggiare il governo in cambio di una politica di sostegno alla famiglia, se saltassero fuori certe foto e certi filmati? E la Chiesa, che cosa direbbe la Chiesa? Ci sarebbero ancora monsignori a discettare sul dovere di «contestualizzare»? Accuse del genere, se fossero provate, non sarebbero gossip ma questioni politiche gravi. Vista dall’altra parte, se accuse tanto scabrose si rivelassero infondate o anche solo non dimostrabili, sulla Procura di Milano cadrebbe la colpa di un inaudito colpo basso.

Ecco perché, forse, questa potrebbe essere la madre di tutte le inchieste su Berlusconi. In un senso o nell’altro, potrebbe essere la parola fine a una guerra che da più di quindici anni condiziona la politica italiana, rallentandone quando non paralizzandone l’attività. Più che un’ipotesi è una speranza, perché - lo ripetiamo per l’ennesima volta - il Paese ha altre necessità che non quella di avere un premier impegnato più a duellare con la magistratura che a governare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8296&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Da Belpietro ai ciellini tra imbarazzi e fedeltà
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:26:02 pm
Politica

19/01/2011 - LA STORIA

Da Belpietro ai ciellini tra imbarazzi e fedeltà

Cominciano i distinguo: ideali diversi. «Ma c’è accanimento giudiziario»

MICHELE BRAMBILLA

MILANO
C’ è tutto un mondo che ha sempre difeso Berlusconi e che continua a difenderlo anche adesso. Però fa un po’ più fatica di prima. In alcuni casi non riesce a nascondere un certo imbarazzo. Ad esempio ieri il quotidiano Libero ha confermato di stare dalla parte del premier, tuttavia con qualche se e con qualche ma. L’editoriale è stato affidato a Giampaolo Pansa e intitolato con una domanda retorica: «Può governare un premier braccato dai pm?».

La risposta che Pansa si dà è: no, non può. Ma attenzione: Pansa non dà tutta la colpa ai pm. Dice che non sa se le accuse siano fondate oppure no, però aggiunge che «già adesso il caso Ruby presenta alcune certezze inquietanti». La prima «è la presenza di questa ragazza senza arte né parte nella residenza del premier ad Arcore». Poi quella di «almeno altre quindici ragazze… Perché erano state invitate dal premier?».

Sbaglia chi parla di indebita intromissione in questioni private: «La telefonata di Berlusconi alla questura di Milano per tirarla fuori (Ruby, ndr) dai guai annulla da sola la privacy del premier». Pansa dice anche che l’accusa è «molto ardua da smontare» e dal tutto emerge uno «stile di vita del premier che non mi sembra consono a un capo di governo». Da qui il suggerimento finale a Berlusconi: «quello di ritirarsi e di godersi la vita».

Certo, a Pansa risponde il direttore Maurizio Belpietro, il quale sostiene che se Berlusconi cade su questa storia si spalanca la via a una dittatura dei pm. Però non è tranchant («Può darsi che tu veda giusto», dice a Pansa) e riconosce che «certo, Berlusconi ha sbagliato». Insomma, su Libero quanto meno c’è dibattito e le certezze sono un po’ meno granitiche di un tempo. «Scagli la prima pietra», ha detto ieri Roberto Formigoni, aggiungendo: «C’è qualcuno che è senza peccato?».

Certo che no. «Credo che dovremmo riporre tutti le nostre pietre in tasca. O meglio, dovrebbero farlo tutti quelli che le stanno tirando», ha detto ancora il governatore. Soprattutto da parte di un certo mondo cattolico, il ricorso all’episodio evangelico di Gesù con l’adultera in questi casi è sempre buono. Però Formigoni, pur chiedendo il rispetto della privacy, non ha potuto trattenere un giudizio su quanto emerge dalle telefonate degli habitué di villa San Martino: «Quello che sta venendo a galla non è qualcosa di confortante».

Al contrario è qualcosa, ha precisato, che lo induce «alla malinconia». Ciellino come Formigoni è Mario Mauro, presidente dei deputati del Pdl al Parlamento europeo. La sua formazione lo porta a diffidare dei moralismi e a non credere che la verità sia tutta bianca o tutta nera.

«Ci sono due facce della stessa medaglia», ci dice, e spiega come la prima faccia sia rivolta a vedere «l’ennesimo capitolo di quella brutta storia che è il conflitto tra due poteri dello Stato». Insomma: non c’è dubbio per Mauro che «alcuni magistrati da anni stiano perseguendo finalità politiche abusando del loro potere». Contestare la concussione a Berlusconi per la telefonata in questura, secondo Mauro, «è come contestare l’associazione mafiosa ad Andreotti».

Ciò premesso, però, «resta il fatto di queste telefonate - continua Mauro - che descrivono un mondo che mi fa dire che i miei ideali di vita non sono quelli di Berlusconi. Quello che mi hanno insegnato mi ha fatto sperimentare un modo diverso per passare felicemente una serata». Sono fatti privati, i festini a luci rosse? «La politica non ha istituzionalmente il compito di educare.

Però la stessa testimonianza personale è di per sé educativa o diseducativa», risponde Mauro, e non sono parole leggere per il premier. Ma non è solo la componente cattolica del Pdl ad avere qualche perplessità. Di Libero abbiamo detto. Ieri un quotidiano aveva collegato al caso Ruby una frase pronunciata da Letizia Moratti a un convegno: «Da donna provo amarezza per un atteggiamento (la prostituzione, ndr) che può derivare da problemi personali, che io non mi permetto di giudicare.

Da sindaco, credo che le istituzioni debbano mettere in campo politiche che aiutino chi ha commesso errori o è incorso in comportamenti contrari alla dignità delle donne». Ma il sindaco di Milano ha subito smentito l’interpretazione di quella frase «rilasciata a margine di un convegno dedicato alle donne, decontestualizzata, manipolata e strumentalizzata per fini politici per attaccare il capo del governo al quale esprimo la mia vicinanza e solidarietà personale e politica».

L’irritazione è forte soprattutto perché Letizia Moratti e il suo staff non hanno alcuna intenzione di entrare in questa vicenda. «E’ un dibattito che non ci appassiona», fanno sapere. Di certo il mondo di Letizia Moratti è lontano anni luce da quello di Ruby Rubacuori, e pure da quello di Lele Mora. E la Lega? Il fedele inossidabile alleato Lega? Bossi ha minimizzato, ha detto che queste cose alla fine «portano voti a Silvio», ma poi non ha più parlato, e neanche i colonnelli e i ministri ieri hanno messo la faccia per Ruby. Hanno fatto parlare il capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, il quale ha detto che questa storia preoccupa «perché distoglie l’opinione pubblica dai temi veri», e che «bisogna andare avanti con le riforme».

Non ha parlato di un complotto contro il premier, non ha attaccato i giudici: dettagli che in politica sono sostanza. Nella Lega il fastidio è tangibile: non tanto per una questione morale, quanto perché si è sempre più convinti che i problemi personali del premier, e la paralisi che ne deriva, impediscono alla Lega di portare a casa ciò che ha promesso ai suoi elettori. Insomma c’è tutto un centrodestra che resta un centrodestra, ma non dà l’impressione di essere disposto a morire per il bunga bunga.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/384956/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA - L'amara vittoria del Premier
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 11:58:03 pm
27/1/2011

L'amara vittoria del Premier


MICHELE BRAMBILLA

Bondi non è stato sfiduciato, e resterà ministro. La Camera l’ha salvato con 314 voti. Coloro che gli contestavano la gestione dei beni culturali, e i crolli a Pompei, si sono fermati a quota 292.

Questi i freddi dati di cronaca. Ma se non vogliamo prendere in giro i lettori (e gli elettori), dobbiamo aggiungere che, benché la giornata parlamentare di ieri ruotasse attorno a questa votazione, del ministro Bondi e tanto meno dei crolli a Pompei ieri alla Camera non importava niente a nessuno. L’attacco a Bondi era in realtà un attacco al governo; e la difesa di Bondi una difesa del governo.

E dunque da un certo punto di vista si può dire che ieri Berlusconi ha ottenuto una nuova vittoria. Il voto di sfiducia al ministro dei Beni culturali era stato annunciato come una specie di giorno del giudizio. Il quarto, dopo quelli in cui s’è votato sul sottosegretario Caliendo (4 agosto scorso), sui cinque punti del programma (29 settembre), e sul governo rimasto orfano dei finiani (14 dicembre). Tutte prove di ribaltone, e tutti fallimenti. Il governo Berlusconi ha sempre dimostrato di avere i numeri per resistere. Magari con difficoltà; ma comunque resiste.

Ma può per questo Berlusconi dirsi tranquillo? È evidente a tutti che, come dicevamo, nonostante le apparenze Bondi e le sue politiche culturali ieri non erano i protagonisti della scena ma solo comparse. Così come comparse erano i pur volonterosi parlamentari presenti al voto. I veri protagonisti della giornata politica erano altri personaggi: quelli di cui si occupano le nuove 227 pagine che la Procura di Milano ha inviato alla Camera sull’ormai celeberrimo «caso Ruby». Sarà anche sgradevole dirlo perché le istituzioni ne escono mortificate: ma è evidente a tutti che il futuro del governo ormai non dipende più da quello che succede alla Camera e al Senato, ma da quello che i magistrati accertano e che i giornali pubblicano. Nella Prima Repubblica a un certo punto si cominciò a dire che la politica non la si faceva più in Parlamento ma nelle segreterie dei partiti. Oggi non la si fa più nemmeno nelle segreterie dei partiti, ma nei tribunali e nella coscienza dell’opinione pubblica.

Berlusconi non può tirare il fiato per il voto di ieri alla Camera, perché le nuove carte della Procura sono ben più preoccupanti per lui che non la perdita di un ministro. Già quello che si era letto nelle prime trecento pagine era a dir poco imbarazzante. Quello che comincia a trapelare dalle carte di ieri è ancora peggio. È desolante, sconfortante. A inchiesta iniziata e perfino a inchiesta ormai pubblica, non si è placato il giro di telefonate con cui si comunicavano compensi alle ragazze, assegnazioni di appartamenti, convocazioni di riunioni ad Arcore per stabilire una linea difensiva. Colpiscono in particolare le frasi pronunciate (e naturalmente intercettate) da Nicole Minetti, la consigliera regionale della Lombardia accusata di aver fatto da maîtresse. A scandalo scoppiato si sfoga, dice che si vuole dimettere, che vorrebbe avere una vita normale - fidanzarsi, sposarsi, avere figli - e non sa come fuggire dal pasticcio in cui s’è cacciata. Dice cose terribili sul premier, che accusa di averla messa nei guai e poi scaricata.

Non sappiamo se tutto questo comprenda dei reati. Ma sappiamo che in questi ultimi dieci giorni il presidente del Consiglio - e tutta una sfilza di testimoni interrogati dai suoi avvocati - hanno assicurato che non solo non ci sono reati, ma anche che non c’è neppure nulla di indecoroso. Ci hanno parlato di serate innocenti, di allegre canzoni, di film visti con un lettore dvd come fanno dopo cena milioni di piccoli borghesi. E invece il quadro che emerge è tutt’altro, e riesce davvero difficile (per non dire altro) sostenere a oltranza la tesi dell’equivoco, della millanteria, dello scherzo telefonico.

Non è tanto una questione morale, quanto una questione di credibilità politica. L’inchiesta di Milano sembra raccontarci il crollo di una classe dirigente, un crollo al cui cospetto quelli di Pompei contestati al povero Bondi sono ben poca cosa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8340&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Garibaldina e leghista la doppia vita di Bergamo
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:31:41 pm
Politica

02/02/2011 - IL CASO

Garibaldina e leghista la doppia vita di Bergamo

In città una marea di bandiere per accogliere il Presidente

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A BERGAMO

In provincia di Bergamo la Lega è il primo partito, e allo stadio s’è visto più volte questo striscione: «Bergamo nazione, il resto è meridione». Eppure oggi Bergamo accoglierà il presidente Giorgio Napolitano tutta vestita di tricolore, e sarà una grande festa dell’Unità d’Italia. Il sindaco Franco Tentorio (ex Msi ed ex An) ha chiesto ai cittadini di esporre la bandiera e Napolitano vedrà solo tre colori - il bianco, il rosso e il verde - lungo tutto il percorso del suo corteo: le vie Autostrada, Carnovali, Don Bosco, Bonomelli, Papa Giovanni XXIII, Porta Nuova, Sentierone, piazza Matteotti, largo Gavazzeni, via Tasso.

Drappi tricolori hanno già avvolto le colonne dei Propilei, Porta San Giacomo, le Mura venete. Com’è possibile? Dove sono i «trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare i fucili per la secessione», come minacciava Bossi? Come mai dal profondo Nord arriverà oggi un anticipo della grande festa per il centocinquantenario dell’Unità? È che Bergamo nel profondo Nord è un’anomalia. Una doppia anomalia. Intanto è un’anomalia perché nell’Italia dei campanili, cioè dei Comuni, Bergamo è innanzitutto una provincia.

Anzi una «nazione», come orgogliosamente rivendicano i tifosi dell’Atalanta. Ad esempio. Un cittadino di Cantù o di Erba, che sono in provincia di Como, non diranno mai di essere comaschi; allo stesso modo uno di Busto Arsizio non dirà mai di essere un varesino, una della Val Chiavenna non dirà mai di sentirsi in provincia di Sondrio, e così via. In provincia di Bergamo, invece, sono tutti bergamaschi. Lo sono quelli del capoluogo come quelli della Val Seriana, della Val Brembana, della Valcalepio; quelli di Scanzorosciate e quelli di Almè, quelli di Brembilla e quelli di Schilpario.

Solo a Treviglio non si sentono bergamaschi, e non è un caso perché Treviglio è diocesi di Milano e nella Bergamasca è stata soprattutto la Chiesa - insieme con le montagne - a formare nei secoli il senso di identità. Dice la leggenda che il vescovo di Bergamo può perfino disobbedire al Papa, tanto è forte l’autonomia della sua terra. I bergamaschi, per dirne un’altra, sostengono di non avere un dialetto, ma una lingua. Ed è una lingua incomprensibile anche da chi abita nelle province confinanti. Ma pur essendo una «nazione» Bergamo - e qui sta la seconda anomalia - conserva per l’Unità d’Italia una sacra venerazione. Non a caso nel suo stemma è scritto «Città dei Mille».

Nessun’altra città ha dato tanti uomini alla spedizione: 174. Perfino l’attuale presidente della Provincia, Ettore Pirovano, leghista duro e puro («Sono stato secessionista convinto», ammette) ha un garibaldino fra i suoi ascendenti: si chiamava Giovan Battista Asperti e a 18 anni si arruolò con i Mille. Guai a toccarli, qui a Bergamo, i Mille. Il 15 maggio 1860 a Calatafimi il bergamasco Francesco Nullo, nel momento più duro della battaglia, chiamò a raccolta i suoi compaesani: «Ché i bergamasch, töcc inturen a me». Arrivarono in un’ottantina e partirono all’assalto con la baionetta sfidando i fucili dell’esercito borbonico.

Gaspare Tibelli e Luigi Biffi caddero centrati in pieno petto: il primo aveva 17 anni, il secondo ne avrebbe compiuti 14 dopo dieci giorni. Sono rimasti nella memoria come esempio della generosità dei bergamaschi, sempre presenti ovunque ci sia bisogno. Oggi al Teatro Donizetti la professoressa Matilde Dillon Wanke illustrerà a Napolitano il progetto di raccolta dei diari dei Mille. «Come accoglieremo il Presidente? Alla bergamasca», dice Ettore Ongis, direttore dell’Eco di Bergamo. «Con concretezza, senza enfasi, ma con profondo rispetto istituzionale.

La nostra gente riconosce in lui un portatore di valori ancora attuali». Secondo Ongis Napolitano è perfino un po’ bergamasco: «Dal punto di vista del carattere ci assomigliamo molto: per il senso della misura, la discrezione e l’equilibrio. Anche il presidente della Provincia, che è leghista, riconoscerà a Napolitano il suo ruolo di garante super partes». Certo, l’anima nordista farà comunque sentire la sua voce («Verrà sottolineata la necessità di uno scatto in avanti per rilanciare il sistema Paese», dice Ongis), ma sarà ugualmente una trionfale festa tricolore com’è stata l’anno scorso l’adunata degli alpini.

Nel pomeriggio il Presidente sarà in visita all’Eco di Bergamo, che qui - più che un giornale - è un’istituzione, un tempio della bergamaschità. Monsignor Andrea Spada, che ne fu direttore per cinquantun anni, diceva sempre ai suoi giornalisti: «Ricordatevi che sull’Eco anche la politica estera va declinata in bergamasco». È la forza di un’identità. Ma un’identità che non porta a chiudersi e anzi fa pure qualche miracolo, come quello che vedremo oggi a pranzo, quando Giorgio Napolitano sarà seduto a fianco di Mirko Tremaglia. Un uomo del Sud e un uomo del Nord, un ex comunista e un ex fascista di Salò affratellati dall’Unità d’Italia.

da lastampa.it/politica


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il circolo vizioso della riforma
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 09:43:18 am
5/2/2011

Il circolo vizioso della riforma


MICHELE BRAMBILLA

Atteso da anni come panacea di tutti i mali, il federalismo rischia ora di diventare il pasticciaccio brutto del Nord. E di mandare in crisi sia la destra, sia la sinistra sia soprattutto i cittadini padani. Vediamo di capire perché, procedendo con ordine visto che la questione è complessa e non sappiamo - tra gli arzigogoli della politica e le inevitabili semplificazioni giornalistiche - quanto sia arrivato davvero ai cittadini.

Dunque. L’altro ieri alla Commissione bicamerale è stato respinto un «pezzo» del federalismo; il governo ha cercato di farlo passare ugualmente con un decreto, che ieri il Presidente della Repubblica ha però dichiarato irricevibile, chiarendo che una cosa del genere deve passare dal Parlamento. E infatti si tornerà a discuterne alle Camere. Ulteriore chiarimento per i non addetti ai lavori: una riforma passata alla Bicamerale avrebbe avuto il marchio di un riforma condivisa; una che invece passa alle Camere con un voto di maggioranza ha quello della riforma di parte.

Che cosa significa tutto questo? Che il federalismo è stato bocciato, oppure che passerà solo con i voti di Pdl e Lega? E che il Presidente della Repubblica si è messo di traverso?
Questi sono i messaggi passati in questi giorni, ma la realtà è più complessa.
Innanzitutto quello che è stato respinto l’altro ieri alla commissione bicamerale non è «il federalismo», come sta passando di bocca in bocca, ma solo uno degli otto decreti attuativi del federalismo, e per la precisione la riforma del fisco municipale, che degli otto decreti non è certo il più importante (molti più effetti avrà quello sulla sanità).

Comunque. La bocciatura alla bicamerale e poi l’intervento del Presidente della Repubblica hanno scatenato l’ira del popolo leghista. Che è furibondo non solo con «la vecchia politica», ma anche con Berlusconi. Tra giovedì e ieri decine di ascoltatori di Radio Padania si sono sfogati dicendo di non poterne più di un’alleanza, quella con Berlusconi appunto, che non porta mai a risultati concreti. Anche i deputati leghisti erano lividi.

Ieri l’ordine di scuderia è stato quello di gettare acqua sul fuoco. Il ministro Calderoli è andato a Radio Padania a tranquillizzare la base, a dire che quella di Napolitano «è solo un’interpretazione» e che tutto si risolverà in Parlamento «in dieci o quindici giorni». Ma i vertici leghisti sanno bene che la base è in fermento e se i capi fanno i pompieri per non rompere con il Quirinale, i tiratori scelti si incaricano di far sapere che la Lega è combattiva come sempre: Borghezio ha detto che «Napolitano non è più ispirato dal pensiero di Carlo Cattaneo ma dagli eterni azzeccagarbugli della politica italiana», e Gentilini ha aggiunto che sono state «le grandi ideologie del passato a far decidere Napolitano per il diniego». Mostrandosi così in sintonia con il popolo duro e puro. Ieri sera, pur dopo l’intervento al valium di Calderoli, i microfoni di Radio Padania si sono riaperti al pubblico e il primo degli intervenuti è stato telegrafico: «Va bene rispettare il Capo dello Stato, ma non dimentichiamoci che è un comunista».

La Lega quindi è inquieta. Ma, dicevamo, anche la sinistra è preoccupata. In Parlamento è infatti scontato che il Pd voterà contro al decreto sul fisco municipale. Lo farà in modo convinto. Ma mettendo in difficoltà i suoi deputati del Nord, che si chiedono con quale faccia si presenteranno alla prossima campagna elettorale, nei loro collegi, dopo aver votato contro il federalismo. Ci confidava ieri un parlamentare Pd: «Per spiegare perché quel decreto è una boiata dovremmo parlare per ore, portare dati e documenti. E invece purtroppo ormai si ragiona per slogan, e lo slogan che passa è che il Pd vota contro il federalismo. E quindi contro il Nord».

Ma siccome la vicenda è tutta un susseguirsi di paradossi, anche per i cittadini del Nord il federalismo rischia, come dicevamo, di diventare motivo più di scontentezza che di liberazione. Adesso c’è sconcerto perché si ha la sensazione che i soliti «poteri forti» ostacolino le riforme. Ma poi, se e quando il decreto sul fisco municipale passerà, il primo impatto sul Nord sarà deludente per non dire devastante. «I Comuni - ci confessava ieri un importante sindaco leghista - dovranno tagliare i servizi. E i cittadini si vedranno aumentate le tasse». Sulle case, sul turismo, perfino sulla piccola e media impresa. Questo perché gli effetti benefici del federalismo, secondo le stesse previsioni della Lega, si vedranno tra alcuni anni, ammesso che si vedranno.

Insomma per adesso il federalismo, che nelle intenzioni di Calderoli doveva essere una riforma condivisa, ha accentuato lo scontro istituzionale. Tra un po’ dovrebbe mandare in crisi il Pd nel Nord, e tra un po’ ancora dovrebbe deludere chi l’aspettava come la manna dal cielo. Un circolo vizioso, dal quale si potrebbe uscire solo con un diverso clima politico.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Attacco al cuore del berlusconismo
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2011, 12:00:54 pm
7/2/2011

Attacco al cuore del berlusconismo

MICHELE BRAMBILLA

Come hanno osato arrivare proprio fin lì, fino a Villa San Martino di Arcore? Silvio Berlusconi deve aver gridato al sacrilegio, e se così fosse sarebbe una sorta di contrappasso.

E già, perché è probabile che al sacrilegio abbiano gridato – leggendo le cronache del caso Ruby – anche le anime dei monaci benedettini che abitarono quella dimora prima che i conti Giulini, a metà del Settecento, l’acquisissero e la ristrutturassero per farne una villa padronale.

«Un sacrilegio», deve aver pensato il premier, perché in politica le manifestazioni di protesta sono da mettere in conto ma c’è sempre stato un codice non scritto secondo il quale non si va a strillare sotto casa. E un sacrilegio soprattutto perché non c’è luogo più sacro al Cavaliere che Arcore; non c’è luogo più simbolico del berlusconismo di questo piccolo paese della Brianza di cui nessuno conosceva l’esistenza prima che ci arrivasse Berlusconi.

Si dice «ad Arcore» per dire chez Silvio così come si dice «oltre Tevere» per dire il Vaticano e «l’appartamento» per dire il Papa. Arcore, poi, sta a Berlusconi ancor più di quanto piazza Gesù stava alla Dc, le Botteghe Oscure al Pci, l’hotel Raphaël a Craxi, Palazzo Venezia a Mussolini. Perché la Dc era anche altrove, era anche l’Azione cattolica e le sacrestie; il Pci era anche le cellule e le cooperative; Craxi era anche e soprattutto la Milano da bere; Mussolini era anche la Romagna, Predappio e la Rocca delle Caminate. Berlusconi, invece, è Arcore: è la Brianza operosa e produttiva, i capannoni e le fabbrichette, il «paghi mi», la villa nel verde. Berlusconi è nato e cresciuto a Milano ma è brianzolo dentro. Brianzolo è il popolo delle piccole e medie imprese cui ha dato voce e speranza. Brianzola è la filosofia della «politica del fare» contrapposta a quella delle chiacchiere.

Lo stesso acquisto di Villa San Martino è uno spaccato del berlusconismo: della capacità di fare affari, di avere successo. Berlusconi la comperò nel 1974 dall’erede dei conti Casati Stampa, coinvolti in una storiaccia di sesso. Camillo Casati Stampa di Soncino si uccise nel 1970 dopo aver assassinato la moglie Anna Fallarino e il di lei amante Massimo Minorenti. La villa finì alla giovane Anna Maria Casati Stampa che ne affidò la vendita al suo legale, un avvocato che si chiamava Cesare Previti. Valutata un miliardo e settecento milioni, Villa San Martino venne acquistata dal futuro premier a cinquecento milioni.

Era appunto il 1974. Berlusconi era ancora uno sconosciuto per il grande pubblico, uno dei tanti imprenditori del Nord che stava facendo i dané. Fu proprio in quel momento lì, fu proprio dopo aver lasciato la villa di via Rovani a Milano per Arcore che cominciò la sua ascesa anche sociale e politica. Il 1974 è anche l’anno in cui nasce il Giornale di Montanelli, di cui Berlusconi è dapprima un marginale sostenitore, poi il maggiore azionista, quindi il padrone. Indro andava lì, ad Arcore, a parlare con il suo editore, vincendo (anche per gratitudine) un’istintiva idiosincrasia antropologica.

Villa San Martino divenne la residenza di famiglia, e poi più che una residenza: un sacrario, con la costruzione del mausoleo di Pietro Cascella, con i loculi pronti per tutti i Berlusconi e per gli amici fidati. Villa San Martino ripercorre tutte le tappe di un’ascesa: dallo stalliere Vittorio Mangano ai grandi ospiti, che erano stelle di Hollywood, grandi calciatori, politici. È a Villa San Martino che Berlusconi registra nel 1994 il videomessaggio della discesa in campo ed è poi lì che si ricevono gli alleati con cui disegnare strategie.

Villa Belvedere Visconti di Modrone, che sta nel paese vicino di Macherio e che a un certo punto il Cavaliere compera per farne la sua abitazione, non ha nell’epopea berlusconiana lo stesso peso di Arcore. Berlusconi non se n’è mai innamorato veramente, tanto che dopo il divorzio da Veronica è tornato a Villa San Martino.

Da qualche anno Arcore aveva però perso buona parte della sua centralità. Per gli incontri politici Villa san Martino era stata sostituita da Palazzo Grazioli, a Roma; solo Bossi e i suoi continuavano ogni lunedì sera ad andare ad Arcore, riconoscendone il genius loci lumbard. Anche per la mondanità la villa di Arcore era finita ai margini: diciamo oscurata da Villa Certosa.

Ma se ieri il popolo viola e quelli dei centri sociali hanno scelto Arcore, è perché Arcore è tornata ad essere il cuore, il simbolo del berlusconismo. Come e perché sia tornata ad esserlo, è meglio lasciar perdere.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA La Lega si mette l'abito scuro
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:43:50 am
Politica

06/03/2011 -

La Lega si mette l'abito scuro

Nella fida Bergamo cena di gala con tutti i capi per festeggiare Federalismo e 25 anni del partito

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A BERGAMO

Come ci si vestirà a una cena di gala della Lega? E’ gradito l’abito scuro oppure i leghisti sono meno formali? L’addetto stampa ci toglie dall’imbarazzo: «Ma vestiti come vuoi, tanto voi giornalisti sarete in un recinto». Dice proprio così: «In un recinto».

La piccola vendetta lombarda: siamo alla Fiera di Bergamo e la Lega nella sera in cui festeggia la sua storia mette in un recinto quella categoria che nulla aveva capito, alle origini, di lei. La snobbavamo: un fenomeno folcloristico che passerà presto. Invece la Lega non solo non è passata presto, ma oggi è il più vecchio partito italiano, sta al governo e sta per portare a casa – sia pur molto riveduto e corretto – il progetto che stava alla sua ragione sociale: il federalismo. Così può far festa. Ieri sera c’erano duemila invitati e tutti i grandi capi per festeggiare i 25 anni della sezione bergamasca e, insieme, il federalismo. Ma perché proprio a Bergamo? E in questo stile poi: una cena di gala invece delle salamelle.

Daniele Belotti, capo degli ultras dell’Atalanta e assessore regionale, ce lo facciamo spiegare da lui: «Perché Bergamo rappresenta la roccaforte della Lega. E’ la terra dei duri e puri. Quella che è sempre stata la più fedele a Bossi». Più ancora di Varese, che è la culla della Lega? «Sì – ci dice Belotti – più ancora di Varese». In effetti se il Varesotto è la terra dove la Lega è nata, la Bergamasca è quella in cui la Lega è cresciuta di più. Qui – intendendo per «qui» la provincia – la Lega è avanti al Pdl di dieci punti.

Centododici sezioni, seimila tesserati, 53 sindaci su 244, Bergamo e le sue valli contengono il popolo che Bossi ha sempre invocato quando voleva far capire che tanti fucili e forconi sono pronti. Tutto cominciò appunto venticinque anni fa, per la precisione il 6 dicembre 1985, quando Bossi venne a tenere il suo primo incontro a Bergamo, al centro «Serughetti-La Porta», davanti a quattro gatti più incuriositi che altro. Due anni dopo, 1987, venne aperta la prima sezione, in via Sant’Orsola: è un anno importante, quello in cui Bossi diventa per la prima volta «senatur». Il partito era nato pochi anni prima, nel 1982, nel Varesotto. Tre i componenti: Bossi, sua moglie Manuela Marrone, l’amico Giuseppe Leoni.

Facevano un ciclostilato che si chiamava «Lombardia autonomista». Un giorno questa sorta di samizdat arrivò a Bergamo in casa di tale Enzo Innocente Calderoli, figlio di tale Guido Calderoli che alla fine degli Anni Cinquanta aveva fondato il «Movimento autonomista bergamasco»; e zio di tale Roberto Calderoli, che poi non è un tale perché adesso è ministro. Enzo Innocente lesse il ciclostile e vide che c’era un numero di telefono: lo chiamò e si sentì rispondere dalla signora Bossi. Roberto Calderoli ha così ricordato quei tempi con Anna Gandolfi dell’Eco di Bergamo: «Lo zio portava il ciclostilato a casa e con mio fratello Guido ci siamo avvicinati alla politica.

Ma ricordo anche che nello studio del nonno in via XX settembre si parlava di autonomia. Io arrivavo lì ed ascoltavo». Gli inizi non furono facili: «Ricordo un comizio a Schilpario alla fine degli Anni Ottanta. Partimmo in tre, sotto la neve, per andare in biblioteca a parlare di federalismo. Quando arrivammo, trovammo in sala solo tre persone: due erano della Digos, uno era il custode». Ma i successi arrivano rapidi e imprevedibili. Nel 1989 la Lega prende il 14,57 per cento: è il secondo partito e in nessun’altra provincia è andata così bene.

Nello stesso anno Luigi Moretti, di Nembro, primo segretario provinciale, diventa europarlamentare insieme con Francesco Speroni, di Busto Arsizio: sono i primi due leghisti ad andare in Europa. Sempre nel 1989 – il 22 novembre – da un notaio di Bergamo viene depositato lo statuto del partito federale, cioè la Lega Nord, che sarebbe nata a Pieve Emanuele, in provincia di Milano, solo il 9 febbraio 1991. Nel 1990 nasce la «Berghem fest»: è la prima festa del partito e avrà innumerevoli repliche ovunque.

Il 20 maggio dello stesso anno c’è la prima Pontida: che è in provincia di Bergamo, per chi non lo sapesse. Ogni cosa pare cominciare sempre qui nella Bergamasca: a Ponte San Pietro un consigliere comunale prende la parola in dialetto e l’aula si svuota in segno di protesta: non era mai successo prima, succederà molte altre volte poi. Nel 1994 Daniele Belotti, l’assessore atalantino, diventa il più giovane segretario provinciale della Lega.

Nel 1996 il botto: la Lega in provincia prende il 43,2 per cento dei voti. Ieri sera Bossi ha voluto premiare i tanti che negli anni hanno costruito, mattone dopo mattone, questa storia. Certo qualcuno se n’è andato. Se n’è andato Giovanni Cappelluzzo, che fu il primo presidente leghista della Provincia. Se n’è andato Cristiano Forte, segretario provinciale dal 2004 al 2006, che contesta l’alleanza con Berlusconi: «E’ una strategia che non porta a nulla e i fatti lo stanno dimostrando, quello che sta venendo avanti adesso non è federalismo ma una legge di contenimento della spesa pubblica».

Se n’è andato Silvestro Terzi, uno dei fondatori, parlamentare dal 1992 al 2001: «Lo spirito iniziale non c’è più». Se n’è andato perfino Luigi Moretti, il primo segretario provinciale e primo europarlamentare. Assicura che ha solo lasciato gli incarichi ma è ancora leghista e approva l’attuale linea soft, però avverte: «Deve essere un passaggio intermedio per arrivare all’autonomia» E’ il pensiero di tanti, forse di tutti quelli che ieri sera erano lì a festeggiare il fisco municipale sapendo che l’obiettivo di 25 anni fa era ben altro.

da - lastampa.it/politica


Titolo: MICHELE BRAMBILLA I leghisti hanno boicottato le celebrazioni ...
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 10:14:29 pm
MICHELE BRAMBILLA

I leghisti hanno boicottato le celebrazioni o vi hanno partecipato obtorto collo.

Era scontato.

Molto meno scontato, però, era che la Lega desse una prova di disunità non solo d’Italia, ma anche di partito.


Contrariamente alla loro tradizione, infatti, dirigenti e militanti non si sono presentati compatti all’appuntamento. Già nei giorni scorsi c’erano stati alcuni segnali. Ad esempio a Milano, nel consiglio regionale, i lumbard se n’erano andati al bar mentre suonava l’inno di Mameli; però il leghista Davide Boni, che è presidente di quella assemblea, era rimasto in aula: con l’entusiasmo di chi deve pagare una cambiale, ma c’era rimasto.

Ieri poi un po’ tutto il partito ha dato l’impressione di non saper tenere la barra dritta. A Montecitorio s’è presentato un solo parlamentare leghista, tale Sebastiano Fogliato. Però i membri del governo c’erano tutti. Maroni a domanda sulla sua presenza aveva risposto «lasciatemi in pace», mostrando un certo nervosismo: però c’era. Bossi, che negli anni passati ci aveva fatto sapere quale uso avrebbe fatto del tricolore, c’era anche lui. Non ha applaudito il discorso di Napolitano, però ha detto che Napolitano ha fatto un buon discorso. Mentre suonava l’inno s’è messo a parlare con Tremonti, però si è alzato in piedi.

E ancora. Il quotidiano La Padania ieri titolava «150 anni di centralismo, che guasti», però il governatore del Veneto Luca Zaia ha partecipato alle celebrazioni con la coccarda tricolore. A Torino nessun leghista era presente in piazza Castello all’alzabandiera, però a Varese all’alzabandiera il sindaco Attilio Fontana (che è un fedelissimo di Maroni e il leader dei sindaci leghisti) c’era, e aveva perfino la fascia tricolore. Il presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano, padano e discendente di uno dei Mille, ha detto che «l’unità non può essere imposta», ma un altro importante amministratore locale della Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi, ha anch’egli partecipato all’alzabandiera indossando la fascia tricolore. Borghezio ha detto che le celebrazioni di ieri sono «soldi buttati» e che presto «ci saranno due Italie», ma sul balcone della sede della Lega di Varese – che del movimento di Bossi è la culla – qualcuno ha messo un tricolore.

Potremmo andare avanti a lungo. Non vogliamo dire che tutto questo dimostra una spaccatura interna sull’idea che i leghisti hanno dell’Italia. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, alla stragrande maggioranza la secessione farebbe ancora più piacere che il federalismo. No, la spaccatura non è stata sulla linea ma su come mostrarsi, come manifestarsi al Paese e alla politica in un giorno come quello di ieri.

O meglio: più che di una spaccatura, si tratta di un disorientamento. La Lega, sempre molto abile nel fiutare i sentimenti popolari, forse non si aspettava che la festa dei 150 anni avrebbe così tanto risvegliato l’amor patrio degli italiani. Già i venti milioni di spettatori per Benigni a Sanremo erano stati un segnale. Adesso sono arrivate le feste di piazze, le città imbandierate, lo straripante affetto mostrato al presidente Napolitano. Chi ha avuto modo di vedere Torino in queste ultime ore non può non essere rimasto colpito dalla partecipazione popolare al centocinquantenario. Anche in quartieri multietnici come San Salvario il tricolore era ovunque.

Di fronte a questo imprevisto, di fronte alla sorprendente constatazione che il sentimento per l’Italia non era morto ma solo sopito, la Lega s’è trovata disorientata e non ha saputo presentarsi con il consueto celodurismo. E così ha probabilmente scontentato tutti: i non leghisti, che si aspettavano un atteggiamento più dignitoso, e la sua base, che se ne aspettava uno più bellicoso.

Viceversa il presidente Napolitano è arrivato in questi giorni a livelli di consenso e credibilità pari, se non superiori, a quelli di cui godeva Pertini. E se dopo tanta politica greve, volgare e priva di contenuti gli italiani si mettono a seguire un uomo come Napolitano, forse vuol dire davvero che qualcosa sta cambiando. Di tutte le riforme, questa sarebbe quella di cui abbiamo più bisogno.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA La memoria corta di La Russa
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2011, 10:31:46 pm
1/4/2011

La memoria corta di La Russa

MICHELE BRAMBILLA

Ignazio La Russa sta vivendo un momento difficile. Ieri è stato criticato anche dalla stampa amica: il Giornale nel titolo di prima pagina parlava di un «pasticcio» e a pagina 7 di uno «scivolone di La Russa»; quanto a Libero, il vicedirettore Fausto Carioti nell’editoriale gli ha consigliato «un corso di educazione e sopportazione». Inoltre, ha scritto che le escandescenze sono state tali da far pensare che per una volta le parti fossero invertite, e che fosse il ministro a fare l’imitazione di Fiorello. Tutti e due i quotidiani, poi, hanno dato senza alcuna reticenza - e con buona evidenza - la notizia dell’ira di Berlusconi e di gran parte del Pdl contro La Russa.

Il quale è da qualche tempo che perde le staffe. Sul web c’è tutto un florilegio delle sue reazioni sopra le righe. L’ultima era stata forse quella, alla Balotelli, contro un inviato di Annozero. Ma fra tutti questi comportamenti certamente non consoni al ruolo che La Russa riveste, ce n’è uno che colpisce in modo particolare e che dovrebbe far riflettere l’interessato. A ben guardare, nell’invettiva del ministro della Difesa contro Fini il gesto più grave non è stato il «vaffa» ma quel «stai zitto» pronunciato tenendo l’indice appoggiato al naso. Un gesto grave non solo perché rivolto alla terza carica dello Stato, ma soprattutto perché il suo autore dovrebbe ben sapere che cosa rappresenta.

Fino a una ventina d’anni fa Ignazio La Russa era uno sconosciuto politico (consigliere comunale a Milano) che di mestiere faceva l’avvocato penalista. In quegli anni facevo il cronista di giudiziaria e ricordo bene con quale schifato disprezzo molti colleghi lo evitavano anche quando aveva notizie (di processi, non di politica) da portare in sala stampa. Un giorno ce ne offrì una gustosa. Si era scoperto che i carabinieri s’erano inventati una retata in un bar che, a un controllo dei giudici, risultò chiuso nel giorno indicato nel verbale: in pratica saltò il processo e gli imputati furono tutti assolti. Era una notizia buona per le pagine di cronaca, senza alcun risvolto politico, ma in sala stampa alcuni colleghi giornalisti indirono seduta stante un’assemblea al termine della quale fu deciso che le notizie di «un fascista» non andavano pubblicate neanche se vere, punto e stop.

È solo un esempio tra le migliaia, anzi tra i milioni che si potrebbero fare per ricordare l’esilio, la chiusura nel ghetto, la cacciata nelle fogne che fu riservata ai missini per quasi cinquant’anni: dal 1946, quanto il partito fu fondato dalla cosiddetta «generazione che non si è arresa», al 1995 quando si sciolse per diventare Alleanza nazionale e rientrare nel gioco democratico. Furono pochi, pochissimi, in quei cinquant’anni, i non missini che difesero il diritto dei missini a parlare; che reagivano quando qualcuno portava l’indice al naso e diceva «stai zitto» a un esponente del Msi.

Ecco perché La Russa quel gesto non lo dovrebbe mai fare. Per coerenza con il proprio passato. Ma anche per non correre il rischio di un curioso e imprevedibile compimento di una parabola che potrebbe riportare lui, e i vecchi camerati, a rivivere l’emarginazione di un tempo. È una parabola che in qualche modo già si intravede. Perché: che fine hanno fatto gli ex missini ed ex An? Chi è andato con Fini sembra in un vicolo cieco: Fli è un partito senza grandi prospettive elettorali, indeciso su da che parte stare e diviso tra falchi e colombe.

Chi invece è rimasto nel Pdl rischia di scomparire per altri motivi. Da una parte, sta diventando sempre più un corpo estraneo e sgradito a quelli che vengono da Forza Italia. La raccolta di firme per far dimettere La Russa da ministro è partita all’interno del Pdl, non dai banchi dell’opposizione. E il mai dimenticato epiteto usato per indicare al pubblico disprezzo («fascista») è arrivato da Claudio Scajola, oltre che dai deputati d’opposizione.

Dall’altra parte non si capisce bene quale presa possa ancora avere sul suo vecchio elettorato un La Russa come quello dell’altro giorno, scalmanato nel difendere il processo breve. S’è forse dimenticato di quando guidava le fiaccolate pro Mani Pulite? O di quando, ancor prima, il suo fedele collaboratore Riccardo De Corato riforniva la Procura di Milano di esposti contro la corruzione e il malaffare? Forse sì, forse s’è dimenticato, come s’è dimenticato dei tempi infami in cui in nome della democrazia gli intimavano di tacere. E la scarsa memoria è pericolosa. Si fa in fretta a tornare in un angolo dopo aver vissuto una imprevista e insperata stagione di gloria.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Berlusconi monopolizza il palcoscenico che non c’è
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:05:07 pm
Politica

07/04/2011 - IL CASO

Berlusconi monopolizza il palcoscenico che non c’è

Un'avvocatessa per Ruby: in aula anche Paola Boccardi, avvocato di Ruby Rubacuori, è lei che l'ha convinta a non costituirsi a parte civile al processo contro Berlusconi

In Aula non c’erano nemmeno Ghedini e Longo.

Solo tantissimi giornalisti

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Di tutte le celebrità del processo Ruby in aula ce n’è solo una, Ilda Boccassini, e per giunta l’esercito di giornalisti arrivati da tutta Italia e da mezzo mondo la può vedere solo di nuca, e solo quando si alza in piedi al momento dell’ingresso dei giudici. Di parlarle, neanche da parlarne.

Degli altri personaggi illustri finiti in questa storia non c’è nessuno. Non c’è Berlusconi, che in sua vece manda una cortese missiva per comunicare gli improrogabili impegni. Non c’è Ruby. Non ci sono i vip chiamati a deporre dalla difesa per documentare il candore delle serate di Arcore: e cioè i ministri Gelmini e Carfagna, George Clooney, Elisabetta Canalis, Belen, Barbara D’Urso e Cristiano Ronaldo, il quale secondo i giornali starebbe per passare al Milan, forse perché se un testimone a discarico è anche dipendente dell’imputato non guasta. Non ci sono neppure gli avvocati Ghedini e Longo: come per una partita di Coppa Italia, il presidente ha scelto di schierare le seconde linee. Per fortuna non c’è neppure Lele Mora ma purtroppo non c’è neppure la Minetti.

Insomma ci sono solo i giornalisti, un plotone di giornalisti, per l’udienza più surreale della storia della cronaca giudiziaria. Annunciata come una specie di giorno del giudizio, attesa in mondovisione, si è risolta in nove minuti: dal processo breve all’udienza lampo. Nove minuti sono stati sufficienti ai giudici per sbrigare le formalità burocratiche e fissare la ripresa al 31 maggio, tra lo sbigottimento dei colleghi stranieri che non riescono a capacitarsi di come mai - per un processo così importante la giustizia italiana non riesca a trovare un buco un po’ meno lontano nel tempo.

Mai visto un simile scarto tra attesa e consistenza dell’evento. Il palazzo di giustizia di Milano sembra in stato d’assedio, per entrare dobbiamo sottoporci a controlli simili a quelli di un aeroporto americano nell’immediato post-11 settembre. Consegnata la borsa, svuotate le tasche e passati sotto il metal dectector, veniamo dirottati da un’altra pattuglia di carabinieri per essere censiti: nome cognome e testata di appartenenza (mai successo, neanche ai processi per terrorismo) e finalmente un prego si accomodi ma mi raccomando, in aula telefonino spento, niente foto e niente registrazioni. I colleghi delle tv se la passano peggio: non li fanno neppure entrare.

Noi della carta stampata ci dobbiamo sedere tra i banchi degli avvocati. Di solito i giornalisti in quest’aula - che è della Corte d’assise: il tribunale l’ha solo presa in prestito - vengono fatti accomodare all’interno delle gabbie degli imputati. Ma oggi le gabbie sono interamente avvolte da tende bianche e non si può entrare. «Sarebbe stato sgradevole - ci spiega un carabiniere - far sedere i giornalisti stranieri dietro le sbarre». Come dire che per i giornalisti italiani non si sente, invece, la necessità di simili riguardi.

Tanta attesa, tanta tensione, tanta paura di non trovare posto per un processo ai fantasmi. La paradossale mattinata a palazzo di giustizia mette a nudo il lato grottesco del nostro mondo dell’informazione: sapevamo tutti benissimo che non ci sarebbe stato nessuno e che non sarebbe successo niente, eppure siamo venuti lo stesso. Così, prima e dopo i nove minuti dell’«udienza di smistamento» (è questa, scopriamo, la denominazione della perdita di tempo) dentro e fuori dall’aula si assiste al seguente curioso spettacolo: ci sono i giornalisti stranieri che intervistano i giornalisti italiani e i giornalisti italiani che intervistano i giornalisti stranieri. Così in mancanza di Berlusconi, Ruby e compagnia, la star della giornata è Beppe Severgnini, il più noto fra di noi, anche all’estero. Anche l’unica contestazione del pubblico è rivolta a Severgnini: all’uscita del palazzo c’è un ringhioso signore che gli mostra la mano con le cinque dita ben aperte: beccati ‘ste pappine - gli dice - interista del c.

Eppure la surreale giornata giudiziaria-mediatica di ieri da una parte dimostra quanto sia sempre più straripante la personalità di Berlusconi: in grado di monopolizzare il palcoscenico anche quando non c’è. E dall’altra parte - chi può escluderlo - potrebbe essere un profetico anticipo di ciò che sarà questo processo: udienza a fine maggio, poi forse una a metà giugno, quindi pausa per le vacanze, ripresa a ottobre, poi magari scorporo del processo, metà al tribunale dei ministri e metà a Monza, nuovi depositi di atti e nuove citazioni, nuove udienze di smistamento e nuovo rinvio. Così diventerebbe perenne lo scarto avvertito ieri tra l’attesa e l’evento, e tutto finirebbe come sempre finisce in Italia: in un eterno stand by. Diremo forse un giorno: ma quando si saprà la verità su quella storia del bunga bunga?, e quel giorno saranno maggiorenni anche le figlie di Ruby.

da - lastampa.it/politica/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La politica una questione personale
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 04:32:57 pm
15/4/2011

La politica una questione personale

MICHELE BRAMBILLA

Il presidente del Consiglio che riunisce i capigruppo di maggioranza e fissa il calendario dei prossimi impegni di governo aggiungendo – al processo breve appena messo in cassaforte – la legge sulle intercettazioni e la riforma della magistratura, è in fondo l’immagine di quella che è ormai diventata la politica italiana: una questione personale. E l’immagine è tanto più sconfortante per il Paese se si considera che più nessuno si stupisce di questa privatizzazione della vita pubblica. Ormai siamo tutti abituati, assuefatti, rassegnati. Che cos’è infatti diventata la politica italiana se non una battaglia pro o contro una sola persona, Silvio Berlusconi?

Tutto ruota attorno a lui. L’attività del governo e quella del Parlamento, le inchieste più importanti della magistratura, le manifestazioni di piazza e le battaglie dei giornali, le diatribe interne ai partiti.

Perfino la nostra tradizionale religione popolare, il calcio, ne è condizionata: ci si chiede quanti punti di gradimento valga uno scudetto, e quanti l’acquisto di Cristiano Ronaldo. Lui, lui, sempre e solo lui: in Italia non si parla d’altro e non ci si divide che sulla persona di Berlusconi.

Chi lo ama è pronto a difenderlo qualunque cosa faccia: dice che i processi sono montature delle toghe rosse, e se per caso si imbatte in una prova provata di colpevolezza, replica che così fan tutti, che c’è di male. Chi lo detesta lo ritiene responsabile di ogni male, a volte fino a rendersi grottesco. Nel film «La bellezza del somaro» di Sergio Castellitto c’è un tale che inveisce contro Berlusconi perché il distributore automatico delle bibite s’è inceppato. «Che c’entra Berlusconi?», gli domanda Laura Morante. «Berlusconi c’entra sempre», le viene risposto.

Mai nell’ Italia repubblicana una sola persona aveva così tanto occupato la scena, e così tanto monopolizzato la politica. Oggi la lotta è solo su una persona.

Ecco perché diciamo che ieri, quando Berlusconi ha riunito i capigruppo a Palazzo Grazioli, nessuno deve avere avuto un sobbalzo nel prendere atto che l’agenda del governo coincide con un’agenda personale. Sono mesi che le Camere non si occupano che delle faccende personali del premier. Così è parso normale che il presidente del Consiglio, con tutti i guai che ha l’Italia e con tutti i disastri che accadono ai nostri confini, abbia chiesto ai capigruppo una full immersion sui fatti propri: le intercettazioni telefoniche, il depotenziamento dei pubblici ministeri, la possibilità di punire i giudici.

«Abbiamo i numeri», pare abbia ripetuto il premier, ed è il ritornello tante volte sbandierato negli ultimi mesi. Sì, nonostante crisi e defezioni, il governo ha ancora i numeri. Ma per cosa li utilizza? Per portare a termine un programma? Per raccogliere il grido di aiuto lanciato da imprese e lavoratori? Per mantenere finalmente le vecchie promesse, meno tasse e Stato più leggero? Sarebbero le cose di cui il Paese ha bisogno, ma una politica ossessionata da una questione privata fa sì che i numeri servano, appunto, per risolvere una questione privata.

Nonostante la maggioranza tenga, nonostante la rotta dei suoi oppositori, Berlusconi non dà comunque, di sé e del suo governo, un’immagine vincente. Il Berlusconi di questi tempi non c’entra nulla con l’uomo che regalava un sogno agli italiani. Quel che si respira è piuttosto un clima cupo, rabbioso, di vendette e di rese dei conti. Diremmo un clima da ultimi giorni dell’impero, se non sapessimo che già tante volte si è sbagliato nel sottovalutare la vitalità di Berlusconi. Non saranno dunque gli ultimi giorni di governo di quest’uomo e della sua corte. Ma l’atmosfera crepuscolare c’è tutta, fosse anche il crepuscolo non di un leader, ma di un Paese tenuto in ostaggio da uno psicodramma.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA Milano, il cuore e la ragione
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:15:36 pm
18/4/2011

Milano, il cuore e la ragione

MICHELE BRAMBILLA

Il quartiere di Milano dov’è nato Berlusconi si chiama Isola, e se il premier non si offende e non equivoca diciamo che ai tempi era un po’ il quartiere della malavita. Una «mala» d’antan perfino un po’ romantica.

Una «mala» che aveva in una giovanissima Ornella Vanoni la sua chansonnière: un’associazione di cherubini, in confronto alla criminalità di oggi. L’Isola era un blocco enorme di caseggiati di ringhiera dai cortili comunicanti: chi non la conosceva ci si perdeva, chi la conosceva faceva perdere le tracce agli sbirri. La «mala» dell’Isola aveva un suo codice d’onore e nel primo dopoguerra un ladro che aveva ammazzato un poliziotto che lo inseguiva venne denunciato da tutti i colleghi ladri del quartiere, perché tra le regole c’era anche che un poliziotto non si tocca.

L’Isola era tuttavia popolata in gran parte da gente tranquilla che lavorava. Mamma Rosa andava a fare la spesa al mercato e il giovane Silvio già si dava da fare per diventare qualcuno: nel quartiere, oggi ristrutturato e di gran moda, c’è ancora qualcuno che ricorda quando il futuro premier arrivò un giorno con una Mercedes bianca frutto delle aspirapolveri che andava in giro a vendere. Era il primo segno dell’ascesa sociale e tutto il quartiere doveva vedere. Insomma Berlusconi è un’incarnazione tipica della milanesità, di laboriosità impegno sacrificio eccetera e basterebbe questo per capire perché Berlusconi tenga così tanto a Milano. Sente Milano come una parte si sé. Non a caso ha comprato il Milan e, se Fraizzoli non si fosse tirato indietro all’ultimo momento, qualche anno prima avrebbe comprato l’Inter. L’importante è Milano.

Silvio Berlusconi che scende in campo come ha fatto ieri al Nuovo – piazza San Babila, altro simbolo della milanesità – per appoggiare la campagna elettorale di Letizia Moratti è dunque anche questo, cuore e sentimento: chi non ci crede non ha capito l’uomo. Ma è comunque un cuore che batte dentro a un imprenditore, che come ogni imprenditore è anche calcolatore, il profitto e il risultato prima di tutto. Berlusconi scende in campo alle amministrative non solo perché queste sono elezioni dal grande significato anche politico (questo vale per tutti, anche per Torino Bologna eccetera): ma perché pensa che a Milano si gioca il futuro. È su Milano che Berlusconi sta o cade.

Dice la vulgata che questa è la capitale economica e finanziaria d’Italia, ma si tratta d’un luogo comune che rischia di far passare in secondo piano la centralità politica di Milano. Non solo perché è qui che nacquero il fascismo e la Dc (a casa dell’industriale Falck). Non c’è bisogno di sfogliare all’indietro i libri di storia, la cronaca recente ci dice che è a Milano che è nata Forza Italia e che il centrodestra ha fatto il grande balzo interrompendo, pure con il non eccelso Formentini, un’interminabile catena di sindaci di sinistra. È sempre a Milano che Berlusconi pronuncia il celebre discorso del predellino. A Milano che si prende in faccia una statuetta del Duomo. A Milano che hanno sede il Giornale, Libero e Mediaset. Milano è la città del potere berlusconiano e pure del suo contropotere, cioè di quella Procura che per il premier è sovversiva nientemeno che come le Brigate Rosse.

Quando nel 2006 Prodi costrinse Berlusconi a lasciare Palazzo Chigi, il centrodestra sembrava a pezzi. Oltre alle politiche, anche molte amministrative andarono male. Ma Milano no, non cadde: vinse Letizia Moratti, che fu allora l’ancora cui appigliarsi. Se teniamo Milano possiamo risorgere, pensò allora Berlusconi, ed è in fondo la stessa cosa, seppur rovesciata, che dice da anni Cacciari: «Se perde Milano, Berlusconi è finito».

Ecco, perdere la sua città è l’incubo del premier. Milano è stato il vento del centrodestra, la filosofia di vita e di politica da contrapporre a quella romanità che per un uomo del Nord è sinonimo di giochi di palazzo e distacco dal mondo produttivo. Dunque Berlusconi scende qui e ora in campo con il cuore e con la ragione: occorre fare qualsiasi cosa per non lasciare Milano «alle sinistre, ai magistrati, ai poteri forti».

Intendiamoci. Perdere Milano non è facile. Giuliano Pisapia, il candidato del centrosinistra, è una persona perbene, capace e stimata: ma che a Milano possa vincere un candidato che viene da Rifondazione comunista, sembra ancora fantascienza. Però Letizia Moratti fra i suoi meriti non ha quello di aver saputo tenere un buon feeling con la città; e poi c’è anche da vedere, al di là dei sondaggi che contano quello che contano, se i bunga bunga e questo incattivirsi dei toni non inducano davvero molti moderati a preferire casa propria alle urne. Anche una Moratti costretta al ballottaggio non sarebbe un bella immagine per il Pdl.

Ecco insomma perché Berlusconi si impegna personalmente in questa campagna amministrativa. Per non perdere Milano. E in fondo anche per poter far vedere che senza di lui in campo, non si vince.


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Titolo: MICHELE BRAMBILLA Con la Letizia pasdaran vince il modello Santanchè
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2011, 11:04:15 pm
Elezioni 2011

12/05/2011 - ELEZIONI 2011

Con la Letizia pasdaran vince il modello Santanchè

Addio aplomb, cambia stile ma nel nuovo ruolo pare a disagio. Carroccio defilato

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Mai avremmo immaginato di vedere Letizia Moratti come ieri. Di lei tutto si poteva dire tranne che fosse in sintonia con la politica urlata e un po’ killer dei nostri tempi.

Una politica fatta di insulti, di riesumazioni di peccati di gioventù, di dossieraggi. Il sindaco di Milano fino a ieri è stata tutt’altro e, se aveva difetti, erano di segno opposto: per quelli del suo schieramento, semmai, era troppo timida e troppo poco passionale, perfino algida, insomma inadeguata a stare sul palcoscenico, a scaldare i cuori, a strappare l’applauso; per i suoi rivali invece la freddezza era il segno di un irreale distacco dalla città e dal mondo, dai problemi della gente comune. In ogni caso – ripetiamo: fino a ieri – Letizia Moratti era, nel bene e nel male, una donna di addirittura eccessivo self control, anzi di gelido aplomb.

Ieri abbiamo vista un’altra Moratti. Alla fine del confronto su Sky con il suo rivale candidato sindaco, Giuliano Pisapia, ha colpito basso, con un’arma segreta che evidentemente aveva tenuto in serbo durante tutta la trasmissione per poter chiudere con un colpo di teatro, anzi con un colpo da pugile che avrebbe dovuto mettere ko il suo avversario. Il sindaco di Milano ha così abbandonato il suo bon ton per passare all’attacco personale. Diciamo subito che in questo ruolo Letizia Moratti è parsa evidentemente a disagio. Non era lei, e lo si è visto da com’erano contratti i suoi lineamenti e da come fosse assente, sotto i suoi panni, il sacro furore di una Santanchè. Oltretutto, dev’essere anche stata imbeccata male, perché a quanto pare il dossier sbandierato –una condanna per furto d’auto – era una patacca.

Il cambio di marcia della Moratti comunque c’è stato, ed è evidentemente un ribaltone rispetto all’inizio della campagna elettorale, quando il sindaco di Milano aveva posto un “o io o lui” alla presenza in consiglio comunale di Roberto Lassini, il candidato del Pdl che ha tappezzato Milano con i manifesti “Via le Br dalle Procure”. E forse non è un caso che il ribaltone abbia seguito di poche orel’uscita, sul Giornale, di un editoriale del direttore intitolato “Elezioni come un ring. E’ giusto suonarle”. Evidentemente nel centro destra sono convinti che per raggiungere la pancia del proprio elettorato un Lassini è più efficace di un’educata signora della Milano bene; e così è partito un ordine di scuderia. Letizia Moratti ha dovuto obbedire.

Ma perché s’è deciso questo inasprimento dei toni? Da sinistra si è subito risposto così: il centro destra a Milano è nervoso perché ha paura di perdere. Che lo dica la sinistra, è ovvio, Ma è anche plausibile? A prima vista, una sconfitta del centro destra a Milano appare quasi impossibile. Però ci sono alcuni numeri e alcuni fatti che turbano i sonni del Cavaliere, il quale sa bene quali disastrose conseguenze avrebbe per lui la perdita di Milano. Cominciamo dai numeri.

Nel 2006 Letizia Moratti vinse al primo turno con il 51,97 per cento: ma aveva nella propria coalizione l’Udc e i finiani, che ora non ci sono più. Il margine appare ancora più esiguo se lo si conteggia, anziché in percentuale, in voti: 35 mila in più del candidato del centrosinistra, che era il debolissimo Bruno Ferrante. Ma andiamo avanti. In quelle elezioni comunali, il Pdl prese il 41,8 per cento; alle politiche del 2008 è sceso al 36,9; alle regionali del 2010 al 36. Sempre alle regionali del 2010, e alle provinciali del 2009, a Milano città il candidato del centro sinistra Filippo Penati ha superato quelli del centrodestra, Roberto Formigoni e Guido Podestà.

Insomma, anche se il Cavaliere ha fatto girare un sondaggio dei suoi, che dà la Moratti vincente al primo turno con il 52 per cento, i numeri reali non sono del tutto rassicuranti. E poi c’è ci sono quelli che abbiamo chiamato “alcuni fatti”. Si potrebbe anche dire che per il momento sono, più che fatti, suggestioni.

Stiamo parlando dell’atteggiamento del tradizionale alleato, la Lega. Quanta voglia ha di impegnarsi per la Moratti? I leghisti non la amano. Bossi non è andato ai suoi comizi, al massimo ha acconsentito che lei venisse a uno dei suoi. Ma se queste sono appunto suggestioni, ci sono anche dei fatti. E i fatti dicono che in queste amministrative c’è effettivamente una prova di disimpegno da parte della Lega. In Lombardia il Carroccio propone 70 candidati sindaco e, di questi, 49 corrono da soli. In sette importanti comuni – Desio, Rho, Gallarate, Cassano d’Adda, Malnate, Nerviano e San Giuliano Milanese – la Lega ha rotto con il Pdl. Bossi in questa campagna elettorale sta privilegiando soprattutto questi comuni, è stato certamente più volte (quattro) a Gallarate che a Milano: vorrà dire qualcosa? E vorrà dire qualcosa anche quella battuta che Maroni – uno che non parla mai a caso – s’è lasciato scappare appunto a Gallarate? Ha detto che la scelta di rompere con il Pdl in quel comune – che, non dimentichiamolo, è in provincia di Varese, la culla del leghismo – “ci riporta alle origini e indica anche una possibile strada per il futuro”. Non è chiaro se la Lega lanci questi messaggi perché davvero sia tentata di rompere, oppure se si tratti delle solite strategie interne all’alleanza. Ma che Berlusconi cominci a essere irritato, l’ha scritto anche il Giornale.

Ecco insomma le preoccupazioni del centro destra. Preoccupazioni che hanno portato avanti la linea dei falchi. Una linea però rischiosa, tanto che la prima uscita della Moratti alla Gattuso pare aver prodotto un autogol.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il fantasma della Santanchè sulla sconfitta di Letizia
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2011, 05:13:03 pm
Elezioni 2011

17/05/2011 - RETROSCENA

Il fantasma della Santanchè sulla sconfitta di Letizia

Malumori e rabbia per la linea "cattiva": abbiamo parlato troppo per slogan

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Alla fine Letizia Moratti ha tirato fuori le unghie. L’ha fatto a a mezzanotte meno dodici minuti, quando dopo una giornata passata chiusa in casa è andata alla sede del suo comitato elettorale, in via Romagnosi, per commentare il disastroso risultato. E nel commentarlo, appunto, ha tirato fuori le unghie: ma non come le avevano consigliato il Giornale e la Santanchè. Le unghie le ha tirate fuori non per graffiare Pisapia e il centrosinistra, ma per colpire Berlusconi e Bossi, cui ha attribuito la reponsabilità della sconfitta. Naturalmente lei smentirà e dirà che questa è una malevola interpretazione. Ma per chi l’ha sentita non c’era molto da interpretare.

La Moratti ha parlato pochi minuti, meno di cinque, ma è riuscita a ripetere un’infinità di volte che il centrodestra deve aprire «una fase nuova» e che i moderati milanesi «non si sono sentiti tutti rappresentati»; che il voto di ieri è stato «un segnale politico che dobbiamo saper cogliere». Non ha attaccato la stampa ostile, e i magistrati men che meno; non ha dato dell’estremista a Pisapia, anzi si è congratulata con la sinistra per l’ottimo risultato; non ha insomma cercato una causa «esterna» al mezzo (per ora è solo mezzo) tracollo elettorale. È stata fin troppo chiara nel ripetere più volte che, se i milanesi hanno votato così, la colpa è del centrodestra. Ed è stata fin troppo chiara anche nel far capire che questa colpa sta nell’estremizzazione, nella radicalizzazione dello scontro voluta e imposta dai falchi del Pdl; sta nelle divisioni della coalizione, cioè nelle liti più o meno conclamate tra Pdl e Lega; sta infine nella politicizzazione di queste amministrative. «Abbiamo parlato troppo per slogan», ha detto la Moratti; e ancora: «Si è parlato troppo poco dei programmi per la città e di che cosa ha fatto la giunta in questi cinque anni».

E chi ha voluto questa politicizzazione? Chi ha trasformato l’elezione del sindaco di Milano in un referendum pro o contro il capo del governo? I falchi del partito ieri sera dicevano ancora che è stato il fronte anti-berlusconiano il primo ad alzare il livello dello scontro e a dare un valore politico al voto amministrativo; ma lei no, la Moratti ha detto che è il centrodestra che «deve fare una profonda riflessione» e che deve aprire «da domani una nuova fase politica», in grado «di riaggregare tutte le forze moderate». Letizia Moratti alla mezzanotte di ieri è parsa come una donna che non ha più niente da perdere e che quindi non ha più alcun timore nel tornare a essere se stessa. Fino a sabato ha dovuto recitare una parte non sua, tirando fuori dossier per screditare l’avversario, ricorrendo all’archeologia giudiziaria, cantando e ballando sul palco, infine parlando a un comizio leghista con i toni di un Borghezio.

Tutto questo ha fatto il sindaco di Milano nei giorni scorsi, interpretando un personaggio che non le appartiene. Le hanno detto evidentemente di fare così, e di sicuro non gliel’hanno detto quelli del suo staff, ieri furibondi con la linea Giornale-Santanchè. Gliel’hanno detto i falchi del Pdl e in buona sostanza quella era la linea dello stesso Berlusconi, il quale è sceso in campo in prima persona impostando la campagna elettorale sul «pericolo comunista», sui magistrati che sono un cancro, su quelli di sinistra che non si lavano. Una strada che Letizia Moratti ha percorso obtorto collo perché le hanno fatto credere che fosse l’unica percorribile per vincere. Ma ora che s’è visto che, al contrario, certe sparate hanno stancato e spaventato tanti moderati - non è casuale il flop dell’ultrà Lassini, quello dei manifesti «Via le Br dalle Procure» - la Moratti ha deciso di svoltare. E non l’ha fatto perché s’illuda di convincere Berlusconi ad abbassare i toni e a «riaggregare» tutte le forze moderate, cioè Casini e Fini.

Letizia Moratti è una donna troppo intelligente per non capire che in due settimane è impossibile trovare una «nuova politica» in grado di far cambiare idea ai milanesi. Ed è troppo intelligente anche per non capire che, dopo le sue parole di ieri sera, sarà ancor meno amata dai leghisti - che non l’hanno mai amata - e dallo stesso Pdl, che è diviso tra chi non l’ha mai amata e chi non l’ha mai sopportata. No, non è perché si illuda di poter convertire il centrodestra che ieri sera il sindaco uscente di Milano ha parlato così. È, molto più semplicemente, perché Letizia Moratti ha deciso che, se deve tornare a casa, è meglio tornarci con la propria faccia e con la propria anima.

da - lastampa.it/focus/elezioni2011/articolo/lstp/402569/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il grande comunicatore senza parole
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2011, 06:05:16 pm
19/5/2011

Il grande comunicatore senza parole

MICHELE BRAMBILLA

Da tre giorni non si hanno notizie di Berlusconi. Lunedì sera il suo portavoce Paolo Bonaiuti aveva fatto sapere che il presidente avrebbe espresso le proprie valutazioni il giorno dopo, cioè martedì, «a risultati definitivi». È passato martedì, è passato pure mercoledì ma le valutazioni del presidente sul voto restano un mistero di cui è probabilmente a conoscenza solo qualche stretto collaboratore. Al popolo italiano, e perfino a quello delle libertà, non è dato sapere che cosa pensi il premier su un risultato elettorale che ha già provocato un mezzo terremoto.

È un silenzio molto strano. Berlusconi è, per definizione, il Grande Comunicatore: o, secondo il professor Alberoni, quantomeno un Grande Seduttore. In ogni caso, un uomo che ha fatto del proprio rapporto diretto con il popolo il suo principale punto di forza. Berlusconi non si è mai sottratto alla pubblica esposizione, nemmeno quando si è trovato sotto scacco. Quand'è stato in difficoltà, ha sempre chiamato a raccolta la sua gente e ha contrattaccato, si è difeso con le unghie e con i denti, insomma ha sempre parlato, magari urlato. Mai si era nascosto come pare si stia nascondendo in questi giorni.

E come pare sia intenzionato a fare anche nei prossimi, se sono vere le indiscrezioni secondo le quali Berlusconi non si farà vedere a Milano nelle due settimane (che ormai sono diventate meno di dieci giorni) che separano dal ballottaggio.

Perché il Grande Comunicatore ha deciso di non comunicare e il Grande Seduttore ha deciso di non tentare neppure la seduzione? La prima risposta, malevola, è che Berlusconi vorrebbe evitare Milano perché sente aria di sconfitta, e sulla sconfitta non vuol lasciare le impronte. La seconda, ancora più malevola, è che il premier avrebbe capito che gli conviene stare alla larga da Milano, visto che la sua personale discesa in campo a fianco della Moratti ha prodotto più danni che benefici. Saranno anche cattiverie, ma resta un silenzio che - quand'anche il premier parlasse oggi - sarebbe comunque durato troppo.

Che cosa sta insomma succedendo non solo a Berlusconi, ma a tutta la sua «macchina da guerra» mediatica? Lui tace, le sue televisioni pure. Lunedì pomeriggio negli studi di Mediaset si assisteva alla surreale scena di trecento giornalisti sintonizzati tutti su Rai, La7 e Sky perché nessun canale della Casa si occupava di ciò di cui si stava occupando tutta Italia: le elezioni. Quando poi sono arrivati i tg, Emilio Fede ha impiegato quattro minuti e venti secondi prima di dare il risultato di Milano, e il Tg5 delle venti non dev'essere stato considerato molto appetibile, visto che ha fatto il 19,28 per cento di ascolti, quasi un record negativo. Tg a parte, solo alle 23,30 l'argomento è stato preso in consegna (su Canale 5) da Alessio Vinci a Matrix. Dopo di che, s'è tornato a parlar d'altro. Martedì sera Matrix si è occupato di sballo e sesso fra i giovani, ieri sera di Melania e Avetrana.

Anche il Milan, che insieme con la tv è stato il primo grande propulsore di Berlusconi, sembra non trainare più. Ha vinto lo scudetto, ha festeggiato a Milano proprio alla vigilia delle elezioni, eppure il suo patron ha perso. Pare quasi un segno dei tempi. Paradossalmente, Berlusconi appare in difficoltà proprio sul terreno che gli era sempre stato più congeniale, quello della comunicazione. Anche l'ammissione - da parte della stessa Moratti, ma pure dell'amico Fedele Confalonieri - di aver sbagliato i toni della campagna elettorale rientra in questo nuovo, e un po' sorprendente, scenario di crisi della capacità di comunicare.

Con questo Berlusconi silente, parlano le seconde e terze linee. E spesso parlano più per far danni che per dare un contributo a una storica rimonta. Molti del Pdl accusano la Moratti e incredibilmente ripetono la panzana - sentita non so quante volte da lunedì pomeriggio ad oggi - secondo la quale il candidato sindaco avrebbe preso meno voti delle liste che la sostenevano (al contrario, la Moratti ha preso 273.401 voti, le liste della coalizione 257.777). Altri accusano i ciellini, che non si sarebbero impegnati abbastanza. Altri rovesciano sui leghisti l'accusa di freddezza. L'immagine che ne esce è quella di una nevrotica ricerca del capro espiatorio che sollevi il grande capo da ogni responsabilità; e, al tempo stesso, l'immagine di una squadra divisa, che si appresta a giocare il secondo tempo in stato confusionale.

Lui, per ora, tace. Vedremo se ancora una volta sarà capace di uno scatto dei suoi. Il primo dovrebbe essere quello di liberarsi di cortigiani di un così basso livello. Se non è troppo tardi.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA La capitale dei moderati si è ribellata ai pasdaran
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:56:07 am
Elezioni 2011

18/05/2011 - RETROSCENA

La capitale dei moderati si è ribellata ai pasdaran

La festa dei sostenitori di Pisapi, appoggiato da PD, SEL, IDV e altre forze del centro-sinistra.

Il partito democratico ha quasi raggiunto il PDL, con il 28,4 per cento delle preferenze

Parlare di "pericolo rosso" non è servito, anche i ricchi hanno votato Pisapia.

L’ex Governatore Bassetti: processo irreversibile, qui il berlusconismo è finito

MICHELE BRAMBILLA
MILANO

Ma Milano è stata davvero una sorpresa? Certamente sì per chi ragiona sui dati, sui numeri, sui flussi elettorali; insomma per chi crede che la ragione sia tutto. Chi invece dà più ascolto alle sensazioni che ai ragionamenti oggi non è poi così tanto sorpreso, perché da giorni avvertiva qualcosa nell’aria. Segnali strani ricordavano che la storia è fatta di imprevisti, e che un imprevisto stava per irrompere. Forse il pienone davanti alla stazione centrale, quando c’è stato il primo concerto per Pisapia. Forse quell’altro pienone per il secondo concerto, quello di piazza Duomo venerdì sera, con Vecchioni che canta Milano mia portami via, fa tanto freddo, ho schifo e non ne posso più. In piazza Duomo c’era più gente quella sera che non il giorno dopo, all’ennesima festa scudetto del Milan, con Roberto Lassini sul pullman rossonero.

Forse chissà, perfino Vecchioni che vince a Sanremo (e chi l’avrebbe mai detto?) è stato l’indizio di un’aria nuova. «La ruota gira», dicono a Milano. E poi chi vive a Milano è difficile spiegarlo - ma insomma, qualcosa intercettava. Quelle vecchie massime sentite qua e là, alla fermata dell’autobus, in metropolitana, al supermercato: «A tirarla troppo, la corda si spezza», per dire che non sempre vale la regola del mercato delle bestie, dove chi urla di più la vacca è sua. «Milano è troppo sobria per quella gente là» abbiamo sentito dire da una signora, che per «quella gente là» intendeva i pasdaran della politica urlata, i titolisti dal pugno nello stomaco, i professionisti del dossieraggio: gente che non è neanche di Milano e non sa che quello stile lì a Milano può funzionare sul breve ma non alla distanza. Perché «il troppo stroppia» è un altro proverbio che fa parte del patrimonio di saggezza di questa città.

Se, come pare, Berlusconi imposterà le prossime due settimane di campagna elettorale sul «pericolo rosso», sul «non diamo la città in mano agli estremisti», Giuliano Pisapia può stare tranquillo. Perché che Pisapia sia un estremista, o il capo di un’eventuale giunta di estremisti, a Milano non la beve nessuno. Non ci hanno creduto neppure gli abitanti della zona uno, vale a dire centro storico, fortino solitamente inespugnabile del centrodestra. Chi più «moderato» degli abitanti di quella ricca e prestigiosa zona della città? Eppure anche loro hanno votato per Pisapia. Tutte e nove le zone in cui è divisa Milano hanno votato per Pisapia. Nel 2006, la Moratti aveva conquistato otto di queste nove zone.

Qualcosa è cambiato, ed è un grave errore del centrodestra non capire che a Milano «moderato» non vuol dire elettore di centro destra ma vuol dire, appunto, moderato. Cioè il contrario di estremista. E per i milanesi gli estremisti - è quasi un gioco di parole, ma è così - sono quelli che hanno accusato Pisapia di essere un estremista. Roberto Lassini, il candidato del Pdl che ha tappezzato la città con i manifesti «Via le Br dalle Procure», nonostante abbia ricevuto l’entusiastico endorsement del Giornale ha preso 872 preferenze. Una miseria. E Berlusconi? Gli sono giovati i toni da guerra santa usati al Nuovo e al Palasharp? Aveva preso 53.000 preferenze cinque anni fa, ne ha prese 27.972 adesso.

«Sono convinto che certi toni e un certo involgarimento abbiano indotto una parte degli elettori a spostarsi dal centro destra al centro sinistra», ci dice Carlo Tognoli, ex sindaco socialista dal 1976 al 1986. «Pisapia è rimasto tranquillo, non ha nemmeno parlato troppo di politica, è rimasto sui problemi della città. E la gente lo ha premiato perché lo stile violento non è nelle corde di Milano». Torna la Milano di un tempo? La Milano che dal 1946 al 1993 ha sempre avuto sindaci socialisti o socialdemocratici, prima del quasi ventennio di centro destra? «Non è quello - dice Tognoli è che Milano è sempre stata moderata. La sinistra, qui, era riformista, non massimalista. E la destra erano i liberali di Malagodi. Oggi Milano ha ribadito la sua vocazione alla moderazione e ha dato un segnale a tutto il Paese».

Letizia Moratti ha preso 273.401 voti, 80.009 in meno rispetto ai 353.410 di cinque anni fa. Un tracollo. E oggi pare evidente che il sindaco ci ha messo del suo quando si è convertita al «metodo Boffo» cercando di squalificare Pisapia con accuse farlocche; ma pare evidente pure che la deriva era già cominciata con i manifesti del soldato semplice Lassini e con le invettive del colonnello Santanché: e qui il responsabile va cercato altrove. Anche la Lega, che pure non ha partecipato al tiro contro Pisapia, ha immagine e tradizione di partito dalle parole pesanti, e Milano l’ha fatta passare dal 14 per cento dell’anno scorso al 9,63 di oggi. Perché per un po’ si va avanti, ma poi «dura minga», non può durare.

Certamente Milano non è stata una sorpresa per Piero Bassetti, ex presidente della Camera di Commercio e primo presidente della Regione Lombardia. Aveva detto in tempi non sospetti: «Un’ondata inaspettata metterà fine al berlusconismo», e aveva parlato di un nuovo 25 aprile. Linguaggio da comunista? Ma Bassetti è un democristiano, il democristiano che inventò il centro sinistra a Milano. «Avevo intuito che stava per succedere una cosa molto grossa. Pisapia è stato votato non solo dalla Milano progressista ma anche dal centro illuminato: non è un caso che abbia vinto pure in zona uno. Il messaggio è stato chiaro: basta con il berlusconismo. È stata la rivolta di una città moderata contro l’estremismo. È la moderazione che ha vinto».

Secondo Bassetti «Pisapia è stato intelligente nel mettere insieme una coalizione che non è un insieme di partiti ma un nuovo blocco sociale. E a messo in moto un processo irreversibile». Irreversibile? Massimo Cacciari, che ha sempre detto che Berlusconi sarebbe finito quando avrebbe perso Milano, oggi è molto cauto. «Ma Cacciari di Milano non capisce niente - dice Bassetti - è meglio che si occupi di Venezia. Io non dico che il berlusconismo è finito, perché il voto al Sud mi suggerisce il contrario. Ma per Milano, Berlusconi è una pagina voltata. Di questo sono sicuro».

Non è detto che Milano incoronerà Pisapia sindaco perché il centro destra ha le sue carte da giocare. Ma su che cosa sia la moderazione e che cosa sia l’estremismo, questa città ha già detto una parola chiara. E quello che dice Milano, di solito dopo un po’ lo dice tutto il Paese.

da - lastampa.it/focus/elezioni2011/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Telecomizi di un leader stanco
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 04:19:22 pm
21/5/2011

Telecomizi di un leader stanco

MICHELE BRAMBILLA

Il Silvio Berlusconi che ieri è riapparso sulla scena dopo quattro giorni di silenzio è sembrato al tempo stesso un uomo potente e un uomo stanco. Potente perché ha dimostrato quasi ostentato - di disporre come nessun altro del principale mezzo di persuasione di massa: la televisione. E stanco perché stanca era la sua faccia, stanchi i suoi occhi cerchiati, stanche e vecchie soprattutto le sue parole, con quella ripetizione ossessiva del pericolo comunista.

Bersani ha annunciato che protesterà contro l'autorità che controlla le comunicazioni, e c'è da capirlo. Il presidente del Consiglio ha parlato a reti praticamente unificate, diffondendo i suoi monologhi (faceva tenerezza sentire i conduttori dei tg che li chiamavano «interviste») senza alcun contraddittorio. Bersani ha parlato di Bielorussia ed è certamente un'esagerazione perché non siamo in Bielorussia e oggi ci saranno altri media a dare spazio a opinioni diverse da quelle del premier; però è un fatto che quella di ieri sera è parsa una prova di forza che assomiglia molto a una prova di prepotenza.

Ma proprio per questo non sappiamo quanto Bersani - e con lui Pisapia, De Magistris e tutto il centrosinistra - debbano dolersi della raffica di telecomizi. Il modo con cui Berlusconi ha deciso di irrompere nella campagna per i ballottaggi finirà inevitabilmente con il dare fiato a chi sostiene, da sempre, che le elezioni in Italia non si giocano ad armi pari. Come replicare a chi dirà, oggi, che c'è un gigantesco conflitto di interessi, con il presidente del Consiglio che in campagna elettorale usa le sue tre televisioni - e due canali di Stato su tre - per chiedere il voto agli elettori? Ci sbaglieremo, ma ci pare che mai come ieri sera Berlusconi abbia usato in modo così plateale il suo potere televisivo.

E forse questa scelta di non «contenersi», questa decisione di non rispettare neppure alcuna forma o etichetta, è il segnale di una debolezza. Può darsi benissimo che il centrodestra vinca i ballottaggi (le due partite di Milano e Napoli sono ancora aperte) ma l'impressione che Berlusconi ha dato ieri è quella di un leader che si sente minacciato come non mai, e che per questo spara contemporaneamente tutte le munizioni rimaste.

È un'impressione confermata anche dalle argomentazioni usate. Dicevamo dello spauracchio del comunismo. Berlusconi ha parlato di una Milano invasa dalle bandiere rosse e del progetto di Pisapia di fare del capoluogo lombardo «una Stalingrado d'Italia». Ma chi vive a Milano ha la stessa impressione? Ce l'hanno i cittadini che vedono, semmai, le strade invase dai manifesti del Pdl che hanno coperto quasi ovunque quelli di Pisapia? Ce l'ha la grande borghesia - quella, ad esempio, di un Piero Bassetti, primo presidente della Regione e democristiano che da tempo ha deciso di appoggiare il centrosinistra? Si può ancora far credere che qualcuno (addirittura un qualcuno che disporrà dei soli poteri di un sindaco) possa resuscitare il comunismo? A chi contestava a Montanelli, negli ultimi anni della sua vita, di non far più battaglie contro i comunisti, Indro rispondeva: «Io sono ancora anticomunista. Ma le battaglie le faccio contro i vivi, non contro i morti».

E ancora: i cattolici milanesi davvero penseranno che Pisapia farà della città «una zingaropoli islamica»? Non pare affatto che il cardinal Tettamanzi, e i parroci con lui, abbiano simili paure. E di nuovo: il premier ha promesso «meno tasse per tutti». Era il suo slogan tanti anni fa, quando la sua avventura politica era agli inizi. A Milano e Napoli crederanno davvero che Berlusconi possa cominciare adesso a fare ciò che non ha fatto finora?

Il Silvio Berlusconi di ieri sera è parso un leader logorato da tante battaglie. Un leader che si è sforzato di mostrare il sorriso vincente d'antan prima di passare a leggere il «gobbo» di fronte a lui. Può darsi benissimo che vincerà anche questa partita. Ma ieri non ha dato l'impressione di credere alla vittoria.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA Se Monza fosse capitale d'Italia
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:43:07 am
19/6/2011

Se Monza fosse capitale d'Italia

MICHELE BRAMBILLA

Dice la leggenda che Sant’Ambrogio, lasciando Monza, non lasciò una benedizione, ma una maledizione.
Sarete sempre una città di poveretti». Vero o falso che sia l’aneddoto, è un fatto che da allora i rapporti tra Milano e Monza non sono mai stati buoni; perfino tra cristiani, se è vero che ancora oggi la Chiesa monzese, pur facendo parte della diocesi milanese, segue il rito romano e rifiuta quello ambrosiano.

Non parliamo poi dei rapporti fra commercianti. Sempre una leggenda - ma questa volta forse più verosimile - dice che nel 1964, quando a Milano venne inaugurata la metropolitana, furono i commercianti monzesi a non volere il prolungamento della linea. Erano terrorizzati dal pensiero che, potendo andare rapidamente a Milano - dove c’era più scelta e perfino più possibilità di risparmiare - i monzesi non avrebbero più fatto la spesa nella loro città. Ancora oggi la metropolitana milanese a Monza non arriva. Arriva in paesi che si chiamano Cassina de’ Pecchi, Vimodrone, Gorgonzola, Gessate, Bussero e così via: ma non a Monza, che pure ha quasi centotrentamila abitanti ed è, per popolazione, la terza città della Lombardia dopo Milano e Brescia. Probabilmente non c’è al mondo un caso analogo di una città di 130 mila abitanti che non sia collegata a una metropoli di quasi due milioni di abitanti distante solo quattro o cinque chilometri da confine a confine.

Sono nato e cresciuto a Monza e so, purtroppo, quanto pesi questo (voluto, incredibilmente) isolamento. Oltretutto, la situazione è andata via via peggiorando nel tempo. Mio nonno faceva il valigiaio a Milano, in una traversa di corso Buenos Aires, e abitava a Biassono, in Brianza, oltre Monza: a mezzogiorno faceva in tempo ad andare a casa a pranzo con il tram. Poi sono nato io ed è sparito pure il tram, per andare a Milano bisogna infilarsi in tangenziale e maledire i commercianti del 1964.

Monza ha avuto il suo momento di semi-gloria nell’Ottocento, quando prosperava l’industria del cappello ed era chiamata la «Manchester d’Italia». Ma poi i maschi hanno cominciato a non mettere più il cappello, e le industrie hanno chiuso. E così Monza ha dovuto sempre affidare la propria notorietà a gente venuta da fuori: ai Savoia che ci venivano d’estate nella Villa costruita dagli austriaci; all’anarchico toscano Gaetano Bresci, che qui uccise re Umberto I, davanti alla palestra Forti e Liberi, il 29 luglio 1900; e ai milanesi, che negli Anni Venti vollero costruire nel Parco (anche quello opera di forestieri: i francesi) il celeberrimo autodromo. Pochi anche i monzesi illustri. Per dire: il più famoso tra i viventi è Adriano Galliani.

Ci voleva dunque Bossi, per interrompere l’infausta profezia di Sant’Ambrogio, e fare di Monza una capitale. Ammesso che Roma accetti il non trascurabile trasferimento.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA E la Lega abbassa la testa
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2011, 12:18:04 pm
22/6/2011
 
E la Lega abbassa la testa
 
 
MICHELE BRAMBILLA
 
Chi si aspettava fuoco e fiamme dal dibattito di ieri al Senato è rimasto deluso. Berlusconi ha parlato 45 minuti in modo tale da non sembrare neanche Berlusconi. Ha scelto un profilo basso e toni ancora più bassi. Non ha mai alzato la voce. Non ha attaccato i giudici e non ha attaccato la stampa: se non andiamo errati, non ha neppure citato i comunisti.

Parlando del suo governo, non ne ha rielencato i meriti come è solito fare: più modestamente, ha detto che a questo governo non c’è alternativa perché «le tre o quattro opposizioni sono divise e non sono in grado di esprimere un leader».

Si è spinto perfino a dire che «le contraddizioni della minoranza sono più gravi dei travagli della maggioranza», ammettendo quindi che la maggioranza è travagliata. Anche qui possiamo sbagliarci: ma non ci pare che il Cavaliere avesse mai presentato il suo «prodotto», in passato, sostenendo che è meno peggio di quello della concorrenza.

Pure parlando di sé Berlusconi pareva un altro. Intanto parlava in prima e non in terza persona, come quando - in settembre e in dicembre, durante dibattiti quelli sì infuocati - diceva «questo signore ha chiamato Obama» e «questo signore ha chiamato Putin». E poi è arrivato addirittura a ipotizzare, lui che aveva annunciato di voler governare fino a centovent’anni, un ruolo da pensionato: «Non voglio essere presidente del Consiglio a vita». S’è spinto perfino a parlare della sua «eredità politica», quindi di un dopo-Berlusconi.

Insomma il premier ha fatto il moderato, forse per assicurare a tutti - all’opposizione, ma più ancora ai suoi - che non è affatto allo sbando, che ha i nervi saldi, che nonostante tutto tiene la situazione in pugno.

Basterà questo stile, ben diverso da quello dei comizi pre elettorali di un mese fa, a tranquillizzare gli alleati e, quel che più conta, gli italiani? Ne dubitiamo. Cominciamo dagli italiani. Berlusconi ha annunciato che entro la pausa estiva farà la riforma fiscale, introducendo tre sole aliquote, più basse delle attuali. Per i contribuenti è certamente una bella notizia. Ma è anche credibile? Intanto, il premier non ha spiegato in quale modo una tale riduzione delle tasse «non produrrà buchi di bilancio»: e spiegare come si possa tirare la coperta senza farla risultare corta almeno da un lato, non è proprio un dettaglio. E poi agli italiani questo discorso delle tre aliquote pare di averlo già sentito: perfino nella primavera del 1994, quando Berlusconi si insediò per la prima volta a Palazzo Chigi. E’ credibile che nelle poche settimane che li separano dalle meritate vacanze, i nostri governanti possano fare ciò che non è stato fatto in diciassette anni?

Quanto agli alleati, c’è da chiedersi di quale stomaco siano dotati i leghisti, ancora una volta costretti a digerire di tutto. Solo tre giorni fa, a Pontida, Bossi aveva giurato che quattro ministeri sarebbero stati trasferiti al Nord, altrimenti la Lega avrebbe dichiarato guerra al governo. Ieri però il governo ha dato parere favorevole agli ordini del giorno (presentati dall’opposizione) contro il trasferimento dei ministeri, e la Lega s’è dovuta accontentare di una vaga promessa di «sedi di rappresentanza operative». E sulla Libia? Anche qui a Pontida i leghisti avevano intimato l’immediato ritiro, ma ieri Berlusconi ha glissato rinviando tutto a settembre e alle decisioni della Nato.

Per questo la Lega è tutt’altro che tranquillizzata, anche se ancora una volta sarà costretta ad abbassare la testa dopo avere alzato la voce. Troppo importante stare al governo.

Ma forse anche l’opposizione oggi non ha interesse a forzare la mano. Un po’ perché la grande coalizione da contrapporre al centrodestra non ha, al momento, né un leader né una composizione. E un po’, forse, perché condivide la preoccupazione su una possibile ricaduta a livello europeo. Il timore che l’Italia possa fare la fine della Grecia non è campato per aria. E quindi, per dare la spallata a Berlusconi, meglio aspettare un momento più propizio.

Insomma la situazione è seria, ma la nostra politica ha reagito con il fermo proposito che di questi tempi è sulla bocca di tutti gli italiani: ne parliamo dopo le ferie.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA L'inganno dei mercanti di morte
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 07:00:56 pm
17/7/2011

L'inganno dei mercanti di morte

MICHELE BRAMBILLA


È probabile che i grandi affaristi che nei Paesi più poveri del mondo stanno spacciando l’Eternit come una meraviglia del progresso siano persone che vivono senza timor d’inferno né speranza di paradiso; e che non sappiano, quindi, che stanno riuscendo nella non facile impresa di violare ben tre dei quattro «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio»: omicidio volontario; oppressione dei poveri; frode nella mercede agli operai.

Fu papa Sarto – san Pio X – a volere che nel suo Catechismo Maggiore si sottolineasse con forza una delle tendenze più gravi del suo tempo: il considerare la povera gente come carne da macello da sacrificare sull’altare dello sviluppo industriale. Era il 1905, quando quel pontefice pubblicò il suo Catechismo. Solo due anni dopo, a Casale Monferrato, veniva inaugurato il grande stabilimento della Eternit. Era una fabbrica che pareva un portento della modernità: produceva un materiale che costava poco e che si diceva fosse, appunto, «eterno», tanto era resistente la miscela di cemento e amianto che lo costituiva; e garantiva posti di lavoro praticamente a tutte le famiglie del paese. Posti di lavoro, per giunta, che sembravano garantire condizioni di vita e di salute molto meno pesanti di quelli tradizionali del Monferrato: i campi, le risaie, le cave.

Si sapeva già, in quel 1907, dell’inganno? Si sapeva che l’amianto uccideva? Forse sì e forse no. Sicuramente già c’era il dubbio: i primi studi sulla pericolosità dell’asbesto sono della fine dell’Ottocento. Ma quel che è sicuro, sicurissimo, è che dagli anni Cinquanta i dubbi erano diventati certezze. All’inizio degli anni Sessanta la comunità scientifica internazionale lanciò pubblicamente l’allarme: l’amianto provoca il mesotelioma pleurico, terribile cancro ancora oggi inguaribile; o altrimenti l’asbestosi, che non è un tumore ma riduce progressivamente la capacità respiratoria, fino a rendere la vita quasi impossibile.

Ma che cos’erano i mezzi di informazione negli anni Sessanta? Con quanta velocità circolavano le notizie, e soprattutto con quale capacità di penetrazione? Così i grandi produttori di Eternit poterono contare ancora sull’ignoranza della povera gente. Si è dovuti arrivare al 1992 perché l’amianto venisse proibito dallo Stato italiano.

Messi al bando nel mondo più ricco, i mercanti di amianto (possiamo chiamarli «mercanti di morte»?) hanno ora trovato nuove terre popolate da gente che non sa. Il Sudamerica, ma anche l’India. È in quelle terre, oggi, che la terribile polvere di amianto vola dalle fabbriche ai tetti ai campi e infine ai polmoni di uomini e donne che ignorano, e che proprio perché ignorano sono perfetti per assicurare profitti e sonni tranquilli a chi in sonno ha già messo, da un pezzo, la coscienza.

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Titolo: MICHELE BRAMBILLA Incattiviti dai privilegi della casta
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:09:22 am
18/7/2011

Incattiviti dai privilegi della casta

MICHELE BRAMBILLA

Due fatti curiosi hanno dominato - in mancanza di meglio - il dibattito politico domenicale.

Il primo è, anzi sono, le rivelazioni che un anonimo ex dipendente di Montecitorio ha pubblicato su Facebook. Per vendicarsi del licenziamento dopo quindici anni di contratti da precario, ha messo in piazza, ossia in rete, le furbate, gli imbroglietti, i trucchi meschini con cui i parlamentari si arrotondano lo stipendio, aggirano le code, gratificano gli amici e le amiche e così via.

Il secondo è l’eco dell’intervista che il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni ha concesso al Tg3 sabato sera, quando ha parlato di sacrifici e di necessità - da parte della politica - di dare «un segnale forte». Parole sacrosante, ma rese un po’ meno sacrosante dall’essere state pronunciate in diretta da Porto Cervo, dove l’abbronzatissimo governatore si mostrava agli italiani (freschi della legnata della manovra) attorniato da una piccola flotta di yacht. Vedendolo così, la giornalista che l’intervistava non ha potuto trattenersi dal salutarlo con un «buone vacanze».

Chiariamo subito che la demagogia non ci piace. Un politico ha il diritto di andare in vacanza. Quanto alle rivelazioni su Facebook, si potrebbe dire che la parola di un anonimo vale quello che vale, cioè zero (e infatti c’è già chi ipotizza che si tratti di una bufala); e che in quei piccoli espedienti - dall’uso della raccomandazione ad altre furbizie siamo maestri noi tutti, e non solo i politici.

Ma la vera notizia non sta né nelle vacanze di Formigoni né nello scempio denunciato dal precario licenziato. La vera notizia sta nella reazione che i due episodi hanno scatenato. L’anonimo di Facebook ha raggiunto in poche ore più di centomila «fan»; e, sempre sulla rete, s’è scaricato subito un diluvio di critiche, quando non di insulti, nei confronti del governatore che da Porto Cervo chiede sobrietà ai politici.

E’ il segno di un’insofferenza, quando non di un rancore, crescente. Gli italiani percepiscono sempre più i politici come - per usare la solita logora parola - una «casta» che si fa gli affari suoi, e che se li fa con impunità e senza vergogna. Ci sono certamente esagerazioni, in tanta rabbia che monta; così come ce ne sono sempre quando si generalizza. Tuttavia è impressionante vedere come i politici non sappiano comunicare altra immagine di sé. La discussione di questi giorni sull’autorizzazione all’arresto di Papa ne è un esempio, con Bossi che fiuta l’aria e dice sì all’arresto, salvo poi innescare la solita retromarcia. E ancora: il mancato taglio ai propri compensi e privilegi durante la manovra - denunciato anche dai giornali filogovernativi - è un altro pessimo segnale di distacco da quel che cova nel Paese.

Sono storie vecchie, già lette e sentite da anni. Non a caso, ogni volta che dobbiamo citare qualche esempio di politico specchiato e gentiluomo, ci tocca aprire i libri di storia: Einaudi, Nenni, De Gasperi. Il più vicino ai nostri giorni è Pertini, che era nato non uno ma due secoli fa.

Però questa volta fa specie un particolare. Questa classe politica che oggi la gente percepisce come una «casta» da mandare a casa al più presto, non è altro che l’espressione di quella «antipolitica» che al tempo di Mani Pulite aveva spazzato via un’altra casta: quella dei partiti. Si disse che finalmente nel Palazzo sarebbero entrati uomini e donne che venivano non da intrallazzi di corrente, ma da aziende, uffici, insomma dal mondo del lavoro. Gente concreta, che conosceva i problemi di tutti i giorni. Di uomini e donne di questo tipo era formata la prima leva di partiti come Forza Italia e la Lega, vale a dire l’ossatura dell’attuale governo.

Ora ci tocca rivedere contro questa nuova classe politica la stessa furia che abbatté la vecchia. Rispetto ad allora, non volano più le monetine solo perché nel frattempo hanno inventato il web. Ma c’è poco da stare tranquilli perché, sempre rispetto ad allora, c’è anche una crisi economica che ha aumentato, e non di poco, la disparità tra i vertici e la base. Siamo a un nuovo redde rationem? Chissà. Certo è che sono passati vent’anni da quando i politici di oggi sostituirono, quasi per acclamazione, quelli della Prima Repubblica. E vent’anni sono più o meno il periodo che di solito occorre agli italiani per cambiare idea e passare da piazza Venezia a piazzale Loreto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8991


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il giorno dei ministeri alla Villa Reale Ma nessuno lo sa
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2011, 07:09:03 pm
Politica

23/07/2011 - DECENTRAMENTO: I DICASTERI IN «PADANIA»

Il giorno dei ministeri alla Villa Reale Ma nessuno lo sa

Il 13 luglio sono arrivati alla Villa Reale i primi arredi per gli uffici in cui avranno sede i dicasteri. I mobili sono stati prodotti a Scordia, nel catanese, nonostante la Brianza sia considerata "la capitale del mobile"

Monza ignora l'iniziativa: e le porte sono scrostate

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A MONZA

Questa mattina alla Villa Reale di Monza verranno inaugurati i tre ministeri che, come promesso da Bossi a Pontida, sono stati trasferiti al Nord. Sono quelli delle Riforme, della Semplificazione e dell’Economia. L’evento è storico, ma in città non pare di cogliere una fervente attesa.

Dei ministeri sembra non ne sappia niente nessuno. A quanto pare anche in Comune non si hanno molte notizie. Si dice che l’altro giorno ci sia stata una riunione di giunta piuttosto agitata, perché da Roma non sarebbe arrivato alcun protocollo dell’inaugurazione. Si sa solo che sarà alle 11 e mezza. Non è neanche chiaro dei tre ministri quanti e quali ci saranno.

L’altro ieri, tanto per vedere la fibrillazione che di solito accompagna i preparativi dell’ultimo momento, siamo andati alla Villa Reale. In effetti di gente che lavorava ce n’era parecchia. Ma dei ministeri nessuno sapeva niente. Gli operai erano lì a montare e smontare palco e seggiole per i concerti estivi programmati davanti all’ingresso dell’antica reggia. La nuova reggia - quella di Calderoli Bossi e Tremonti - è in una palazzina sul lato destro. Si chiama «la Cavallerizza», e lì un tempo c’erano gli appartamenti reali.

È una piccola palazzina, tanto che ci siamo sorpresi nel sapere che i tre ministeri sarebbero stati tutti lì dentro. Poi ci hanno addirittura spiegato che in realtà la Semplificazione, le Riforme e l’Economia avrebbero occupato solo il piano terra. «Sono centottanta metri quadrati», ci hanno detto. Ma su un autorevole giornale abbiamo letto che non sono più di cento. Per tagliare la testa al toro abbiamo telefonato al sindaco, il leghista Marco Mariani, l’uomo che a Pontida portò sul palco la targa del ministero alla Villa Reale di Monza. «Sinceramente - ci ha detto - non so di preciso quanti metri quadrati siano. Cento? Ma no, saranno almeno centocinquanta». Anche prendendo per buona la stima più generosa - centottanta - a ciascun ministro, anzi a ciascun ministero, non resterebbe che una sessantina di metri quadri. Un monolocale, in pratica. Forse è un segnale di austerità della politica.

Il fatto è che a Monza, nonostante quanto proclamato da Bossi alcune settimane fa, non saranno trasferiti dei ministeri; ma saranno aperti, come ci spiega ancora il sindaco Mariani, «uffici decentrati dei ministeri». E per aprirli non sembra che ci sia sprecati molto. I locali sono di proprietà del Demanio, e li ha ristrutturati la Sovrintendenza. Fino a qualche giorno fa ospitavano il Consorzio del Parco e della Villa Reale, che adesso deve sloggiare. All’ingresso non è ancora esposta alcuna targa: ieri abbiamo sbirciato dietro la porta e abbiamo visto che le targhe sono dentro, su tre cavalletti di legno, nella parte destra del corridoio. L’intonaco accanto alla porta è scrostato, la vetrata piuttosto modesta. Sono nuovi - assicurano - gli arredi, e questa è una buona notizia, anche se da queste parti ha creato qualche malumore il fatto che i mobili siano stati acquistati in provincia di Catania, e da là trasportati in camion la scorsa settimana. Uno schiaffo, se si pensa che il paese confinante con Monza, Lissone, è la capitale dei mobilieri. Dei nuovi uffici nessuno pare saper nulla. Lo sfrattato, e cioè il dottor Pietro Petraroia, direttore del Consorzio del Parco e della Villa Reale, ci dirotta dal ministero Calderoli: «Chiedete al suo capo di gabinetto». Anche il sindaco Mariani assicura di non essere del tutto al corrente: «Che cosa si farà in quegli uffici? Chi ci sarà? Chiedete a Bossi, Calderoli e Tremonti». Ma i tre ministri ci saranno oggi, all’inaugurazione? «Così mi hanno detto, ma dovete chiederlo a loro». E come mai non c’è neanche una targa all’ingresso? «La targa? Non lo so, se non c’è la metteranno».

Che cosa saranno dunque i ministeri a Monza? Partiti come sedi centrali, sono poi diventate sedi decentrate, ma il timore è che finiscano per l’essere quello che fu, ad esempio, il Parlamento del Nord a Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova, negli anni Novanta: pura immagine. Simbolo, per non dire folclore. Come la dichiarazione di avvenuta secessione dopo il referendum dei gazebo; o il rito dell’ampolla.

Simbolica sembra anche la scelta della Villa Reale. Un luogo maestoso, ma anche e soprattutto un monumento al degrado, visto che è di fatto abbandonata dal 29 luglio del 1900, quando l’anarchico Gaetano Bresci uccise, proprio lì davanti, il re Umberto I. Da quel giorno i Savoia non vollero più sapere di venire a Monza e donarono la Villa ai Comuni di Monza e di Milano, che non seppero mai che farsene. Oggi la Villa è di proprietà del Consorzio, a sua volta di proprietà del Comune di Monza, della Regione e del Ministero dei Beni culturali. Il Consorzio si è assunto la titanica impresa di ristrutturarla e di utilizzarla, con il concorso di privati, per esposizioni, alta ristorazione, bar, convention. Ma per adesso la Villa (seicento stanze) è ancora quasi tutta inutilizzata e in più punti sembra cadere a pezzi.

Ma oggi ci sarà l’inaugurazione. Staremo a vedere. Anche perché lì a un passo, di fronte alla Cappella Espiatoria, i monarchici celebreranno (con sei giorni di anticipo) il centounesimo anniversario del regicidio.

Sarà una scena surreale: leghisti da un lato della strada e monarchici dall’altro. O forse sarà un segno dei tempi, visto l’ideale passaggio di consegne tra l’Umberto di allora e l’Umberto di oggi.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/412702/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA E adesso anche tra i padani tutti scaricano le sedi a Monza
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:33:28 pm
Politica

28/07/2011 - IL CASO

E adesso anche tra i padani tutti scaricano le sedi a Monza

Il sindaco: "Pensate che io sia così importante da imporle?"

Anche gli industriali scettici

MICHELE BRAMBILLA
MONZA

Chi pensasse a una Monza preoccupata per la lettera del presidente Napolitano, si sbaglierebbe di grosso. Nessuno ha paura di perdere i ministeri per il semplice fatto che nessuno pensa che i ministeri ci siano davvero.

La cittadinanza pare comunque essersi divisa in due partiti: gli indignati e gli indifferenti. I primi sono quelli che sabato hanno protestato gridando che «la Villa Reale è di tutti»; perfino il consorzio che gestisce Parco e Villa è furibondo per essere stato messo di fronte al fatto compiuto. I secondi, gli indifferenti, sono la stragrande maggioranza dei cittadini.

Per dire: tra gli indifferenti c’è anche la famosa «parte produttiva del Paese», la categoria che a sentire Bossi aveva più di ogni altra necessità di questo decentramento. La reazione degli imprenditori è stata talmente fredda che all’inaugurazione l’Associazione Industriali di Monza e Brianza (la più antica d’Italia) non è neppure stata invitata. «Sicuramente - ci dice il presidente degli industriali di Monza, Renato Cerioli - c’è stato un problema di informazione. Questi uffici non si capisce cosa siano e a cosa servano. Per questo la loro apertura è stata accolta con diffidenza dagli imprenditori. Per ora c’è il timore che servano solo ad aumentare la spesa pubblica, in un periodo in cui ci sarebbe da tagliare».

Ma allora chi li ha voluti questi uffici a Monza? A Roma qualche parlamentare di centrodestra cerca di prendere le distanze e insinua: è un’iniziativa della Lega per aiutare il suo sindaco, Marco Mariani, in vista delle elezioni comunali dell’anno prossimo. Mariani sorride: «Ma davvero voi pensate che io sia così importante? Così potente da convincere il Consiglio dei ministri a emanare un decreto con il quale apre a Monza gli uffici di tre ministeri? Andiamo... Oltretutto faccio presente che sabato i ministri presenti erano quattro, e due - Tremonti e la Brambilla - sono del Pdl, non della Lega».

La lettera del Capo dello Stato non inquieta il sindaco Mariani. «Il Presidente ha tutto il sacrosanto diritto di chiedere spiegazioni. Ma mi sento di tranquillizzarlo perché non c’è stato un trasferimento di ministeri, bensì la semplice apertura di uffici distaccati. Come mi risulta ce ne siano altri: La Russa non ha forse detto che ne ha uno a Milano?». Il sindaco prende ad esempio Paesi come la Francia («Lo Stato centralista per eccellenza») e la Gran Bretagna «che da tempo hanno uffici decentrati sul territorio» e nega il pericolo di un effetto contagio: «Ma va! Non è che ciascuno adesso possa aprire una sede dove vuole. È una cosa controllata dal Consiglio dei ministri!».

Eppure l’effetto contagio è proprio quello che preoccupa Napolitano. «Il Presidente ha ragione - dice Giuseppe Civati, monzese, consigliere regionale e ormai uno dei volti nuovi del Pd a livello nazionale -. Ci sono già le prime autocandidature: Milano vuole il ministero del Lavoro, a Bologna chiedono l’Istruzione, a Catanzaro sono pronti per il Turismo... Anche Cota a Torino e Gobbo a Venezia ne reclamano qualcuno, mentre a Parma per il momento si accontenterebbero di un’agenzia». Secondo Civati questa storia «è al tempo stesso una farsa e un dramma». E spiega: «Una farsa perché non si capisce a che cosa possa servire uno sportello sul territorio per la Semplificazione e le Riforme: se lo vede un cittadino che entra e chiede due etti di federalismo? E un dramma per come è ridotto il senso dello Stato».

Difficile, se non impossibile, trovare a Monza entusiasti convinti. Il presidente della Provincia Dario Allevi, Pdl, non nasconde le ragioni dei perplessi: «In effetti l’inaugurazione è stata organizzata un po’ troppo in fretta, lasciando spazio a diversi dubbi e interrogativi. Ora spetta ai ministri dare un senso a questi uffici decentrati. Se saranno davvero uno sportello utile ai cittadini, benissimo. Altrimenti resteranno una cornice senza contenuti».

E per dare un’idea di quanto a Monza siano caldi sulla questione, così ci ha risposto il sindaco quando gli abbiamo chiesto se gli uffici inaugurati sabato fossero già chiusi: «Credo di sì. Ma non dipende da me...». Per la cronaca: sono già chiusi. Riapriranno a settembre. Forse.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/413385/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La fiducia smarrita
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 04:25:19 pm
30/7/2011

La fiducia smarrita

MICHELE BRAMBILLA


Quella di Giulio Tremonti sembra, a prima vista, solo l’ennesima disavventura di un politico finito nel tritacarne delle inchieste della magistratura e dei mass media. Una situazione che ormai in Italia è routine, a causa dello scontro tra i due «partiti» più attivi nel Paese: il partito cosiddetto giustizialista e il partito cosiddetto garantista. Il primo è animato da una visione ultra giacobina del mondo (prima ancora che della politica) e pretende da ogni essere umano una condizione simile a quella dell’Immacolata Concezione. Il secondo – non facendo mai alcuna distinzione tra peccati veniali e peccati mortali, ad esempio tra una corruzione e un affitto, o tra una tangente e una multa – mira a sostenere la tesi autoassolutoria del «tutti colpevoli e quindi tutti innocenti».

Sia i primi sia secondi hanno interesse a passare ai raggi x ogni minimo aspetto della vita, pubblica e privata, dei rivali. Per questo la «macchina del fango», per usare un’espressione ormai condivisa da destra e sinistra, è sempre in azione. Tuttavia, ci mancherebbe altro se la magistratura – e in diverso modo i cittadini – non potessero e dovessero chiedere conto ai politici della loro condotta, soprattutto quando c’è il sospetto di irregolarità.
E dunque è sacrosanto che anche il ministro dell’Economia sia chiamato a chiarire, come sta cercando di fare in questi giorni.

Fino a questo punto, insomma, il «caso Tremonti» avrebbe tutte le caratteristiche per essere catalogato come l’ennesimo capitolo del tormentone politico giudiziario cominciato nel 1992. Ma dicevamo che questa storia è così «solo a prima vista».

C’è infatti qualcosa di ben più inquietante delle «solite» storie di mazzette o di nero. Nella sua autodifesa Tremonti ha detto una cosa che ci ha lasciati di sale. Nella lettera al Corriere delle sera, nella quale ha cercato di assicurare di aver commesso errori ma non reati, il ministro ha detto che scelse la casa di Milanese per una questione di «privacy»; e nel colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha precisato lasciandosi scappare (facciamo finta che gli sia scappata) la «bomba». Ha detto che se ha preferito pagare di tasca sua un affitto piuttosto che alloggiare alla caserma della Guardia di Finanza, è perché là, dalle Fiamme gialle, non era più tranquillo: «Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso perfino pedinato». Ma da chi, e per conto di chi? Alla magistratura Tremonti aveva parlato di strane «cordate» e riferito di aver ammonito Berlusconi, ai primi di giugno, quasi prevedesse una campagna di stampa contro di lui: «Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo».

Tremonti sta disperatamente cercando di giustificare la casa messagli a disposizione da Milanese? Oppure davvero alla Guardia di Finanza lo spiavano? Quale che sia la verità, c’è da restarne sconvolti.
Caso uno: Tremonti mente. Vuol dire che abbiamo un ministro che getta ingiustamente discredito su un corpo dello Stato e, indirettamente, sul suo presidente del Consiglio.

Caso due: Tremonti dice la verità. E allora vorrebbe dire che le istituzioni dello Stato sono lacerate da una guerra tra bande, che un ministro non può fidarsi neppure di un corpo di cui, peraltro, egli stesso ha per legge il controllo. Le caserme sono da sempre i luoghi più sicuri per i servitori dello Stato: rifugi per le più alte cariche istituzionali, e dimore dei magistrati in prima linea contro mafia e terrorismo. Certo ciascuno aveva le proprie preferenze: è noto ad esempio che Cossiga preferiva i carabinieri alla polizia. Ma non s’è mai sentito un uomo di governo che paga un affitto di tasca sua perché si sente in pericolo in una caserma.

In entrambi i casi è evidente che è in corso una faida tra istituzioni fatta a suon di colpi bassi. In entrambi i casi è evidente che tutto sia ormai fuori controllo, se un ministro che si sente spiato (o che dice di sentirsi spiato) non è in grado neppure di sostituire i vertici di un corpo che cade sotto la sua competenza. In entrambi i casi è lecito per noi porsi una domanda: ma da chi siamo governati?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9036


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La sconfitta del Cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2011, 11:18:35 am
13/8/2011

La sconfitta del Cavaliere

MICHELE BRAMBILLA

Non sappiamo se il decreto di ieri sera sia l’ultimo atto del Berlusconi politico: è probabile che non lo sarà, visto che l’uomo ha già dimostrato più volte una straordinaria capacità nel seppellire i suoi aspiranti becchini.

Ma a proposito di funerali, non c’è dubbio che ieri ne sia stato celebrato uno, e che l’officiante e il defunto siano singolarmente la medesima persona: Silvio Berlusconi, appunto.
Non tanto il Berlusconi di oggi, che come abbiamo detto in qualche modo se la caverà ancora per un po’: ma il Berlusconi del ’94, quello della discesa in campo, quello del meno tasse per tutti, del più società e meno Stato, del basta con la politica politicante, del basta con le mani dello Stato nelle tasche dei cittadini, quello della rivoluzione liberale, del nuovo Rinascimento italiano.

Non pensi il lettore che queste siano parole di un accanito anti-berlusconiano. Al contrario, immagini per ipotesi che a pronunciarle sia un elettore di Berlusconi. Mi metto nei panni, infatti, di uno di quei tanti italiani che hanno sperato che l’imprenditore Silvio Berlusconi avrebbe finalmente impresso una svolta a un Paese rallentato, quando non paralizzato, dalla vecchia partitocrazia. Ci ha sperato nel ’94, il giorno in cui il nostro connazionale più vincente del momento si presentò in tv dicendo «l’Italia è il Paese che amo». Ri-sperato nel 2001, quando a Berlusconi venne concessa una prova d’appello nella convinzione che poteri ostili – la stampa, la magistratura, la finanza dei salotti buoni – gli avevano impedito di governare sette anni prima. Ri-ri-sperato nel 2008, quando il fallimento di una coalizione troppo eterogenea (quella guidata da Prodi) aveva indotto tanti elettori a consegnare nelle mani di Berlusconi una disperata delega in bianco.

Che cosa deve pensare oggi questo elettore di centrodestra? Da quella discesa in campo sono passati diciassette anni, di cui dieci con Berlusconi presidente del Consiglio, e: 1) le tasse non sono mai state alte come adesso; 2) la presenza dello Stato non è mai stata invadente come adesso; 3) le piccole e medie imprese, cioè il mondo più antropologicamente berlusconiano, non sono mai state in sofferenza come adesso; 4) non ci saranno più le correnti dei vecchi tempi democristiani, ma in confronto alla maggioranza di oggi la Dc di allora appare unita come un partito comunista della Bulgaria.

Intendiamoci bene. Sarebbe ingiusto dare a Berlusconi tutte le colpe di uno scenario tanto tetro. La crisi è mondiale. Questo governo ci ha messo del suo per aggravarla: ma è mondiale.
Però Berlusconi con la manovra di ieri ha perso una grandissima occasione, l’ennesima, per mostrare quella diversità che aveva promesso agli italiani entrando in politica.

Le sue misure sono quelle della vecchia politica. L’imposta di solidarietà non colpisce affatto i «super-ricchi», come qualche sciagurato ha detto: colpisce il ceto medio, ma soprattutto colpisce quel ceto medio costretto all’onestà dall’essere lavoratore dipendente. Lascia invece nella loro arrogante impunità i veri super-ricchi, che sono coloro ai quali questo sistema permette e permetterà ancora di evadere mantenendo la coscienza in un sonno beato. Sempre ipotizzando che chi scrive sia un elettore di Berlusconi, mi chiedo se non debba sentirsi deluso da un centrodestra che si è tanto riempito la bocca con i valori della famiglia e della Chiesa (la quale, purtroppo, ha permesso che se la riempisse). Mi chiedo insomma perché un lavoratore del ceto medio con una famiglia numerosa non abbia alcuno sgravio fiscale, quando in Francia chi ha quattro figli non paga neppure un centesimo di quella che per noi è l’Irpef.

Quanto ai tagli dei costi della politica, il premier e il suo governo sono stati addirittura beffardi. Ne hanno annunciato per 8,5 miliardi di euro. Ma poi, quando li hanno illustrati agli enti locali, s’è visto che non sono tagli alla casta, ma ai servizi, e quindi ai cittadini.
Ancora una volta insomma a dare l’oro alla Patria saranno i soliti tartassati. Si dirà – forse sarà lui stesso a dirlo – che Berlusconi poverino, non l’hanno lasciato governare. Che c’è sempre qualcuno che gli impone una linea che non è la sua. E’ un vecchio ritornello che non funziona più. Anche se così fosse, infatti, nulla toglierebbe alla sconfitta personale di un uomo che aveva promesso decisionismo ed efficienza, che doveva far funzionare il consiglio dei ministri come i suoi consigli di amministrazione e il Paese come una delle sue aziende.

L’altro ieri Tremonti, aprendo il suo incontro con i colleghi parlamentari, aveva detto che siamo di fronte a un caso di eterogenesi dei fini. Si riferiva ad altro. Ma nulla è più «eterogenesi dei fini» dell’avventura politica di un uomo che comincia annunciando la riduzione delle tasse e finisce aumentandole; che comincia mostrando come modello il successo delle sue aziende e finisce con l’Italia sull’orlo del fallimento.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9090


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Cosa si aspetta da Pisapia
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:05:17 pm
28/8/2011

Cosa si aspetta da Pisapia

MICHELE BRAMBILLA

Da anni di fronte al centrodestra e al cosiddetto berlusconismo la sinistra cerca di esibire non tanto idee diverse ma facce diverse. O se preferite delle mani diverse, come quelle che Enrico Berlinguer mostrò a una tribuna politica assicurando che le mani del Pci erano pulite. Più che dire «le nostre idee sono migliori», da tempo la sinistra dice «noi siamo migliori».

Sui programmi, sulla visione dello Stato e del mondo, non ci sono più da un pezzo grandi differenze tra destra e sinistra, che neppure sulle tasse riescono a distinguersi. La vera contrapposizione è sulla questione morale. La sinistra ha attaccato e attacca il centrodestra soprattutto su vicende che hanno a che fare con la coscienza individuale prima ancora che con la teoria politica: i conflitti di interessi del premier, le leggi ad personam per evitare i processi, le feste di Casoria, le D’Addario, i bunga bunga, le igieniste dentali imposte in Consiglio regionale, le nipoti di Mubarak, le case a propria insaputa, le conversioni alla Scilipoti. Di fronte a certi spettacoli e a certi figuri, la sinistra ha cercato di presentarsi al Paese come un’alternativa innanzitutto umana: noi siamo diversi, siamo più onesti, perfino più colti e meno cafoni. E così la partita si gioca ormai da anni, più che su un piano politico, su un piano antropologico.

Ma proprio ora che Berlusconi sembra, per tanti motivi, non lontano dall’epilogo, questa strategia della «superiorità antropologica» rischia di rivelarsi una trappola. Guai ad autodefinirsi migliori, e soprattutto guai a pretendersi immuni dal peccato originale. Può sempre capitare un caso come quello di Filippo Penati, finito al centro di un’inchiesta per tangenti. Penati, Pd, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano, è accusato di avere preso tangenti. E’ colpevole? Non lo sappiamo e gli auguriamo di no. Ma quel che sta uscendo in questi giorni fa quasi passare in secondo piano la sua colpevolezza o innocenza. Perché è un qualcosa che sta incrinando proprio quell’immagine di diversità antropologica che il Pd vanta come credenziale numero uno.

E’ la gestione di tutta questa storia a cozzare contro quell’ostentazione di diversità. Intanto tutto sta succedendo a Milano, e Milano è stata nei mesi scorsi l’icona del cambiamento. La vittoria della sinistra, salutata da piazze piene e colorate di arancione, ha fatto sperare a molti che l’ora della svolta fosse vicina per tutto il Paese. Ora leggiamo nelle carte dei magistrati che il giorno stesso della vittoria di Pisapia c’era già qualcuno che cercava di approfittarne: «Ciao Filippo, considerata com’è andata a Milano, credo che si possa risolvere la questione di Piero (Piero Di Caterina, uno degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta, ndr) prima che si vada oltre certi limiti e si degeneri». Così era scritto in un sms inviato a Penati da uno dei suoi collaboratori, il quale evidentemente pensava di risolvere tutto con qualche commessa pubblica da parte della nuova amministrazione del Comune di Milano. Il peggio della vecchia politica.

Poi c’è lui, Penati, che si autosospende dal partito ma resta in Consiglio regionale. Poi c’è la tentazione di lasciare che la prescrizione copra tutto, dimenticandosi di quante volte si è accusato Berlusconi di averla fatta franca grazie alla prescrizione. Poi c’è un Bersani prima tentennante e poi morbido, che quasi plaude Penati per aver fatto un passo indietro. Sbaglieremo, ma c’è la tentazione di scaricare Penati come Craxi cercò di scaricare Mario Chiesa dandogli del mariuolo finito chissà come nel partito. Ma Penati – già capo della segreteria politica di Bersani – sta al Pd molto più di quanto Chiesa stesse al Psi.

Il caso Penati è insomma molto più che un processo per tangenti. Lui rischia una condanna per corruzione. Ma il Pd, se non si mostra credibile nella pretesa diversità, rischia la sua stessa ragione sociale. E Giuliano Pisapia, divenuto sindaco anche contro il Pd che gli aveva preferito un altro candidato, se vuol mantenere l’appoggio di tutti quei milanesi che da lui si aspettano pulizia e trasparenza, deve dimostrare subito di poter tagliare i ponti con la lobby delle tangenti, fin dagli anni di tangentopoli trasversale nella sinistra milanese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9135


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La Gelmini attacca: Basta falsità la mia non è solo ...
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 11:56:13 am
News

14/09/2011 - intervista

La Gelmini attacca: "Basta falsità la mia non è solo la scuola dei tagli"

Come ogni anno, il ministro Mariastella Gelmini è al centro delle polemiche "Ma sulla scuola - accusa - si fa troppa disinformazione"

Il ministro: i risparmi indispensabili per abbattere sprechi e organici gonfiati. Ora va superata la logica dell’anzianità: più soldi ai docenti più bravi

MICHELE BRAMBILLA
Milano

Il piglio è quello dell’ «adesso parlo io». Sono giorni che gliene dicono di tutti i colori, o che ne dicono di tutti i colori sulla scuola, che per lei è la stessa cosa. E così Mariastella Gelmini ha una gran voglia di replicare a quella che ritiene un’opera di disinformazione. «Sembra che la scuola sia partita nel caos - dice - e che il governo abbia pensato a fare una sola cosa: tagliare».

E lei naturalmente dice che non è così.
«È ovvio che far partire una “macchina” con un milione di addetti e otto milioni di studenti non è semplice. Ma la verità è che lunedì l’anno scolastico è cominciato regolarmente. E mi permetta di aggiungere: è partito regolarmente anche grazie a uno sforzo eccezionale della pubblica amministrazione».

Perché eccezionale?

«Perché quest’anno ci sono stati 67.000 nuovi ingressi tra insegnanti e personale amministrativo. Lei immagina che cosa vuol dire assegnare una sede a ciascuno di questi 67.000, convocare tutti i vincitori dei concorsi, prendere atto delle rinunce eccetera eccetera, e tutto questo in poco più di un mese? Gli uffici centrali e periferici della scuola hanno fatto un lavoro straordinario di cui non parla nessuno».

Ma la contestazione che vien fatta è un’altra, signor ministro. Non crede che dopo tanti tagli sia a rischio la qualità della didattica?
«Credo che la crisi che stiamo vivendo sia drammatica, e che sacrifici siano stati imposti a tutti i settori, non solo alla scuola. Ma, detto questo, si leggono autentiche leggende metropolitane».

Ad esempio?

«La storia delle classi pollaio. Sembra che in Italia ci siano solo classi con più di trenta alunni! Sa quante sono, in realtà, le classi con più di trenta alunni? 2.108 su 350.000, lo 0,6 per cento».

Non è che le altre classi sono a quota 29, o giù di lì?

«Proprio oggi l’Ocse ha diffuso il suo rapporto sulla scuola, e sa che cosa dice? Che la media Ocse è di 23 alunni per classe, e la media italiana di 22. Io capisco le critiche politiche, ma ci sono dati che non possono essere ribaltati».

Il rapporto che lei cita, però, dice anche che in Italia per l’istruzione si investe il 4,8 per cento del Pil, mentre la media Ocse è del 5,9; quella di Stati Uniti, Norvegia e Corea è superiore al 7 per cento.
«È vero, ma il rapporto dice anche che in Italia, a differenza degli altri Paesi che hanno una percentuale di Pil superiore, nella scuola ci sono pochissimi investimenti privati. Per questa carenza l’Ocse ci rimprovera, e ha ragione. Ma guai a parlare, in Italia, di investimenti privati nella scuola! C’è una resistenza ideologica fortissima».

Torniamo alle critiche di questo inizio d’anno. Gli insegnanti di sostegno?
«Altra leggenda nera. Dicono che li abbiamo ridotti. Rispondo solo con un dato: quest’anno sono 94.430, il numero più alto nella storia della scuola italiana. Non c’è altro da aggiungere, credo».

I precari?
«Sono calati di sette punti percentuali».

La riduzione delle ore di lezione?
«Alle superiori le abbiamo ridotte perché le ricerche hanno certificato che erano troppe, e che oltre un certo limite cala la soglia di attenzione degli studenti. Se poi facciamo un discorso generale, le leggo un’altra frase testuale del rapporto Ocse: “Gli studenti italiani beneficiano di classi relativamente meno numerose e di tempi di istruzione più lunghi”. In Italia gli studenti dai 7 ai 14 anni fanno 8.316 ore di lezione; la media Ocse è di 6.739 ore».

Ma perché sono calate le ore di storia dell’arte?
«Anche questa è disinformazione, mi creda. Sono rimaste invariate nelle medie e nei licei umanistici, e calate solo negli istituti tecnici perché l’indirizzo di quelle scuole dev’essere un altro. E comunque siamo sopra la media Ocse».

E il fatto che non ci siano più soldi per i servizi? Che molte scuole debbano chiedere alle famiglie un contributo volontario?
«Le cosiddette spese di funzionamento erano state ridotte negli anni scorsi, perché il precedente governo aveva voluto salvare certi organici gonfiati, così mancavano i soldi per la gestione ordinaria. Ma ormai da due anni siamo tornati agli stanziamenti di prima del 2007, quindi a cifre superiori ai settecento milioni di euro. Chi chiede un contributo alle famiglie, lo fa per attività particolari, non per la gestione ordinaria».

Torniamo all’Ocse. Dice che per l’università la spesa pro capite è molto più bassa della media europea.
«Sì, ma l’abbiamo aumentata di otto punti. All’università c’erano molti sprechi, li abbiamo eliminati e ora molti atenei stanno migliorando i loro bilanci. La strada è ancora lunga ma l’abbiamo imboccata nel senso giusto».

Perché gli insegnanti italiani guadagnano meno che nel resto d’Europa?
«Perché sono i primi a pagare le scelte degli anni scorsi, e cioè l’aumento indiscriminato di ore e di cattedre per fare della scuola un ammortizzatore sociale. Noi ora, grazie ai risparmi, abbiamo recuperato gli scatti di anzianità.Ma la nostra sfida è quella di superare la logica dell’anzianità e di premiare il merito, perché non è giusto che tutti gli insegnanti guadagnino lo stesso stipendio. Non sarà facile cambiare, in un sistema ingessato come quello della scuola: ma non c’è altra via».

Che cosa l’amareggia di più in questi giorni?
«Certo vorrei che si parlasse anche delle tante novità positive introdotte dalla riforma, degli investimenti per le nuove tecnologie, dei nuovi indirizzi delle superiori che stanno avendo molto seguito... Ma la cosa più triste è che si alimenta nelle famiglie l’illusione che si possa tornare alla scuola di prima, quella che dava l’impressione di essere ricca ma spendeva tanto e male. Quella scuola non tornerà, perché anche se cambiasse il governo, chi verrà dopo di me dovrà fare i conti con questa realtà».

da - http://www3.lastampa.it/scuola/sezioni/news/articolo/lstp/420101/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ..
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2011, 12:07:39 pm
Politica

19/09/2011 - NERVOSISMO NELLA LEGA

Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ai giornali

E il Senatùr non trova più le parole per ammaliare la sua "gente"

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A VENEZIA

Forse se ne sono accorti in pochi, ma appena Bossi ha finito il comizio Roberto Cota, che era lì sul palco accanto a lui, l’ha toccato quasi di nascosto per attirare la sua attenzione e gli ha fatto il gesto del pugno. Il pugno, fai il pugno» gli ha probabilmente sussurrato. E allora il Senatur ha alzato il braccio buono e ha agitato il pugno alla piccola folla che stava lì davanti, e che ha ricambiato con un «Bos-si Bos-si», il vecchio coro che ci favella del tempo che fu, per usare le parole di un altro coro, quel «Va’ pensiero» che la Lega ha scippato al Risorgimento. In quel tenero suggerimento del governatore del Piemonte c’è molto dell’aria crepuscolare che ha accompagnato ieri la festa dei popoli padani. Il capo vecchio, stanco e bisognoso d’essere imbeccato; le patetiche bugie («Siamo in cinquantamila»); il timore di contestazioni interne; la percezione che «il tempo è scaduto», com’era scritto sul cartello di un manifestante in prima fila.

I leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che i giornalisti non capiscono né la Lega, né la gente del Nord. Per molto tempo è stato così. Ma il tempo è scaduto anche per queste recriminazioni, e i continui attacchi dal palco ai giornalisti - alcuni indicati con il dito, altri resi identificabili in tutti i modi - hanno suscitato nei cronisti più compassione che indignazione, perché quando un partito dà la colpa di tutto alla stampa, è come quando un allenatore dà la colpa agli arbitri. Non è per un pregiudizio che diciamo che quello di ieri è stato un triste spettacolo, anzi uno spettacolo triste, che è peggio. La Lega - piaccia o no - è fra i partiti italiani quello che ha da tempo il progetto politico più forte: il federalismo, e poi magari la secessione, comunque la rivendicazione di più potere e autonomia per una parte del Paese.

Proprio per questo fa tristezza vedere il fondatore, e ancora di più la sua ristretta corte, incapaci di sottomettere a quel progetto una questione familiare. Bossi che indica nel figlio Renzo - per il quale s’è addirittura inventato una laurea in Economia a Londra - il proprio successore, è uno spettacolo triste e ahimè caro Bossi, tanto italiano. È uno spettacolo triste anche il cercare di agitare la folla parlando o meglio sbraitando come se si fosse un partito d’opposizione, e non uno che negli ultimi dieci anni è stato al governo per più di otto. Rosi Mauro, furibonda perché nel partito (non sui giornali: nel partito, anche se senza uscire allo scoperto) la chiamano «la badante», ha urlato contro le tasse, la cassa integrazione e «la nostra gente» che perde i posti di lavoro. Di chi la colpa di tutto questo? Dell’opposizione? O dei giornali?

Ma sì: i giornali. Calderoli comincia il suo intervento così: «Hanno scritto che la Lega è spaccata. Sapete che cosa c’è di spaccato?
I coglioni! I giornalisti ci hanno spaccato i coglioni». Poco dopo fa il gesto dell’ombrello, più avanti dice che «senza Bossi noi non saremmo un cazzo», perché questo è oggi il bon ton di un ministro. Ma quello che fa più tristezza è l’ostentazione di una verità virtuale. Rosi Mauro strappa applausi quando grida che «grazie alla Lega non hanno alzato l’età pensionabile delle donne», e c’è da chiedersi se chi applaude sappia o no che l’età pensionabile, dal governo di cui la Lega fa parte, è stata invece alzata; poi ne strappa altri sbandierando i «contratti territoriali, un’iniziativa della Lega grazie alla quale gli stipendi al Nord adesso sono più alti», e c’è da chiedersi quale film stiano vedendo quelli che applaudono. Chi ha parlato ieri dal palco di Riva Martiri evidentemente è convinto di avere di fronte un popolo disposto a credere a tutto.

Tornando a Calderoli, come spiegare l’incredibile discorso di ieri? È partito attaccando i giornalisti perché si sono inventati spaccature nella Lega, poi si è scagliato con durezza mai vista contro gli oppositori interni - «quattro sfigatelli» - e soprattutto contro i sindaci di Verona Flavio Tosi e di Varese Attilio Fontana, mai nominati ma evocati più che chiaramente. Le spaccature interne sono un’invenzione dei giornalisti? Sarà, ma la Lega ieri ha fatto di tutto per renderle palesi. Non hanno fatto parlare i capigruppi della Camera (Reguzzoni) e del Senato (Bricolo) per paura che venissero fischiati. E non hanno fatto parlare Tosi per paura che venisse applaudito. Roberto Maroni, quando è venuto il suo turno, ha detto che di spaccature non ce n’è e molto democristianamente ha chiamato accanto a sé e abbracciato Calderoli (chissà quanto hanno gradito i maroniani Tosi e Fontana, da Calderoli appena presi a male parole). Anche il rito dell’ampolla, cioè il momento finale della festa, ha confermato che la spaccatura non è solo nella testa dei «giornalai»: accanto a Bossi c’era tutto il cosiddetto «cerchio magico» (il figlio, Rosi Mauro, Reguzzoni, Bricolo più il fido Calderoli) ma di Maroni e dei suoi nemmeno l’ombra.

Dicevamo che l’impressione è quella di un gruppo dirigente convinto che i propri elettori e militanti siano disposti a credere sempre a tutto. Ma è così? Finché si tratta di dare del pirla ai giornalisti, non c’è problema. Non ce n’è nemmeno quando Bossi dice che in Italia è tornato il fascismo perché non c’è più libertà di esprimersi e di manifestare, e lo dice proprio lui che ha appena chiesto il licenziamento del direttore di «Panorama» per un articolo sgradito. Ma su tutto il resto, fino a quando gli crederanno? Ieri i militanti erano pochi ma uniti nell’esprimere un solo concetto: non ne possiamo più. C’era un cartello con una spina staccata, ce n’era uno con scritto «basta tasse» e soprattutto ce n’erano tanti con scritto «secessione». Quando Bossi parlava, un solo coro lo interrompeva a tempi regolari: «secessione-secessione». E lui ha dato l’impressione di non sapere che cosa rispondere, di limitarsi a prendere tempo. Ha detto che sì, prima o poi «la faremo finita», ma che comunque bisogna trovare «una via democratica alla secessione». Poi per cercare di tenersi buoni questi impazienti militanti stanchi di promesse, ha chiuso gettando in mare, oltre che l’acqua del Po, quella del Piave; e ha aggiunto che sul Piave gli alpini avrebbero dovuto voltarsi e sparare dall’altra parte. E anche questa battuta, che un tempo avrebbe generato indignazione, oggi genera più che altro tristezza.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/420804/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Un pesante distacco dalla realtà
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:06:48 pm
22/9/2011

Un pesante distacco dalla realtà

MICHELE BRAMBILLA

Di che cosa si parla in questi giorni in Italia? Ascoltando i discorsi della gente comune, non solo degli imprenditori, ma anche dei semplici dipendenti o di chi si incontra al bar o al supermercato, diremmo che non ci sono dubbi sull’argomento più gettonato. Più che un argomento è una domanda: quanto durerà questo governo?

Dalle inchieste dei magistrati emergono comportamenti incredibili da parte di chi è incaricato di guidare il Paese; e già questo è un fatto che fa chiedere a molti che cos’altro debba ancora succedere. Ma poi, soprattutto, c’è una crisi economica senza precedenti. Quando mai s’è sentito parlare di un possibile fallimento dell’Italia? Saranno anche paure esagerate, ma molti italiani si sono precipitati in banca per vendere i propri titoli di Stato nel timore che possano non essere rimborsati.

Anche dall’estero si guarda all’Italia come a un Paese sull’orlo del baratro e quindi bisognoso di una svolta. L’Europa ci ha appena imposto un manovra di cui il nostro governo, se non altro per un bieco calcolo di consensi elettorali, avrebbe volentieri fatto a meno. Standard and Poor’s dopo aver declassato l’Italia ieri ha declassato sette nostre banche.

I grandi giornali di mezzo mondo ci chiedono che cosa aspettiamo a darci una mossa, per mossa intendendo il cambiamento della guida politica.

E questa è oggettivamente la richiesta che viene da grandissima parte del Paese. Non solo del Paese politicamente schierato, quello in servizio antiberlusconiano effettivo e permanente: ma anche di quel mondo che in Berlusconi ha sperato, più o meno convintamente. Da Confindustria a quegli imprenditori del Nord che, come ha raccontato Marco Alfieri in un reportage su questo giornale, per Berlusconi avevano messo anche la faccia, e che ora non ne possono più. Insomma: giusta o sbagliata che sia, sale la richiesta di un cambio di passo. Per essere più espliciti, di una nuova guida politica. Che è tutta da studiare, e che non è detto che debba comportare un ribaltone parlamentare con un cambio di maggioranza: ma che dia il segno tangibile di una novità, di un taglio netto con una gestione politica che ci ha portati sull’orlo del fallimento.

Tutti dunque ne parlano. Tutti tranne chi dovrebbe per primo porsi il problema. Ieri Berlusconi è salito al Quirinale e qualche povero illuso aveva messo in giro la voce che, di fronte al Capo dello Stato, il premier avrebbe affrontato il discorso su un suo possibile passo indietro. Ma lasciando il Colle il premier ha assicurato che l’argomento non è neppure stato sfiorato. E uno dei suoi uomini, il ministro Giancarlo Galan, l’ha liquidata così: «Ho parlato con Berlusconi e mi ha detto che posso rassicurare gli italiani: il Presidente della Repubblica non si è dimesso». Quanto a Bossi, le sue parole sono state le seguenti: «Il governo va avanti? Penso di sì. Non so cosa sia andato a fare Berlusconi dal presidente Napolitano».

Temiamo di saperlo noi. Al Capo dello Stato che gli riportava le preoccupazioni sue, del Paese intero e di mezzo mondo, il premier pare abbia risposto di stare tranquillo, che le cose vanno bene, che è tutta colpa degli speculatori stranieri, che non bisogna dare retta ai giornali, che le inchieste della magistratura lo rinvigoriscono e che presto tirerà fuori dal cappello un piano per lo sviluppo che farà ripartire l’economia.

Viene in mente il titolo di un film di una decina di anni fa: «Fuori dal mondo». Solo che quel film parlava dell’estraniarsi volontario, dal mondo, di una suora di clausura. Mentre qui fuori dal mondo ci sono ahimè coloro che il mondo dovrebbero guidarlo. Le battute di Galan, gli sproloqui di Bossi e il Berlusconi che annuncia l’arma segreta danno l’idea di una classe dirigente ormai totalmente staccata dalla realtà.

Ieri abbiamo letto un pezzo della prefazione che Giulio Andreotti ha scritto a un libro sulla storia della Dc. Rievocando i tempi del dopoguerra, della Costituzione e della ricostruzione, Andreotti ricorda che non solo la Dc, ma anche gli altri partiti fissavano sempre, prima di ogni iniziativa politica, un obiettivo a lungo termine, un progetto per il Paese futuro. Saranno anche nostalgie del passato. Ma la miopia di chi ha preso il posto di quei politici fa di tutto per alimentarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9228


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il Senatùr non trova più le parole per ammaliare la sua ...
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:55:21 pm
Politica

19/09/2011 - NERVOSISMO NELLA LEGA

Il crepuscolo leghista fra bugie, liti intestine e attacchi ai giornali
E il Senatùr non trova più le parole per ammaliare la sua "gente"

MICHELE BRAMBILLA

INVIATO A VENEZIA
Forse se ne sono accorti in pochi, ma appena Bossi ha finito il comizio Roberto Cota, che era lì sul palco accanto a lui, l’ha toccato quasi di nascosto per attirare la sua attenzione e gli ha fatto il gesto del pugno. Il pugno, fai il pugno» gli ha probabilmente sussurrato. E allora il Senatur ha alzato il braccio buono e ha agitato il pugno alla piccola folla che stava lì davanti, e che ha ricambiato con un «Bos-si Bos-si», il vecchio coro che ci favella del tempo che fu, per usare le parole di un altro coro, quel «Va’ pensiero» che la Lega ha scippato al Risorgimento. In quel tenero suggerimento del governatore del Piemonte c’è molto dell’aria crepuscolare che ha accompagnato ieri la festa dei popoli padani. Il capo vecchio, stanco e bisognoso d’essere imbeccato; le patetiche bugie («Siamo in cinquantamila»); il timore di contestazioni interne; la percezione che «il tempo è scaduto», com’era scritto sul cartello di un manifestante in prima fila.

I leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che i giornalisti non capiscono né la Lega, né la gente del Nord. Per molto tempo è stato così. Ma il tempo è scaduto anche per queste recriminazioni, e i continui attacchi dal palco ai giornalisti - alcuni indicati con il dito, altri resi identificabili in tutti i modi - hanno suscitato nei cronisti più compassione che indignazione, perché quando un partito dà la colpa di tutto alla stampa, è come quando un allenatore dà la colpa agli arbitri. Non è per un pregiudizio che diciamo che quello di ieri è stato un triste spettacolo, anzi uno spettacolo triste, che è peggio. La Lega - piaccia o no - è fra i partiti italiani quello che ha da tempo il progetto politico più forte: il federalismo, e poi magari la secessione, comunque la rivendicazione di più potere e autonomia per una parte del Paese.

Proprio per questo fa tristezza vedere il fondatore, e ancora di più la sua ristretta corte, incapaci di sottomettere a quel progetto una questione familiare. Bossi che indica nel figlio Renzo - per il quale s’è addirittura inventato una laurea in Economia a Londra - il proprio successore, è uno spettacolo triste e ahimè caro Bossi, tanto italiano. È uno spettacolo triste anche il cercare di agitare la folla parlando o meglio sbraitando come se si fosse un partito d’opposizione, e non uno che negli ultimi dieci anni è stato al governo per più di otto. Rosi Mauro, furibonda perché nel partito (non sui giornali: nel partito, anche se senza uscire allo scoperto) la chiamano «la badante», ha urlato contro le tasse, la cassa integrazione e «la nostra gente» che perde i posti di lavoro. Di chi la colpa di tutto questo? Dell’opposizione? O dei giornali?

Ma sì: i giornali. Calderoli comincia il suo intervento così: «Hanno scritto che la Lega è spaccata. Sapete che cosa c’è di spaccato? I coglioni! I giornalisti ci hanno spaccato i coglioni». Poco dopo fa il gesto dell’ombrello, più avanti dice che «senza Bossi noi non saremmo un cazzo», perché questo è oggi il bon ton di un ministro. Ma quello che fa più tristezza è l’ostentazione di una verità virtuale. Rosi Mauro strappa applausi quando grida che «grazie alla Lega non hanno alzato l’età pensionabile delle donne», e c’è da chiedersi se chi applaude sappia o no che l’età pensionabile, dal governo di cui la Lega fa parte, è stata invece alzata; poi ne strappa altri sbandierando i «contratti territoriali, un’iniziativa della Lega grazie alla quale gli stipendi al Nord adesso sono più alti», e c’è da chiedersi quale film stiano vedendo quelli che applaudono. Chi ha parlato ieri dal palco di Riva Martiri evidentemente è convinto di avere di fronte un popolo disposto a credere a tutto.

Tornando a Calderoli, come spiegare l’incredibile discorso di ieri? È partito attaccando i giornalisti perché si sono inventati spaccature nella Lega, poi si è scagliato con durezza mai vista contro gli oppositori interni - «quattro sfigatelli» - e soprattutto contro i sindaci di Verona Flavio Tosi e di Varese Attilio Fontana, mai nominati ma evocati più che chiaramente. Le spaccature interne sono un’invenzione dei giornalisti? Sarà, ma la Lega ieri ha fatto di tutto per renderle palesi. Non hanno fatto parlare i capigruppi della Camera (Reguzzoni) e del Senato (Bricolo) per paura che venissero fischiati. E non hanno fatto parlare Tosi per paura che venisse applaudito. Roberto Maroni, quando è venuto il suo turno, ha detto che di spaccature non ce n’è e molto democristianamente ha chiamato accanto a sé e abbracciato Calderoli (chissà quanto hanno gradito i maroniani Tosi e Fontana, da Calderoli appena presi a male parole). Anche il rito dell’ampolla, cioè il momento finale della festa, ha confermato che la spaccatura non è solo nella testa dei «giornalai»: accanto a Bossi c’era tutto il cosiddetto «cerchio magico» (il figlio, Rosi Mauro, Reguzzoni, Bricolo più il fido Calderoli) ma di Maroni e dei suoi nemmeno l’ombra.

Dicevamo che l’impressione è quella di un gruppo dirigente convinto che i propri elettori e militanti siano disposti a credere sempre a tutto. Ma è così? Finché si tratta di dare del pirla ai giornalisti, non c’è problema. Non ce n’è nemmeno quando Bossi dice che in Italia è tornato il fascismo perché non c’è più libertà di esprimersi e di manifestare, e lo dice proprio lui che ha appena chiesto il licenziamento del direttore di «Panorama» per un articolo sgradito. Ma su tutto il resto, fino a quando gli crederanno? Ieri i militanti erano pochi ma uniti nell’esprimere un solo concetto: non ne possiamo più. C’era un cartello con una spina staccata, ce n’era uno con scritto «basta tasse» e soprattutto ce n’erano tanti con scritto «secessione». Quando Bossi parlava, un solo coro lo interrompeva a tempi regolari: «secessione-secessione». E lui ha dato l’impressione di non sapere che cosa rispondere, di limitarsi a prendere tempo. Ha detto che sì, prima o poi «la faremo finita», ma che comunque bisogna trovare «una via democratica alla secessione». Poi per cercare di tenersi buoni questi impazienti militanti stanchi di promesse, ha chiuso gettando in mare, oltre che l’acqua del Po, quella del Piave; e ha aggiunto che sul Piave gli alpini avrebbero dovuto voltarsi e sparare dall’altra parte. E anche questa battuta, che un tempo avrebbe generato indignazione, oggi genera più che altro tristezza.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/420804/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Romano un super rospo per la Lega
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:48:22 am
24/9/2011

Romano un super rospo per la Lega

MICHELE BRAMBILLA

Proviamo a immaginare la faccia di un militante leghista - non c’è bisogno di pensare a quelli con in testa le corna da Celti: bastano quelli con un fazzoletto verde nel taschino - di fronte al curriculum vitae dell’onorevole Francesco Saverio Romano.

Intanto, è nato a Palermo. Poi, è stato democristiano. Quindi, dell’Udc di Casini (uno dei bersagli preferiti degli insulti di Bossi). Adesso è di un partito che non abbiamo capito bene come si chiama, visto che il sito ufficiale della Camera per comunicarlo impiega, anziché una riga, una mezza pagina: nella quale francamente ci si perde, essendo Romano passato in questa sola legislatura dall’«Unione di Centro» al «Gruppo Misto»; quindi da «Noi Sud - Libertà e autonomia, I Popolari di Italia domani» a «Iniziativa Responsabile», e infine a «Popolo e Territorio». Il motivo di tanto peregrinare è poi spiegato sul sito personale dell’onorevole Romano: «Insieme ai deputati meridionali Calogero Mannino, Michele Pisacane, Giuseppe Drago e Giuseppe Ruvolo aderisce al Gruppo Misto fondando il movimento Popolari di Italia domani (Pid) abbandonando quindi il ruolo di opposizione e schierandosi a sostegno della maggioranza parlamentare di centrodestra di Silvio Berlusconi». Sostegno ricompensato, il 23 marzo scorso, con la nomina a ministro dell’Agricoltura. Ultimo dettaglio: il Nostro è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione. Adesso torniamo alla faccia del militante leghista che legge. Meridionale, democristiano, casiniano, trasformista premiato con un ministero, indagato per mafia: sembra il ritratto perfetto di quell’esemplare di politico che la Lega Nord ha sempre giurato di volere spazzare via. Ricordate gli slogan dei primi tempi? Quel «lumbard tas» (lombardo, taci) con cui i primi leghisti denunciavano lo strapotere dei professori meridionali nelle scuole? E il «via da Roma» scopiazzato a Martin Lutero? E il «Roma ladrona», e il cappio per gli inquisiti, e così via? Lungi da noi far pensare che Francesco Saverio Romano non sia una degna persona. Tutto ciò che c’è nel suo curriculum non è motivo di condanna. Nemmeno l’essere indagato per mafia, visto che ciascuno è innocente fino a sentenza definitiva. Stiamo solo dicendo che a un leghista un simile personaggio provoca l’indigestione. Tanto più se si pensa che il ministero occupato da Romano era, all’inizio della legislatura, proprio di un leghista: Luca Zaia.

Eppure, dopo aver digerito i salvataggi di Caliendo, di Cosentino e di Milanese, i militanti della Lega dovranno a quanto pare mandare giù anche questa. Mercoledì prossimo, 28 settembre, alla Camera si voterà infatti una mozione di sfiducia che Pd, Fli e Idv hanno presentato nei confronti di Romano in seguito al rinvio a giudizio chiesto dalla Procura di Palermo. E ieri Marco Reguzzoni, il capogruppo, ha già detto che la Lega voterà «no» alla sfiducia. Non è che Reguzzoni - e Bossi che ha preso la decisione - siano pazzi. Al contrario, seguono un calcolo più che razionale. Se il ministro indagato per mafia viene sfiduciato, il suo gruppo - i cosiddetti Responsabili - tornano da dove erano venuti, e tolgono la stampella offerta un anno fa a Berlusconi. Salvando Romano, la Lega salva il governo. Su questo non si discute. Resta da capire se salva anche se stessa. Al di là delle risentite smentite dei suoi colonnelli, la Lega è oggi un partito in difficoltà. C’è Bossi che non vuole mollare Berlusconi, a costo di cercar la bella morte. E c’è Maroni che pensa: prima ci smarchiamo dal Cavaliere che affonda, più probabilità abbiamo di non venire puniti alle prossime elezioni. La «base» sembra più in sintonia con Maroni. Pare sfiduciata e arrabbiata: alla festa di Venezia c’era poca gente, e a Radio Padania debbono filtrare le telefonate per non mandare in onda gli insulti. Checché se ne dica (anzi se ne strilli) ai comizi, ci sono segnali inequivocabili: quelli delle urne. In un anno la Lega è passata dal trionfo delle regionali al crollo delle comunali. Dunque mercoledì prossimo Bossi sarà di fronte a un dilemma. Salvare Romano vorrebbe dire restare al governo. Ma restarci grazie a una di quelle alchimie che la Lega chiama «il marciume del Palazzo». Per il popolo padano sarebbe un rospo, l’ennesimo, e non è detto che sia disposto a ingoiarlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9235


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Un pesante distacco dalla realtà
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2011, 11:19:44 am
22/9/2011

Un pesante distacco dalla realtà

MICHELE BRAMBILLA

Di che cosa si parla in questi giorni in Italia? Ascoltando i discorsi della gente comune, non solo degli imprenditori, ma anche dei semplici dipendenti o di chi si incontra al bar o al supermercato, diremmo che non ci sono dubbi sull’argomento più gettonato. Più che un argomento è una domanda: quanto durerà questo governo?

Dalle inchieste dei magistrati emergono comportamenti incredibili da parte di chi è incaricato di guidare il Paese; e già questo è un fatto che fa chiedere a molti che cos’altro debba ancora succedere. Ma poi, soprattutto, c’è una crisi economica senza precedenti. Quando mai s’è sentito parlare di un possibile fallimento dell’Italia? Saranno anche paure esagerate, ma molti italiani si sono precipitati in banca per vendere i propri titoli di Stato nel timore che possano non essere rimborsati.

Anche dall’estero si guarda all’Italia come a un Paese sull’orlo del baratro e quindi bisognoso di una svolta. L’Europa ci ha appena imposto un manovra di cui il nostro governo, se non altro per un bieco calcolo di consensi elettorali, avrebbe volentieri fatto a meno. Standard and Poor’s dopo aver declassato l’Italia ieri ha declassato sette nostre banche.

I grandi giornali di mezzo mondo ci chiedono che cosa aspettiamo a darci una mossa, per mossa intendendo il cambiamento della guida politica.

E questa è oggettivamente la richiesta che viene da grandissima parte del Paese. Non solo del Paese politicamente schierato, quello in servizio antiberlusconiano effettivo e permanente: ma anche di quel mondo che in Berlusconi ha sperato, più o meno convintamente. Da Confindustria a quegli imprenditori del Nord che, come ha raccontato Marco Alfieri in un reportage su questo giornale, per Berlusconi avevano messo anche la faccia, e che ora non ne possono più. Insomma: giusta o sbagliata che sia, sale la richiesta di un cambio di passo. Per essere più espliciti, di una nuova guida politica. Che è tutta da studiare, e che non è detto che debba comportare un ribaltone parlamentare con un cambio di maggioranza: ma che dia il segno tangibile di una novità, di un taglio netto con una gestione politica che ci ha portati sull’orlo del fallimento.

Tutti dunque ne parlano. Tutti tranne chi dovrebbe per primo porsi il problema. Ieri Berlusconi è salito al Quirinale e qualche povero illuso aveva messo in giro la voce che, di fronte al Capo dello Stato, il premier avrebbe affrontato il discorso su un suo possibile passo indietro. Ma lasciando il Colle il premier ha assicurato che l’argomento non è neppure stato sfiorato. E uno dei suoi uomini, il ministro Giancarlo Galan, l’ha liquidata così: «Ho parlato con Berlusconi e mi ha detto che posso rassicurare gli italiani: il Presidente della Repubblica non si è dimesso». Quanto a Bossi, le sue parole sono state le seguenti: «Il governo va avanti? Penso di sì. Non so cosa sia andato a fare Berlusconi dal presidente Napolitano».

Temiamo di saperlo noi. Al Capo dello Stato che gli riportava le preoccupazioni sue, del Paese intero e di mezzo mondo, il premier pare abbia risposto di stare tranquillo, che le cose vanno bene, che è tutta colpa degli speculatori stranieri, che non bisogna dare retta ai giornali, che le inchieste della magistratura lo rinvigoriscono e che presto tirerà fuori dal cappello un piano per lo sviluppo che farà ripartire l’economia.

Viene in mente il titolo di un film di una decina di anni fa: «Fuori dal mondo». Solo che quel film parlava dell’estraniarsi volontario, dal mondo, di una suora di clausura. Mentre qui fuori dal mondo ci sono ahimè coloro che il mondo dovrebbero guidarlo. Le battute di Galan, gli sproloqui di Bossi e il Berlusconi che annuncia l’arma segreta danno l’idea di una classe dirigente ormai totalmente staccata dalla realtà.

Ieri abbiamo letto un pezzo della prefazione che Giulio Andreotti ha scritto a un libro sulla storia della Dc. Rievocando i tempi del dopoguerra, della Costituzione e della ricostruzione, Andreotti ricorda che non solo la Dc, ma anche gli altri partiti fissavano sempre, prima di ogni iniziativa politica, un obiettivo a lungo termine, un progetto per il Paese futuro. Saranno anche nostalgie del passato. Ma la miopia di chi ha preso il posto di quei politici fa di tutto per alimentarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9228


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Quei gesti stonati della politica
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 04:57:23 pm
29/9/2011

Quei gesti stonati della politica

MICHELE BRAMBILLA

Forse pensando di essere in sintonia con l’esplosione di gioia che verso sera ha attraversato tutto il Paese, il presidente del Consiglio ha calorosamente abbracciato il ministro Francesco Saverio Romano. Che cosa era successo? Il lettore scelga: a) Romano era sfuggito a un attentato. b) era stato finalmente liberato dopo essere stato ostaggio di guerriglieri libici. c) aveva portato a casa un accordo vantaggioso per la nostra agricoltura. d) imputato per mafia, aveva appena ottenuto la solidarietà del Parlamento. Anche Bossi ieri si è espresso a gesti. Ha mostrato il dito medio, cosa che non faceva più da almeno un paio di giorni. Qua è addirittura superfluo chiedere di scegliere tra un’opzione a (Bossi stava scherzando con degli amici) e un’opzione b (stava parlando di un argomento terribilmente serio come la manovra economica).

Purtroppo tutto questo è cronaca, e non Bagaglino. Il Paese rischia il fallimento, gli imprenditori non ce la fanno a tirare avanti (ieri hanno contestato il ministro Matteoli) e i lavoratori non ce la fanno a tirare la fine del mese. Ma nel governo si riesce perfino a litigare sul nome del nuovo governatore della Banca d’Italia, che a quanto pare deve essere scelto in base al luogo di nascita. Insomma noi siamo preoccupati. E chi ci governa che fa? Un po’ litiga, un po’ si abbraccia e un po’ ci mostra il medio. Forse pensando di essere in sintonia con il Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9258


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Le crepe della Lega
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:56:55 am
11/10/2011

Le crepe della Lega

Tra i leader legame più forte delle pressioni della base

MICHELE BRAMBILLA

Fa quasi tenerezza Marco Reguzzoni quando definisce «enfatizzazioni giornalistiche» i resoconti sulla protesta della base leghista di Varese.

Per essere più convincente, Reguzzoni aggiunge che «tra l’altro la stampa non era nemmeno presente». È un’aggiunta infelice che trasforma la smentita in una conferma. Certo che i giornalisti non c’erano: ma non c’erano perché i capataz della Lega non li avevano fatti entrare. E per quale ragione non li avevano fatti entrare, se non per il timore che vedessero l’invedibile, e cioè Bossi contestato a casa sua?

«Mi creda - ci confida un esponente leghista che domenica era in sala -, quello che hanno pubblicato i giornali non è enfatizzato, al contrario è riduttivo». Amministratori locali, militanti e semplici iscritti hanno urlato il loro dissenso contro un congresso provinciale che - alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli - è sembrato degno di un Politburo. Bossi ne è rimasto sconvolto. Anche perché è stata una protesta spontanea, non organizzata: anzi l’ordine dei colonnelli dissidenti era quello di «non fare casino».

E così, la giornata di domenica scorsa potrebbe anche diventare storica. Primo, perché mai Bossi era stato contestato a Varese, cioè nella culla della Lega. Secondo perché la protesta, nonostante il niet imposto all’ingresso dei giornalisti, è diventata pubblica. Molti dissenzienti sono usciti allo scoperto, e così questa volta sarà più difficile parlare delle «solite balle della stampa». La spaccatura è ormai un fatto conclamato.

Bossi, nonostante la retorica anch’essa paragonabile a certi bollettini medici da Unione Sovietica, è un uomo stanco e malato. Non è neppure sempre lucido: è sgradevole dirlo, ma chiunque l’abbia seguito negli ultimi tempi sa di che cosa stiamo parlando. In queste condizioni, è accudito da una ristretta cerchia di persone: la moglie Manuela Marrone, Rosy Mauro, Reguzzoni, Belsito, Bricolo, ossia il cosiddetto «cerchio magico». Secondo molti leghisti, da costoro Bossi non è accudito ma commissariato. E questo è già un primo motivo di malcontento: l’avere un capo che è anche un sottoposto.

Ma Bossi è in difficoltà anche per altri motivi. Un secondo motivo è che la Lega si è presentata sulla scena politica come un movimento rivoluzionario, e non si possono lasciare a metà le rivoluzioni. Il peraltro impalpabile federalismo portato a casa in vent’anni non ha nulla a che fare con le promesse delle origini. Un terzo motivo di disagio è contingente: Bossi non vuole mollare Berlusconi a nessun costo, e molti temono che il matrimonio, oltre che indissolubile, si riveli mortale per il partito.

Roberto Maroni è il leader di tutti questi scontenti. Se fosse per lui, mollerebbe subito il governo e ripresenterebbe una Lega barricadiera e solitaria come ai bei tempi. Così nasce il cosiddetto scontro fra «maroniani» e «bossiani» (Roberto Calderoli invece non è né un maroniano, né un membro del «cerchio magico»: secondo alcuni sta giocando una partita tutta sua, fa il mediatore fra le due anime e spera di trarre beneficio tra i due litiganti).

Ma attenzione: sbaglia, e di grosso, chi pensa o spera che Maroni possa lavorare per prendere il posto di Bossi. Non lo farà mai. Tra i due c’è una amicizia troppo vecchia e profonda. Un mese fa, durante un incontro nel quale non sono mancati bruschi scambi di opinioni, a un certo punto Bossi è scoppiato a piangere e i due si sono abbracciati.

Perché, allora, Bossi e Maroni non riescono a raggiungere un’intesa politica? Il Senatùr si è molto arrabbiato quando «Panorama» ha sottolineato il ruolo decisivo di sua moglie. Ma nella Lega è questo che dicono: che il problema è la moglie. Bossi, al di là di quello che si possa pensare di lui, non è comunque uomo che si sia arricchito con la politica: e la moglie - si sussurra nella Lega - gli ricorda che, dopo aver dato tutta la vita al partito, adesso deve pensare ai figli. Per questo qualunque colonnello cresca nei consensi interni diventa un pericolo: nella Lega del futuro dopo Bossi ci dev’essere un altro Bossi, che sia Renzo la Trota o Roberto Libertà.

Maroni tutte queste cose le sa. E non vuol far la parte di chi accoltella nella schiena il vecchio amico per prendere il suo posto. Per amore di Bossi, domenica ha ritirato il suo candidato al congresso di Varese. Il problema, però, è che ormai molti «maroniani» sono partiti, e sarà difficile fermarli.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9308


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La crescita delle poltrone
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2011, 05:36:02 pm
15/10/2011

La crescita delle poltrone

MICHELE BRAMBILLA

Il governo è stato di parola: appena ottenuta la fiducia alla Camera, ha varato gli annunciati provvedimenti per la crescita. Crescono infatti le poltrone del governo medesimo: ce ne sono tre nuove, due da viceministro e una da sottosegretario. Inutile aggiungere «a chi» tali poltrone siano andate: i due nuovi viceministri sono deputati che avevano appena votato la fiducia.

Deputati che fino a qualche tempo fa non l’avrebbero votata; e cioè una ex finiana e un ex dipietrista. Quanto al nuovo sottosegretario, ha un passato nell’Udc. Le opposizioni gridano al mercimonio. Ma forse, più che questa distribuzione di «premi di risultato», colpisce la tempistica. Una volta ci si preoccupava non dico di salvare le apparenze, ma perlomeno di cercare di far passare tutto nel dimenticatoio. Si aspettava qualche mese, e poi si distribuivano le medaglie. Ieri invece la ricompensa è stata fulminea: voto, fiducia, Consiglio dei ministri e nuove nomine in meno di mezza giornata. Com’è possibile che Berlusconi e i suoi ministri non capiscano che una simile sollecitudine è anche una plateale ostentazione? Come non tenere conto delle reazioni che un gesto del genere provoca nella gente comune? Ma l’impressione è che della gente comune, e quindi del Paese, non ci si preoccupi più. Pensino quello che vogliono, chi se ne importa.

Anche l’esultanza da stadio dei parlamentari della maggioranza dà il senso di un distacco fra il Paese e il Palazzo. Certo il governo ha ottenuto la fiducia, è legittimato a continuare e ha tutti i motivi per esserne rinfrancato. Ma che cosa ci sia da festeggiare, non lo si capisce.

Di certo non lo capiscono gli italiani, messi a dura prova - o come minimo spaventati - da una crisi finanziaria che non ha precedenti negli ultimi cent’anni. Le Borse crollano, il nostro debito viene declassato, si parla di default: e di fronte a tutto questo la classe politica che cosa fa? In altri Paesi questa temperie ha portato maggioranza e opposizione a collaborare con lo stesso spirito con cui si collabora quando c’è una guerra o un terremoto. Qui da noi, di un fronte comune contro la crisi non è neppure il caso di parlare. Almeno fosse unito il governo. Invece abbiamo un ministro dell’Economia pubblicamente sfiduciato da metà, per non dire due terzi, del suo stesso partito; opinioni diverse su pensioni, condono, patrimoniale, tasse; malpancisti vari nel Pdl e nella Lega.

È evidente che il centrodestra ha necessità di ripensarsi. Ma chiunque al suo interno ponga la questione è scomunicato come un traditore, o un ingrato, o un ambizioso in cerca di gloria personale. Era già successo a Casini, e poi a Fini: ora succede a Formigoni, a Pisanu, a Scajola, a Maroni. E in realtà sono poi molti altri ancora i parlamentari e i ministri che in privato dicono che così non si può più andare avanti, ma che in pubblico non hanno il coraggio di riconoscere che la barca affonda.

E così si rimane aggrappati, più che alla difesa del centrodestra (non parliamo neppure del Paese) a quella del suo premier, come se una parte politica dovesse coincidere in eterno con una sola persona. Si rimane aggrappati a qualche voto in più, da ricompensare con qualche inutile poltrona. Chiusi in un bunker mentale impermeabile agli umori degli italiani, elettori di centrodestra compresi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9321


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La lista degli epurati agita la Lega
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 09:31:24 am
Politica

17/10/2011 - RETROSCENA

La lista degli epurati agita la Lega

Il leader del Carroccio in un comizio a Varese aveva dichiarato: «Tutto quello che guadagno lo metto in Lega, e mia moglie mi sgrida»

Continua a Varese il muro contro muro tra maroniani e uomini vicini al cerchio magico

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A VARESE

Pare che una delle chiavi per capire la politica italiana stia in una frase che Umberto Bossi s'è lasciato scappare poco meno di un mese fa a Somma Lombardo, in provincia di Varese, durante un comizio: "Tutto quello che guadagno lo metto in Lega, e mia moglie mi sgrida".
Bossi e famiglia abitano a Gemonio - all'imbocco della Valcuvia, il panorama dominato da un orribile cementificio in una villetta giallina, inizio Novecento. Meglio della casetta bianca del tempo Avanti Lega: ma comunque niente di che, una villetta piccolo borghese. Si può dire quel che si vuole, di Bossi: ma non che con la politica abbia fatto i soldi.

«Soprattutto da quando lui si è ammalato - racconta un importante leghista varesino - la signora è preoccupatissima per i figli.
Teme che all'università e nel mondo del lavoro vengano penalizzati perché si chiamano Bossi. Vuole allora che abbiano un futuro nel partito: dove, però, vede nemici dappertutto». La signora è Manuela Marrone, 57 anni, seconda moglie di Bossi e madre di Renzo, Roberto Libertà e Sirio Eridano. Un mese fa Bossi è andato su tutte le furie perché Panorama le ha dedicato un servizio. «Lasciate fuori mia moglie», ha urlato ai giornalisti, e avrebbe certamente ragione se la questione non fosse ormai diventata una bomba politica all'interno della Lega. Dove molti accusano la signora Manuela di essere il capo di quel "cerchio magico" che condiziona tutte le scelte di Bossi, alleanza con Berlusconi compresa. Insomma tra moglie e marito non mettere il partito.

A una settimana dal burrascoso congresso in cui Bossi è stato contestato, la situazione sta degenerando. Da giorni non si fa che parlare di una lista di proscrizione preparata proprio dal cerchio magico: elencherebbe 47 «maroniani» da espellere dalla Lega, tra i quali nomi eccellenti come lo stesso sindaco del capoluogo, Attilio Fontana. Immediatamente gli amministratori locali del Varesotto fedeli a Maroni si sono detti pronti a presentare una «contro lista nera» che punta diritto al cerchio magico. E non è cosa da poco perché i maroniani sono in netta maggioranza nel partito, oltre a Varese hanno molti sindaci importanti: a Tradate, a Morazzone, a Buguggiate, a Caronno Varesino, a Gazzada Schianna.

Ormai le sdegnate smentite dei vertici della Lega («le solite balle dei giornalisti, spazzatura») non bastano più. La guerra interna è pubblica. Se molti parlano solo dietro garanzia dell'anonimato è perché la tensione è altissima: però sono sempre più numerosi gli scontenti che escono allo scoperto: in tanti si sono sfogati sul quotidiano La Provincia di Varese, il primo ad aver tirato fuori la storia della black list con i 47 nomi. E lo stesso sindaco Fontana ha chiesto spiegazioni con una lettera al nuovo segretario provinciale, Maurilio Canton, imposto dal cerchio magico nel congresso bulgaro della scorsa settimana.

Canton dice che la lista non esiste. Ma che la guerra ci sia, e che sia combattuta pure a colpi bassi, è evidente.
Basta vedere su Internet il misterioso blog "Velina VerdE". È un attacco continuo a tutti i maroniani. Chi c'è dietro la Velina Verde?
Mah: la piattaforma internet è in Islanda, il server nelle Antille. I maroniani si dicono certi dello zampino del cerchio magico.
Nel mirino del blog c'è anche un'associazione culturale che si chiama "Terra Insubre", accusata di essere un centro di potere occulto dei maroniani. Uno degli animatori storici di Terra Insubre è un avvocato, Andrea Mascetti, considerato un ex simpatizzante dell’Msi: non è un caso che Bossi, dopo la contestazione della scorsa settimana, abbia parlato di «un gruppetto di fascisti». Anche se «di Terra Insubre - assicura un leghista varesino - al congresso non c'era nessuno».

Un brutto clima. «E tutto è nato - dicono i maroniani - quando la signora Manuela ha cominciato a preoccuparsi per suo figlio Renzo dopo le bocciature alla maturità. Ha iniziato a non parlarci più e a impedirci di parlare con Bossi. Si è convinta che Maroni abbia in testa chissà quali manovre per la successione. Invece, se c'è qualcuno che vuole bene a Bossi e ai suoi figli, è proprio Maroni».

Nipote di un martire della Resistenza (il siciliano Calogero Marrone, che da capo dell'Anagrafe del Comune di Varese forniva documenti falsi a ebrei e partigiani, e morì in un lager nazista), maestra elementare in pensione e ora direttrice di una scuola da lei fondata (la Scuola Bosina, a Varese), Manuela Marrone è sempre stata una donna riservata. La Lega è nata in casa sua: ma di lei si ricorda una sola intervista, quindici anni fa, a «Sette». L'ultima apparizione pubblica è a un comizio del marito a Cuveglio, nel settembre del 2010. Anche in quell'occasione non disse nulla. Ma nella Lega si sussurra che il vero capo sia lei, soprattutto da quando, nel marzo del 2004, il marito si sentì male. Attorno a quella sera sono circolate leggende metropolitane sulle quali è meglio lasciar perdere. Sta di fatto che da allora Bossi è sotto tutela di pochi fedelissimi guidati dalla moglie e dalla fedele Rosi Mauro, che da un anno ha preso casa a Gemonio a pochi metri dai Bossi. Ora si dice che proprio Rosi Mauro dovrebbe essere la protagonista di un nuovo repulisti, prendendo lei - al congresso che si terrà entro la fine dell'anno - il posto di segretario nazionale lombardo, che ora è del maroniano Giancarlo Giorgetti. Vero o falso? Se si andasse a voti, Giorgetti stravincerebbe. Insomma sarebbe una nuova battaglia di una guerra che, lo si voglia ammettere o no, è in pieno svolgimento.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/425131/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA - L'assist di Bruxelles al senatur
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:39:34 pm
25/10/2011

L'assist di Bruxelles al senatur

MICHELE BRAMBILLA

Il governo Berlusconi è stato dato per morto talmente tante volte che ormai viene da pensare che sia immortale. Magari in perenne agonia, ma immortale. Adesso, a una sola settimana dal voto di fiducia, è di nuovo in rianimazione. Ce la farà?

Non lo sappiamo. Ma questa volta pare si sia infilato in un pertugio senza vie d’uscita. Perfino il solito arruolamento di parlamentari dell’ultima ora sarebbe inutile.

C’è da superare una difficoltà ben più grave dei numeri alla Camera: l’appoggio della Lega a una riforma, quella delle pensioni, che l’Europa ha posto come condizione ineludibile.

Il problema è che anche Bossi considera le pensioni una condizione ineludibile: nel senso esattamente opposto, però, a quello richiesto dall’Europa. Su questo punto, il senatur pare non abbia alcuna intenzione di cedere. Ora, è vero che la Lega ci ha abituati a talmente tante retromarce - sulle aliquote Irpef, sul trasferimento dei ministeri, sulla guerra in Libia - che non ci sarebbe più da stupirsi di nulla. Però sulle pensioni è lecito pensare che non voglia fare retromarcia. Anzi, non possa.

Almeno per tre motivi. Primo: Bossi e i suoi ci hanno messo fin troppo la faccia, giurando sul «no» all’innalzamento dell’età pensionabile. Secondo: il 65 per cento delle pensioni di anzianità è al Nord e la Lega, andando a colpire i pensionati, andrebbe a svuotare il proprio bacino elettorale. Poi c’è il terzo motivo, che forse è quello determinante. Bossi sa che, se anche questa volta abbassa il capo «per non tradire l’amico Silvio», rischia di vedersi scappare di mano tutto il partito.

Per capirci: il grosso problema di queste ore di Berlusconi è che mai le sue difficoltà avevano coinciso così tanto con quelle di Bossi, cioè del suo più fedele alleato. Perché Bossi è in difficoltà? Perché la sua base gli chiede, con forza, di staccare la spina, di non trascinare il partito nel gorgo in cui rischia di sprofondare Berlusconi; gli chiede di tornare puri intrepidi e solitari come ai bei tempi. E vede, come possibile realizzatore di questo sogno, non più lui, il pur sempre amato ma ormai vecchio capo: bensì Roberto Maroni.

Tutto questo cova sotto la cenere da un pezzo. Però Bossi, per quanto possa sembrare incredibile, non se ne accorgeva. La ristretta cerchia che lo marca a uomo l’aveva convinto che certe voci erano le solite balle dei giornalisti. Ma c’è stato un momento, nei giorni scorsi, in cui è cambiato tutto: quando Bossi s’è visto contestare nella sua Varese. C’è un filmato, che il «Corriere della Sera» ha scovato e messo sul Web, in cui si vede un Bossi esterrefatto di fronte alle proteste dei delegati varesini per l’imposizione del nuovo segretario provinciale, di fronte alle grida «Vo-to vo-to» e «Bo-bo Bo-bo». Esterrefatto. Mai Bossi aveva assistito a una scena del genere, e mai aveva immaginato di potervi assistere.

Da quel momento, il senatur non è stato più lui. Non s’era mai visto infatti un Bossi così remissivo com’è stato qualche giorno dopo quando Flavio Tosi, uno dei principali dissidenti interni, ha detto che la Lega deve abbandonare Berlusconi. Prima Bossi ha reagito alla vecchia maniera, mostrando a Tosi il medio, dandogli dello stronzo e annunciandogli l’espulsione; ma poi, appena ventiquattro ore dopo, è dovuto passare dal bastone alla carota perché ha capito che come Tosi la pensa la stragrande maggioranza dei leghisti.

Paradossalmente l’ultimatum dell’Europa è ora un prezioso assist per Bossi. Il quale ha infatti la possibilità di staccare la spina su un tema, le pensioni, che è sempre stato suo; insomma senza dare l’impressione di aver ceduto alle pressioni dei «maroniani». Di fatto, Bossi ora può gestire lo strappo invocato da Maroni invocandone la paternità, e guadagnandosi di nuovo la standing ovation del popolo padano. Per quanto possa sembrare strano, sarebbe una soluzione gradita anche a Maroni, che otterrebbe ciò che vuole senza far la parte di chi fa le scarpe al vecchio amico e vecchio capo.

Questi i fatti. Poi, può darsi che Bossi accetti un compromesso sulle pensioni. Ma un compromesso non darebbe soddisfazione né al popolo leghista, né all’Europa. Ecco perché, nonostante tutto possa ancora succedere, la crisi di queste ore sembra davvero la più grave per Berlusconi e il suo governo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9360


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Irresponsabili il partito trasversale
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:56:04 pm
11/11/2011

Irresponsabili il partito trasversale

MICHELE BRAMBILLA

È nato un nuovo gruppo in Parlamento: quello degli Irresponsabili. È purtroppo molto numeroso. Lo compongono quei deputati e senatori che in queste ore non pensano agli italiani che temono di veder svanire i risparmi di una vita, o di perdere il lavoro: pensano a quale soluzione sarebbe più conveniente per la propria bottega.

Gli Irresponsabili stanno sia a destra sia a sinistra, sia fra i berlusconiani doc sia fra coloro che dell’antiberlusconismo hanno fatto la propria unica ragione sociale.

Di Pietro, per esempio. Ha tuonato contro Berlusconi per anni. E ora che Berlusconi cade, lui a che cosa pensa? Pensa che un governo Monti sarebbe una pacchia. Ma non per il Paese: Di Pietro pensa che sarebbe una pacchia per lui, che se ne starebbe fuori, facendo fare ad altri la partaccia di chiedere sacrifici agli italiani. Tra un anno e mezzo, il suo partito raccoglierebbe alle urne i frutti del malcontento.

Il caso della Lega è ancora più grave. Perché è più grave? Perché la Lega fa lo stesso ragionamento di Di Pietro - spera in un governo Monti per rimanerne fuori e guadagnare voti - ma con l’aggravante che, se siamo arrivati sull’orlo del precipizio, è anche per colpa di chi ci ha governato fin qui; e negli ultimi dieci anni la Lega è stata al governo per più di otto. Per pensare di rifarsi una verginità con un anno di opposizione occorre un bel pelo sullo stomaco: e in fondo anche una certa disistima dei propri elettori.

Provate poi a guardare l’elenco di coloro che, nel Pdl, non vogliono appoggiare un governo Monti. Pensiamo male se pensiamo che molti di loro corrispondono a chi nel nuovo governo non avrà più né posti né posticini? Anche nel Pd ci sono molti tormenti. La posizione ufficiale è quella di un appoggio a un governo di unità nazionale. Ma in realtà molti temono che una simile scelta verrebbe pagata duramente alle prossime elezioni.

Insomma il gruppo parlamentare degli Irresponsabili sta semplicemente pensando ai fatti propri. Che siano posizioni di potere personale o calcoli elettorali, non fa molta differenza. Sta girando in questi giorni quella frase di De Gasperi, «un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione» e c’è da sorridere, o da rabbrividire, se pensiamo a come simili parole possano scivolare via in certe coscienze.

L’altro giorno a Montecitorio un deputato ci diceva che secondo lui questa è la crisi più grave della storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Gli ho obiettato che forse gli anni del terrorismo furono più bui. «È vero - mi ha risposto - allora c’erano le bombe e i morti ammazzati per strada. Ma c’erano parlamentari che, davanti al pericolo, fecero fronte comune per sconfiggere il mostro. E ci riuscirono».

Come dargli torto? Dc e Pci, ideologicamente, erano ben più distanti di quanto non siano oggi il centrodestra e il centrosinistra.
Ma quando rapirono Aldo Moro, in piazza vedemmo le bandiere bianche scudocrociate accanto a quelle rosse con la falce e il martello.
E in Parlamento democristiani e comunisti votarono insieme le leggi per l’emergenza.

Appunto, «emergenza». È la parola che ovunque e in ogni tempo spinge maggioranze e opposizioni a collaborare per il bene del Paese.
In Italia, prima ancora che negli anni Settanta, accadde nel primo dopoguerra, quando c’era da ricostruire tutto. Churchill mise insieme laburisti e conservatori. Ma è inutile continuare a fare esempi: sarebbero infiniti.

Oggi non siamo in guerra, ma sicuramente in un gravissimo pericolo. Tutto fa pensare che la strada da provare sia quella di un governo di unità nazionale. Qualcuno può credere che, viceversa, sia meglio andare al voto. Quel che è certo è che tutte le opinioni sono rispettabili solo se sincere. Se sono motivate da interessi di parte, non sono rispettabili per nulla. Anzi, in un momento come questo sono molti simili allo sciacallaggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9422


Titolo: MICHELE BRAMBILLA L'appello della Carfagna: "Andare alle urne sarebbe dannoso"
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:31:31 am
Politica

12/11/2011 - INTERVISTA

"La Lega non pensi solo ai consensi elettorali"

L'sms di una fonte di Formigli a La7 "Silvio non lascia"

L'appello della Carfagna: "Andare alle urne sarebbe dannoso"

MICHELE BRAMBILLA
ROMA

Il consiglio dei ministri è appena terminato. Mara Carfagna sta per salire in macchina per raggiungere la sua Salerno, dove ha organizzato una scuola di formazione politica. Si prepara a una nuova vita? Sorride: «Se questo può contribuire al bene del Paese, sono ben lieta di lasciare il mio posto». Oggi sarà il suo ultimo giorno da ministro. Anche se l’altro ieri Europa, il quotidiano del Pd, le ha dedicato «Robin», la sua rubrica di prima pagina. Il titolo era «Totoministri»; il testo era: «Ehm, scusate, la Carfagna ce la potete lasciare?».

Quando fu nominata, su di lei si sprecarono le battute: espressione del berlusconismo, è ministro solo perché è bella, e così via. Ma meno di un anno dopo è arrivato il risarcimento di Dario Franceschini. Era l’aprile del 2009 e l’allora segretario del Pd disse in un’intervista a La Stampa: «Gli uomini hanno dimostrato tutto il loro razzismo inconsapevole, il loro tardo-maschilismo. Siccome è bella, si esclude che possa essere brava. Ma Mara Carfagna dice cose approfondite, è preparata».

Ministro, che cosa farà da domani?
«Le assicuro che non ci penso. Il mio obiettivo non è conquistarmi una posizione per il domani. Dobbiamo lavorare tutti per l’Italia, che è in un momento drammatico. Dobbiamo mettere il Paese al riparo con un governo largamente condiviso. Poi c’è il Pdl: un percorso politico che non va interrotto. Io credo anzi che il partito debba allargare il fronte dei moderati, e di questo progetto mi piacerebbe fare parte. Per quello che posso fare, con umiltà».

Per adesso però il Pdl è spaccato in due. Che cosa vi siete appena detti? Appoggerete un governo Monti o no?
«C’è ancora molta confusione. La situazione è complicata. È normale che nel partito ci siano posizioni diverse, e anche atteggiamenti diversi. Credo però che sia arrivato il momento di una sintesi».

Secondo lei si riuscirà in così poche ore a mettere tutti d’accordo?
«Io mi auguro che alla scelta si arrivi compatti».

E quale scelta si augura lei?
«Spero che si arrivi alla decisione che è stata auspicata dallo stesso presidente Berlusconi».

E cioè? Che cosa vi dice lui, in queste riunioni?
«Berlusconi ha fatto un sacrificio enorme. Si è fatto da parte. È stato un gesto di grande generosità nei confronti del Paese. La sua forza adesso sta nel contribuire a far nascere e rafforzare un nuovo governo».

Insomma: Berlusconi spinge per un governo Monti e lei è d’accordo con lui.
«Certo che sono d’accordo con lui. L’importante è che il partito resti unito».

Come mai questa volta nel Pdl non tutti seguono l’indicazione di Berlusconi?
«Ci sono posizioni diverse e sono tutte legittime. Ma credo che in questo momento siano in gioco interessi più importanti dei propri punti di vista particolari».

Qual è la scelta più facile per un politico, in una tempesta del genere?
«Quella di chiamarsi fuori. È facile anche perché si annuncia una stagione in cui si prenderanno provvedimenti impopolari. Chiamarsi fuori è facile ma non è un bene per l’Italia».

Ci faccia una percentuale: com’è diviso il partito? Cinquanta e cinquanta?
«Non me la sento di semplificare così. Ci sono posizioni che sono anche legate ai propri percorsi politici. Mi sembrerebbe ingeneroso schematizzare, dire che questo è per un governo di larghe intese e quell’altro per le elezioni subito. Credo che molti non abbiano ancora le idee chiare su che cosa sia meglio».

Lei ha le idee chiare?
«Io penso che le elezioni siano la strada maestra. Ma due o tre mesi di campagna elettorale sarebbero un tempo di instabilità troppo lungo per il Paese, che ne soffrirebbe. Non ce lo possiamo permettere. Non reggeremmo. L’Europa e il mondo chiedono all’Italia risposte tranquillizzanti e immediate».

Quindi lei non andrà alla manifestazione organizzata da Giuliano Ferrara a Milano per il voto subito?
«No, assolutamente».

Dicendo di no alle urne avete perso un alleato storico: la Lega.
«Mi auguro che la Lega ci ripensi. Mi auguro che capisca che non è il momento di pensare ai propri consensi elettorali. È il momento di pensare a salvare il Paese».

Come vede Berlusconi in questi giorni?
«Certo è provato, ma continua a sorprendermi per la sua grande forza d’animo».

L’altro giorno si è sentito male e il suo medico, il dottor Zangrillo, s’è detto preoccupato per la sua salute.
«Nessuno è una macchina, nemmeno Berlusconi».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429469/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il Cavaliere moderato tra azienda e politica
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 03:45:52 pm
Politica

16/11/2011 - LA CRISI LE MOSSE DI BERLUSCONI

Il Cavaliere moderato tra azienda e politica

I fedelissimi: «Di Monti dice che è bravissimo e intelligente»

MICHELE BRAMBILLA

«E' bravissimo, intelligentissimo...». Le persone che gli stanno più vicine raccontano che Silvio Berlusconi non fa altro che ripetere queste due parole sul conto di Mario Monti: «è bravissimo, intelligentissimo...». L'altra sera l'ha perfino accompagnato a fare un giro di Palazzo Chigi ed era tutto sorridente nel dirgli guardi che bello di qua, guardi che meraviglia di là.

E pare proprio non essere un atteggiamento di circostanza, né tantomeno un bluff. Per quanto possa sembrare incredibile, oggi Silvio Berlusconi è, nel centrodestra, il primo sponsor di Monti for president. La Lega com'è noto se ne è andata per i fatti propri.
Mezzo Pdl voleva le elezioni subito. I falchi poi gridano al colpo di Stato e al complotto dei poteri forti. Ma mentre succede tutto questo lui, Berlusconi, spegne i fuochi, invita alla moderazione, cerca di convincere.

Chi è stato, se non Berlusconi, a spingere il Pdl a dire di sì al governo Monti? Certo accanto a sé ha avuto le tradizionali colombe: Cicchitto, Frattini, Lupi, Fitto, Quagliariello eccetera. Ma in quel partito si sa che non muove foglia che Silvio non voglia: e quindi se alla fine è stato dato via libera a Monti è perché il capo ha voluto così. Non sfugga che solo l'altro ieri - l'altro ieri, non una settimana fa - la posizione ufficiale del Pdl era: sì a Monti, ma solo per un governo di pochi mesi. Ieri invece, appena ventiquattr'ore dopo, Alfano è andato dal presidente incaricato a dare un «sì» senza chiedere alcuna scadenza.

Tutto quello che sta accadendo in queste ore pare confermare che il discorso di domenica sera, quello del videomessaggio, era un discorso sincero. L'addio alle armi forse è un addio reale. Berlusconi ha detto che, pur sentendosi ferito dagli schiamazzi contro di lui, non vuole reagire. Quel «basta faziosità, basta aggressioni» va inteso non solo come un appello ai nemici, ma anche come un messaggio ai più scalmanati dei suoi. Perché?

La risposta sta forse in quello che ci ha raccontato un suo deputato dopo l'ufficio di presidenza del Pdl di sabato sera: «Lui alla Camera aveva un'espressione tetra, tradiva una tensione spaventosa. Dopo le dimissioni pareva sereno, rilassato, come se si fosse tolto un peso». I suoi più stretti collaboratori ora riferiscono che il Cavaliere fa questo ragionamento: «Sono successe due cose in contemporanea. Una è il tradimento di alcuni dei miei, che mi hanno fatto mancare i numeri in Parlamento. L'altra è il meteorite che ha colpito l'Italia, cioè la crisi finanziaria. Due sciagure. Ma paradossalmente, la prima mi ha permesso di salvarmi dalla seconda». Ma sì: ecco perché Berlusconi è così felice nel mostrare le stanze di Palazzo Chigi a Monti. è come se gli dicesse: adesso il fardello ce l'hai sulle spalle tu. Questo vuol dire che il Cavaliere ha deciso di ritirarsi a vita privata? No. Ma da uomo pratico qual è, ha bene in mente tre scenari. Il primo riguarda le sue imprese. Dalle quali è arrivato un appello pressante a fare il famoso passo indietro. Gliel'ha detto Confalonieri, gliel'ha detto Doris, gliel'hanno detto forse anche i figli, chissà. Di sicuro dopo il crollo in Borsa di Mediaset lui ha capito che non c'era tempo da perdere.

Il secondo scenario è quello giudiziario. Chi parla di una trattativa per ottenere una specie di salvacondotto, vaneggia. è ridicolo pensare che una qualsiasi istituzione dello Stato possa imporre a tutti i magistrati d'Italia di sospendere l'azione penale. Però è verosimile che dopo le dimissioni la pressione - soprattutto la ricaduta mediatica dei processi - si allenti.

Terzo scenario: quello politico e internazionale. Con la scelta di non arroccarsi sulle barricate Berlusconi ha guadagnato punti in Italia e all'estero. In questo modo può recuperare sia credibilità fuori dai confini, sia rapporti all'interno. La telefonata avuta l'altro giorno con Fini è stata un mero dovere istituzionale: anzi, per prassi il premier dimissionario avrebbe dovuto andarci, dal presidente della Camera, e non limitarsi a telefonare. Ma che un minimo di disgelo si sia avviato è dimostrato dai toni morbidi con cui Fini, l'altro ieri alla radio, ha commentato la conversazione, ammettendo che al momento del divorzio da Berlusconi qualche torto ce l'aveva pure lui.

Solo così, solo dando un seguito vero all'addio alle armi annunciato nel videomessaggio Berlusconi può sperare di avere ancora un ruolo importante in un centrodestra che inevitabilmente va ora scomponendosi per poi ricomporsi. Quando domenica ha detto che non si sarebbe arreso e che avrebbe raddoppiato gli sforzi, l'ormai ex premier faceva riferimento proprio a questo tipo di impegno. Non a scatenare una guerra a Monti con la logica del «tanto peggio tanto meglio». «Ora occorre però - ci diceva l'altro giorno il deputato pidiellino Osvaldo Napoli - che a sinistra facciano altrettanto e la smettano con certi toni. La pessima performance di Franceschini alla Camera ha rischiato di far saltare tutto». Dare l'addio a una stagione di risse non è solo una necessità imposta dal bon ton, ma la condizione per permettere al governo Monti di salvarci dal disastro. Impresa peraltro già difficile di suo.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430055/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Gli imbrogli della Lega
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 04:27:55 pm
3/12/2011

Gli imbrogli della Lega

MICHELE BRAMBILLA

Nella nostra candida ingenuità, quando abbiamo saputo che Roberto Cota e Luca Zaia avrebbero disertato l’incontro di domani tra governo e Regioni per partecipare invece alla riunione del «Parlamento del Nord», abbiamo pensato che il nuovo presidente del Consiglio avrebbe più di un motivo per sentirsi offeso.

In un attimo siamo stati però riportati sulla terra dalle notizie d’agenzia, dalle quali abbiamo appreso che lo screanzato è Mario Monti, e gli «offesi» Cota e Zaia. «È una provocazione, uno sgarbo istituzionale», ha detto il presidente del Piemonte della convocazione a Roma. «Si è voluto fissare l’appuntamento alla stessa ora della nostra riunione, c’è stata poca sensibilità», ha aggiunto il presidente del Veneto.

Come nella manzoniana notte degli imbrogli, nella versione leghista dei fatti le vittime sembrano i ribaldi, e viceversa.
Lo sgarbo istituzionale diventa la convocazione, da parte del governo, dei rappresentanti delle Regioni, non il dar buca all’appuntamento. Allo stesso modo una riunione in cui si dovranno illustrare misure attese da tutto il mondo diventa «un’inutile formalità», come l’hanno definita Cota e Zaia, mentre il «parlamento del Nord» è un’irrinunciabile assise istituzionale. È solo il caso di ricordare che, se Monti ha deciso di incontrare le Regioni la domenica, non è per un capriccio, ma perché per il giorno dopo è previsto il varo del pacchetto anticrisi; e di ricordare pure che oltre ai governatori sono stati chiamati a Roma anche i sindacati.

Ma la Lega pare ormai aver imboccato una strada che già più volte aveva scelto di seguire: quella che porta a un mondo di cartapesta popolato di ministeri mai aperti, di gazebo per referendum che decidono la secessione, di giuramenti sui sacri suoli e di riti dell’ampolla, di parlamenti del Nord che si spostano negli anni da una villa di campagna del Mantovano a un’altra di Vicenza e infine - come sarà domani - a un padiglione della Fiera perché la «sede-del-parlamento-del-Nord» è occupata per una festa di battesimo la mattina e una festa di laurea il pomeriggio.

Ci sarebbe da sorridere di questa specie di Paperopoli o Topolinia della politica. Ma dietro a questo ritorno al folklore a tempo pieno c’è un preciso calcolo politico: trarre profitto dal malcontento che le misure del governo Monti inevitabilmente provocheranno; tornare partito di lotta, cavalcare la protesta, far dimenticare di essere stati al governo quasi nove anni negli ultimi dieci e mezzo; e infine raccogliere i frutti alle prossime elezioni. E così i governatori di due regioni-chiave per l’economia italiana non si degnano neppure di sentire dal nuovo governo quali saranno le misure decise per affrontare la crisi: nella convinzione che optando per Vicenza piuttosto che per Roma daranno soddisfazione al proprio elettorato.

Ma davvero Cota e Zaia pensano, con questa scelta, di rappresentare i propri territori? Davvero sono sicuri che gli imprenditori del Nord li preferiscano al parlamento padano piuttosto che al tavolo con Monti, Passera, Fornero? Nei giorni scorsi il nostro Marco Alfieri ha saggiato gli umori degli amministratori locali e della piccola e media impresa del Varesotto e del Nord-Est - terre leghiste quant’altre mai - e dalle sue inchieste non emerge affatto un entusiasmo per l’Aventino deciso da Bossi. In un momento in cui tutti - anche chi si scannava fino a poche settimane fa - hanno firmato un armistizio per cercare di fronteggiare un’emergenza che fa paura, la Lega continua a vivere nel suo mondo parallelo e fantastico.

O perlomeno la Lega ufficiale. Perché sotto sotto i dubbi si stanno facendo strada. Più di un colonnello è perplesso di fronte alla scelta radicale decisa da Bossi. C’è chi pensa che stare all’opposizione sia anche giusto, ma che vada ridefinito il «come» starci.
Dicendo di no a tutto? Urlando che il Nord se ne va per i fatti suoi? O magari annunciando unificazioni con la Svizzera? C’è chi pensa che questi slogan non solo non servono a niente, ma non incantano più neppure i gonzi. Non è un mistero che Roberto Maroni, ad esempio, stia incontrando imprenditori e rappresentanti di categorie per cercare di capire che contributo la Lega possa concretamente dare, al di là del fumo degli occhi come l’inesistente parlamento del Nord che si riunisce domani.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9510


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Bossi scommette sul default dell’Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:09:39 am
Politica

05/12/2011 - LA CRISI PROVE DI SECESSIONE

Bossi scommette sul default dell’Italia

Il leader della Lega Umberto Bossi dal palco del "Parlamento del nord"

Il senatùr: in Europa c’è stata una guerra e ora bisognerà riscrivere i trattati e ridisegnare i confini

Michele Brambilla
Inviato a vicenza

Umberto Bossi compare sul palco del Parlamento del Nord alle 13,18. Non è in camicia verde: ha la giacca scura, una camicia azzurra e la cravatta. Ma il discorso che sta per fare è uno dei più rivoluzionari di sempre. Fa mostrare alle sue spalle una cartina dell'Europa sulla quale suo figlio Renzo ha colorato di arancione il nuovo Stato che sta per nascere. «Una macroregione», spiega il capo, «che comprenderà la Padania, la Svizzera, l'Austria, la Baviera e la Savoia».

Sembra stanco, non gli hanno alzato il microfono e a lui non viene in mente di alzarlo: così parla tutto curvo in avanti, appare più vecchio e malato del solito, la voce è fioca. Parlerà per soli nove minuti, alle 13,27 tutto sarà già finito. Forse è pure lui consapevole della troppa fatica che ha ormai accumulato, e infatti dice: «la gente che è qui non è venuta né per me né per nessun altro, ma per un' idea», e sembra quasi un testamento politico. Come tanti capi che avvertono l'imminenza del tramonto sente nostalgia delle origini, e infatti è a quelle che si richiama: la guerra allo Stato unitario, la secessione, l'indipendenza del Nord.

Ricorda di quando Gianfranco Miglio, nel 1994, gli rimproverò l'alleanza con Berlusconi: «Allora c'erano due strade: o allearsi per prendere i voti e andare a Roma per fare da là una battaglia politica e democratica, oppure scatenare la nostra gente». Non lo dice esplicitamente, ma fa capire quasi un pentimento per non aver seguito la seconda strada; e aggiunge che tuttavia non è mai troppo tardi: «È tempo di scatenarsi. La nostra gente è stanca di essere schiava, oppressa. Siamo pronti a partire».

Parla meno di quanto ha parlato a Pontida e a Venezia perché dà l'impressione di avere meno forza; infatti non grida neppure i soliti slogan, non scandisce il canonico «Padaniaaaa.... Libera!». Però questa volta il suo discorso pare più centrato, più lineare, più logico. Ovviamente ciascuno è autorizzato a pensare che ci sia della follia, in questa logica: ma di certo Bossi mostra un disegno preciso: «Miglio aveva capito che sarebbe stata l'Europa a fare la Padania. In Europa c'è stata una guerra, una guerra economica. Adesso è finita e l'Italia ha perso. Alla fine di ogni guerra si riscrivono i trattati e si ridisegnano i confini».

E i nuovi confini sono appunto quelli della cartina colorata dal Trota: un nuovo Stato che annette la Padania al Nord e abbandona l'Italia centro-meridionale a un destino nordafricano. «Al tavolo della pace», spiega, «noi padani ci presenteremo come popolo vincitore perché queste cose le diciamo da anni, lo sapevamo che l'Europa che stavano costruendo sarebbe fallita. L'Italia invece sarà lì come popolo sconfitto».

La logica del discorso di Bossi è insomma questa: scommettere sul default dell'Italia. Il fallimento economico riuscirà, secondo lui, là dove non sono riuscite né la politica le brigate in camicia verde. Una volta disfatta l'Italia, sarà automatica l'unificazione della Padania con i popoli del Nord. «Si apre ora una finestra importante nella storia, e noi dobbiamo essere pronti a buttarci. Il nostro popolo deve lanciarsi da questa finestra». Prima di lui Calderoli aveva spiegato che la scelta dell'opposizione non è stata fatta «per portare a casa dei voti ma per portare a casa l'indipendenza della Padania», e che d'ora in poi ogni leghista dovrà giurare per iscritto, al momento di prendere la tessera, che l'obiettivo è quello: la secessione.

«La Padania è possibile e presto diventerà realtà», aveva poi aggiunto Roberto Maroni, che dell'Italia è stato fino a poche settimane fa ministro degli Interni. E ora Bossi assicura che finalmente il nemico è vinto: «Il nostro oppressore ha perso. Ci ha solo portato via un po' di soldi, ma non ci ha sconfitto. Adesso bisogna combattere per la Padania. Poi la storia farà la sua parte. Ma noi avremo la coscienza a posto».

Più che un semplice «no» al governo Monti, quello «dei tecnocrati e dei banchieri», l'obiettivo della Lega tornata all'opposizione è dunque questo. La nostalgia dei tempi eroici è alimentata nel padiglione della Fiera di Vicenza da una commemorazione di Gianfranco Miglio nel decennale della morte. Non è un caso che proprio questa commemorazione, affidata al professor Stefano Galli, preceda immediatamente l'intervento di Bossi; che abbia, insomma, il posto più nobile nella scaletta.

Le foto sullo schermo ritraggono il professore ideologo della Lega d'antan insieme con l'allora Senatur. Sarebbe sconveniente ricordare come poi finì l'idillio, con Miglio che definisce Bossi «un incolto, buffone, arrogante, isterico, arabo levantino mentitore»; e con Bossi che replica definendo il suo ex mentore «una scoreggia nello spazio».

Parole che ora Bossi vuol far dimenticare per sempre, così come cercherà di far dimenticare che l'Italia che rischia il fallimento è stata governata, per nove anni negli ultimi dieci e mezzo, anche dalla Lega. È la sua sfida, forse l'ultima.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/433049/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il partito degli smemorati
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2011, 04:54:02 pm

19/12/2011
 
Il partito degli smemorati
 
MICHELE BRAMBILLA
 
È ricomparso ieri il più importante dei ministri del governo Berlusconi, Giulio Tremonti. Intervistato su Rai Tre da Lucia Annunziata, ha criticato la manovra del governo Monti: «Troppe tasse, pochi tagli alla spesa pubblica e niente per la crescita», ha detto in sintesi.

È probabile che, sentendolo, molti suoi colleghi di partito (o forse «ex» colleghi, visto che Tremonti ha cominciato la trasmissione dicendo che ormai «lavora in proprio», e l’ha finita non smentendo un suo passaggio alla Lega) si siano stropicciati gli occhi, credendo di sognare. Sono quei molti esponenti del Pdl che in questi anni hanno accusato proprio Tremonti di essere il «signor no» che ha bloccato ogni iniziativa volta alle liberalizzazioni, alla crescita, al taglio delle tasse. È vero che in questo Paese si dimentica tutto in fretta: ma ci vorrebbe un clamoroso deficit di fosforo per scordare che proprio all’interno del Pdl Tremonti è stato contestato da tutta un’ala (Brunetta, Crosetto e molti altri, per non dire di Martino che ormai da molto tempo è fuori dai giochi) che l’ha accusato di essere un ministro più statalista che liberista.

E non è un mistero che lo stesso Berlusconi abbia più volte considerato Tremonti un ostacolo alla linea che avrebbe voluto seguire.

Sempre facendo un piccolo sforzo di memoria, ci si ricorderebbe che nella manovra proposta in agosto da Tremonti era addirittura previsto un aumento dell’Irpef chiamato «contributo di solidarietà», nome un po’ beffardo perché di solito si solidarizza con i terremotati e con gli alluvionati, non con il debito pubblico. Furono due quotidiani di centrodestra come «il Giornale» e «Libero» a fare una campagna contro quell’aumento delle tasse, che alla fine fu ritirato dal governo.

Ma d’altra parte proprio lo stesso Tremonti ieri da Lucia Annunziata ha ricordato quanta ostilità abbia ricevuto, all’interno del Pdl, per le sue scelte considerate «poco coraggiose», tutte rivolte al contenimento dei conti e non allo sviluppo. «Dopo le sconfitte elettorali di maggio - ha detto - ci sono stati interventi estemporanei nella nostra coalizione da parte di personaggi che volevano più coraggio, non comprendendo che interventi di quel tipo si sarebbero potuti fare solo in Paesi senza debito pubblico». Più avanti ha aggiunto che la maggioranza è andata in crisi proprio perché «da maggio in poi è emersa una classe politica che non voleva seguire il rigore».

E dunque come può Tremonti oggi criticare una manovra che è certo criticabile, ma che va in gran parte nella direzione di quelle che ha fatto lui, e che è perfino stata scritta da molti uomini che erano con lui al ministero dell’Economia? Ieri Tremonti, poi, ha detto pure che uno dei gravi problemi dell’economia italiana è la mancanza di libertà, visto che «un imprenditore non può neanche tirare su un muretto». Giustissimo: però da chi è stata governata, l’economia italiana e non solo l’economia, negli ultimi dieci anni?

Ma sarebbe sbagliato accusare di incoerenza solo Tremonti. Il suo è un atteggiamento molto diffuso. Lo stiamo vedendo in queste quattro settimane di governo Monti: da Berlusconi che dà del disperato al nuovo premier alla Gelmini che si lamenta per la manovra e per le tasse; dai deputati del Pdl che disertano l’Aula perché hanno il mal di pancia alla Lega che urla contro Roma e contro la crisi. Tutte cose comprensibili e a volte condivisibili. Ma a tutti costoro viene spontaneo rivolgere la stessa domanda di prima: scusate, non c’eravate voi, al governo, fino a un mese fa? E non ci siete stati per otto anni negli ultimi dieci?

La smemoratezza di questi giorni è in realtà un qualcosa di già visto, un vizio che colpisce tutti, destra e sinistra e in fondo ognuno di noi, che appena passiamo da un ruolo di governo (di qualsiasi genere) a un ruolo di opposizione (di qualsiasi genere) ci dimentichiamo quanto sia difficile fare e quanto sia facile criticare.
 
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9563


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Scandalo al Pirellone: super liquidazione all'arrestato
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2011, 12:32:30 pm
22/12/2011

Scandalo al Pirellone: super liquidazione all'arrestato

MICHELE BRAMBILLA

Il fatto è semplice: la Regione Lombardia ha deliberato di versare una liquidazione di 340.000 euro e un vitalizio di cinquemila euro al mese a Franco Nicoli Cristiani, che l’altro ieri s’è dimesso da vicepresidente del Consiglio regionale e da consigliere. L’antefatto è un po’ meno semplice: Nicoli Cristiani non si è dimesso perché è stufo di fare politica e vuol dedicarsi al suo hobby preferito, ma perché il 30 novembre scorso è stato arrestato con l’accusa di avere intascato una tangente di centomila euro per autorizzare una discarica di rifiuti tossici.

Come sempre in questi casi, ci sono anche delle premesse da fare. La prima: i 340.000 euro sono esattamente il trattamento di fine rapporto fissato dalla legge per chi, come Nicoli Cristiani, ha fatto quattro legislature da consigliere regionale; stesso discorso per il vitalizio: non c’è un solo euro che non spetti di diritto. Seconda premessa: stiamo parlando di una persona che non è ancora stata condannata, anzi che non è ancora stata neppure rinviata a giudizio, e quindi non può essere considerata colpevole.

A rigor di norme, dunque, le cose devono procedere così: il politico arrestato incassa Tfr e vitalizio; se poi sarà condannato, risarcirà i danni. Questo a rigor di norme. Ma a rigor di logica e di buon senso, non si può dar torto a chi reagisce a notizie del genere con sbigottimento e anche con rabbia. Ieri il presidente del Senato Schifani ha tirato un po’ le orecchie ai giornalisti, dicendo loro che spesso alimentano nella gente un pericoloso sentimento di «antipolitica»: avrà le sue ragioni, ma sarebbe interessante sapere se pensa che anche una vicenda come questa rientri nelle esagerazioni della stampa. O se spesso non siano gli stessi politici a dare di sé l’idea di una (tanto per usare un termine abusato) «casta».

Intanto, le stesse cifre in ballo fanno immediatamente scattare paragoni imbarazzanti. Quale lavoratore, anche dirigente d’azienda, prende 340.000 euro più un vitalizio di cinquemila euro a mese per vent’anni di servizio? Possiamo pensare davvero che gli italiani debbano digerire somme del genere proprio nel momento in cui si chiede loro di andare in pensione più tardi? Altro paragone imbarazzante: un dipendente di una ditta privata che venisse arrestato con l’accusa di aver rubato sul lavoro, sarebbe invitato a dimettersi con tutti i diritti e le prebende, o verrebbe licenziato in tronco?

Ma poi: che questa sia una di quelle notizie destinate a dar scandalo, è testimoniato dalle parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio Regionale, il leghista Davide Boni (e quindi alleato con Nicoli Cristiani, che è del Pdl). «Ci aspettiamo un segnale importante dalla giunta», ha detto Boni, che suggerisce a Roberto Formigoni una via d’uscita. Se infatti la Regione si costituisse parte civile, il Tfr e il vitalizio verrebbero congelati; in caso contrario, i pagamenti dovrebbero essere eseguiti entro sessanta giorni. «Non sono convinto che la costituzione di parte civile possa bloccare liquidazione e vitalizio - dice Pippo Civati, consigliere regionale del Pd - ma in ogni caso la giunta la dovrebbe presentare, anche per dare un segnale politico».

Interpellato, Formigoni fa sapere dal suo staff che tecnicamente la Regione non si può ancora costituire parte civile, non essendoci un rinvio a giudizio; e che comunque sta valutando la possibilità di farlo. Decidesse per il no, ci sarebbe da stupirsi. Intanto perché, poco dopo l’arresto di Nicoli Cristiani, Formigoni intervenne in aula con parole molto dure. E poi perché darebbe l’impressione che le istituzioni non si sentono danneggiate da chi finisce in galera per corruzione. Il che sarebbe un danno ancora maggiore dei 340.000 euro che stanno per uscire dalle tasche dei contribuenti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9572


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Calderoli: "Il cenone? Monti smetta di fare il maestrino"
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 11:26:03 am
Politica

06/01/2012 - intervista

Calderoli: "Il cenone? Monti smetta di fare il maestrino"

"Meglio Berlusconi: le cene le faceva a Palazzo Grazioli"

Michele Brambilla
Milano

Il giorno dopo Roberto Calderoli non ripone la clava, anche se è rimasto solo ad agitarla. Ha chiesto le dimissioni di Monti per il cenone a palazzo Chigi con i familiari ma, pur in un momento in cui i politici sono nel mirino, non è facile trovare qualcuno che accusi di scialo un premier che pare la reincarnazione di Quintino Sella: niente stipendio, spesa al mercato, al lavoro durante le feste.

Ministro...
«Senatore. Non sono più ministro».

Ah, già: a proposito di forme da rispettare. Senatore, lei fa un’interrogazione e Monti le risponde elencando i negozi in cui la moglie ha comperato i tortellini e il cotechino. Non le pare di aver preso un abbaglio?
«Si è creato ad arte un certo equivoco. Nessuno si è mai sognato di pensare che Monti avesse fatto pagare la cena allo Stato».

E quindi dov’è lo scandalo?
«Non s’è mai visto un presidente del Consiglio che utilizza palazzo Chigi per una cena di capodanno o di Natale».

Ma Monti era a Roma per lavorare. Preferiva un premier a Cortina?
«In quel momento non stava lavorando. Avesse cenato con, che so, dei politici stranieri, capisco. Ma era lì con i suoi familiari».

Un premier ha l’appartamento lì, come il capo dello Stato ce l’ha al Quirinale, no?
«No. Al Quirinale c’è una residenza, a palazzo Chigi un alloggio di servizio. È diverso».

Francamente non sembra grave una cena con figli e nipoti.
«E invece è assolutamente inaccettabile. Se nessun premier l’ha mai fatto prima, ci sarà pure un motivo. Lei ha mai visto un sindaco fare il cenone in municipio con la famiglia?».

Monti assicura di non aver speso un centesimo pubblico. Ha spiegato che nel palazzo era aperto solo il suo alloggio, e che non c’era personale di servizio.
«Forse non ci saranno stati i camerieri, anche se non mi vedo la signora Monti che sparecchia e lava i piatti. Ma sicuramente c’erano quelli della sicurezza e c’erano i commessi. O lei crede che sia sceso Monti ad aprire il portone?».

Lei ha mai fatto cene di famiglia al ministero?
«Mai. L’avessi proposto, avrebbero chiamato il 118».

Voi della Lega siete stati alleati per anni con Berlusconi, che di feste se ne intendeva. Non avevate nulla da eccepire allora, e adesso vi scandalizzate per una cena di famiglia?
«Berlusconi le feste se le pagava di tasca sua, ad Arcore o a Palazzo Grazioli».

Dove però gli ospiti arrivavano con auto della scorta pagate dallo Stato.
«Io non ho mai letto un comunicato in cui Berlusconi dice: i miei ospiti sono stati scortati da polizia e carabinieri. Invece ho letto un comunicato in cui Monti dice: la mia famiglia ha fatto il cenone a palazzo Chigi».

E tanto basta per chiedere le sue dimissioni?
«Il fatto è che Monti è un po’ troppo supponente. Fa vedere che lui si sposta in treno, che la moglie fa la spesa al mercato, insomma dà lezioni di rigore e di morale. E quando uno fa il maestrino, deve essere inattaccabile».

Lei mette in dubbio la rettitudine di Monti?
«Metto in dubbio che sia un tecnico. Quell’immagine di uomo integerrimo e sobrio gli serve per raggiungere un obiettivo politico».

Secondo lei Monti vuole ricandidarsi a premier nel 2013?
«No, lui ha in mente il percorso di Ciampi: vuole il Quirinale. A premier candideranno Passera».

Senatore Calderoli, davvero non ritirerà la sua interrogazione?
«Ci mancherebbe. Voglio una risposta nelle sedi istituzionali, non mi accontento certo di un comunicato stampa».

Chiederà le dimissioni?
«Dipende. Se Monti scenderà un po’ sulla terra fra i comuni mortali, vedremo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/437108/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il doppio volto della Lega garantista a giorni alterni
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:39:30 am
11/1/2012

Il doppio volto della Lega garantista a giorni alterni

MICHELE BRAMBILLA

La giornata di ieri ci ha regalato un meraviglioso spaccato di come è intesa nel nostro Paese la questione morale.

Dunque: in nome appunto della questione morale, la Lega Nord ha votato a favore dell’arresto del deputato del Pdl Nicola Cosentino, che la Lega stessa aveva fino a pochi mesi fa più volte salvato dall’arresto medesimo in nome della battaglia contro il moralismo giustizialista.

Sempre ieri, nella Lega che votava a favore dell’arresto di Cosentino si discuteva dell’un po’ imbarazzante caso del suo segretario amministrativo Francesco Belsito. Costui è un signore di cui fino all’altro giorno si sapevano solo due cose: che portava le focacce liguri alle riunioni di via Bellerio e che aveva millantato due lauree mai conseguite. Niente di male, nemmeno i falsi titoli di studio, visto che Belsito milita in un partito guidato da un ex finto medico, quindi tutto torna.

Ora però si è scoperto che Belsito ha preso svariati milioni di euro dalle casse del partito e li ha investiti non in Padania, bensì in Tanzania, a Cipro e in Norvegia. Passi per la Norvegia e forse anche per Cipro: ma la Tanzania i militanti proprio non la mandano giù. E così nel partito è scoppiata una rivolta.

Tuttavia non è neppure l’investimento all’estero a colpire. Colpisce piuttosto l’atteggiamento dei vertici leghisti. Nello stesso giorno - ripetiamo - in cui la Lega vota per l’arresto di Cosentino, i suoi dirigenti tacciono o fanno spallucce per il caso-Belsito. Intervistato dalla Rai, Roberto Castelli (che è stato ministro della Giustizia) ha risposto testualmente così: «Sono problemi interni al partito, non capisco che cosa ve ne debba fregare a voi». Ora, a parte la sintassi padana, andrebbe sottolineato che i soldi investiti in Tanzania vengono dai rimborsi elettorali (che la Lega ha incassato per 140 milioni solo negli ultimi dieci anni, ringraziando Roma ladrona) e quindi sono denaro pubblico; così come un personaggio pubblico è Belsito, sottosegretario di un ministero fino a due mesi fa.

Al di là dei casi specifici, quel che emerge è il ripetersi di un vecchio vizio: la questione morale viene agitata solo quando e se fa comodo. La Lega delle origini applaudiva le inchieste di Di Pietro perché le spianavano la strada. Poi s’è alleata a Berlusconi e allora guai a dar retta a quei giacobini dei magistrati: era pronta perfino a difendere i parlamentari del Sud accusati di mafia o camorra. Adesso è tornata all’opposizione e vuole riapparire limpida e pura ai propri elettori, così dice di sì all’arresto di Cosentino; però della Tanzania non si capisce bene che cosa ce ne debba fregare a noi.

La grande assente non è solo la coerenza: è anche la buona fede. Non è - sia chiaro - solo la Lega a comportarsi così. Parliamo della Lega perché alla Lega si riferiscono le vicende di ieri: ma sono in molti a prendere posizione sulle inchieste e sugli scandali solo in funzione di un calcolo di parte. Infatti è caduta anche qualsiasi oggettività nella valutazione dei fatti, e ogni cosa è grave o lieve a seconda di quel che conviene: nei giorni scorsi gli stessi che hanno difeso i milionari nullatenenti di Cortina si sono scandalizzati per un cotechino a Palazzo Chigi, per giunta pagato dalla sciura Elsa.

Insomma siamo un Paese di garantisti o giustizialisti a corrente alternata, a seconda di come butta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9635


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Nella Palermo dei "forconi" in coda per fare benzina
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:23:24 am
Cronache

22/01/2012 - LIBERALIZZAZIONI LE PROTESTE

Nella Palermo dei "forconi" in coda per fare benzina

Lunghissima attesa Code di chilometri per fare il pieno di benzina: così i siciliani si preparano a un’ulteriore settimana di disagi nonostante il movimento abbia deciso di spostare la protesta a Roma

La città bloccata dalla rivolta e dalla crisi, nei negozi scarseggiano latte e altri alimentari

MICHELE BRAMBILLA
inviato a Palermo

Arrivato a Palermo per descrivere in diretta il caos, la rivolta, i blocchi stradali e gli assalti ai supermercati, ho avuto il sospetto di avere sbagliato aereo e di essere atterrato a Lugano: poco traffico, niente chiasso, direi quasi un po’ d'ordine. Se non proprio la Svizzera, ieri Palermo sembrava l’area C della Milano di Pisapia.

Naturalmente le apparenze ingannano. La quiete segue una tempesta, riassumibile per sommi capi così. Una settimana fa è scattata in tutta l’isola una rivolta che vede fianco a fianco gli autotrasportatori, gli agricoltori e i pescatori. I primi lamentano il prezzo del carburante, che spesso in Sicilia è più alto. I secondi dicono: noi vendiamo la nostra merce a pochi centesimi e la ritroviamo sugli scaffali dei supermercati maggiorata dieci volte. Per mostrare che non ne possono più, sia i primi che i secondi si sono organizzati con blocchi stradali che hanno impedito ai Tir di distribuire carburante e generi alimentari. Così, leggiamo sui giornali e sentiamo in tv da qualche giorno, «i siciliani sono allo stremo». Vengono raccontate scene da tempo di guerra. Se non se ne parla più di tanto è solo perché il peggior nemico dei rivoltosi si è rivelato il comandante Schettino, che ha spostato l’attenzione.

I rivoltosi si sono autobattezzati «movimento dei forconi», un nome che vuol dare e dà l’idea dei braccianti incavolati; ma siccome in Italia non c’è movimento o gruppo spontaneo che non abbia come i partiti le sue brave correnti, anche qui ne è sorta una che si chiama «forza d’urto» e che sarebbe l’unica un po’ politicizzata, facendo capo a elementi di Forza Nuova. In ogni caso il movimento tiene a sottolineare la propria natura spontanea, anche se molti sospettano che la mafia sia riuscita a prenderne la guida. Ivan Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana, l’ha detto chiaramente. Di certo c’è qualche episodio più che sospetto: ad esempio a Gela, Lentini, Augusta e Priolo i negozianti che non volevano partecipare alla serrata si sono visti le vetrine fattea pezzi.

Di fronte a tutto questo la forza pubblica - che di solito interviene per molto meno - non è intervenuta. I politici si sono limitati a qualche timido incontro con una delegazione dei forconi. La situazione è talmente grottesca che ieri il «Giornale di Sicilia» in prima pagina doveva prendere atto che «gli organizzatori della protesta hanno comunicato l’intenzione di andare avanti ancora per una settimana» e «dalle autorità è stata concessa questa proroga». Nel Paese delle proroghe si possono prorogare anche i blocchi stradali.

E dunque perché, con tutto questo macello in corso, ieri mattina Palermo sembrava una città perfino più gradevole del solito? Ma è semplice. Perché dopo sei giorni di blocchi i palermitani non avevano più la benzina per circolare. E poi a Palermo si risente della crisi più che altrove, quindi lo shopping è un lusso per pochi. La sensazione svizzera di ieri nascondeva dunque una specie di coprifuoco a luce diurna.

Ieri ho girato per Palermo e il racconto che segue non ha certo la pretesa di spiegare la Sicilia e la sua crisi: è solo la testimonianza del forestiero che si imbatte in una città descritta dai media più o meno come la Parigi assediata ai tempi della Comune, quando i parigini per sopravvivere inventarono il ragoût (da «ratti al gusto», cioè topi cucinati con il pomodoro). In realtà a Palermo la situazione alimentare è molto meno drammatica di quanto viene raccontato. I prodotti che scarseggiano sono alcuni tipi di pesce, carni rosse, latte, scatolame, qualche detersivo: ma non è che manchino del tutto, solo vengono messi sugli scaffali un po’ per volta per evitare le razzie.

Quel che è mancata davvero per tanto tempo è la benzina. Comincio il giro mattutino in via Crispi e vedo almeno 500 metri di auto in coda a un benzinaio: dalla mezzanotte di venerdì hanno infatti allentato i blocchi e le pompe sono state rifornite. Proseguo: Brancaccio, Sette Cannoli, Ponte dell'Ammiraglio, Stazione centrale, mercato ortofrutticolo in via Monte Pellegrino, via Libertà. Ovunque pochissimo traffico e code chilometriche (ne segnalano una di sei chilometri fino all’ospedale Cervello). Non so quanto possa crederci il lettore nordista: ma sono code ordinate. «Mai vista una Palermo così civile: nessuno che si lamenta, nessuno che tenta di superare gli altri», dice Gigi Mangia, ristoratore e presidente dei pubblici esercizi di Palermo. Ha fatto tre ore di coda in via Notarbartolo e ce l’ha fatta in extremis: gli ultimi 50 euro nella pompa li ha presi lui. Nel primo pomeriggio cominciano a spuntare cartelli di questo tipo: la benzina è finita, ci scusiamo per il disagio, ma domani saremo aperti.

Semmai ci sono episodi di sciacallaggio. «Abbiamo segnalazioni di benzina venduta, nei giorni scorsi, a 3-4 euro al litro», dice Tony Siino, 35 anni, che ha un blog molto seguito (Rosalio.it) sul quale i giovani palermitani commentano la rivolta («quasi sempre criticandola per gli effetti negativi sui cittadini», dice Tony) ma soprattutto dando informazioni di servizio: ecco dove trovare cosa.

Rivolta strumentalizzata dalla mafia? Può darsi, «ma il disagio è reale», dice Lia Vicari, direttrice della Libreria Feltrinelli di via Cavour, che è ormai molto più di una libreria ma un luogo di aggregazione: aperta nel 1985 su 150 metri, oggi è su 1500. «Ci sarà chi specula sulla protesta - dice ma la crisi c’è. In centro stanno chiudendo molti negozi storici». Come uscirne? «Credo sia arrivato il momento in cui ciascuno di noi debba chiedersi che cosa può fare per la città, e smetterla di aspettare che altri risolvano i nostri problemi». Una ricetta kennediana. Quanto mai attuale anche perché dai politici non pare ci si possa aspettare molto: a maggio si vota per il sindaco e nessuno si vuole candidare, né a destra né a sinistra. Palermo è una grana in cui è meglio non infilarsi.

DA - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/439272/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Ma i politici non lo sanno
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2012, 09:58:57 am
1/2/2012

Ma i politici non lo sanno

MICHELE BRAMBILLA

L’ altra sera abbiamo acceso la radio e sentito che i nostri deputati si erano finalmente - dopo tante promesse - tagliati lo stipendio.

Uno di loro è intervenuto quasi commosso al microfono: «Abbiamo rinunciato a settecento euro netti al mese».

Un comunicato ufficiale di Montecitorio esprimeva tutto il possibile autocompiacimento.

Il giorno dopo, cioè ieri, la stragrande maggioranza dei giornali italiani titolava così: i parlamentari si sono ridotti lo stipendio di 1.300 euro lordi. Siamo un popolo di pigri e spesso ci fermiamo ai titoli. Chi si è preso la briga di leggere anche gli articoli ha scoperto una realtà diversa. E cioè: nelle scorse settimane lo stipendio dei parlamentari, dopo la fine del ricco vitalizio e il passaggio al sistema contributivo già in vigore per noi mortali, era schizzato in su di milletrecento euro lordi: ai quali i parlamentari, in un rigurgito di responsabilità, hanno ora rinunciato. Quindi nessun taglio, tutto resta come prima: l’indennità mensile inchiodata a sobri 11.200 euro.

Giriamo pagina. Alla Rai - che in questi giorni ha gentilmente chiesto il pagamento del canone (a proposito: diffondere i dati su quanti pagano e quanti no sarebbe un interessante omaggio alla trasparenza) - sono stati nominati il direttore del Tg1 e quello dei Tg regionali. Infuria la polemica perché le poltrone sono finite la prima a un uomo in quota Pdl, la seconda a un uomo in quota Lega. Il tutto con una votazione 5 a 4, con voto determinante di un tale Antonio Verro il quale, oltre a essere consigliere della Rai, è anche deputato Pdl.

Passiamo a un’altra storia di doppi incarichi. Solo l’altro giorno il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha rinunciato alla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche e il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha lasciato il Parco scientifico di Trieste. L’hanno fatto oltre due mesi dopo la loro nomina a ministri, nonostante una norma vieti ai titolari di incarichi di governo di «ricoprire cariche o uffici in enti di diritto pubblico». E l’hanno fatto obtorto collo, dopo settimane di polemiche e a poche ore da una decisione dell’Antitrust che si annunciava negativa per tutti e due.

Che cosa tiene insieme queste tre storie? Provo a sintetizzare: una preoccupante incomprensione di quanto sta vivendo e provando il popolo italiano.

Cominciamo dalla prima storia. In un momento in cui si dà (giustamente) la caccia allo scontrino fiscale e si chiedono (inevitabilmente) ulteriori sacrifici a chi già pagava le tasse, ci si aspettava che i parlamentari dessero il buon esempio: invece niente. Ma la cosa più grave è che hanno sbandierato un penoso barbatrucco per far credere che si erano ridotti lo stipendio. Evidentemente pensano che gli italiani, oltre che pigri, siano anche fessi.

Allo stesso modo, della vicenda Rai non scandalizzano tanto le nomine partitiche (che ci sono sempre state) quanto il fatto che si continuino a farle in un momento in cui i partiti avevano dichiarato di fare un passo indietro; e per giunta comportandosi come se in Parlamento ci fosse ancora la vecchia maggioranza. Per di più, si forza la mano con il voto determinante di un uomo che ricopre due incarichi - consigliere Rai e parlamentare - palesemente incompatibili fra loro.

Infine, Profumo e Clini. Non è in discussione la moralità (nessuno dei due ha mai percepito il doppio stipendio) ma la sensibilità: con l’aria che tira, un ministro che ha pronto un incarico per il «dopo» non può chiedere agli italiani di accettare - ad esempio - la precarietà.

E a proposito di sensibilità. Il 17 febbraio sono giusto vent’anni dall’inizio di Mani Pulite, un’inchiesta che spazzò via un’intera classe dirigente. Per almeno due mesi, di fronte al clamore per le indagini i politici guardavano noi cronisti giudiziari con un sorrisetto di compatimento: non capite niente, dicevano, presto Di Pietro finirà a Gallarate a fare il vigile urbano. Invece erano loro a non capire nulla, chiusi com’erano in un mondo virtuale. Non capivano che il vento stava cambiando davvero. L’avrebbero capito solo al momento delle elezioni, travolti dal voto popolare, e ormai era troppo tardi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9718


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il moralismo trasversale
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 11:20:21 am
10/2/2012

Il moralismo trasversale

MICHELE BRAMBILLA

Da qualche giorno, prima sul Web e poi sui giornali, i figli dei ministri del governo Monti sono diventati oggetto di una forsennata caccia allo scandalo.

Si spulcia in buste paga, lettere di assunzione, eventuali concorsi, lauree diplomi pagelle delle elementari e lavoretti dell’asilo nel tentativo di trovare qualche macchia.

La prima a finire nel mirino è stata Silvia Deaglio, figlia del ministro del Welfare Elsa Fornero. La sua colpa? Essere una professoressa universitaria come mamma e papà. Non importa se lei è a Medicina e i genitori a Economia; così come non importano le sue pubblicazioni, i concorsi vinti, i meriti scientifici (si occupa di genetica e tumori) riconosciuti in Italia e all’estero: il fatto è che ha un posto fisso. Dopo Silvia Deaglio, l’esercito della salvezza si è stracciato le vesti perché il figlio del ministro Cancellieri (42 anni) fa il manager; e quello di Monti addirittura passerebbe, leggiamo testualmente in un blog, «da una banca all’altra». Insomma lo scandalo è che costoro non sono disoccupati.

Chiariamo subito. Trasparenza e rettitudine sono un dovere non solo per chi ricopre incarichi di governo, ma anche per i loro familiari: era così già per la moglie di Cesare. Ed è sicuramente provvidenziale l’esistenza di sentinelle sempre pronte a scoprire e denunciare.

Ma la maxi indagine scattata in questi giorni sui «figli del governo» ci pare giunta a conclusioni demenziali. Non avendo trovato alcunché di illegale o di immorale, si è arrivati a contestare a Silvia Deaglio di essere brava perché, essendo figlia di accademici, ha respirato in casa l’arte della docenza universitaria. È una colpa? Guido Carli, che fu governatore della Banca d’Italia, un giorno rispose così a chi accusava suo figlio di aver fatto carriera grazie alla famiglia che l’aveva fatto studiare: «Non tutti hanno la fortuna di nascere trovatelli».

Occorre tutto il moralismo di questo periodo per non vedere la differenza tra chi si fa avanti nella vita per raccomandazioni, spintarelle, intrallazzi e imbrogli e chi invece ha magari un nome importante ma non ha rubato niente a nessuno. È un moralismo direi trasversale. Nasce infatti a sinistra, come giacobinismo invasato che pretende da ogni singolo essere umano una sorta di immacolata concezione. Dimenticando che non esiste e non potrà mai esistere alcun uomo o alcuna donna che non abbia qualcosa da farsi perdonare, questo giacobinismo finisce sempre con il trovare un peccato da sbattere in faccia a chiunque eserciti una pubblica funzione. È il moralismo degli indignati in servizio effettivo e permanente: sempre pronti, naturalmente, a indignarsi solo per i vizi altrui.

Ma un moralismo speculare e opposto è arrivato anche a destra, dove non par vero, oggi, di poter rendere pan per focaccia agli accusatori di ieri. Dicono: voi ci avete contestato reati processi e scandali sessuali, e noi vi sbattiamo in faccia il cotechino di capodanno a Palazzo Chigi. Chi fino a ieri diceva embè che cosa c’è di male se un deputato è indagato per mafia, oggi trova immorale che la figlia di un ministro faccia l’oncologa. La parola d’ordine è «così fan tutti», e non si distingue fra travi e pagliuzze.

I due moralismi hanno tuttavia lo stesso obiettivo: la paralisi dell’avversario. Visto da sinistra, il governo non può riformare l’articolo 18 perché qualcuno dei figli dei ministri ha un lavoro a tempo indeterminato. Visto da destra, il governo tecnico la smetta di dare la caccia agli evasori fiscali perché Monti si è fatto tagliare i capelli di domenica quando il barbiere avrebbe dovuto restare chiuso (giuro che un parlamentare di destra l’ha detto).

Iddio ci scampi, quindi, dagli opposti estremismi del moralismo. Anche perché sappiamo dove portano. Quelli che vorrebbero tutti innocenti, di solito finiscono con il ghigliottinarsi fra loro. E quelli che vorrebbero tutti colpevoli, finiscono con l’autoassoluzione e l’impunità collettiva.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9757


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Dove sbaglia Adriano
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 12:20:50 pm
20/2/2012

Dove sbaglia Adriano

MICHELE BRAMBILLA

Se è vero che il Festival di Sanremo è una spia degli umori degli italiani, proviamo a vedere se il «caso Celentano» ha qualcosa da dirci.

Come mai l’ex ragazzo della via Gluck è stato tanto criticato? Non solo dai giornali, ma anche dal pubblico: non si era mai vista all’Ariston una contestazione in diretta come quella dell’altra sera: e chi continua a pensare che si sia trattato di una gazzarra organizzata, non ha capito o peggio non vuol capire (torneremo tra poco sul punto). Dicevamo: come mai tante reazioni negative?

Nei contenuti Celentano ha preso un paio di stecche anche pesanti - gli insulti ad Aldo Grasso e l’invocata chiusura di due giornali ma ha anche lanciato spunti tutt’altro che trascurabili. Quando dice che oggi, nella predicazione del clero, sono quasi scomparsi quelli che una volta si chiamavano «i Novissimi» (morte, giudizio, inferno e paradiso) Celentano ha perfettamente ragione: chiunque abbia frequentazione domenicale con la messa lo sa benissimo; chi legge le prolusioni della Cei ahimè lo sa ancor meglio. Quando poi dice che dobbiamo essere felici di essere nati perché abbiamo un destino di vita eterna, ci dice l’unica cosa di cui in fondo ciascuno di noi ha davvero bisogno, e che è l’essenza di quel Vangelo (che significa: «buona notizia») che i cristiani annunciano da duemila anni.

Celentano avrebbe dovuto dunque appassionare, commuovere, o almeno incuriosire. E invece, ha diviso, urtato, irritato. Non è scaturito, dalle sue parole, un dibattito sul mistero della vita e della morte, sul dilemma tra speranza e disperazione: ma molto più miseramente un polpettone sugli equilibri interni della Rai. Perché?

Perché Celentano ha dimostrato di essere legato a uno schema vecchio, quello secondo cui per proporre bisogna opporre; per parlare di una cosa buona, bisogna mostrarne una cattiva che tende a soverchiare, a soffocare. La sua è la retorica della denuncia, dell’indignazione, dei buoni contro i cattivi, del potere che è sempre marcio. Così si è subito creato un nemico da attaccare. Torno a quanto dicevo prima sulla contestazione: non credo che fosse organizzata, perché quando Celentano è comparso sul palco nessuno lo ha fischiato; poi ha cantato ed è stato applaudito; poi si è messo a parlare della vita eterna e tutti ascoltavano in un (è il caso di dirlo) religioso silenzio. È stato quando ha ri-tirato in ballo Avvenire e Famiglia Cristiana che dal pubblico è partito un collettivo «baaaasta!» che non poteva certo essere preparato. Basta, non ne possiamo più di queste polemiche.

Posso fare un esempio concreto? Quando Roberto Benigni ha portato in tv - anche all’interno di spettacoli «leggeri» - la Divina Commedia, e quindi gli stessi temi del paradiso e dell’eternità, ha infiammato, emozionato, coinvolto anche persone che ostentano agnosticismo se non ateismo. La differenza è che Benigni ha portato in televisione la Bellezza, Celentano la solita logora logica della rissa e della polemica.

Celentano farebbe bene a riflettere sul risultato che ha ottenuto, e che è l’opposto di quello che si prefiggeva. Sbaglia se dà la colpa alla «corporazione dei giornalisti». Ma lui ragiona così, vede un mondo che è governato solo (sottolineiamo il «solo», altrimenti non ci capiamo) da corporazioni, poteri forti, mercanti della guerra, inquinatori, speculazioni edilizie, corruzioni e così via. Non è che tutto questo non ci sia, anzi: c’è eccome. Ma l’Italia e probabilmente il mondo intero oggi - arrivati al fondo di una crisi che non è solo economica, ma è soprattutto morale - hanno bisogno di non piangersi più addosso; hanno bisogno di girare pagina, di trovare motivi di speranza, di qualcuno che indichi non solo il lordume ma anche la pulizia.

Perché c’è anche quella, la pulizia: e non è un caso se l’Ariston e credo tutti gli spettatori in tv hanno applaudito Geppi Cucciari quando ha indicato tra le donne da seguire come esempio quella nostra connazionale che fa la volontaria fra gli ultimi del mondo. E forse non è un caso neppure se a vincere il festival sia stata una canzone che ci dice che sì, c’è la crisi, ma questo non è l’inferno e non bisogna morire ma guardare avanti.

Abbiamo passato di tutto negli ultimi vent’anni: inchieste contro la corruzione, scandali, una politica dell’odio e tante altre schifezze. Abbiamo fatto marce pro e campagne contro. Ma adesso siamo in un momento in cui dobbiamo rialzarci. E con la sola denuncia di quello che non va non ci si rialza, si resta paralizzati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9792


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Pdl-Lega, un invito e una minaccia
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2012, 11:02:15 am
11/3/2012

Pdl-Lega, un invito e una minaccia

MICHELE BRAMBILLA


A meno di due mesi dalle elezioni amministrative, il centrodestra ha improvvisamente scoperto il grande pericolo: perdere il Nord.

Che ne sarà infatti del Nord se Pdl e Lega correranno ciascuno per conto proprio?
L’allarme lanciato ieri dal segretario del Pdl Angelino Alfano è figlio dell’incubo che il centrodestra sta vivendo in questi giorni. Solo una settimana fa Alfano aveva detto, anzi annunciato in forma ufficiale, che il suo partito non si sarebbe mai più alleato con la Lega. Dall’altra parte i leghisti erano stati ancora più tranchant. Maroni da mesi ripete che «la Lega correrà da sola», e Bossi è quasi tornato al linguaggio dei bei tempi del «mafioso di Arcore»: lunedì scorso ha detto che il governo Monti è una rapina, nella quale il premier fa la parte del rapinatore e Berlusconi quella del palo.

Proprio il governo Monti è all’origine della spaccatura. Berlusconi ha deciso di appoggiarlo, insieme a centristi e Pd: un po’ per senso di responsabilità, un po’ per interesse personale. Bossi ha invece deciso di osteggiarlo: un po’ per convinzione, un po’ - anche qui - per interesse personale, nel senso che un periodo all’opposizione potrebbe essere rigenerante per la Lega, soprattutto agli occhi dei suoi elettori.

Ciascuno aveva dunque il proprio tornaconto: il Pdl nell’appoggiare Monti in una maggioranza bipartisan, la Lega nello starne alla larga. Ma adesso che si avvicinano le elezioni, sia il Pdl sia la Lega si trovano a sbattere il muso contro una realtà per entrambi sgradevole. E la realtà è che, con Pdl e Lega separati, anche il Nord - da tempo grande roccaforte del centrodestra - rischia di passare con il centrosinistra.

Per questo Alfano, a una sola settimana dal proclama «mai più con la Lega», ieri ha lanciato un appello-invito agli ex alleati, chiedendo loro di non fare in modo che il Nord venga consegnato alla sinistra. Perché lo ha fatto? Certamente nella settimana intercorsa fra il primo e il secondo annuncio sono accaduti fatti importanti. Alfano si è molto irritato per il vertice Severino-Bersani-Casini su Rai e giustizia: non solo si è sentito tagliato fuori, ma ha avuto l’impressione che quell’incontro fosse solo un capitolo di una trappola a lungo termine. Alfano ha pensato che avesse ragione Berlusconi quando sosteneva che con Casini non si va da nessuna parte, e che in fondo il leader dell’Udc punta a un logoramento del Pdl per prendere la guida di un nuovo centrodestra. Questi ragionamenti, uniti ai calcoli sulle prossime elezioni del 6 maggio, lo hanno indotto a tentare un recupero con la Lega.

Ma attenzione. Le parole che Alfano ha rivolto ieri alla Lega («Non consegniamo il Nord alla sinistra») sono al tempo stesso un invito (a ritornare insieme) e una minaccia. La sera del 7 maggio, infatti, per capire chi ha vinto e chi ha perso non conteranno le percentuali prese dai partiti: quelle saranno in gran parte falsate dalla presenza delle varie liste civiche. Ciò che conterà saranno solo le cosiddette «bandierine»: quanti Comuni al centrodestra e quanti al centrosinistra. Il 6 maggio in tutta Italia si vota in ventisette Comuni capoluoghi di provincia. Cinque anni fa, in diciotto di questi ventisette Comuni aveva vinto il centrodestra.

Al Nord erano stati conquistati dall’alleanza Pdl-Lega Alessandria, Asti, Como, Monza, Belluno, Verona, Gorizia e Parma. Il centrosinistra aveva vinto a Cuneo, Piacenza, Genova e La Spezia. Insomma al Nord otto bandierine a quattro per il centrodestra. Adesso, con Lega e Pdl che corrono separati, il risultato potrebbe essere invertito. In teoria, potrebbe finire anche dodici a zero, o qualcosa di simile, per il centrosinistra.

Ecco perché le parole di Alfano alla Lega sono al tempo stesso un invito e una minaccia. Un invito a ripensare la scelta di correre da soli. E una minaccia in questo senso: cari leghisti, sappiate che se perdiamo la battaglia delle bandierine la colpa sarà vostra, e sarete voi - non noi - a doverne rendere conto agli elettori. Nella Lega però pensano l’esatto opposto: che sia stato il Pdl, appoggiando Monti, a rompere l’alleanza. E se ciascuno rimarrà sulle proprie posizioni, ne verrà miracolato un centrosinistra talmente malmesso che può vincere solo su autorete.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9873


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Gli scandali e la tregua fra i partiti
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:31:29 pm
15/3/2012 - PATTO DI NON AGGRESSIONE

Gli scandali e la tregua fra i partiti

MICHELE BRAMBILLA

Il politico che è andato a mangiarsi un piatto di spaghetti al caviale da 180 euro e ha pagato con la carta di credito del partito (cioè con i soldi dei rimborsi elettorali, cioè con denaro pubblico) diventerà forse il simbolo della nuova, ennesima stagione di decadenza che stiamo vivendo.

Da Nord a Sud, dal Pdl al Pd alla Lega, sembra non salvarsi nessuno.

In Lombardia - governata dal centrodestra sono sotto inchiesta quattro componenti su cinque dell’ufficio di presidenza della Regione e diciotto consiglieri; l’ex Margherita è sconvolta dalla gestione delle casse del partito; a Bari sono stati arrestati imprenditori legati al Pd per una storia di tangenti in Comune. Insomma. I sette milioni di lire avvolti nella carta di giornale che misero fine alle fortune politiche di Mario Chiesa - e inizio a quelle di Di Pietro - sembrano un peccato veniale al confronto dei milioni di euro che girano oggi. Anche le discoteche di De Michelis fanno quasi tenerezza, quando leggiamo dei 218.000 euro sottratti nel solo 2011 dalle casse del partito per finanziare viaggi e vacanze del tesoriere e della sua gentile signora.

Eppure sta succedendo qualcosa di strano e di nuovo. Nessun politico cavalca le disgrazie dei rivali. La sinistra sfrutta forse l’imbarazzo in cui si è venuto a trovare Formigoni? Non più di tanto: qualche mozione di sfiducia a livello locale. E la destra maramaldeggia su Emiliano, sindaco di Bari, o sulla storia di Luigi Lusi? Poche battute, lievi stoccatine. Anche la prescrizione a Berlusconi sul caso Mills e l’annullamento della condanna a Dell’Utri non hanno certamente indotto Bersani e i suoi a stracciarsi le vesti.

A quanto pare c’è una sorta di patto di non aggressione che fa un certo effetto, se ci si ricorda che solo fino a cinque-sei mesi fa ai partiti per scannarsi bastava molto meno. Come mai? Che cosa è successo?

La prima risposta che viene in mente è anche la più semplicistica: tutti tacciono perché tutti sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. C’è del vero, ma è una risposta un po’ grossolana.

Cercando di andare un po’ più in profondità, ci sono altre riflessioni da fare. Una di queste riguarda il finanziamento dei partiti. Perché poi tutto ruota intorno a quello: è vero che c’è pure chi si fa gli spaghetti al caviale e magari la villa, ma il nodo centrale è il costo della politica. Le tangenti si prendono anche e soprattutto per pagarsi le campagne elettorali; e il denaro pubblico che i tesorieri gestiscono viene in gran parte, appunto, dai cosiddetti rimborsi elettorali.

Ora, a vent’anni da Mani Pulite e dall’autodenuncia di Craxi in Parlamento, il problema del finanziamento dei partiti non è stato ancora risolto. E non è stato ancora risolto perché i partiti non hanno voluto risolverlo: hanno continuato a mantenere, come sempre hanno avuto in Italia, uno status di associazioni di fatto che godono di una sorta di extraterritorialità. In nome della libertà e dell’autonomia, hanno preteso di non essere sottoposti a regole e controlli. Così, ci sono norme su come ottenere il denaro, ma non su come utilizzarlo. Che cosa è configurabile come spesa per la politica e che cosa no? Non si sa, non è scritto. Lusi avrebbe messo tredici milioni della Margherita in una cassaforte privata; il tesoriere della Lega ha fatto investimenti in Tanzania; altri con i soldi del partito hanno comperato appartamenti. È in questo vuoto normativo che può succedere di tutto. I partiti lo sanno, e qualcuno comincia a pensare che sarebbe meglio chiedere quei controlli che si son sempre voluti evitare.

Anche perché - e questo è il motivo principale della reciproca non aggressione - sanno che mai come adesso sono esposti al vento dell’antipolitica. È un vento non sempre portatore di pulizia. Porta anche pregiudizi e generalizzazioni: solo i fanatici possono pensare che tutti gli amministratori pubblici siano corrotti. Ma è un vento che ha purtroppo ampie ragioni per soffiare, e che in questo momento non spinge né a destra né a sinistra. Tutti i partiti sentono il crollo di fiducia nei loro confronti, e sanno che a differenza di vent’anni fa il malcontento non si manifesterà con le fiaccolate, ma con qualcosa di molto più pericoloso per loro: l’astensione. E con il crescere di una convinzione sempre più diffusa: piuttosto che affidarsi ai politici, è meglio continuare con i tecnici.

È per questo che sugli scandali politici dei nostri ultimi tempi i partiti hanno scelto la tregua. Sanno che quando qualche procura alza il velo su qualche malefatta, non devono chiedersi per chi suona la campana.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9886


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Diliberto, Grillo e i cattivi esempi
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2012, 11:18:33 pm
23/3/2012

Diliberto, Grillo e i cattivi esempi

MICHELE BRAMBILLA

Beppe Grillo, che una volta faceva ridere, ieri ha messo sulla home page del suo sito una foto di Mario Monti all'interno di una cassa da morto con scritto «articolo 18». Forse per mandare un altro segnale subliminale, la bara ha la forma di un'automobile. A scanso di equivoci, comunque, il presidente del Consiglio viene chiamato Rigor Montis.

Vedere trasformato chi la pensa diversamente in un cadavere fa parte ahimè di una consolidata tradizione di un nostro manicomio tutto italiano. Negli anni Settanta si gridava «carabiniere basco nero il tuo posto è al cimitero», oggi girano t-shirts che al cimitero vorrebbero mandare il ministro Elsa Fornero, e qualcuno pensa che siano divertenti perché c'è anche la rima.

Tra costoro c'è evidentemente Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti italiani, che l'altro giorno si è fatto fotografare, appunto, abbracciato a una democratica signora che indossava la maglietta nera con la scritta «Fornero al cimitero». Non è chiaro se sia più grave quell'abbraccio o la grottesca giustificazione («Non mi ero accorto della scritta») che Diliberto ha balbettato quando ha visto la foto sui giornali: ieri è stato diffuso un video che lo sbugiarda, per ben 5 minuti e 49 secondi il segretario dei Comunisti ha la scritta davanti agli occhi.

Ma forse la cosa più grave è ancora un'altra. È il fatto che simili inviti a scomparire vengano rivolti ai rivali politici non più, come quarant'anni fa, dagli estremisti in piazza: ma da uno che si sta presentando alle elezioni con le sue cinque stelle in nome della moralità, e da un altro che è stato perfino ministro di Grazia e Giustizia. Così come era stato ministro Bossi, che pochi giorni fa aveva anticipato Grillo annunciando il funerale di Monti. Davvero non c'è un altro linguaggio possibile, in Italia, per fare opposizione?

Ci eravamo appena rallegrati per la fine del clima da rissa tra i partiti, e ora ci ritroviamo a rivivere le parole di piombo degli anni formidabili.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9914


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il rischio della caccia alle streghe
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:16:53 pm
29/3/2012

Il rischio della caccia alle streghe

MICHELE BRAMBILLA

Ieri nel Bolognese un piccolo imprenditore s’è dato fuoco davanti all’Agenzia delle entrate. L’elenco dei suoi colleghi che negli ultimi mesi si sono tolti la vita perché si sentivano oppressi, oltre che dalla crisi, anche dal fisco, è tragicamente lungo. Molti altri hanno protestato in modi più o meno urbani con Equitalia.

È gente che vive autentici drammi non solo economici o professionali, ma anche umani. Però diciamo la verità: è anche gente che non incontra un granché di solidarietà.
Non si vedono manifestazioni di piazza in favore dei piccoli imprenditori. E perché? Anche qua, diciamo la verità: perché i piccoli imprenditori vengono identificati in massa come evasori fiscali. E oggi l’evasione fiscale è la nuova peste, e chi non è lavoratore dipendente è il nuovo turpe monatto.

Sia chiaro: che l’evasione fiscale sia una piaga, e che gli evasori siano tra i principali responsabili del nostro debito pubblico, non c’è dubbio. Così come non ci deve essere dubbio sul fatto che su questo fronte sono benedette tutte le azioni repressive e preventive possibili: compresi i tanto contestati blitz a Cortina o a Courmayeur.

Ma siamo sicuri che il piccolo imprenditore che ha un contenzioso aperto con Equitalia sia sempre un evasore fiscale? O meglio: siamo sicuri che oggi il sistema fiscale, per un piccolo imprenditore, sia davvero equo? E che siano equi gli accertamenti a suo carico?

È certamente impopolare, oggi, porsi queste domande. La vergogna dell’evasione fiscale ha provocato una sacrosanta richiesta collettiva di giustizia. Ma attenzione al giustizialismo, che è cosa diversa dalla giustizia. Il giustizialismo è un fondamentalismo, e come tale vede il mondo e la vita tutto bianco o tutto nero. Così, oggi si sente dire che in Italia le tasse le pagano solo gli onesti, identificati con i lavoratori dipendenti; mentre tutti gli altri rientrano nel calderone dei disonesti.

Questo lo schema. Ma la realtà è diversa. I lavoratori dipendenti (chi scrive appartiene a questa categoria) non pagano tutte le tasse perché sono «onesti», ma perché sono obbligati a farlo da un sistema fiscale imperfetto. È imperfetto appunto perché una parte degli italiani non può evadere mentre un’altra sì: ma non solo per questo.

È imperfetto anche perché grava la piccola e media impresa di un’infinità di tasse alle quali non corrisponde un servizio adeguato. Il piccolo imprenditore è molto spesso un uomo solo. Investe i propri capitali per guadagnare (e ci mancherebbe) ma anche per creare posti di lavoro: rischia di suo, e quando gli affari vanno male nessun articolo 18 lo garantisce.
La giustizia civile non lo tutela se i clienti non pagano. I governi non lo convocano quando si incontrano con le cosiddette parti sociali, come se i piccoli imprenditori non fossero
anch’essi una parte sociale. Da quando è scoppiata la crisi mondiale, o almeno da quando ci siamo accorti della crisi mondiale, abbiamo dichiarato guerra allo spread, prestato attenzione alle banche, messo mano alla riforma delle pensioni e pensato a licenziamenti e buonuscite. Ma per i piccoli imprenditori, niente.

Problemi forse risaputi, ma mai veramente presi in considerazione. Problemi, poi, ai quali va ora aggiunto quanto sta accadendo in questi tempi di (sacrosanta, ripetiamo) caccia
all’evasore. Giusto fare azioni coercitive per riscuotere le tasse. Ma capita che lo Stato esiga tasse anche su redditi non ancora conseguiti. Capita perfino - ce lo riferiscono molti piccoli imprenditori che le richieda su redditi mai accertati ma solo ipotizzati. In giudizio è il cittadino a dover dimostrare di non aver preso denaro in nero, e in questo modo si sta stravolgendo il basilare principio giuridico secondo il quale l’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa.

Fatti e riflessioni di cui occorre tener conto, se non si vuole che la caccia all’evasore si trasformi in una caccia alle streghe.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9935


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Bossi, la resa che chiude un'era
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:17:34 pm
6/4/2012

Bossi, la resa che chiude un'era

MICHELE BRAMBILLA

Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.

Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.

Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi.

Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.

Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando - non si sa quanto consapevolmente - attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.

Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che - crede lui - ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.

Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».

Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.

Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi - e speriamo migliori - rispetto agli ultimi vent’anni.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9968


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Pulizia e giochi di potere
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 10:42:34 pm
13/4/2012

Pulizia e giochi di potere

MICHELE BRAMBILLA


La giustizia sommaria ha questo di bello: che ti porta a parteggiare per il condannato. Ieri ad esempio ci ha costretti a simpatizzare per Rosi Mauro, alla quale avevamo chiesto, non più tardi di qualche giorno fa, di lasciare la vicepresidenza del Senato.

Restiamo dell’idea che la signora avrebbe dovuto lasciarla, quella vicepresidenza: quanto era emerso dall’inchiesta sull’utilizzo dei rimborsi elettorali della Lega la metteva in grave imbarazzo, e chi è vicario della seconda carica dello Stato non può permettersi neanche un’ombra di sospetto. Ma il modo in cui la Lega, ieri, l’ha mandata sul rogo come una strega, ci costringe a solidarizzare con lei.

Espulsa dal partito in cui militava da una vita, partendo dai ruoli più umili (c’è chi sostiene che abbia cominciato facendo la portinaia della prima sede milanese, quella di via Arbe). Espulsa dal partito nel quale fino a poche settimane fa aveva un posto di primissimo piano. Cancellata. Indicata al pubblico disprezzo di quei militanti che la osannavano ogni volta che, dal palco di Pontida o da quello di Venezia, lei annunciava i successi del sindacato padano, i vantaggi degli «contratti territoriali»... La osannavano, quando gridava che il «governo centralista» (lo diceva anche quando al governo c’era pure la Lega) favoriva gli immigrati a scapito della «nostra gente». L’altra sera a Bergamo gli stessi militanti, aizzati dai nuovi dirigenti, le hanno dato della battona.

Perché in pochi giorni Rosi Mauro è passata dagli applausi all’espulsione? Il partito si è improvvisamente accorto della sua indegnità? Del suo presunto amante bodyguard? Dei suoi maneggi e intrallazzi con Belsito e con il cerchio magico? Si vuol far credere che, se ha sbagliato, lo ha fatto senza che nessun altro sapesse? Ma mi faccia il piacere, diceva Totò.

Da quando i giornalisti hanno cominciato a scrivere che attorno a un Bossi stanco e malato si era formato un «cerchio magico» che lo teneva in ostaggio, tutti - ripetiamo: tutti - i dirigenti della Lega urlavano, in pubblico, che si trattava di volgari menzogne dei soliti pennivendoli. Adesso tutti questi dirigenti parlano del «cerchio magico» come di una realtà acclarata da tempo, e fanno pulizia a colpi di scopa.

Ma è una pulizia suggerita dall’esigenza di nuovi equilibri di potere interni, non da un amor di trasparenza e onestà. Provate a guardare foto e filmati di Bossi degli ultimi otto anni: non c’è fotogramma in cui il vecchio capo non sia tenuto a braccetto da Rosi Mauro. È per questo che nella Lega tanti odiano questa donna. Nessuno poteva avvicinarsi a lui senza il consenso di lei. I giornalisti men che meno: Bossi non rilascia interviste vere da prima della malattia. Rosi «la badante», come la chiamavano i più gentili nella Lega (gli altri la chiamavano «mamma Ebe») era dunque riuscita nell’impresa di accudire Bossi per controllarlo, diventando insieme a pochi altri (il famoso cerchio magico) la vera segreteria politica della Lega.

Dicono i suoi nemici interni che questo ruolo lo abbia svolto con cinismo e senza pietà, facendo tabula rasa di oppositori e concorrenti. È probabile che sia vero. Ma si abbia il coraggio di dire che è per questo motivo che ora questa donna - neppure indagata, almeno per adesso - è stata espulsa. Si abbia il coraggio di dire che è una purga staliniana per giochi di potere interno, senza tirare in ballo l’uso del denaro del partito. Di verginelle, riguardo all’uso di quei soldi, ce ne sono poche.

Fa pena sentire, ora, che è stata espulsa perché ha disobbedito a Bossi, il quale le aveva chiesto di lasciare lo scranno al Senato: lo sanno anche i sassi che Bossi era stato costretto, dai nuovi vincitori interni, a chiederle quel passo indietro. La Lega è un partito lacerato da odi interni inimmaginabili, e le rese dei conti sono solo all’inizio.

Così spesso arrogante - con noi giornalisti e con tanti militanti -, Rosi Mauro non era simpatica. Adesso lo è un po’ di più, forte di quella compassione sempre generata da ogni capro espiatorio.

da - lastampa.it


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Pulizia e giochi di potere
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 10:46:25 pm
13/4/2012

Pulizia e giochi di potere

MICHELE BRAMBILLA


La giustizia sommaria ha questo di bello: che ti porta a parteggiare per il condannato. Ieri ad esempio ci ha costretti a simpatizzare per Rosi Mauro, alla quale avevamo chiesto, non più tardi di qualche giorno fa, di lasciare la vicepresidenza del Senato.

Restiamo dell’idea che la signora avrebbe dovuto lasciarla, quella vicepresidenza: quanto era emerso dall’inchiesta sull’utilizzo dei rimborsi elettorali della Lega la metteva in grave imbarazzo, e chi è vicario della seconda carica dello Stato non può permettersi neanche un’ombra di sospetto. Ma il modo in cui la Lega, ieri, l’ha mandata sul rogo come una strega, ci costringe a solidarizzare con lei.

Espulsa dal partito in cui militava da una vita, partendo dai ruoli più umili (c’è chi sostiene che abbia cominciato facendo la portinaia della prima sede milanese, quella di via Arbe). Espulsa dal partito nel quale fino a poche settimane fa aveva un posto di primissimo piano. Cancellata. Indicata al pubblico disprezzo di quei militanti che la osannavano ogni volta che, dal palco di Pontida o da quello di Venezia, lei annunciava i successi del sindacato padano, i vantaggi degli «contratti territoriali»... La osannavano, quando gridava che il «governo centralista» (lo diceva anche quando al governo c’era pure la Lega) favoriva gli immigrati a scapito della «nostra gente». L’altra sera a Bergamo gli stessi militanti, aizzati dai nuovi dirigenti, le hanno dato della battona.

Perché in pochi giorni Rosi Mauro è passata dagli applausi all’espulsione? Il partito si è improvvisamente accorto della sua indegnità? Del suo presunto amante bodyguard? Dei suoi maneggi e intrallazzi con Belsito e con il cerchio magico? Si vuol far credere che, se ha sbagliato, lo ha fatto senza che nessun altro sapesse? Ma mi faccia il piacere, diceva Totò.

Da quando i giornalisti hanno cominciato a scrivere che attorno a un Bossi stanco e malato si era formato un «cerchio magico» che lo teneva in ostaggio, tutti - ripetiamo: tutti - i dirigenti della Lega urlavano, in pubblico, che si trattava di volgari menzogne dei soliti pennivendoli. Adesso tutti questi dirigenti parlano del «cerchio magico» come di una realtà acclarata da tempo, e fanno pulizia a colpi di scopa.

Ma è una pulizia suggerita dall’esigenza di nuovi equilibri di potere interni, non da un amor di trasparenza e onestà. Provate a guardare foto e filmati di Bossi degli ultimi otto anni: non c’è fotogramma in cui il vecchio capo non sia tenuto a braccetto da Rosi Mauro. È per questo che nella Lega tanti odiano questa donna. Nessuno poteva avvicinarsi a lui senza il consenso di lei. I giornalisti men che meno: Bossi non rilascia interviste vere da prima della malattia. Rosi «la badante», come la chiamavano i più gentili nella Lega (gli altri la chiamavano «mamma Ebe») era dunque riuscita nell’impresa di accudire Bossi per controllarlo, diventando insieme a pochi altri (il famoso cerchio magico) la vera segreteria politica della Lega.

Dicono i suoi nemici interni che questo ruolo lo abbia svolto con cinismo e senza pietà, facendo tabula rasa di oppositori e concorrenti. È probabile che sia vero. Ma si abbia il coraggio di dire che è per questo motivo che ora questa donna - neppure indagata, almeno per adesso - è stata espulsa. Si abbia il coraggio di dire che è una purga staliniana per giochi di potere interno, senza tirare in ballo l’uso del denaro del partito. Di verginelle, riguardo all’uso di quei soldi, ce ne sono poche.

Fa pena sentire, ora, che è stata espulsa perché ha disobbedito a Bossi, il quale le aveva chiesto di lasciare lo scranno al Senato: lo sanno anche i sassi che Bossi era stato costretto, dai nuovi vincitori interni, a chiederle quel passo indietro. La Lega è un partito lacerato da odi interni inimmaginabili, e le rese dei conti sono solo all’inizio.

Così spesso arrogante - con noi giornalisti e con tanti militanti -, Rosi Mauro non era simpatica. Adesso lo è un po’ di più, forte di quella compassione sempre generata da ogni capro espiatorio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9990


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Quando noi, sciur Brambilla, eravamo Milano
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2012, 11:46:31 am
16/4/2012

Quando noi, sciur Brambilla, eravamo Milano

Come cambia l'anagrafe dei cognomi: si consolida il sorpasso dei mister Hu

MICHELE BRAMBILLA

Per dare la mazzata finale a una Lega già in difficoltà il sindaco Pisapia - che è un comunista di origini meridionali - ha fatto diffondere i dati dell’Anagrafe e così si è scoperto che a Milano i Brambilla sono ormai solo 1536 (9° posto tra i cognomi) e quegli immigrati dei cinesi Hu sono in 3694, secondi dietro a Rossi.

Sono cresciuto con il complesso di portare un cognome un po’ da macchietta: quando arrivavamo al mare c’era sempre il bambino di Bologna che sfotteva: sulla vecchia Balilla s’avanza la famiglia Brambilla in vacanza; poi arrivarono i Giganti, me ciami Brambilla e fu l’uperari, lavori la ghisa per pochi denari. Ma tutto era ampiamente compensato dall’orgoglio che Brambilla voleva dire Milano. Ora l’avanzata degli Hu mi deprime. Una volta per identificare un milanese si diceva «Uhè Brambilla», non riesco a immaginare un improbabile «Uhè Hu». Nel film «Tre uomini e una gamba» il terrone Aldo, per far credere a Giovanni e Giacomo di essere milanese, dice di chiamarsi «Brambilla Fumagalli»: ma ormai pure Fumagalli è in via di estinzione, scivolato al trentesimo posto.

In fondo anche noi Brambilla veniamo da fuori: arrivammo dalla Bergamasca nel 1443 e forse furono nostri antenati muratori a tirar su la Grande Muraglia. Comunque io sto lavorando al controsorpasso, avendo già fatto cinque figli. Dai Brambilla, sotto anche voi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9999


Titolo: MICHELE BRAMBILLA D'Avenia e il padre che svanisce
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 12:06:17 pm
Cultura

01/11/2011 - INTERVISTA

D'Avenia e il padre che svanisce

«E' scomparsa la figura simbolica che rappresenta l'autorità, quella che dice  ai figli cosa devono fare».

L'autore parla del suo nuovo romanzo

Michele Brambilla

Milano

Domani arriva in libreria Cose che nessuno sa (Mondadori, 332 pagine, 19 euro), il secondo romanzo di Alessandro D'Avenia. Il primo, Bianca come il latte rossa come il sangue, uscito nel gennaio del 2010, è stato un successo strepitoso: quattrocentomila copie vendute in Italia, venti traduzioni all'estero, un film che uscirà l'anno prossimo. Parlava di quell'età meravigliosa e difficile che è l'adolescenza, ed era riuscito nel miracolo di farsi leggere sia dai ragazzi, sia dai genitori. Cose che nessuno sa va ancora più nel profondo, e scava in una delle grandi colpe rimosse del nostro tempo: l'assenza del padre, o la sua sciatta presenza, che è quasi la stessa cosa.

Trentaquattro anni, insegnante di lettere in un liceo di Milano, Alessandro D'Avenia ci racconta di una mail che dice molto dell'attesa che s'è creata su questo suo secondo romanzo: «Una ragazza mi ha scritto che non vede l'ora di leggerlo perché ha un padre che torna a casa dal lavoro tardi, è sempre stanco, non parla, e appena trova un po' di tempo va a curare un campo dove ha piantato degli olivi. Così lei si chiede se è meno importante di un pezzetto di terreno».

Quanti ragazzi si possono ritrovare in una mail come questa?
«A volte mi chiedo perché non vedo mai i padri ai colloqui a scuola. Vengono sempre le mamme. Perché? Perché gli uomini sono al lavoro? Ma no, questo valeva una volta, non adesso che lavorano anche le donne. Credo che i padri non si rendano conto di quanto i ragazzi abbiano questo desiderio, questo bisogno. Dovreste vederli, in classe, come sono orgogliosi quelle rare volte che i papà vengono ai colloqui. Glielo leggi in faccia che pensano: per mio padre oggi sono stato più importante io del suo lavoro».

Chi, fra noi padri, non si sente chiamato in causa? Forse siamo la prima generazione che ha abdicato al compito di educare la successiva: educare nel senso etimologico, cioè «condurre, trarre fuori» dai figli le potenzialità, il tesoro che hanno dentro, per aiutarli ad affrontare la vita. «In questo momento - ci dice D'Avenia - la nostalgia della società intera è quella dell'assenza di un padre, con la minuscola e con la maiuscola. Non parlo solo dei padri biologici. Anche nel mondo del lavoro soffriamo e paghiamo l'assenza di padri, intesi come maestri. Perché il mio primo libro ha avuto così tanto successo? Perché uno dei protagonisti, il professore, è uno che vuole fare il padre, che si fa carico dei ragazzi che gli sono stati affidati.

«Oggi i due profili dell'adolescente sono: o Narciso, o la totale disistima di sé. Sono due poli che dipendono entrambi dall'assenza di un padre. Se io oggi credo in me, non è perché sono presuntuoso, ma perché sono stato amato moltissimo. Innanzitutto dai miei genitori, e poi da altri che si sono presi cura di me. Penso a due miei professori del liceo di Palermo: uno era quello di lettere, l'altro era padre Puglisi. Tutti e due hanno dato la vita per i loro ragazzi, padre Puglisi addirittura fino a farsi ammazzare.

«Oggi non è solo un problema di assenza fisica. è scomparsa la figura simbolica del padre, quello che rappresenta l'autorità, che dice ai figli che cosa devono fare senza aprire una trattativa. Il padre è quello che quando ti insegna ad andare in bicicletta, sta a qualche metro di distanza e ti dice "se hai bisogno, io sono qua, ma tu vai da solo". Molti uomini oggi fanno cose che un tempo i padri non facevano, cambiano i pannolini e fanno i bagnetti, e se devono insegnare al figlio ad andare in bicicletta, lo tengono per un braccio perché hanno paura che cada: ma così non si fa il padre, si fa la mamma-bis».

Poi c'è il dramma delle assenze più, come dire, carnali. La protagonista di Cose che nessuno sa è una ragazza di quattordici anni, Margherita, che decide di andare alla ricerca del padre fuggito da casa. Affascinata dal suo professore che gli presenta l'Odissea come se fosse proprio la sua storia, come Telemaco Margherita va alla ricerca del genitore, e alla fine sarà lei, non il padre, a portare la ferita di Ulisse.

«Quando entri in classe» racconta D'Avenia, e qui a parlare è più il professore che lo scrittore, «vedi subito la differenza tra gli occhi di chi ha i genitori separati e quelli di chi una famiglia ce l'ha: magari tribolata, ma ce l'ha». Ed è qui che Cose che nessuno sa passa inevitabilmente dal tema del padre a quello dell'amore: se tanti padri scappano come il papà di Margherita, è perché abbiamo smarrito la percezione della bellezza del «per sempre». «Oggi i ragazzi danno per scontato che un amore sia necessariamente "a tempo". E io dico loro: scusate, ma voi quando fate una dichiarazione d'amore che cosa dite, voglio stare con te fino al 2013? Tutti mi rispondono "Nooo, sarebbe bruttissimo!". E allora io dico: visto che lo intuite anche voi? Il bello dell'amore è la durata, è il resistere».

è il punto di vista di un credente? «In un libro a me molto caro, Lettera a D., André Gorz, ateo, arrivato alla fine dei suoi anni, scrive alla compagna della sua esistenza che "se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme". è partendo dall'umano, e non da un Dio, che si percepisce quanto, come diceva Nietzsche, l'amore voglia profonda eternità». Ma non pensate che il romanzo di D'Avenia sia un sermone sui doveri del padre e sulla fedeltà. Al contrario, alla fine quel che prevale è uno sguardo di misericordia sull'uomo, alle prese con l'incompiutezza di un mondo che non si può definire in uno schema perché ci sono troppe «cose che nessuno sa». Misericordia, e un grande amore per la vita nonostante le sue ombre.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/427542/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Lo Stato del buon senso
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 10:35:55 am
5/5/2012

Lo Stato del buon senso

MICHELE BRAMBILLA

Abituati come siamo a ragionare più con la pancia che con la testa, anche sulla questione delle tasse stiamo passando rapidamente da un estremo all’altro. Fino a pochi mesi fa, la categoria dei piccoli imprenditori era vista in blocco come un’associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Quando si diceva «piccolo imprenditore», l’esemplare tipo che veniva alla mente era un personaggio del cabaret, il Marco Ranzani di Cantù che parcheggia il Cayenne in seconda fila e denuncia nel 730 poche centinaia di euro di reddito. Fabbrichetta era sinonimo di furbetto. Non parliamo poi dei commercianti: la Guardia di Finanza non ha mai goduto tanta popolarità come nei giorni dei blitz a Cortina, Courmayeur, Capri e così via. Ma non appena sui media ha cominciato ad avere un po’ più di spazio l’epidemia di suicidi, siamo passati dall’indignazione alla commozione. L’associazione per delinquere è diventata di colpo quella Spectre statale Agenzia delle entrate, Equitalia eccetera - che accerta, contesta, esige.

E i piccoli imprenditori, le partite Iva e così via si sono trasformati immediatamente da ladri in «tartassati», secondo la definizione di un celeberrimo film di Totò. Possibile che in Italia sia sempre tutto bianco o tutto nero? Possibile che non si possano cogliere le sfumature, e capire che la vita non è un film con i buoni e i cattivi? Bastava un minimo di buon senso, prima, per capire ad esempio che i piccoli imprenditori non sono dei farabutti, ma una delle categorie effettivamente meno tutelate dal «sistema». Il piccolo imprenditore è uno che rischia i propri capitali, che non ha alcun paracadute quando gli affari vanno male, che non può contare su una giustizia civile che assicuri velocemente la riscossione dei crediti, che spesso viene pagato con mesi o anni di ritardo dalla pubblica amministrazione e che sicuramente è gravato da un peso fiscale eccessivo, a volte paralizzante.

Ma basterebbe un minimo di buon senso, ora, anche per distinguere chi è davvero in difficoltà per la crisi da chi pretende di continuare a beneficiare del Bengodi e dell’impunità dei tempi d’oro. Spiace dirlo, ma fra i protagonisti delle clamorose proteste di questi giorni c’è anche chi fabbricava fatture false e chi non pagava tasse chieste a tutti gli italiani (e non solo ai piccoli imprenditori) come il banalissimo canone della Rai. Ed è francamente inquietante che ieri un ex ministro abbia fatto visita in carcere, assicurandogli a nome della Lega la piena assistenza legale, a un uomo che ha tenuto in ostaggio, armi in pugno, persone inermi in un ufficio pubblico. Non è facendo un martire dell’imprenditore bergamasco Martinelli che si serve la causa della piccola impresa.

Sempre ieri a Bologna, alla manifestazione organizzata dalle vedove degli imprenditori suicidi, circolavano t-shirts con la scritta «Le tasse sono un furto». Sono il segno di un modo di pensare molto diffuso, che in Italia ha prosperato a lungo ed è fra i responsabili principali della crisi attuale. Se oggi lo Stato si sta facendo gendarme - e se tanti arrivano al suicidio - è anche perché per troppi anni c’è chi ha lasciato che a pagare le tasse fossero sempre gli altri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10064


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il rischio di sottovalutare un allarme
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:16:01 pm
9/5/2012

Il rischio di sottovalutare un allarme

MICHELE BRAMBILLA

C’ è una certa sottovalutazione dell’attentato all’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. La notizia è spesso relegata in seconda o terza fila. Sbaglieremo, ma ci pare non sia stata colta la gravità dell’accaduto.

Forse un primo motivo di questa, chiamiamola così, scarsa attenzione, sta nel fatto che l’attentato non ha avuto gravi conseguenze. Adinolfi è stato ferito solo di striscio. E quindi non è scattata una reazione emotiva popolare. Ma come non pensare al significato del gesto? La «gambizzazione» in Italia ha una tragica storia in un contesto preciso. Parlavamo ieri con Antonio Iosa, un militante della Dc milanese che il primo aprile del 1980 fu appunto «gambizzato» dalla colonna Walter Alasia delle Brigate rosse come rappresaglia per i quattro brigatisti uccisi proprio a Genova in via Fracchia. Iosa fu colpito a entrambe le gambe e ha dovuto subire 34 interventi chirurgici (l’ultimo pochi giorni fa) per le conseguenze dirette o indirette di quel ferimento. Ma al di là della menomazione fisica, Iosa ci spiegava ieri che la «gambizzazione» non è affatto, come molti pensano, un «attentato minore», perché la vittima - anche quella colpita in modo lieve - subisce un trauma psicologico che lo accompagna per tutta la vita; e perché i terroristi le attribuiscono un alto significato simbolico, quello di «colpirne uno per educarne cento». E dunque per costringere tutti ad avere paura.

L’agguato di Genova è poi trascurato anche per un secondo motivo: non si crede fino in fondo che si possa trattare di terrorismo. È vero che una certezza sulla matrice non c’è ancora, e può anche essere che il terrorismo non c'entri. Ma colpisce la sicurezza con la quale da molte parti si ritiene «impossibile» o «molto improbabile» che il terrorismo possa tornare. Ma perché?

Si dice: se sono terroristi, per quale motivo non rivendicano? E più in generale si aggiunge: oggi non ci sono le ideologie di quel vecchio mondo diviso in due blocchi. Sono argomentazioni alle quali gli inquirenti - guarda caso i nuclei antiterrorismo dei carabinieri e della polizia - reagiscono con un sorriso amaro. In questi giorni, a Genova, chi conduce le indagini ha giustamente invitato noi giornalisti a «non leggere gli avvenimenti di oggi con le categorie di quarant’anni fa». Perché anche i terroristi cambiano: nei metodi, nelle strategie e pure nelle motivazioni.

Ad esempio: la rivendicazione. Oggi spesso non la si fa di proposito, per non lasciare tracce (il modo di scrivere, il mezzo usato) che possano mettere chi indaga sulla pista giusta; e non la si fa anche perché, proprio per la fine delle grandi ideologie, i gruppi rigidi tipo Brigate rosse non ci sono più. Ci sono invece tante individualità il cui unico collante è l’odio verso qualunque cosa abbia l’aspetto di un «potere». Dicono, gli inquirenti, che oggi alcuni vecchi brigatisti hanno passato le armi a elementi di questa magmatica galassia «arrabbiata» esattamente come quarant’anni fa alcuni vecchi partigiani le passarono a loro.

È un errore - ci hanno detto ancora gli uomini dell’antiterrorismo a Genova - pensare che la lotta armata non si possa ripetere perché le condizioni sono cambiate. Più saggio pensare che corriamo il rischio di trovarci di fronte a un terrorismo diverso nelle sigle e nelle modalità, ma pur sempre un terrorismo. Oggi al Quirinale sarà celebrato il Giorno della memoria dedicato alle vittime degli anni di piombo. È la quinta volta che viene celebrato. La prima, però, in cui ci si troverà a parlare, oltre che degli attentati di allora, di uno dell’altro ieri.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10077


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Da Como a Monza il "Mugello azzurro" ha cambiato colore
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:18:35 pm
Politica

09/05/2012 - IL CASO

Da Como a Monza il "Mugello azzurro" ha cambiato colore

Bassa affluenza alle urne, elettori moderati delusi.

I candidati di sinistra favoriti per il ballottaggio


MICHELE BRAMBILLA
inviato a Como

La chiamavano «il Mugello del centro destra». Dalla fine della guerra a oggi Como ha avuto al massimo, e solo per due anni, un sindaco socialista quando i socialisti erano quelli di Craxi e stavano nel pentapartito con la Dc. Ma giunte di centrosinistra, mai, e di sinistra men che meno. Anzi: questa è stata l’ultima città d’Italia a potersi permettere, fino agli Anni Settanta, giunte Dc-Pli.

Perché i liberali, quando nel resto d’Italia erano già una specie protetta, a Como erano il secondo partito, davanti anche al Pci. Il quale Pci, poi, qui non è che fosse proprio un Pci: diciamo che un comunista comasco era di sinistra come un repubblicano di Sesto San Giovanni.

Per questo il quotidiano «La Provincia», che ha 120 anni e ne ha viste di tutti i colori, ieri ha titolato «Elezioni a Como, voto choc». Davvero è stato uno choc vedere che il Pd è il primo partito e che il candidato del centrosinistra, Mario Lucini, ha preso più del doppio (quasi il triplo) dei voti di quello del Pdl, Laura Bordoli.

I numeri: Lucini è al 35,54, Bordoli al 13,17. Un terremoto che non può essere spiegato solo con le divisioni nella coalizione del centrodestra, perché anche sommando ai voti di Laura Bordoli quelli del candidato sindaco della Lega Alberto Mascetti (6,89 per cento) e quelli del pidiellino transfuga Sergio Gaddi che ha fatto una lista sua (8,30), Lucini sarebbe nettamente in testa.

Quel che fa più impressione è lo «storico» della Seconda Repubblica. Nel 1994 Forza Italia era al 24,6 per cento e Alleanza Nazionale al 10,7: Alberto Botta fu eletto sindaco al ballottaggio. Nel ’98, Fi al 20 e An al 12,4, Botta rieletto sempre al ballottaggio.

Dal 2002 il centrodestra si rafforza ulteriormente: Fi sale al 27,08 e An al 13,4, Stefano Bruni (di Forza Italia) viene eletto sindaco al primo turno. Cosa che gli succede anche cinque anni dopo, nel 2007, quando Fi cresce ancora e arriva al 32,46 per cento con An all'11,14.

Basta quest’ultimo dato per dare la misura del tracollo: in cinque anni il Pdl (Fi più An) è passato dal 43,6 per cento al 13,66.

Com’è stato possibile? C’è chi attribuisce la sconfitta alla cattiva amministrazione di Bruni, del quale si ricorda soprattutto la costruzione di un muro che ha privato i comaschi della vista del lago dalla centralissima piazza Cavour; altri puntano sulle divisioni interne del Pdl, gestito dal senatore Alessio Butti in alleanza con la corrente ciellina. Ma sono quasi certamente spiegazioni insufficienti.

È che il vento è cambiato in tutta un’area che da Como scende fino a Monza, un’area che è stata la culla del berlusconismo. A Monza Andrea Mandelli del Pdl si è fermato al 20,04 per cento contro il 38,29 di Roberto Scanagatti del centrosinistra.

A Cantù il candidato del Pdl è arrivato quarto, sconfitte pesanti anche ad Appiano Gentile e Campione d’Italia, tutte ex roccaforti. Non sono diventati di sinistra, da queste parti: più semplicemente non sono andati a votare (a Como si è astenuto il 40 per cento), pensando che questo centrodestra non è più il loro centrodestra.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453466/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA A 40 anni dall'omicidio Calabresi ricordare significa non ...
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:34:14 am
18/5/2012 - IERI A MILANO LA COMMEMORAZIONE DEL COMMISSARIO UCCISO

A 40 anni dall'omicidio Calabresi ricordare significa non ripetere

MICHELE BRAMBILLA

Ieri erano quarant’anni dall’assassinio di Luigi Calabresi. In via Cherubini a Milano, dove il commissario abitava e dove fu ucciso con un colpo di rivoltella alle spalle, s’è tenuta una breve cerimonia con la moglie Gemma Capra, i figli Mario (direttore de La Stampa), Paolo e Luigi, il sindaco Giuliano Pisapia, il prefetto Gian Valerio Lombardi, il presidente della Provincia Guido Podestà, il questore Alessandro Marangoni. È stata deposta una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda l’agguato, e che fu collocata lì solo cinque anni fa dal Comune di Milano: la inaugurò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, particolarmente sensibile al dramma vissuto dalle vittime del terrorismo e dai loro familiari.

Alle nove, nella basilica di Sant’Ambrogio, c’è poi stata una messa in suffragio: l’ha officiata padre Umberto Ceroni, uno dei due sacerdoti che il 31 maggio del 1969 celebrarono il matrimonio del commissario. Quindi, familiari e autorità sono andati in Questura per un ultimo ricordo.

Dei tanti delitti di quella cupa stagione, quello del commissario Calabresi è uno dei più presenti nella memoria del nostro Paese. Sia perché conseguenza indiretta di un altro fatto sconvolgente - la strage di piazza Fontana, sulla quale Calabresi aveva indagato - sia per i numerosi processi che ancora in anni recenti hanno portato alla condanna dei suoi responsabili. Con sentenza definitiva, sono stati infatti ritenuti colpevoli dell’omicidio Calabresi il leader di Lotta Continua Adriano Sofri e altri tre militanti dello stesso movimento: Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, quest’ultimo reo confesso. Anche libri di successo come «Spingendo la notte più in là» di Mario Calabresi e il recente film di Marco Tullio Giordana «Romanzo di una strage» hanno contribuito a far conoscere la vicenda del commissario Calabresi pure a chi all’epoca era troppo giovane o non era ancora nato.

Ed è un bene che di un fatto come quello si continui a tener viva la memoria. La vicenda di Luigi Calabresi, giovanissimo commissario della squadra politica della questura di Milano, è infatti emblematica di dove possa portare una spirale di disinformazione e di odio. Accusato ingiustamente - anche da gran parte dell’intellighenzia italiana di allora di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, Calabresi fu fatto oggetto di una campagna di calunnie che costituì il lungo prologo alla sua esecuzione. Diventò un simbolo da abbattere, in una stagione in cui ci si cominciò a dimenticare che ogni persona è, prima che un simbolo, un essere umano.

L’omicidio di Calabresi è considerato il primo degli anni di piombo. Una stagione chiusa da tempo, ma che rischia sempre di riaprirsi: i brutti segnali, negli ultimi tempi, non mancano. Anche per questo, commemorazioni come quella di ieri non servono solo per guardare al passato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10120


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il ritorno delle solite paure
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2012, 11:10:22 pm
20/5/2012

Il ritorno delle solite paure

MICHELE BRAMBILLA

L’attentato di ieri a Brindisi è talmente pazzesco che siamo qui tutti a sperare che a compierlo sia stato, appunto, un pazzo.

Se così non fosse, saremmo infatti di fronte a uno sconvolgente cambio di passo della criminalità organizzata, o del terrorismo se di terrorismo si trattasse. Finora la mafia e le organizzazioni della lotta armata avevano infatti colpito bersagli precisi, cioè uomini considerati «nemici», oppure seminato la morte nelle banche o sui treni. Era mostruoso, ma mai si era arrivati a voler colpire una scuola per uccidere deliberatamente degli studenti che sono poco più che bambini. Questo sarebbe ancora più mostruoso.

Ecco perché siamo qui a sperare che l’attentatore sia una specie di Unabomber al quadrato. Altrimenti, se dietro a tanto orrore ci fosse un disegno anziché una mente malata, dovremmo concludere che l’Italia è condannata a non essere mai un Paese normale.

Infatti la prima riflessione che viene spontanea è questa: ogni volta che nel nostro Paese c’è un periodo di transizione, qualcuno cerca di gestirlo con il sangue. Accadde così dopo il Sessantotto, quando ci fu chi cercò di condizionare il cambiamento con le bombe e chi invece con un partito armato. Furono anni in cui mutò quasi tutto, nel mondo occidentale: dai rapporti sociali al costume, e le tensioni esplosero ovunque. Ma solo in Italia ebbero effetti tanto tragici e prolungati nel tempo. Negli Stati Uniti si parla ancora oggi della rivolta di Berkeley del 1964, a Parigi di un mese soltanto («il maggio francese»), in Germania il terrorismo si aprì e si chiuse in poche settimane con la cruenta vicenda della banda Baader Meinhof. In Italia invece si andò avanti almeno fino agli Anni Ottanta, e per giunta con una serie di misteri ancora oggi non chiariti.

La seconda riflessione: siamo sempre in ritardo a capire quello che ci succede attorno. Leggiamo sempre il presente con le categorie del passato. Due settimane fa, dopo il ferimento dell’amministratore delegato dell’Ansaldo a Genova, abbiamo pensato subito alle Brigate Rosse, alla lotta al capitalismo e così via. Tutta roba di trenta o quaranta anni fa, mentre l’Italia e il mondo sono profondamente cambiati e nuove rabbie stanno montando: contro la finanza, contro le ultime frontiere del progresso tecnologico, contro l’incubo dell’inquinamento e del disastro nucleare. Stanno montando e alimentano ahimè anche alcune frange estremiste e potenzialmente omicide. Il rischio di un nuovo terrorismo dunque c’è, e quelli che dicono che invece non c’è perché il mondo non è più diviso in due blocchi suscitano francamente un po’ di tenerezza.

Sempre per questa propensione a leggere l’oggi con le categorie di ieri o dell’altro ieri, adesso siamo qui a cercare un nesso tra la bomba di Brindisi e quelle del ’92 e ’93, altro periodo di transizione. Allora fu la mafia a colpire. Lo fece con una strategia per quei tempi nuova. Adesso cercare di indirizzare il cambiamento con le bombe non sarebbe più una novità. Ma nuovo sarebbe sicuramente l’obiettivo - una scuola, appunto - e quindi siamo in ogni caso di fronte a un fenomeno inedito, e non a una replica.

Terza cosa. Non riusciamo mai a essere un Paese normale anche perché in nessun altro angolo del mondo i profeti del complottismo e della dietrologia fanno tanti proseliti. È vero che in Italia, a partire da Piazza Fontana in poi, ne abbiamo viste di ogni colore. È vero che le trame sono state molte (le abbiamo appena ricordate) e spesso oscure. Ma sostenere - o insinuare, che è la stessa cosa - che la bomba di Brindisi l’ha messa o fatta mettere il governo Monti per distogliere l’attenzione degli italiani dalla crisi economica e dalle cartelle esattoriali, è anche questa l’espressione di una follia, e non del tutto innocente. Eppure tesi del genere ieri pomeriggio circolavano sulla rete con l’ammiccamento di qualche politico, o meglio antipolitico, in cerca di voti e di visibilità.

Insomma questa è l’Italia. Un Paese talmente anormale da costringerci a sperare davvero che ci sia in giro qualche pazzo che collega tre bombole del gas con un timer così, per il gusto di farlo, e senza secondi fini.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10124


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Tra gli imprenditori brianzoli: traditi dal berlusconismo
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 11:41:39 am
Economia

23/05/2012 - REPORTAGE

Tra gli imprenditori brianzoli: traditi dal berlusconismo


MICHELE BRAMBILLA
inviato a Como

A Como non si vedono bandiere rosse e neppure quelle arancioni di Pisapia. Ma si odono parole che danno ancor di più il senso della rivoluzione: «Ho 65 anni e per la prima volta in vita mia ho votato a sinistra», ci confida Graziano Brenna, imprenditore tessile e vicepresidente della Confindustria locale.

Orrore! Un imprenditore comasco che vota a sinistra! Ma quando mai? Berlusconi la prenderà come una coltellata. Eppure la sua terra e la sua gente gli hanno voltato le spalle. Como è la capitale del ribaltone, luogo simbolico perché è sempre stata di centrodestra, perché solo cinque anni fa An e Forza Italia avevano insieme il 43 per cento e ora il Pdl ha racimolato un misero 13 al primo turno e incassato un umiliante cappotto (75 a 25) al ballottaggio.

«Sono sorpreso dai numeri ma non dalla dinamica di quel che sta succedendo», dice Paolo De Santis, presidente della Camera di commercio, cinquantamila aziende associate. È questo il mondo che credeva nel Cavaliere e adesso non ci crede più. È un mondo che grosso modo si può dividere in tre aree.

La prima è quella del lago, cioè a nord di Como e lungo il confine di Stato: qui le imprese vivono soprattutto di turismo e tutto sommato reggono; la gente poi se la cava anche perché la Svizzera fa da ammortizzatore sociale offrendo posti di lavoro.

La seconda area è la città: commercio e servizi, il trend non è malvagio. Ma la terza area, la più grande, è la Brianza comasca manifatturiera e qui la crisi si fa sentire in modo pesante. È qui che ci sono le aziende più grosse.

«Il grido di dolore che viene dal mondo delle imprese è molto forte», dice ancora De Santis: «Ci si aspettava molto di più dagli ultimi governi: non tanto sull’aspetto fiscale, ma sulla riduzione della burocrazia. È l’eccesso di burocrazia che strangola le nostre imprese e scoraggia gli investimenti stranieri in Italia. Speravamo anche in una riforma della giustizia: ma non di quella penale, che forse interessava a Berlusconi e a qualcun altro, bensì di quella civile. Lei mi chiede perché il nostro mondo è deluso e disorientato. E io le dico questo: l’imprenditore comasco oggi è uno che ha paura di non farcela e non vede segnali dalla politica».

Il divorzio tra le categorie produttive e il centrodestra era già evidente da tempo e un giorno la stampa locale aveva titolato in prima pagina «Como, l’economia rompe con il Pdl». Certo ci sono motivazioni anche locali.

La città, finiti da un pezzo i tempi d’oro dell’industria tessile, attende dalla politica un aiuto a riqualificarsi, soprattutto verso il turismo, visto che la natura l’ha omaggiata di tanta meraviglia. Ma non solo non è stato fatto nulla: si sono fatti dei danni, come l’aver occultato la vista del lago con una muraglia da Berlino Est. E con l’aver trascurato la gestione delle piccole ma fondamentali cose, come le buche nell’asfalto: «Le strade di Como sono peggio di quelle di Bucarest», aveva detto all’ormai ex sindaco Stefano Bruni (Pdl) l’allora presidente degli industriali Ambrogio Taborelli.

Anche Graziano Brenna, quello che a 65 anni ha votato a sinistra per la prima volta («Ma lei non immagina quante persone mi hanno detto la stessa cosa»), conferma che «Como è una delle città più belle del mondo e una delle peggio amministrate, faccia un giro in città a vedere gli scempi, a cominciare dalle rovine della ex fabbrica Ticosa a ridosso del centro».

E arrivano conferme perfino da chi è stato assessore di Forza Italia e poi consigliere comunale del Pdl, come Enrico Gelpi, avvocato, ex presidente dell’Automobile Club nazionale e ora membro del Cda della Fia, federazione internazionale dell’automobile. «A Como», dice, «gli ultimi due anni dell’amministrazione Bruni sono stati, per usare un eufemismo, non brillanti».

Gelpi è uno che la passione per la politica l’ha respirata in casa: suo zio, Lino Gelpi, democristiano, è stato forse il più importante sindaco di Como del dopoguerra, dal 1956 al 1970; e suo padre Emilio fu primo cittadino di Castiglione Intelvi addirittura per cinquant’anni. Ma due anni fa ha lasciato il consiglio comunale, deluso anche lui: «Oggi i partiti vivono fuori dal mondo. Pensi alle nostre primarie: il candidato che ha perso ha poi fatto una sua lista contro il Pdl. La gente ha pensato: questi pensano alle loro cose interne anziché alla città». Nessuno comunque crede che le beghe locali bastino a spiegare una débâcle che va ben oltre i confini di Como: «Pdl e Lega hanno certamente risentito anche degli scandali», dice ancora Gelpi.

Maurizio Traglio, imprenditore comasco che ha investito quindici milioni di euro nella nuova Alitalia, non dà la colpa a Berlusconi («Ci ha provato ma è stato frenato in tutti i modi») ma riconosce che una stagione è finita: «Il Pdl ora sta cercando una via diversa, deve mettere in campo persone credibili, nuove e messe in condizione di poter governare». Gli avevano chiesto di candidarsi a sindaco, ma ha rifiutato: «Il centrodestra era troppo diviso, e il centrosinistra non è la mia parte politica».

Attilio Briccola, presidente della Compagnia delle Opere, dice che «il Pdl e la Lega se la sono cercata». Troppe promesse a vuoto: «È svanito il sogno cominciato vent’anni fa, Berlusconi e Bossi hanno deluso perché non hanno fatto quelle riforme che il mondo della piccola e media impresa si aspettava, il mondo che è l’anima di questa terra».

Riuscirà il vecchio centrodestra a riscattarsi? Qui non sembra crederci nessuno. «Il tempo sarà fatale e oggi il mondo gira a velocità che non sono più quelle di una volta», dice Traglio. «Berlusconi era un simbolo per noi imprenditori, ci ha deluso», dice Brenna. «È un momento di forte discontinuità, l’approdo al momento non è definibile ma certamente sarà diverso dal passato», dice De Santis. Le parole forse più tranchant sono però proprio quelle di chi ci credeva così tanto da mettersi in gioco personalmente, l’ex assessore e consigliere Enrico Gelpi: «Io ho comunque votato Pdl, ma è un Pdl che non esiste più».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/455252/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Basta con le esagerazioni l'Emilia non è scomparsa
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 09:52:00 am
Cronache

01/06/2012 - terremoto/il commento

Basta con le esagerazioni l'Emilia non è scomparsa

Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente

MICHELE BRAMBILLA

Nelle ultime due settimane in Emilia Romagna ci sono stati 24 morti e danni per svariati miliardi di euro; gli sfollati sono quindicimila. Bastano queste cifre per dire che una situazione è grave e degna di attenzione da parte di tutti gli italiani? Evidentemente no, non basta. Così sono giorni che in tv, alla radio e sui giornali si sente parlare di «interi paesi cancellati dalle carte geografiche», o più sobriamente «rasi al suolo». Ho sentito dire che Cavezzo, dov’ero appena stato, «non esiste più». Ci sono titoli sui siti web - anche, ahimè, dei grandi giornali - che parlano di migliaia di emiliani che «soffrono la fame», di «assalti di sciacalli alle case danneggiate».

Mi domando se chi dice e scrive queste cose sia stato davvero in questi giorni a Mirandola, Cavezzo, Rovereto sul Secchia, Medolla, Carpi. Paesi che hanno subito danni ingentissimi e molti lutti: ma che esistono ancora. Paesi popolati da persone in difficoltà: ma non ridotte alla fame. Paesi in cui i capannoni crollati sono per fortuna una piccolissima percentuale, non la norma. Paesi in cui le abitazioni private hanno tenuto, grazie al cielo: anzi, grazie agli emiliani che le hanno costruite meglio che altrove.

C’è stato un terremoto, e basterebbe usare questa parola, terremoto: ce ne sono molte altre che incutono più terrore? E invece no: si parla di inferno, di un mondo spazzato via, di un’intera regione in ginocchio. Non è così: provate a girare per tutta l’area, da Modena fino su ai paesi dell’epicentro, e vedrete un film che non è quello che viene raccontato. Un film drammatico, certo. Ma perché dire e scrivere che è come il Friuli, l’Irpinia, L’Aquila? In Friuli ci furono mille morti, centomila sfollati, 18.000 case completamente distrutte, 75.000 gravemente danneggiate. In Irpinia tremila morti, 280.000 sfollati, 362.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. L’Aquila è ancora oggi, quella sì, una città in ginocchio. L’Emilia no: la gente che vi abita ha paura, e questo è comprensibile, ma le grandi città sono intatte, il 95 per cento dei paesi pure, eppure l’altra sera in tv abbiamo sentito parlare (testuale) di «una regione distrutta».

Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente, che già ha buoni motivi per avere paura. L’altra notte l’ho trascorsa in piedi fra la gente in tenda. Una notte certamente disagevole, soprattutto per la preoccupazione per il futuro. Ma non ho visto alcuna scena di panico. La mattina alle nove accendo la radio e sento: «Notte di terrore nelle tendopoli per sessanta nuove scosse». Che ci sono state, ma non tali da essere percepite.

Non si tratta di sminuire la gravità di quello che è accaduto, ma di evitare che ai danni del terremoto si aggiungano quelli di un’informazione drogata. L’altra sera parlavo con Michele de Pascale, assessore al Turismo del Comune di Cervia. Mi diceva di non capire la contraddizione: «Stiamo accogliendo nei nostri alberghi gli sfollati perché qui da noi sono al sicuro. Poi riceviamo disdette per quest’estate: i clienti hanno sentito in tv che l’Emilia è distrutta. L’altro giorno un albergatore mi ha detto che lo hanno chiamato dalla Germania per annullare la prenotazione e hanno chiesto: ma siete ancora vivi?».

Domande alle quali ne aggiungo una diretta umilmente alla categoria di cui faccio parte: vogliamo davvero aiutare gli emiliani a ripartire? Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/456530/


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Una faccia d'amianto alla Conferenza di Rio
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:48:10 am
4/6/2012

Una faccia d'amianto alla Conferenza di Rio

Ci sarà anche Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero del caso Eternit

MICHELE BRAMBILLA

Il magnate svizzero Stephan Schmidheiny è stato invitato alla Conferenza di Rio sullo sviluppo sostenibile, organizzata dall’Onu, come benefattore dell’umanità, guru dell’ambiente, filantropo della green economy. Schmidheiny, per chi non lo ricordasse, è uno degli ultimi due proprietari della Eternit di Casale Monferrato e il 13 febbraio scorso è stato condannato per disastro doloso a sedici anni di carcere dal tribunale di Torino: dove, peraltro, non s’è mai degnato di farsi vedere. Sempre per chi non lo ricordasse, a Casale l’amianto lavorato dalla Eternit ha provocato una strage che continuerà ancora per qualche decennio. Invitare Schmidheiny a Rio è dunque un po’ come invitare Fabrizio Corona a parlare di tutela della privacy, o Cicciolina del valore della verginità. Anzi, è decisamente peggio perché qui ci sono di mezzo dei morti.

Tutti possono cambiare vita, e può darsi che Schmidheiny l’abbia cambiata. Ma una volta i convertiti facevano come fra’ Cristoforo: si chiudevano in convento con la faccia contrita. Adesso invece vanno alle conferenze dell’Onu a pontificare con la faccia di bronzo. O meglio, d’amianto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10188


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Le incognite dell'operazione rivincita
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2012, 05:19:02 pm
12/7/2012

Le incognite dell'operazione rivincita

MICHELE BRAMBILLA

L’uscita di scena di Berlusconi dal mondo della politica pare dunque avviata a concludersi nel modo più scontato: con il ritorno di Berlusconi. C’è da stupirsi dello stupore generato ieri dalla notizia della ricandidatura, pubblicata dal Corriere della Sera. Che un uomo del genere si potesse accontentare di fare il «padre nobile» del partito, per giunta accettando l’idea che qualcun altro avrebbe potuto fare meglio di lui, non era credibile. Prima ancora che per calcolo politico, il Cavaliere è incompatibile per carattere alle seconde file.

La notizia dunque non dovrebbe sorprendere, esattamente come nella Prima Repubblica non sorprendevano i ritorni di Andreotti o quelli di Fanfani, che infatti fu ribattezzato «Rieccolo». E per quanto possa apparire paradossale, la decisione di ricandidarsi ha anche una sua logica. Berlusconi dice che i sondaggi danno un Pdl senza di lui intorno al dieci per cento, e un Pdl con lui intorno al trenta. Può anche darsi che siano cifre esagerate, ma non c’è dubbio che la sostanza sia quella. Berlusconi per il Pdl - o per Forza Italia, se il partito tornerà a chiamarsi così, come pare - è più di un fondatore: è tutto.

Intanto perché ci ha messo l’idea, i soldi, la faccia e il carisma; e poi perché più o meno scientemente ha allevato la sua creatura guardandosi bene dal preparare una successione, ligio come molti uomini del suo stampo al principio dell’«après moi le déluge».

È insomma più che verosimile che un partito con il suo nome nel simbolo possa prendere molti più voti di uno guidato, ad esempio, da un Alfano, incoronato come numero uno solo pochi mesi fa, e ora reintegrato fra le comparse. Da quando Berlusconi se n’è andato per lasciare spazio al governo tecnico, c’è nel centrodestra tutto un mondo di vedove e di orfani inconsolabili che non aspettano altro che l’occasione per una rivincita.

Ma proprio questo della rivincita è il tema cruciale. Il Pdl, con Berlusconi candidato, prenderà sicuramente più voti.
Ma saranno voti sufficienti per vincere? Ne dubitiamo. Per tanti motivi.

Intanto, l’uomo è sembrato sinceramente stanco, negli ultimi mesi. È vero che ha dimostrato di avere più di sette vite, ma gli anni passano anche per lui e molte prove hanno lasciato il segno. E poi: che cosa potrebbe ancora promettere, in campagna elettorale, dopo vent’anni di promesse disattese? Come potrebbe far credere di non avere almeno qualche responsabilità nella disastrosa situazione lasciata in eredità al governo Monti?

Certo Berlusconi ripeterebbe che, durante i suoi tre mandati, non l’hanno lasciato governare. Non ha neppure tutti i torti, quando dice che in Italia c’è un diabolico sistema di veti e contro veti che rende difficili le riforme. Ma sarà difficile convincere ancora la maggioranza di chi vota centrodestra che è stata tutta colpa di un complotto ordito da giornali, magistratura e poteri forti.

È improbabile, per non dire impossibile, che Berlusconi non sappia tutto questo; e che non capisca che una stagione è finita per sempre.
E allora cresce il sospetto che la sua ricandidatura non punti a palazzo Chigi, ma a una robusta presenza a Montecitorio che gli garantisca o di far parte di un governo di larghe intese, o quantomeno di essere una minoranza forte e rispettabile. Berlusconi non mirerebbe a vincere, dunque, ma a conquistare una condizione di maggior garanzia per le proprie aziende e per se stesso.

Ecco perché l’annuncio della sua sesta candidatura alla guida del Paese è forse una buona notizia per lui e per il Pdl, il quale, almeno per un po’, riprenderebbe ossigeno. Ma difficilmente è una buona notizia per il Paese, che rischia di risprofondare in uno psicodramma. E difficilmente è una buona notizia per lo stesso centrodestra, che perderebbe l’occasione di riorganizzarsi e di pensare a un futuro non più legato a un nome che appartiene al passato.

A pensarci bene, forse la notizia di ieri è buona soprattutto per il centrosinistra, che potrebbe riagitare il vecchio e sempre efficace spauracchio in campagna elettorale; e più in generale è buona per tutto quel fronte di antiberlusconiani un po’ a corto di argomenti da quando il Nemico si era ritirato, o aveva fatto finta di ritirarsi, a vita privata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10323


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Alla storia non servono ultrà
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:45:29 am
31/8/2012 - MANI PULITE

Alla storia non servono ultrà

MICHELE BRAMBILLA

In Italia i conti con la storia sono sempre difficili e così le interviste del nostro Maurizio Molinari sul ruolo degli Stati Uniti durante Mani pulite hanno provocato una serie di reazioni a dir poco sopra le righe. D’altronde in un Paese in cui si litiga ancora sui morti, da Mussolini al Risorgimento, figuriamoci che cosa può succedere quando una ricostruzione tocca i nervi scoperti dei vivi.

Vivi, oltretutto, che dai fatti di cui si parla hanno avuto la carriera stravolta, chi in peggio e chi in meglio.

Dunque: Molinari ha prima pubblicato un’intervista (di cui c’è documentazione scritta) con l’ex ambasciatore Usa a Roma Reginald Bartholomew, morto domenica scorsa; poi ne ha fatta seguire un’altra con Peter Semler, ex console americano a Milano (e prima ancora consigliere militare-politico che gestì l’arrivo dei missili Cruise a Comiso: così, lo ricordiamo tanto per sottolineare che i due intervistati non sono proprio figure di secondo piano).

In stringata sintesi, i due hanno detto questo. Semler che frequentava Di Pietro; che aveva saputo da lui con qualche mese di anticipo di importanti inchieste che avrebbero coinvolto i vertici del Psi; che a Milano era tangibile la sensazione che «in Italia stava per cambiare tutto». Bartholomew, invece, ha detto che, arrivato a Roma a inchiesta di Mani Pulite già iniziata, a un certo punto si preoccupò per i suoi eccessi e soprattutto per il rischio che la transizione italiana fosse gestita esclusivamente dai magistrati, senza che fosse pronta una nuova classe politica dirigente.

Tutto questo ha ridato fiato agli opposti estremismi nati proprio allora. Da un lato le vedove inconsolabili della Prima Repubblica, le quali da quei giorni urlano al complotto, alla mitica riunione dei poteri forti sul panfilo Britannia, insomma a un Di Pietro burattino e agli americani burattinai. Dall’altra parte, i nostalgici dei bei tempi delle manette facili vedono nelle interviste a Semler e Bartholomew un tentativo di delegittimare il Di Pietro di allora e, per estensione, la magistratura di oggi.

Elucubrazioni e dietrologie. Chi crede alla teoria del complotto ha evidentemente una fiducia smisurata nelle capacità degli uomini. Mani Pulite esplose, e la Prima Repubblica implose, per una serie di fattori che vennero a coincidere nel tempo: primo fra tutti il logorio di una classe politica da troppo tempo al potere; poi, sì, anche la fine della guerra fredda; l’esasperazione di una classe imprenditoriale che era stufa di pagare tangenti e che per questo si mise in fila all’ingresso della Procura di Milano; e, ancora, l’abilità investigativa (perché sottovalutare anche questi aspetti?) di un formidabile poliziotto-magistrato che si chiamava Antonio Di Pietro. Tutto questo e molto altro ancora. Chi crede al complotto dimentica soprattutto che Mani Pulite decollò davvero solo dopo lo straordinario successo della Lega alle politiche dell’aprile 1992: e il successo di un movimento guidato da un uomo in canottiera che parla in dialetto e che aveva fatto due finte feste di laurea non è prevedibile, né tantomeno pianificabile, da nessuna Cia e da nessuna massoneria del mondo, neanche se imbarcata sul Britannia.

Dopo di che, succede che quando un cambiamento è in corso, molti cercano di indirizzarlo, di cavalcarlo, di gestirlo. E in questo le interviste di Molinari sono illuminanti. Intanto ci fanno capire che «gli americani» non sono un blocco monolitico. Semler, che stava a Milano, vedeva quel che tutti a Milano vedevano: e cioè che un uragano stava abbattendosi sull’Italia. Bartholomew - e ancor di più, prima di lui, Secchia da Roma la vedeva invece come la vedevano i politici romani: cioè non vedevano, chiusi com’erano (e purtroppo come sono ancora) nel loro mondo fuori dal mondo. Poi, a bufera scoppiata, si tentò di intervenire con realismo: e il realismo portava a capire che il tempo dei vecchi partiti era sì finito, che l’inchiesta contro la corruzione era sì stata un bene, ma che a quel punto bisognava evitare che il Paese fosse governato dalle Procure. Neppure i procuratori - almeno quelli non accecati - lo volevano.

Di tutto questo dovrebbero tenere conto gli ormai un po’ patetici ultrà pro o contro Mani Pulite. Così come fa sorridere la tesi del complotto a tavolino, fanno quasi tenerezza coloro che ancora oggi negano che la carcerazione preventiva fu usata come mezzo per ottenere confessioni. La verità è che tutti sapevano che Di Pietro interrogava come interrogava Tex Willer: ma a tutti, ai primi tempi, andava bene così. Poi è cominciata la stagione delle riflessioni.

Ecco. A questo dovrebbero servire le ricostruzioni storiche. A ragionare, a freddo, sul passato, per capire meglio il presente. Molti, in Italia, evidentemente non sono ancora pronti. Ma bisogna cominciare lo stesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10477


Titolo: MICHELE BRAMBILLA E Berlusconi attende di scoprire l'avversario
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 10:09:53 pm
11/9/2012 - CENTRODESTRA

E Berlusconi attende di scoprire l'avversario

MICHELE BRAMBILLA

Mentre i vari candidati premier della sinistra si affannano alla ricerca della visibilità, a destra c’è un uomo che non ha bisogno di apparire per attirare, anzi per monopolizzare, l’attenzione. Inutile dire chi è. È sempre lui.

Silvio Berlusconi, l’unico vero «rieccolo» della Seconda Repubblica, non ha bisogno di primarie per candidarsi a Palazzo Chigi, e non ha bisogno di parlare per far parlare di sé.

Tutto quello che fa, e perfino quello non fa, diventa un affare di Stato. La caduta mentre faceva jogging. La vendita di Villa Certosa. La scoperta di un tunnel segreto fra le rocce della Costa Smeralda per fuggire di nascosto. L’assenza ai funerali del cardinal Martini. La presenza nel resort di Briatore a Malindi. Nel centrodestra non si parla, anzi non ci si interroga, che su di lui. Dov’è? Quando torna? Come sta?

Misteri che fanno solo da contorno al mistero per eccellenza: si ricandida a no? Nel giro di quattro mesi, siamo passati dal suo «lo escludo» (12 maggio) al «si fanno le primarie» (8 giugno); dal «sarà Berlusconi il nostro candidato premier» di Alfano (11 luglio) al «credo di sì» dello stesso Alfano l’altro giorno a Cernobbio.

Nel Pdl assicurano che la risposta è sì, e che il Cavaliere lo confermerà quanto prima: c’è chi dice già questo venerdì, alla festa della Giovane Italia a Roma; e chi invece dice che occorre aspettare la riforma elettorale. Insomma sarebbe solo una questione di tempo. Che non vuol dire, però, una questione di secondo piano. Berlusconi, infatti, di tempo vorrebbe prendersene ancora; i suoi colonnelli, invece, gli mettono fretta.

Perché gliene mettano, è questione controversa. La versione ufficiale parla di amore incondizionato per il Capo. Una seconda, un po’ più malevola, parla di preoccupazione, da parte di molti parlamentari, di andare a casa: con Berlusconi in campo, il Pdl anche senza vincere prenderebbe più voti e quindi più seggi. Una terza, perfida ma secondo alcuni realistica, vede invece questo scenario: gerarchi ormai convinti di una sicura disfatta , e desiderosi che questa disfatta porti il nome e il cognome di Silvio Berlusconi. Il quale sarebbe così poi costretto a levarsi di torno una volta per tutte.

Quale che sia la verità, è certo che sul Cavaliere sia in atto, da parte dell’apparato del Pdl, un pressing insistente affinché annunci presto la sua candidatura. Lui è indeciso. Intanto perché non sa ancora come giustificare agli italiani il suo ripensamento: dicono che quest’estate in Sardegna, davanti ad alcuni ospiti, abbia pronunciato un discorso di prova, e c’è da sbizzarrirsi nell’immaginare la scena. Poi, teme nuovi guai giudiziari, primo fra tutti la sentenza sul caso Ruby, attesa per ottobre. Sa anche che nel suo partito non c’è identità di vedute su un eventuale Monti-bis; sa che esiste il rischio di una scissione degli ex An; sa che un conto è candidarsi con il maggioritario e un conto con il proporzionale, e quindi sa che è meglio aspettare di vedere come va a finire la riforma elettorale.

Soprattutto - uomo che vive sulle contrapposizioni - Berlusconi vuol sapere bene contro chi si candiderebbe. Avesse a che fare con un Renzi, sarebbe in difficoltà: il sindaco di Firenze potrebbe essere suo nipote e ha buoni argomenti sia per i moderati sia per l’antipolitica. Ma se dovesse affrontare un’accoppiata Bersani-Vendola, Berlusconi ritroverebbe il vigore dei bei tempi. Potrebbe spiegare agli italiani il suo ritorno con poche ma semplici parole: «Mi ero fatto da parte per senso di responsabilità, ma ora per lo stesso senso di responsabilità non posso permettere che il Paese ripiombi nelle mani dei comunisti. Perché questi sono davvero ancora comunisti: avete visto come hanno ammazzato il povero Renzi?».

Ecco perché il Cavaliere, fino ad ora, ha resistito al pressing di chi vuole, in tempi brevi, l’annuncio di una sua ri-discesa in campo. Non sappiamo se resisterà ancora, e per quanto. Ma un Berlusconi che si facesse dettare i tempi dalla nomenklatura del suo partito, non sarebbe più Berlusconi. Cioè un uomo che, per invecchiato e acciaccato che sia, i suoi colonnelli se li mangia ancora tutti: non fosse altro per il fatto che se li è scelti lui. Che poi sia anche in grado di governare un’altra volta il Paese, questo è un altro discorso.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10511


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Torna la prima dei bambini stranieri
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2012, 03:52:47 pm
12/9/2012 - LA SCUOLA SIMBOLO

Torna la prima dei bambini stranieri

MICHELE BRAMBILLA

C'è anche qualche storia che finisce bene: la scuola più multietnica d’Italia, la statale «Lombardo Radice» di Milano, da oggi ha nuovamente la sua prima elementare. L’anno scorso era stata cancellata perché aveva «troppi stranieri». Un provvedimento che condannava di fatto la scuola, considerata un modello ben riuscito di integrazione, alla chiusura fra cinque anni.

Invece questa mattina all’ingresso di via Pier Alessandro Paravia 83 - quartiere San Siro - si presenteranno, per il loro primo giorno di scuola, ventun bambini di sei anni. Diciotto di loro sono stranieri.

Una quota in linea con la tradizione della «Lombardo Radice», che due anni fa aveva 93 alunni stranieri (di ventisette nazionalità diverse) su un totale di 97; e l’anno scorso 80 su 93. Quest’anno, se i conti non sono sbagliati, gli stranieri saranno l’83 per cento.

Ma che cosa vuol dire, poi, stranieri? Dei diciotto bambini «non cittadini italiani» (e tutti non comunitari) della prima elementare, quattordici sono nati in Italia; e tutti hanno comunque fatto le scuole dell’infanzia a Milano.

Per noi sono dei piccoli milanesi», dice il vicesindaco Maria Grazia Guida, che questa mattina sarà in via Paravia con il presidente della commissione scuola del Consiglio comunale, Elisabetta Strada; con il consigliere provinciale del Pd Diana De Marchi e con il presidente del comitato dei genitori Domenico Morfino. Tutte persone che si sono date da fare, in quest’ultimo anno, per mantenere in vita la scuola.

Ma perché era stata chiusa? Perché c’era una norma del ministro Gelmini ora abrogata da Profumo - che fissava un tetto massimo di presenza di bambini stranieri per classe: trenta per cento. «Non era una norma del tutto campata per aria, il trenta per cento è una quota indicata dai maggiori esperti di integrazione», dice Diana De Marchi del Pd: «Ma abbiamo cercato di far capire che bisognava interpretare caso per caso. Quando i bambini sono nati in Italia e in Italia hanno fatto le scuole materne, le difficoltà di integrazione linguistica sono minori».

Insomma si è capito che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa, e «si è data più importanza alla biografia dei bambini, cioè al luogo di nascita e alle scuole fatte, mentre l’anno scorso si erano solo guardati i cognomi», dice ancora Diana De Marchi. Per molte famiglie la chiusura era stata un brutto colpo. La scuola è praticamente l’unica presenza dello Stato in questa parte povera del quartiere ricco di San Siro; e frequentarla, per i bambini ma anche per i loro genitori, era la migliore possibilità per integrarsi. Papà e mamme avevano anche provato, invano, a far ricorso in tribunale; i bambini avevano scritto al presidente Napolitano. Alla fine, la battaglia è stata vinta.

Anche se ora va proseguita. «Il Comune», dice il vicesindaco Guida, «sosterrà la didattica per venire incontro a eventuali difficoltà, e avvieremo iniziative per collaborare con la scuola elementare vicina di via Giusti». Che è la scuola dove molti genitori italiani mandano i loro figli per timore della eccessiva «multietnicità» di quella di via Paravia. Così si sono creati due mondi: quasi tutti italiani in via Giusti, quasi tutti stranieri in via Paravia. «Adesso», dice ancora Maria Grazia Guida, «coinvolgeremo i genitori italiani di via Giusti, l’obiettivo è che dall’anno prossimo gli studenti siano distribuiti in modo più equilibrato fra le due scuole. Il mondo sta andando incontro a grandi trasformazioni e come dice il cardinale Scola dobbiamo capire che le diversità arricchiscono».

Mancherà, questa mattina all’apertura, la seconda elementare. Ma è la conseguenza di quello che ormai, in via Paravia, è solo un brutto ricordo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10516


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Renzi avvisa: il ballottaggio a numero chiuso non esiste
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 11:22:26 pm
Politica

07/10/2012 - reportage

Renzi avvisa: il ballottaggio a numero chiuso non esiste

Aveva detto “mi fido del segretario”, ma l’hanno messo in allarme le mosse della Bindi

Michele Brambilla
inviato a bari


Alle otto e mezza di sera la faccia di Matteo Renzi è uno spettacolo quando gli chiediamo se, dopo l’assemblea del Pd sulle regole per le primarie, è tutto risolto. Sorride che sembra Crozza quando lo imita. «Discutiamo della sostanza, non delle forme», risponde. Allora gli facciamo una domanda più diretta: ma le va bene il ballottaggio chiuso, cioè che al secondo turno possa votare solo chi ha votato al primo? Stavolta non sorride più: «Io credo che l’ipotesi del ballottaggio chiuso non esista». 

Non esiste proprio, e non solo nel senso che a lui non va bene: pure nel senso che Renzi è convinto che neanche Bersani vuol tagliar fuori chi non ha votato al primo turno. Allora una collega gli fa presente che questa storia del «ballottaggio chiuso» l’ha detta Rosi Bindi. Ma sì, è la Bindi che ad assemblea chiusa va in giro a spiegare che Renzi è rimasto fregato, e che la sua - la sua di Rosi Bindi - è «l’interpretazione autentica». Renzi torna a sorridere e dice: «Sono dichiarazioni che si commentano da sole». Altro che tutto risolto.

Questo è il Matteo Renzi alle otto e mezza di sera a Bari. Quello del pomeriggio, a Brindisi, era più tranquillo. Da Roma gli erano arrivate notizie confortanti. Bersani aveva respinto gli emendamenti presentati dal gruppo del Pd che più detesta il sindaco di Firenze; gruppo che paradossalmente non è la sinistra del Pd, ma la parte che viene dallo stesso partito da cui viene Renzi: la Dc. (Paradossalmente ma non troppo: Bindi, Marini, Fioroni e c. hanno capito che se Renzi prenderà molti voti alle primarie - e li prenderà - i referenti del Pd verso il centro non saranno più loro).

Beghe delle quali Renzi non vuol sapere: «Alla gente interessano le cose concrete. Facciamole su quello, le primarie, non sulle norme». Ma sa benissimo che è con quelle armi lì, è con le regolette ad hoc che qualcuno del suo partito lo vuol far fuori: perché lui è l’Imprevisto arrivato a scuotere i vecchi equilibri e le nuove certezze (o illusioni?) di aver già vinto le politiche dell’anno prossimo. Lui conta però sulla lealtà di Bersani, che al di là delle «interpretazioni autentiche» di questo pomeriggio dovrà ora sciogliere i nodi rimasti. «Saprà trovare una sintesi», dice Renzi.

Che a Bari arriva alle sette e un quarto di sera. Camicia bianca con le maniche arrotolate, pantaloni beige e scarpe sportive. La sala congressi dell’hotel Excelsior è strapiena. Lui parte a palla. Ha un’energia che sembra un Berlusconi con quarant’anni di meno. Infatti i suoi nemici nel Pd gli contestano pure questo, perché per un certo mondo non c’è insulto più pesante di quello: berlusconiano. Forse è per questo che una delle prime cose che Renzi dice è: «Non mi sento l’Unto del Signore».

Fa vedere alcune slide. I conti e i costi della sua campagna elettorale. Il pessimo uso che fa l’Italia dei fondi europei (99,286 miliardi di euro dissipati in 473.048 progetti). Un grafico sul potere d’acquisto delle famiglie, crollato dal 2007 a oggi. Gli scappa un «ora vi fo vedere una foto», e chissà cosa gli diranno gli spin doctor che ritengono «non vincente» la parlata in toscano.

Comunque parla di queste cose, «cose concrete». Fino a quando però, a un certo punto, delle regole per le primarie non può non far cenno. «Oggi abbiamo accettato», dice passando così al noi, «che l’assemblea del Pd scorresse via tranquilla anche se abbiamo molti dubbi sul fatto che si debbano fare regole diverse da quelle del passato».

«Ma a me va bene tutto», prosegue tornando alla prima persona. «Per due motivi». Il primo è che non vuole alimentare polemiche: «Noi le primarie le vinceremo se parleremo di cose concrete». Il secondo motivo infiamma la platea: «Noi le primarie le facciamo in modo diverso da come le si faceva in passato. In passato, le primarie servivano per sistemare qualcuno». E vai con un’altra slide: si vedono i faccioni degli sfidanti del centrosinistra per le politiche del 2006. C’è Prodi che vinse, ok. Ma gli altri? Gli sconfitti? «Bertinotti che aveva preso l’11 per cento ha avuto come premio di consolazione la presidenza della Camera. E questo? Lo riconoscete? È Mastella: 5 per cento e ministero della Giustizia. E questi? Di Pietro e Pecoraro: 5 per cento alle primarie, due ministeri anche per loro». Applausi a scena aperte. «Io, se perdo, non voglio premi di consolazione: rimango a fare il sindaco di Firenze». Ancora applausi. 

Tanti, ma niente in confronto a quelli che seguono la mossa successiva. Viene proiettato il filmato di D’Alema che a «Otto e mezzo» dice che «se vince Renzi finisce il centrosinistra». È questo l’argomento principe dei suoi nemici interni. E allora Renzi a D’Alema risponde così: «Al massimo, finisce la tua carriera parlamentare», e questa volta è un’ovazione. Arrivata, forse, fino a Roma.

da - http://lastampa.it/2012/10/07/italia/politica/matteo-avvisa-il-ballottaggio-a-numero-chiuso-non-esiste-GJIR8QkKmP0GDs9tXpVf9N/index.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA “Gli attacchi? Mi portano voti”
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:11:32 am
Politica

08/10/2012 - reportage

In camper con Matteo

“Gli attacchi? Mi portano voti”

 
Tra una tappa e l’altra, il sindaco confida: non capisco l’astio personale

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A CAMPOBASSO


Lo stress è tremendo anche per un giovane rottamatore e così Matteo Renzi appena entra nel camper si trasfigura. Fino a un attimo prima rispondeva alle tv locali con una faccia così radiosa che veniva da dire, bersanianamente, che quello non lo ammazza più nessuno.
Adesso si concede qualche minuto di decompressione. Si toglie la camicia, indossa una polo rosa, respira lentamente. «Dammi qualche minuto».
Ci mancherebbe.

L’accordo è: si viaggia insieme sul camper da Foggia e Campobasso, poco più di un’ora di strada, e venti minuti sono per l’intervista. 

 

Il mega staff di cui si favoleggia è tutto qui dentro: un autista, una portavoce, uno che si occupa delle fotografie e uno degli incontri. «La Fiorentina ha vinto», gli dicono mentre lui si sta ancora resettando. «Una buona notizia». Chiede quali sono le tappe. «Adesso si va a Campobasso, poi alle ventuno Isernia». «Va bene, però per favore questa sera evitiamo di mangiare ancora la pizza, ci stiamo gonfiando in modo pazzesco». In quarantott’ore ha fatto: Taranto, Lecce, Brindisi, Bari, Trani, Matera, Potenza, Foggia, Campobasso e Isernia. Sempre sale strapiene, sempre a ripetere più o meno le stesse cose.

 

«Un attimo ancora e ci sono». Telefona alla moglie. Come stanno i bambini? Ha esultato dopo il gol? E come ha giocato la Fiorentina? Intanto guarda i siti internet dei giornali: «Ah, la Iervolino ha detto che sono un cialtrone». E poi: «Arrivo a casa verso le tre o le quattro. Ma non so se ho le chiavi. Luca, ce le abbiamo le chiavi? Boh, non lo so, ciao amore un bacio». 

 

Eccolo pronto a parlare di politica. Di Vendola che oggi lo ha definito un liberista da rottamare. «È incomprensibile come Nichi abbia sempre bisogno di un nemico. Sempre. Le primarie in Puglia gliele aveva fatte vincere D’Alema. Dico che quella di Vendola è la vecchia cultura del nemico, e io a questo giochino non ci sto».

 

È incredibile quante cose riesca a fare contemporaneamente. Parla con i suoi collaboratori: «Oggi sui giornali come siamo usciti? Bene mi pare, no?». Poi ancora verso di noi: «L’importante era che si capisse che Bersani si staccava dagli altri». Poi ancora ai suoi: «Alla Bindi è bastata mezz’ora». Abbiamo capito che i venti minuti promessi per l’intervista andavano intesi come nel basket: al netto. 

 

Gli chiediamo se comunque, dopo l’assemblea del Pd, si sente tranquillo sulle regole per le primarie. «Sì, sono tranquillo. Io penso che non ci fosse bisogno di inventare regole nuove rispetto al passato. Per esempio avrei voluto evitare il secondo turno. Ma mi fa piacere che abbiamo dato a Bersani l’occasione di cominciare a smarcarsi dai suoi». Per il suo segretario, il sindaco di Firenze ha solo parole di pace: «Io non voglio contrapposizioni con lui. Mi fido di lui. Credo che sia uno serio. Noi avremmo potuto alimentare la tensione. Non lo abbiamo fatto e credo che lui abbia apprezzato. Credo che abbia capito che di noi si può fidare. Che non abbiamo mai avuto intenzione di usare infiltrati per vincere le primarie». Ma adesso restano da definire ancora molti particolari su come si voterà, e dovrete arrivare a un accordo con Bersani. «Di queste cose se ne occupano i miei, che sono bravissimi: Reggi che è stato sindaco di Piacenza, Berruti che è sindaco di Savona, Scalfarotto... Facciano loro». Dovranno trattare anche con Rosy Bindi? «Con lei penso sia inutile perdere tempo. È lei che polemizza, fa tutto da sola».

 

Resta la stranezza di un candidato premier che deve difendersi, più che dagli attacchi dei rivali politici, dal fuoco amico. «Ieri ho chiamato Nichi. È stata una telefonata affettuosa. Con lui ho un buon rapporto. Ma non mi convince questa abitudine di dare, dell’“altro”, un’immagine falsa. Come questa storia della campagna elettorale “faraonica”. Ma di che stiamo parlando? Io sto girando l’Italia con un camper, altro che faraonica. E abbiamo messo on line tutti i contributi...»

 

«Non capisco l’astio personale. Guarda solo gli ultimi giorni. La Bindi ha detto che son berlusconiano. Vendola che sono un liberista. La Iervolino che sono un cialtrone. Sposetti che ho speso due milioni per le primarie... Quando capiranno che tutto questo mi porta solo voti, sarà troppo tardi. La gente poi è stanca di queste cose. Lo vedo nei nostri comitati: continuano ad arrivare persone che vogliono impegnarsi, che chiedono che cosa possono fare. A me interessano queste persone, non le beghe di partito. In meno di un mese ho già girato quarantanove province. Arriverò a farle tutte: centootto. Il ventuno e ventidue ottobre sarò in Piemonte. Poi mi rimarrà solo la Sicilia, che voglio girare dopo le regionali. E come vedi giro così, con un camper, senza scorta. Non ho mai viaggiato con un lampeggiante».

 

Gli dicono che mancano cinque chilometri a Campobasso. «Che camicia mi metto? Quella blu? Maniche arrotolate va bene?». Non ci sono stilisti o guru, ma solo i suoi compagni di viaggio, a suggerirgli il look. «Vorrei essere giudicato per quello che ho fatto e che faccio. A Firenze abbiamo investito sulla cultura, musei aperti fino a mezzanotte, perché Vendola non si confronta su questi temi? Ma la gente sta capendo che parlo dei loro problemi di tutti i giorni. Lo sai qual è la cosa che mi ha colpito di più in questi incontri? Sentire i bambini che piangono. Vuol dire che vengono tante mamme, a sentirmi».

 

Lo interrompono: «Matteo preparati che stiamo arrivando, mi dicono che a Campobasso la sala da quattrocento posti è piena e c’è già gente fuori». E lui: «Piena? A Campobasso? Ma non conosciamo nessuno, là...». Eppure è vero che la sala è piena. Non c’è nessun politico, oggi, che desti tanta curiosità come Renzi. Scende dal camper e dà le ultime disposizioni: «Domattina alle nove sono in Comune, tre ore di lavoro, poi se riesco vado a correre un po’». La strada è ancora lunga. 

da - http://lastampa.it/2012/10/08/italia/politica/in-camper-con-matteo-gli-attacchi-mi-portano-voti-CXhbStAVKYco5nzQYvlXBP/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Grillo e Di Pietro, il mito infranto del partito degli onesti
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2012, 05:06:21 pm
Editoriali
02/11/2012

Grillo e Di Pietro, il mito infranto del partito degli onesti

Michele Brambilla

Dunque la stagione politica di Di Pietro pare giunta al capolinea: è stato per anni il leader della protesta, ora al massimo diventerà un grillino di complemento. Non è la prima volta che un integerrimo trova qualcuno più integerrimo di lui: accadde anche a Robespierre, e parabole del genere le ha raccontate benissimo perfino Alberto Sordi con i suoi film, dal «Vigile» al «Moralista».

 

Non stupiscono quindi né la cancellazione del nome dal simbolo del partito (quante icone, in politica, sono diventate all’improvviso motivo di imbarazzo), né la probabile dissoluzione della stessa Italia dei Valori. A stupire, piuttosto, è la reazione, diciamo così, «garantista», dell’intero fronte, diciamo così, «giustizialista».

 

Di Pietro è difeso a sciabola sfoderata sia dal «Fatto quotidiano» sia da Beppe Grillo, il quale l’ha addirittura proposto per il Quirinale. «Certamente meglio lui, uomo onesto, di Napolitano, il peggior presidente che abbiamo avuto», ha detto più o meno il comico e nuotatore genovese, e basterebbe questo per far capire di chi e di che cosa stiamo parlando.

 

Comunque. Perché chi è sempre stato tanto spietato con tutti i politici indagati o anche solo chiacchierati è ora tanto indulgente con Di Pietro? Perché le inchieste di Milena Gabanelli sono il Verbo quando toccano i professionisti della politica e spazzatura quando toccano quelli dell’antipolitica?

 

Azzardando una prima ipotesi benevola, si potrebbe dire questo: Grillo e il fronte giustizialista che lo sostiene non vogliono che si cada nell’equivoco del «tutti colpevoli quindi tutti innocenti». Non vogliono insomma che si corra il rischio di mettere ogni cosa e ogni persona sullo stesso piano. Questa è una preoccupazione legittima perché, effettivamente, sul motto «non facciamo i moralisti perché tanto tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare» c’è chi ci ha marciato, in questi anni.

 

Ma è chiaro che questa ipotesi benevola non basta a spiegare il motivo di tanto accanimento alla rovescia sul caso Di Pietro. Perché è certamente possibile che il leader dell’Italia dei Valori non abbia commesso alcun reato, e che possa chiarire tutto ciò che riguarda l’utilizzo del denaro ricevuto per l’attività politica. Ma è ancora più certo che, in casi analoghi e anche per molto meno, Grillo e i suoi alleati giornalistici non hanno usato la stessa clemenza. Hanno piuttosto gridato al ladro, chiesto immediate dimissioni, invocato ergastolo politico, suggerito di buttare via la chiave.

 

E allora, perché? Avanziamo un’altra ipotesi, questa. La scoperta della non impeccabilità di Di Pietro (che non impeccabile lo è a prescindere da quanto denunciato da Report: basta pensare alla scelta di tanti dirigenti sbagliati nel partito) smaschera il nulla politico che si nasconde dietro tutto quel fronte che da anni sta vivendo e lucrando sui peccati altrui.

 

Intendiamoci: meno male che c’è chi denuncia, punta il dito, s’indigna. Non ci fosse, politici e affaristi sarebbero ancor più liberi e indisturbati nelle loro razzie. Ma denunciare, puntare il dito e indignarsi, anche quando è legittimo, non è sufficiente per candidarsi a guidare un Paese. Per questo diciamo che tanta furia garantista pro Di Pietro è dovuta al fatto che quel che emerge sull’Italia dei Valori smaschera il nulla che c’è dietro a quel partito, ma anche dietro a Grillo e ai suoi sodali. Cioè dietro a tutto quel movimento di protesta che periodicamente si affaccia sulla scena di ogni nazione, denunciando (non senza ragioni) il marcio del potere, ma fermandosi lì.

 

Come si è presentato, quasi vent’anni fa, Di Pietro in politica? «Sono l’uomo dalle mani pulite». Come si chiama il suo partito. «Dei Valori». È di destra o di sinistra? «Sono onesto». Che programmi ha per la ripresa economica? «I corrotti in galera». E la sanità? «Non bisogna rubare». E l’Europa, l’America, i mercati emergenti, la questione ambientale, la bioetica? «Io non rubo». Tutto così. La verginità, anzi l’immacolata concezione come unica ragione sociale. 

 

Ecco perché quando il mito dell’onestà assoluta si rivela per quello che è - un mito, appunto - non resta più niente. A Di Pietro e al suo successore Beppe Grillo.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/02/cultura/opinioni/editoriali/grillo-e-di-pietro-il-mito-infranto-del-partito-degli-onesti-xKD1dSKUvHfGQHSzxg62xN/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La Controriforma
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:31:34 pm
Editoriali
14/11/2012

La Controriforma

Michele Brambilla


Solo in Italia poteva succedere una cosa paradossale come quella che è accaduta ieri, quando il Senato ha approvato un emendamento presentato da Lega e Api per stabilire che la diffamazione a mezzo stampa va punita col carcere. 

 

La cosa paradossale non è tanto il contenuto di quell’emendamento, quanto il fatto che in Senato si stava discutendo della nuova legge sulla diffamazione a mezzo stampa proprio perché la politica - praticamente tutta - aveva annunciato solennemente di voler cancellare il carcere per i giornalisti. 

 

I fatti sono noti. Il direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti è stato recentemente condannato per diffamazione a un anno e quattro mesi di reclusione, senza la condizionale. La cosa ha destato scalpore soprattutto perché l’Italia è praticamente l’unico, fra i Paesi dell’Occidente democratico, a prevedere la pena del carcere per i giornalisti. Negli altri, si prevedono multe, risarcimenti e magari sospensioni temporanee dal lavoro; ma la galera, no.

 

Sull’onda emotiva del caso-Sallusti (in Italia ci si muove sempre così: su onde emotive) era dunque partita una campagna bipartisan per indurre il Parlamento a mettere fine a questa anomalia italiana: insomma a modificare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa prevedendo per i giornalisti colpevoli pene diverse dal carcere. E i politici, in coro, si erano impegnati a farla, quella modifica.

 

Così nelle scorse settimane erano cominciate riunioni, commissioni, gruppi e sottogruppi di lavoro, fino a quando era parso di trovare una quadra, come dice Bossi, e ieri in Senato doveva essere votata la nuova legge, frutto soprattutto della mediazione del parlamentare del Pdl Berselli.

 

Sennonché, ecco la sorpresa: la Lega e l’Api di Rutelli propongono un emendamento che reintroduce il carcere, e la maggioranza dei senatori (a scrutinio ovviamente segreto, perché come diceva don Abbondio il coraggio uno non se lo può dare) approva l’emendamento, reintroducendo il carcere. Ma allora, perché tutta la messa in scena di queste settimane? Non potevano lasciare la legge di prima, senza fingere di volerla cambiare? E senza perdere tempo e sperperare denaro pubblico?

 

Il perché ha una risposta precisa. Sta nel livore, nel rancore che la stragrande maggioranza dei politici nutre nei confronti dei giornalisti, colpevoli di dare spazio alle inchieste giudiziarie sul loro conto, agli scandali che li riguardano, ai guasti prodotti dalla loro incapacità di riformarsi. Così, un Parlamento tra i più disastrosi della storia d’Italia chiude la legislatura prima con una presa in giro («cambieremo la legge»), poi con un regolamento di conti.

 

Certo anche noi giornalisti siamo considerati «una casta». Su quale sia oggi il nostro effettivo potere, ciascuno è libero di pensare quello che vuole. Ma il lettore vittima di tanti luoghi comuni conosca almeno le seguenti informazioni basilari: 1) noi non abbiamo l’immunità che hanno i parlamentari; 2) noi veniamo giudicati dai tribunali ordinari, e non da organismi di autocontrollo; 3) noi veniamo regolarmente condannati per i nostri errori e le multe e i risarcimenti li paghiamo o con le nostre tasche, o con quelle dei nostri editori: mai, in ogni caso, con i fondi di un ministero come avviene per altri; 4) noi siamo, credo, l’unica categoria professionale che non può neppure assicurarsi contro i rischi del mestiere, perché la diffamazione è un reato doloso e sul dolo ovviamente non si fanno polizze.

 

Così, solo alcuni punti per fare chiarezza. E per distinguerci da chi continua a credere di avere il diritto di essere intoccabile, e che poi si lamenta se in Italia monta l’antipolitica e se basterà un Beppe Grillo per mandarli a casa.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/la-controriforma-atZyDdipPcRvNsnBBqTsTK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Un brutto copione e due domande
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2012, 05:07:47 pm
Editoriali
20/11/2012

Un brutto copione e due domande

Michele Brambilla

Probabilmente non c’è italiano che non sia rimasto interdetto, ieri, nel seguire le notizie sul sequestro lampo ai danni del cassiere di fiducia di Silvio Berlusconi. Quello che si è scoperto, con un mese di ritardo, è un episodio di cronaca nera: ma lo scenario nel quale si sono svolti i fatti, e mossi i suoi interpreti, sembra da commedia, o peggio da farsa. Una via di mezzo tra «Romanzo criminale» e un film di Totò. L’ex premier entra in scena come parte lesa: ma forse il danno più rilevante che subisce non è il tentativo di estorsione, quanto la ricaduta d’immagine che gliene deriva. 

 

Un fido ragioniere venuto alla ribalta per la puntualità con cui versa lo stipendio a ragazze chiamate «Olgettine». Sei balordi, tre italiani e tre albanesi, che vanno a casa sua con la pistola in pugno. Una chiavetta usb che conterrebbe le prove di un complotto del presidente della Camera e dei magistrati ai danni di Berlusconi e che nessuno riesce a collegare a un computer. Una richiesta di 35 milioni di euro; tre cassette di sicurezza, una Ferrari prenotata, una telefonata in cui si parla di otto milioni già in Svizzera e forse non è vero, ma è vero che il tutto viene denunciato con oltre un giorno di ritardo. 

 

E infine un pranzo con il presidente del Consiglio Monti e un convegno europeo del Ppe che vengono rinviati, fatti saltare per stare dietro a tutta questa sporca e grottesca faccenda. 

 

Credo non si sia mai visto un grande imprenditore e leader politico coinvolto in questo modo - sia pure, lo ripetiamo, come vittima - in una tragicommedia di così basso livello. Eppure i fatti e i personaggi sopra descritti fanno parte dell’inquietante mondo dell’ultimo Silvio Berlusconi. C’è ahimè un filo rosso, che poi è una medesima antropologia, che lega attori e comparse del «pasticciaccio brutto del ragionier Spinelli» con gli attori e le comparse di altri fatti di cronaca che hanno contrassegnato gli ultimi tre anni - quelli del declino - del Cavaliere. La festa a Casoria per la diciottenne Noemi; quel Tarantini di Bari e Patrizia D’Addario che a letto fa i filmini con il cellulare; i bunga bunga ad Arcore con Lele Mora e le sue ragazze; il compagno di un’Olgettina pescato con chili di cocaina; l’igienista dentale e la finta nipote di Mubarak; il caso Lavitola. E via di questo livello.

 

C’è chi dice che cattive frequentazioni Berlusconi le abbia sempre avute. Non sappiamo se è vero, e comunque prove in questo senso non ce ne sono. Sicuro è però che le amicizie del Berlusconi degli ultimi anni sono tali da suscitare due domande. La prima è: ma che bisogno ha, un uomo così ricco e potente, di frequentare certa gente per divertirsi? La seconda, decisiva: quale affidabilità può dare un leader politico che senza alcuno scrupolo, anzi con ostentazione, bazzica ambienti simili? Fino al punto da venire ricattato da balordi di quart’ordine?

 

Quando scoppiarono i vari casi Noemi, D’Addario, Ruby eccetera, il Cavaliere (allora premier) venne difeso da tutta una serie di intellettuali e giornalisti che gridarono al «moralismo». La parola d’ordine era: ciascuno a letto fa ciò che vuole, separiamo la politica dalla vita privata. Fu un modo abile e imbroglione per distogliere l’attenzione dal vero problema, che non è la moralità ma l’affidabilità: dell’uomo e soprattutto del politico. Se molti leader mondiali non vollero più avere a che fare con l’Italia, è perché non volevano più rapporti con Berlusconi. Il danno per il nostro Paese è stato quel che sappiamo, non fosse altro per il tempo perso.

Oggi Berlusconi appare come prigioniero di quella rete di rapporti e di interessi che ha intessuto da troppo tempo. Processi, casi Ruby e lodi Mondadori, tentativi di ricatto e tentativi di estorsione. Eppure, dopo un anno di panchina anzi di tribuna, sta meditando se tornare in campo. Non è neanche il caso di immaginare a quale film assisteremmo se dovesse decidere per il «sì». 

da - http://lastampa.it/2012/11/20/cultura/opinioni/editoriali/un-brutto-copione-e-due-domande-93mGi8KoP4qnzwxrtYLz4J/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA L’autocritica del sindaco “Scusate, colpa mia”
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2012, 06:43:58 pm
Politica
03/12/2012 - Centrosinistra, Renzi

L’autocritica del sindaco “Scusate, colpa mia”

“Era giusto provarci”.

E offre il suo aiuto all’ex avversario

Michele Brambilla
inviato a Firenze


Matteo Renzi non ha saputo vincere ma ha dimostrato di saper perdere. Come aveva promesso, ha escluso una coda polemica sulle regole e ha assicurato che darà una mano a Bersani, mettendosi lealmente al servizio del Pd e del centrosinistra. 

 

Ieri sera era commosso. Lui che ha la fama di essere un giovane rampante, e quindi vincente, ha confermato che spesso gli sconfitti sono più interessanti dei vincitori. E che quando si perde - se si accetta la lezione che la vita impone - si può dare il meglio di sé. Quando è arrivato alla Fortezza da Basso - sede del suo comitato elettorale - alle nove e mezza di sera, Renzi ha dato l’impressione di essere dispiaciuto soprattutto per tutti coloro - in gran parte volontari - che hanno lavorato con lui in questi ultimi tre mesi. Cosa rara per un politico, non ha detto «abbiamo perso» ma «ho perso», e ha chiesto scusa.

 

Che tirasse aria di sconfitta, e di sconfitta netta, il sindaco lo aveva capito già pochi minuti dopo la chiusura dei seggi. Su Twitter aveva diffuso un messaggio che era l’implicita ammissione di aver perso: «Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme. Grazie di cuore a tutti, ci vediamo dalla Fortezza da Basso alle 21.30». Ed è arrivato puntuale, lui di solito ritardatario; forse per l’impazienza di chiuderla lì; forse per la voglia di abbracciare tutti i compagni di avventura. Infatti quando è salito sul palco, prima di prendere la parola ha voluto che sul maxi schermo scorressero le immagini del suo viaggio in camper. Immagini che ha osservato quasi con devozione. Poi le sue prime parole sono state queste: «Dedichiamo questo filmato ai ragazzi e alle ragazze, volontari, che ci stanno seguendo da tutta Italia».

 

Solo dopo questa dedica da uomo ha parlato da politico: «Ho appena chiamato Pierluigi Bersani per fargli i miei e i vostri complimenti e per dargli l’in bocca al lupo». Ha subito sgomberato il campo da possibili recriminazioni: «La sua vittoria è stata netta. Lui ha vinto e noi no». 

 

Poi l’autocritica. «Vorrei», ha aggiunto, «che fossimo seri con noi stessi. Abbiamo offerto una diversa idea dell’Italia, del partito, del centrosinistra. Io credo a parole d’ordine diverse da quelle di Bersani. Abbiamo espresso i nostri concetti con grande chiarezza e oggi dobbiamo dire che gli italiani che sono andati alle urne sono stati ancora più chiari di noi. Abbiamo perso. Anzi, io ho perso».

 

Non ha cercato di addolcire l’amara medicina che i risultati hanno somministrato a lui e ai suoi: «Certo abbiamo tanti motivi per rallegrarci per quello che abbiamo vissuto. Ma noi non eravamo qui per fare una battaglia di testimonianza. Noi volevamo prendere in mano il governo del Paese e non ce l’abbiamo fatta». Ha ripetuto, come pochi minuti prima, l’esortazione «siamo seri». «Ci abbiamo creduto fino alla fine».

 

Come non buttare via tutto? «Mi piace l’idea che dopo questa battaglia per la nostra generazione sarà più facile provarci; mi piace pensare che altri under quaranta ci proveranno». Solo una frecciata polemica: «Non era l’ambizione di un ragazzetto, come qualcuno ha scritto. Era il dare un senso al nostro coraggio e al nostro orgoglio. Qualcosa abbiamo sbagliato. Io ho sbagliato. E per questo voglio chiedervi scusa».

 

«Noi volevamo sinceramente realizzare il sogno di un Paese diverso. Io non sono riuscito a togliermi di dosso, fuori dalla Toscana, l’immagine del ragazzetto». Un po’ di amarezza: «Me ne sono sentite dire di tutti i colori, compresa quella storia delle Cayman. Ma la colpa è mia. Non sono riuscito a portare ai gazebo un numero sufficiente di italiani. La verità è questa, inutile parlare di regole». Al vincitore, lo sconfitto ha lanciato però un messaggio: «Bersani vada a parlare anche all’Italia che non è andata ai gazebo».

 

L’ultima parte del discorso di Renzi è sembrato un po’ stile-papa Giovanni: «Andando a casa questa sera, siate orgogliosi di quello che siete riusciti a fare. Ai colleghi d’ufficio e ai compagni di classe non mostrate facce tristi. Offrite loro un sorriso, perché questa esperienza è stata bellissima. E se c’è qualche cicatrice, riportate loro questa citazione di Bersani, voglio dire non di Pierluigi, ma di Samuele Bersani: “È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di essere stato felice”». E poi: «Rimboccando le coperte dei vostri figli questa sera, dovete pensare che quello che avete fatto non lo avete fatto per voi ma per loro».

 

Ha concluso invitando a non mollare: «Non siamo riusciti a cambiare la politica. Adesso sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi. Abbiamo dalla nostra parte l’entusiasmo, il tempo e la libertà. Ho ricevuto più di quanto ho dato. Vi ringrazio».

 

Undici minuti di discorso in tutto. Uscendo, ha avuto la forza di scherzare: «Su Twitter qualcuno ha scritto: “Finalmente Renzi ha fatto una cosa di sinistra: ha perso”. È stato il commento più simpatico e forse il più vero». A un certo punto aveva davvero pensato di vincere. Per questo domani, assicura chi lo conosce, per il sindaco sarà un giorno difficile. Ma Renzi, di domani, ne ha di fronte tanti.

DA - http://lastampa.it/2012/12/03/italia/politica/l-autocritica-del-sindaco-scusate-colpa-mia-oY100sjf8IhqtWicnCacGK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Politica, ritorno al passato
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2012, 04:59:20 pm
Editoriali
08/12/2012

Politica, ritorno al passato

Michele Brambilla


In una settimana il centro del dibattito politico si è spostato da Matteo Renzi, 37 anni, a Silvio Berlusconi, 76. Il sindaco di Firenze aveva perso le primarie, ma per mesi aveva tenuto l’attenzione di tutti fissa sul cambiamento, sul rinnovamento. Sul futuro. E anche dopo aver dovuto lasciare a Bersani la candidatura a Palazzo Chigi, Renzi continuava a esserci, pur nel suo silenzio, come una presenza che ti impone di voltare pagina, anche per non far regali al fronte dell’antipolitica. Non era solo il quaranta per cento degli elettori del centrosinistra alle primarie - quelli che lo hanno votato - a farci sperare in una novità: lo stesso Bersani, dichiarando di avere il senso della «cosa comune», aveva garantito che avrebbe portato il partito dentro il secondo decennio del Duemila.

 

Pochi giorni, e siamo invece risprofondati nel Novecento. Di Renzi non si parla più. L’agenda politica, ma anche ahimè quella dei mercati e della finanza internazionale, sono dettate da un uomo che si era presentato come il «nuovo» diciotto anni fa, quando peraltro aveva già cinquantotto anni, ventuno più del Renzi di oggi.

Nessuno è così ingenuo da pensare che basti la carta d’identità per garantire un miglioramento della classe dirigente. Anzi, la Bibbia dice che il giovane è stolto e necessita della correzione del bastone. Che l’esperienza porti saggezza, lo abbiamo sperimentato in questi ultimi anni grazie al presidente Napolitano, che in politica ha dato il meglio di sé proprio da ottuagenario. Non avessimo avuto al Quirinale un simile inquilino, chissà dove saremmo finiti.

 

Ma il «vecchio» che sta ritornando da un paio di giorni a questa parte è ben di più di una questione anagrafica. È quel brutto film di cui ci illudevamo di aver visto da un pezzo i titoli di coda. I partiti come questioni personali, la rissa come propaganda politica, gli insulti. Anche chi non ha partecipato alle primarie del centrosinistra non può non ammettere che ben diverso era stato il clima dello «scontro» tra Renzi e Bersani. Avevamo sperato di aver imparato qualcosa dagli Stati Uniti, io mi confronto con te sui programmi e se perdo comunque ti do una mano perché siamo tutti sulla barca. 

 

Come non detto. Torna il clima da guerra civile e quel che è peggio torneremo a discutere di conflitto d’interesse, del ruolo della magistratura (ogni inchiesta o sentenza sarà chiamata, d’ora in poi, «a orologeria»), di pericolo comunista, e così via. Tutte cose di cui l’Italia non ha bisogno. Un anno fa, quando era nato il governo Monti, ci eravamo illusi che questo scenario fosse ormai da consegnare ai libri di storia. Pdl e Pd avevano sospeso le ostilità e tutti eravamo contenti di addormentarci davanti alla televisione quando andava in onda Porta a porta o Ballarò. Sembrava che ciascuno avesse messo da parte i propri interessi e i propri istinti, pur di collaborare con gli ex nemici per il bene del Paese. Pensavamo che il governo Monti, che si reggeva su una tregua fra destra e sinistra, fosse solo il primo momento di una nuova fase che sarebbe continuata dopo la fine della legislatura, con un nuovo esecutivo eletto dal popolo, ma con lo stesso senso di responsabilità.

 

Il perché dello sconsolante ritorno al passato cui stiamo assistendo è forse da ricercare più nei meandri della mente umana che in quelli della politica. L’angoscia per il tempo che se ne va, la paura di veder spegnere accanto a sé le luci della ribalta, la convinzione di essere ancora il migliore anzi l’unico, la sete di rivincita... Chissà. Cose che appartengono al mistero della psiche. Ma forse ancora più misteriosa è la poco virile accondiscendenza di chi permette la messa in azione, all’indietro, di questa pericolosa macchina del tempo. Di chi non capisce che, assecondando e sottomettendosi ancora una volta, non rende un buon servigio né a se stessi, né al Paese, né alla propria parte politica, e ultimamente neppure al proprio capo. 

da - http://lastampa.it/2012/12/08/cultura/opinioni/editoriali/politica-ritorno-al-passato-wz0IYE9wPhQQMM3YinUqsO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Monti rischia un appoggio eccessivo
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2012, 07:25:45 pm
Editoriali
14/12/2012

Monti rischia un appoggio eccessivo

Michele Brambilla

Due cose non s’erano mai viste in una campagna elettorale. Non s’era mai vista una così esplicita ingerenza (chiamiamo le cose con il loro nome) estera sul voto italiano, e non s’era mai visto il leader di un partito che indica come candidato premier il premier che ha appena sfiduciato. 

 

La prima cosa, cioè il fatto che tutta Europa chieda a Monti di ricandidarsi, è indice di quanta stima goda oltre confine il Professore (tantissima) e di quanta ne abbia goduta il suo predecessore (pochissima per non dire zero). La seconda cosa sembra la prova delle difficoltà che Berlusconi sta incontrando dopo aver annunciato, con la solita metafora calcistica, il suo «ritorno in campo». 

 

Tutti e due i fatti, insieme, appaiono poi come il segno che per il Cavaliere non tira una buona aria. L’Europa non lo vuole, e lui si manifesta in stato confusionale. L’altro ieri, durante quella che in teoria avrebbe dovuto essere la presentazione di un libro di Bruno Vespa, in poco più di un’ora ha dato cinque versioni sulla candidatura a premier: 1) se si presenta Monti io faccio un passo indietro; 2) lo faccio anche se Montezemolo assume la guida del centrodestra; 3) Alfano è in pole position per Palazzo Chigi; 4) se la Lega non mi appoggia faccio cadere le giunte in Piemonte e in Veneto; 5) la Lega ha accolto con entusiasmo il mio ritorno e al momento il candidato premier sono io. Ventiquattr’ore più tardi, cioè ieri, è tornato a caldeggiare un Monti-due, segno che a un Berlusconi-quattro non ci crede neppure lui.

 

O siamo di fronte a un genio di cui non siamo in grado di capire le mosse, il che è possibile; oppure Berlusconi è davvero in difficoltà, più di quanto abbia immaginato al momento di decidere il proprio ritorno. Cioè quando sapeva che la partita sarebbe stata difficile (i sondaggi non sono mai stati buoni) ma non prevedeva di sbattere contro le porte che la Lega, il vecchio alleato, gli ha chiuso in faccia. Abituato a trattare con l’amico Bossi - con il quale a un accordo, alla fine, si arrivava sempre - il Cavaliere dev’essere rimasto di sale quando s’è sentito dire da Maroni che l’alleanza Pdl-Lega può anche andar bene, ma a patto che lui si tolga di mezzo.

 

Così stando le cose - con l’Europa contro, con il Pdl sfasciato, con la Lega che lo abbandona - gli ultimi alleati del Cavaliere sembrano rimasti i suoi nemici storici, gli «antiberlusconiani» in servizio effettivo e permanente. Di assist, non mancheranno di offrirgliene. 

 

Il primo sarà l’enfatizzazione del fronte internazionale pro-Monti. Un fronte che ha le sue sacrosante ragioni. Ma anche l’indelicatezza di non capire che basta poco per far rinascere negli italiani, di solito fieramente anti-italiani, l’orgoglio di sentirsi italiani. Se l’ipotesi di un Monti candidato di tutti i moderati Lega compresa svanirà (e svanirà), Berlusconi avrà buon gioco nel gridare alle indebite pressioni, al tentativo di colonizzarci, alle speculazioni dei mercati manovrati dai poteri forti internazionali, che non si sa chi siano ma proprio per questo come «nemico» funzionano sempre. 

 

Il secondo assist glielo stanno già offrendo gli intellettuali, i comici e i giornalisti eccetera che hanno ripreso la battaglia con le armi dei bei tempi che furono, i quali poi furono bei tempi per Berlusconi perché certe campagne finirono per l’ottenere l’effetto opposto. Sono, costoro, in azione sia all’estero che in Patria, e negli ultimi giorni li abbiamo visti confezionare prime pagine con Berlusconi trasformato in mummia o, più gentilmente, che riemerge da un water; li abbiamo letti nei loro articoli sul Cerone di Natale o sul Cainano, li abbiamo sentiti alla Rai mentre invitavano a togliersi dal c. Anche qui, il Cavaliere non faticherà a dimostrare di quanta faziosità sia capace «una certa sinistra»; di quanto odio sia fatto oggetto «la sua persona». E si fregherà le mani.

 

Il primo ad avvertire questo rischio è proprio Bersani, che infatti ieri ha detto che non farà una campagna elettorale ad personam, avendo capito che il Berlusconi di oggi, a perdere, provvede da solo. Perché il Berlusconi di oggi non è più quello del 1994, anche se molti suoi avversari sono rimasti, un po’ pateticamente, quelli di allora. 

da - http://lastampa.it/2012/12/14/cultura/opinioni/editoriali/monti-rischia-un-appoggio-eccessivo-ywnEWdeRiA7jK3hS5mJESI/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Monti: “Noi siamo il vero nuovo”
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:56:56 pm
Politica
20/01/2013 - l’analisi

Un ruolo a Nord e società civile

Monti: “Noi siamo il vero nuovo”

La sfida del Professore da Bergamo

Michele Brambilla

Mario Monti ha aperto oggi la sua campagna elettorale a Bergamo, al «kilometro rosso» dell’imprenditore Alberto Bombassei, che correrà per un posto in parlamento. L’ha aperta davanti ai suoi candidati: ma il messaggio che ha voluto lanciare è diretto a tutto il Paese. Ed è un messaggio che vuole innanzitutto ricordare quanto di buono ha fatto il suo governo, un governo che oggi - con argomenti diversi ma per motivazioni identiche - sia la destra che la sinistra, che pure l’avevano appoggiato, rinnegano. 

Monti ha voluto ricordare che il Paese davvero era sull’orlo del fallimento, e ha rivendicato con orgoglio i risultati ottenuti. Ma il premier ha voluto soprattutto guardare al futuro. Ha voluto dire che il prossimo governo non dovrà, come il suo, partire da una situazione di allarme rosso, proprio perché il pericolo di un default non c’è più, e quindi «non è per nulla incoerente» che lui oggi parli di una «graduale riduzione delle tasse». Monti ha voluto guardare avanti soprattutto presentando i candidati della sua lista «Scelta civica», dei quali nessuno è mai stato parlamentare. «Noi siamo il vero nuovo», ha insomma voluto dire Monti, perché tutti i candidati vengono davvero dalla società civile. Ma anche e soprattutto perché nuova è l’anima di questa sua formazione, che vuole superare davvero i vecchi schemi di destra e sinistra.

Ha voluto partire dal Nord, il premier. «Dalla mia Lombardia», ha detto. E poi ha parlato della «sua» Varese. Territori che vent’anni fa hanno dato origine ad altre avventure nate dalla società civile o dal popolo, e quindi fuori dalla politica come fuori dalla politica è l’origine di Monti e dei suoi candidati. Forza Italia e la Lega, insomma. Le quali però, ha detto Monti, hanno tradito, portando avanti promesse vuote e illusorie. La sfida partita oggi a Bergamo è proprio questa: ridare un ruolo al Nord e alla società civile con un altro stile, con altri obiettivi e con un’altra politica.

da - http://lastampa.it/2013/01/20/italia/politica/un-ruolo-a-nord-e-societa-civile-monti-noi-siamo-il-vero-nuovo-Jz11idydqrDOcogPcUMzWP/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA “Pulito” e impossibile
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2013, 11:58:55 pm
Editoriali
01/02/2013 - politica e sprechi

“Pulito” e impossibile


Michele Brambilla


C’era una volta nei giornali una rubrica: «L’intervista impossibile». 

 

Si immaginava di conversare con illustri personaggi da tempo trapassati e si mettevano a segno scoop memorabili: l’ultima notte di Marilyn Monroe e per chi voterebbe Mussolini. Oggi per fare un’intervista impossibile non c’è bisogno di scomodare i morti: basta cercare un consigliere regionale della Lombardia non inquisito. 

 

Una semplice ricerca d’archivio mostra come la caccia a un nome sicuramente «pulito» non appartenga alla categoria del giornalismo ma a quella del circo: sempre più difficile. Nella scorsa primavera i quotidiani titolavano: «Degli 80 consiglieri, 14 sono sotto inchiesta». C’erano, per il cronista, sessantasei possibilità, praticamente l’imbarazzo della scelta. Ma poche settimane dopo, un altro titolo informava che «Sono 17 (su 80) i consiglieri lombardi coinvolti dalle inchieste». In fondo erano però percentuali fisiologiche: reati di corruzione, tangenti, voti comperati dalla ’ndrangheta, insomma routine.

 

La ricerca del consigliere integerrimo s’è complicata quando i magistrati si sono messi a ficcare il naso nelle note spese. «Altri 37 consiglieri regionali lombardi - scrive in dicembre un grande quotidiano milanese - indagati per peculato nell’inchiesta sui rimborsi spese facili: ora sotto indagine sono in 62, 35 dei quali appartengono al Pdl e 27 alla Lega». L’altro ieri la stessa inchiesta va a fare le pulci anche all’opposizione: 29 nuovi indagati fra Pd, Idv, Sel e Udc. «In totale», spiega un collega della cronaca giudiziaria, «gli indagati per il solo filone dei rimborsi spese sono ottanta fra maggioranza e opposizione, più tredici per le vecchie inchieste». Il tutto abbraccia però il periodo 2008-2012, quindi due legislature: alcuni di coloro finiti sotto inchiesta non sono più in Regione. «Potrebbero tuttavia esserci altri consiglieri», spiega ancora il collega, «che sono stati iscritti nel registro degli indagati senza aver ricevuto un invito a comparire: in quel caso, i loro nomi sarebbero ancora coperti».

 

Intervistare un consigliere che faccia la predica è dunque rischioso: chi è pulito oggi, potrebbe non esserlo domani. Fino a qualche settimana fa sui giornali pubblicavamo una specie di foto-simbolo dell’ufficio di presidenza della Regione Lombardia sottolineando che dei cinque immortalati solo uno era illibato. Ieri abbiamo appreso che quell’unica pecora bianca, il consigliere del Pd Carlo Spreafico, deve spiegare al magistrato perché ha messo in nota spese 8 euro di fototessere, 3,70 per un biscotto a cinque stelle e acqua frizzante, 8,10 per due coni piccoli e uno medio, 2,70 per la Nutella, 9,4 per un ombrello automatico. Forse - visto che pare abbia messo in nota spese anche la quota associativa all’Ordine dei giornalisti, un centinaio di euro - è stato contagiato dalla nostra categoria, specialista della pratica: ogni redazione ha una vasta aneddotica in materia. 

 

Auguriamo a Spreafico di chiarire tutto. Si tratta comunque di quisquilie, di fronte alle vere grandi ruberie di molti politici. E poi dev’essere un vizio nazionale. Una dozzina di anni fa un brigatista rosso, reduce da uno scontro a fuoco su un treno, venne arrestato perché beccato in possesso, giorni dopo, del biglietto ferroviario che aveva conservato per farselo rimborsare dai compagni: apprendemmo così che in Italia c’è anche una nota spese della rivoluzione.

 

Ma a questo Paese che digerisce tutto, anche la crisi, forse riesce più difficile accettare proprio certe miserie. Se a chiedere il rimborso di un biglietto del tram (è successo) è un consigliere regionale che guadagna novemila euro netti al mese - più indennità di 1.500 euro per il portaborse e altri benefit - vien da chiedersi chi siano, in realtà, i bisognosi d’aiuto.


da - http://lastampa.it/2013/02/01/cultura/opinioni/editoriali/pulito-e-impossibile-pulito-e-impossibile-jqAajoVd3X7KOhgOTkZkHK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA “Grazie Santità”
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:27:52 pm
Cronache
14/02/2013 - reportage

“Grazie Santità”

L’emozione dei fedeli più forte della paura


Religiosi e semplici fedeli si sono messi in fila ieri pomeriggio per partecipare all’ultima celebrazione eucaristica di Papa Benedetto XVI a San Pietro

Applausi e cori all’udienza generale nell’Aula Paolo VI

Michele Brambilla

Città Del Vaticano


Sono le nove del mattino di un giorno unico nella storia: tra poco ci sarà il primo incontro con i fedeli di un Papa dimissionario. La gente fa la fila in piazza San Pietro; l’aula Paolo VI, dove si terrà la consueta udienza del mercoledì, si sta riempiendo. Si coglie qualcosa di difficile da tradurre in parole. Mando un sms a un amico: «È strano. C’è un clima di festa. È un altro mondo».

 

Poche parole per descrivere lo stupore del cronista immerso in una dimensione che sembra non avere una spiegazione umana. Il Papa - cosa inaudita - ha lasciato; la Chiesa è senza guida; il gregge è senza pastore; girano voci e sospetti terribili su scandali, complotti, ricatti. Qualsiasi Paese, se il proprio governo fosse caduto in una simile tempesta, sarebbe angosciato; qualsiasi partito politico penserebbe di essere arrivato alla fine. Invece qui si vedono solo volti sorridenti, si sentono canti, si vedono sventolare bandiere. Non sembra incoscienza: tutti sanno quello che è successo. E tutti sanno che quello che è successo è grave: lo dirà, tra un po’, il Papa stesso. Ma c’è come una serenità di fondo, una certezza superiore, una percezione che la realtà è, ultimamente, per il bene. Rimando l’sms di prima a un altro amico, questa volta un prete, per esprimere lo sbigottimento. Mi risponde così: «Questa è davvero la Chiesa».

 

È come se stando qua fosse messa a nudo, impietosamente, tutta la nostra incapacità di capire una realtà che non appartiene alle categorie della politica, dell’economia, della sociologia. Noi - intendendo «noi dei media» - pensiamo che tutto sia determinato, nel bene e nel male, dalle azioni degli uomini. Che ne sarebbe di un’istituzione politica scossa dallo scandalo della pedofilia, dal corvo, da Vatileaks? Ma il popolo che sta arrivando qui, questa mattina, da tutto il mondo, per ascoltare la catechesi di un Papa dimissionario, non crede che l’uomo sia il solo artefice del proprio destino. «Le opere buone non bastano a salvare la Chiesa, e il peccato non basta a farla affondare. C’è qualcosa che sta sopra di noi», mi dice una suora.

 

E i dubbi di fede? Lo sconcerto per un Papa che lascia sotto il peso della vecchiaia e delle divisioni? Non ci avevano detto che era assistito dallo Spirito Santo? Guardando le facce delle migliaia di persone che stanno aspettando l’apparire di un quasi ex Papa non pare proprio di cogliere i segni di simili tormenti. Anzi par quasi di avere in anticipo la serafica visione del sorriso con cui più tardi, in sala stampa, padre Lombardi risponderà sul tema: «Ma perché mai dovrebbero esserci dubbi di fede? Non è scritto da nessuna parte, né nel Vangelo né nel Credo, che un Papa debba morire Papa». 

 

Gli universitari di Cl di Roma srotolano uno striscione: «Nihil amori Christi praeponere. Grazie Santità». Una donna slovacca gira per la sala tenendo alto un quadro della Madonna. Un’improvvisata banda si mette a suonare: sono austriaci, o forse tirolesi. Quante lingue diverse si parlano qui dentro, in questo momento? Dieci, venti, trenta? È però sorprendente come tutti sembrano intendersi in una sorta di Pentecoste. Alle 10.10 danno lettura dei gruppi presenti, si scopre un mondo del tutto ignorato dal mondo: le «Ancelle del Sacro Cuore», quelli de «La Señora de los milagros», i «Servi di» eccetera eccetera. Ogni tanto scoppia un applauso. C’è uno che grida «Viva il Papa». E poi i cori: «Benedetto-Benedetto». Sta arrivando? No, è solo l’impazienza.

 

Ma eccolo. Sono le 10.40. Cammina un po’ curvo, la voce pare tremante quando dà la benedizione in latino. Si siede. Leggono il Vangelo di Luca: Gesù nel deserto tentato da satana per quaranta giorni. Ma perché questo grande Papa si è dimesso? Alle 10.48 pronuncia quel «Cari fratelli e sorelle» cui ci aveva abituati, e che ci mancherà. «Come sapete...», prova ad attaccare così, ma è subito interrotto da un lunghissimo applauso. «... ho deciso di rinunciare al ministero che la Chiesa mi ha affidato il 19 aprile 2005», e aggiunge di essere «ben consapevole della gravità di questo atto». Che cosa starà provando adesso quest’uomo di 86 anni, gravato da una tale responsabilità? «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il quale non farà mai mancare la sua guida e la sua cura». È una cosa che ha sempre pensato. Quasi trent’anni fa, a Vittorio Messori che gli chiedeva se non era preoccupato per la crisi che già allora attanagliava la cristianità, il cardinal Ratzinger sorrise come oggi non sa e non può sorridere, ma rispose con lo stesso concetto: «E perché dovrei preoccuparmi? La Chiesa la salva Cristo».

 

Gli uomini le donne e i bambini che sono qui ad ascoltare la sua penultima catechesi del mercoledì non hanno i suoi studi ma la medesima certezza: è la fede dei semplici. «Ho sentito quasi fisicamente, in questi giorni per me non facili, la forza della vostra preghiera. Continuate a pregare per il mio successore...». Poi comincia il commento al Vangelo. Il deserto. Le tentazioni. La conversione. «La domanda fondamentale è: che cosa conta veramente nella mia vita?». Adesso sembra sereno. Lo abbracciano con un grande, interminabile applauso. Anche questo è strano: in quell’esile e vecchio uomo vestito di bianco che sembra incarnare una sconfitta, c’è chi scorge una speranza, il segno che la vita ha un senso. L’ultima parola che lui pronuncia, alle 11 e 4 minuti, è: «Grazie». 

da - http://lastampa.it/2013/02/14/italia/cronache/grazie-santita-l-emozione-dei-fedeli-piu-forte-della-paura-TRAKhiDKFrLhbKSDNyxzXK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Una scelta sbagliata nei tempi
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:14:53 pm
Editoriali
16/02/2013

Una scelta sbagliata nei tempi

Michele Brambilla

Inutile perdere tempo in troppi giri di parole: la notizia della nomina del nuovo presidente dello Ior è sconvolgente. Non per la persona scelta, o per il fatto ch’egli provenga da un’azienda che ha costruito navi da guerra. Non è quello il punto che sconvolge. Se anche questo signor Ernst von Freyberg fosse la miglior persona del mondo e quindi la miglior scelta possibile (e ci auguriamo che lo sia), è sconvolgente pensare che la prima cosa che fa la Chiesa dopo le dimissioni (le inaudite dimissioni!) del Vicario di Cristo non è pensare alle anime, in questo momento quantomeno turbate, ma alle proprie casseforti. 

Intendiamoci bene. Lungi da noi - migliaia di anni luce - la tentazione di fare facile demagogia o ancor più facile pauperismo.

La Chiesa è un’istituzione che sta nel mondo e non può vivere di sola preghiera; né si può pensare che la scelta di povertà escluda l’esigenza di possedere una banca. La Chiesa dunque deve avere una sua banca; e questa sua banca deve avere un presidente.

 

Il problema, o meglio lo scandalo, è piuttosto riassumibile in una sola parola, che è «opportunità». O se preferite «sensibilità». È opportuno, con l’intera cristianità sotto choc per aver perduto il proprio più importante pastore, concentrarsi immediatamente sulla nomina del presidente dello Ior?

Ieri il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, ha spiegato che era giunto a termine un iter durato otto mesi; che la presidenza dello Ior non è un ruolo di governo della Chiesa e quindi non è fondamentale che sia decisa dal prossimo Papa, al quale anzi s’è pensato in questo modo di togliere almeno un’incombenza, visto che di grattacapi ne avrà già parecchi. Sarà senz’altro tutto vero. Ma è evidente che l’immagine data all’esterno, soprattutto ai fedeli, è pessima.

 

Infatti. Papa Ratzinger non si è dimesso in un momento qualsiasi. Si è dimesso dopo una serie di scandali che lo hanno profondamente addolorato e provato. Scandali che in buona parte hanno avuto origine all’interno dei Sacri Palazzi: dai tentativi di ostacolare la pulizia che il Papa ha voluto fare sul caso dei preti pedofili fino al cosiddetto Vatileaks, una storia di squallore infinito. Non sono chiacchiere giornalistiche o malignità: sono parole che il Papa stesso ha scolpito nella storia durante la cerimonia delle Ceneri, quando ha denunciato le divisioni, le rivalità, i carrierismi, la brama di potere che ottenebra chi dovrebbe servire il Vangelo.

Anche qui: nessuna demagogia. Sappiamo bene che la Chiesa è fatta da uomini e che non esiste uomo senza peccato. Ma ci chiediamo dove sia finita la tradizionale prudenza (virtù cardinale) della Chiesa, se non si capisce che affannarsi in fretta e furia - adesso che il Papa se ne va - a trovare un presidente dello Ior che mancava da otto mesi, vuol dire dare ragione, o quantomeno ottimi argomenti, a chi dipinge la Curia vaticana come un centro di potere che s’interessa solo a vicende terrene, e non alle più nobili.

 

L’altro ieri ho parlato con i preti romani che sono andati all’ultima udienza che Papa Ratzinger ha potuto concedere loro. Sono disorientati. Hanno fede, e credono che il Papa abbia agito nella certezza che questa è la volontà di Dio. Hanno speranza, e sono certi che la Provvidenza stia lavorando per il bene. Ma sono uomini anche loro, scossi anche loro, e mi confidavano di essere in difficoltà nel trovare risposte per i propri parrocchiani. I quali chiedono come sia stato possibile che un Papa abbia detto «non ce la faccio più»; e sentono dire cose terribili sui presunti intrighi di Curia.

 

E mentre tutto questo accade, mentre il Papa sta per andarsene da Roma in elicottero, qual è la prima mossa della Curia romana? Trovare una guida per lo Ior. Magari per evitare che il presidente venga scelto dalla Curia che verrà (questo è solo un sospetto, ma bisognerebbe preservare i fedeli anche dai sospetti).

C’è da chiedersi quale contatto con il popolo, e quindi con la realtà, abbiano certi prelati, che poi si lamentano quando esce un libro di Dan Brown.

da - http://lastampa.it/2013/02/16/cultura/opinioni/editoriali/una-scelta-sbagliata-nei-tempi-LOKRx1roIbEzjBsxRG2PRL/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Tasse e crisi riconsegnano il Nord al centrodestra
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:21:33 pm
Elezioni Politiche 2013
26/02/2013 - reportage

Tasse e crisi riconsegnano il Nord al centrodestra

Il Pd non coglie il disagio reale degli imprenditori e i voti persi dal Carroccio vanno a Grillo

Michele Brambilla

Milano


Il Nord resta a Berlusconi. E quella parte che non resta a Berlusconi va con Beppe Grillo il quale, come il Cavaliere, ha saputo capire le istanze profonde di una parte del Paese che nell’ultimo anno s’è sentita segnata da due calamità: le tasse e il crollo dei consumi. 

 

La sinistra questo mondo continua a non capirlo. Una dichiarazione che dice tanto - non tutto, ma tanto - sui motivi della sua sconfitta l’ha fatta a metà pomeriggio Laura Puppato del Pd: «Non capisco», ha detto, «come gli imprenditori veneti non si siano resi conto e abbiano votato ancora Pdl-Lega. Poi c’è stata l’avanzata del Movimento 5 Stelle di Grillo che ha portato via voti a tutti noi e al centrodestra». Laura Puppato non è una qualunque. È stata candidata premier alle primarie della sua coalizione. È veneta. È consigliere regionale e vanta un record di preferenze. Ha fatto il sindaco. È tanto sensibile ai tempi nuovi che Beppe Grillo la premiò, nel 2007, come «primo sindaco a cinque stelle». Insomma è una persona capace e con una grande conoscenza del territorio. Eppure «non capisce» perché gli imprenditori del Veneto, i «suoi» imprenditori, alla fine abbiano votato ancora per Berlusconi e per la Lega. Certo non nella misura di una volta: i voti al Carroccio, in particolare, sono diminuiti di molto. Ma il Veneto è rimasto al centrodestra. Così come la Lombardia. 

 

In questo «non capire» c’è forse un’irriducibile distanza della sinistra da tutto quel mondo delle piccole e medie imprese che costituiscono la spina dorsale del Paese e in particolare del Nord. Il Nord dei capannoni, degli artigiani, delle partite Iva. Questo mondo, ormai da mesi, non parlava che di due argomenti: le tasse e la crisi. Ogni tanto ne intervallava un terzo: la burocrazia. Quanto sono stati sottovalutati questi temi?

Solo nove mesi fa, alle amministrative di primavera, Pdl e Lega erano crollati in gran parte del Nord. In roccaforti storiche del centrodestra come Como, Monza e Cantù, erano stati eletti sindaci di centrosinistra. Il Pdl sembrava allo sbando. Non si trovava mezzo imprenditore, né medio né piccolo, che dichiarasse di fidarsi ancora di Berlusconi. Non parliamo poi di Bossi, del quale non si fidavano più neppure i suoi.

La sinistra vinceva non perché guadagnasse voti. Se si guardano i risultati numerici, e non percentuali, delle elezioni appunto di Monza, Como, Cantù eccetera (ma anche quelli di Milano nel 2011) si vede che i candidati sindaci del centrosinistra - pur vincendo - non hanno preso più voti di quanti ne avevano presi nelle elezioni precedenti, quando avevano perso. Anzi in alcuni casi ne hanno presi di meno. Ma hanno vinto, perché buona parte dell’elettorato di centrodestra non è andata a votare.

Perché non è andata? Perché era delusa da Berlusconi e dalla Lega. Cioè dai due partiti sui quali aveva più volte riposto, a partire dai primi anni Novanta, le sue speranze. Non si fidava più.

 

E allora la sinistra s’è illusa di poter finalmente conquistare quella parte del Paese senza la quale non si vincono le elezioni (o meglio le si possono anche vincere, ma poi non si può governare). Il Veneto non è mai andato alla sinistra, neppure una volta, in tutta la storia della Repubblica; la Lombardia è nettamente di centrodestra dal 1995, anno della prima vittoria di Formigoni. Negli ultimi mesi la sinistra ha cominciato ad accarezzare il sogno di conquistare tutte e due queste regioni. In Veneto, di ottenere la maggioranza al Senato; in Lombardia, anche il consiglio regionale. S’è cominciato a parlare di risultati in bilico. 

 

Ieri il brusco ritorno sulla terra. Come ha fatto il centrodestra a recuperare così tanti suoi elettori? Sicuramente la maestria di Berlusconi nel condurre, praticamente da solo, tutta una campagna elettorale, ha avuto una parte importante. Ma Berlusconi, proprio perché è un maestro nel cogliere gli umori del popolo, ha capito che doveva puntare appunto su quegli argomenti che al Nord da mesi monopolizzano ogni discussione. Le tasse. I soldi che non girano. I consumi fermi.

 

Ci sono stati molti segnali non colti. Come le code degli imprenditori che vanno a far causa contro verbali di accertamento fiscale per redditi ipotizzati e non dimostrati; verbali, per giunta, gravati da interessi anche del due, trecento per cento. Di fronte al grido di dolore di tutto un mondo che, già segnato dalla crisi economica, si lamentava di essere tartassato come mai nella storia, molta sinistra ha pensato si trattasse dei soliti furbastri, dei soliti evasori. Così, in quel mondo s’è tuffato a capofitto Berlusconi. Così, tanta parte del Nord è tornata a fidarsi di lui: magari tappandosi il naso, ma convinta che non c’era di meglio.

 

Quelli invece che si sono persuasi che ci fosse qualcosa di meglio hanno votato per Grillo. Già: i voti che al Nord il Movimento 5 Stelle ha preso alla destra, soprattutto alla Lega, li ha presi proprio battendo su quei tasti delle tasse e della crisi. L’espressione che abbiamo usato prima - «spina dorsale del Paese» riferita ai piccoli e medi imprenditori - Grillo l’ha urlata dal palco di piazza Duomo. E l’abolizione di Equitalia (insieme con la non pignorabilità della prima casa) Grillo è stato il primo a proporla; Berlusconi è venuto a ruota.

È su questi temi che al Nord il centrodestra ha recuperato e Grillo ha sfondato. Temi che la sinistra appunto non ha capito, come ha ammesso Laura Puppato. In verità c’era uno che su questi argomenti s’era speso. Uno che aveva detto che «nella lotta all’evasione fiscale si è stati forti con i deboli e deboli con i forti»; che bisogna liberare le piccole e medie imprese dai lacci della burocrazia. Uno che gran parte degli elettori delusi del centrodestra erano pronti a votare in blocco. Era Matteo Renzi, questo qualcuno. Un nome e un cognome che forse resteranno nella storia della sinistra come la grande occasione perduta.

da - http://lastampa.it/2013/02/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tasse-e-crisi-riconsegnano-il-nord-al-centrodestra-g1cM8e8RFIQKfUyDR7iw4L/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il fiasco perfetto della sinistra che non seduce la Lombardia
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:27:03 am
Elezioni Politiche 2013
27/02/2013 - reportage

Il fiasco perfetto della sinistra che non seduce la Lombardia

Nonostante scandali, tangenti e indagini il voto del “Nord produttivo” resta a destra

Michele Brambilla

Milano


La sconfitta perfetta si materializza verso le quattro del pomeriggio quando le proiezioni fanno capire che non c’è speranza per Umberto Ambrosoli. Dopo la delusione per la mancata vittoria alle politiche, per il centrosinistra arriva la resa in Lombardia. È la sconfitta perfetta perché non era facile perdere anche qui. D’accordo: la Lombardia è da almeno vent’anni un feudo del centrodestra; e Roberto Maroni è certamente un candidato forte. Ma non era ugualmente facile perdere.

 

Non era facile perdere contro una coalizione che ha quasi dimezzato i voti nel giro di pochi anni (dal 2008 se si guardano le politiche, dal 2010 se si guarda alle regionali). E non era facile perdere dopo che la giunta uscente era stata spazzata via, con ignominia, dalla magistratura, alla fine di una serie di scandali senza precedenti. Scandali che non hanno lasciato praticamente superstiti nella vecchia maggioranza di centrodestra: del numero di inquisiti, ormai da un pezzo, s’è addirittura perso il conto.

 

Quante volte abbiamo visto riconfermata una maggioranza inquisita per tangenti, ’ndrangheta, voto di scambio, allegre note spese? Di solito, la parte politica che raccoglie l’eredità di una giunta così sciagurata, si rassegna a passare il testimone. Così è successo, ad esempio, nel Lazio. Ma in Lombardia no. In Lombardia il centrosinistra non è riuscito a vincere nonostante l’ancora fresca memoria dei tuffi dallo yacht di Daccò. Nonostante il crollo della Lega. Nonostante la forte flessione del Pdl. Per questo è la sconfitta perfetta.

Come per i risultati delle politiche, anche per queste amministrative risalta l’incapacità del centrosinistra di entrare nel cuore del profondo Nord, quello dei capannoni e delle fabbrichette, degli artigiani e delle piccole imprese. Umberto Ambrosoli ha vinto infatti solo in due province, Milano e Mantova, che sono tradizionalmente più di sinistra che di destra. Ha vinto poi in cinque città: oltre alle stesse Milano e Mantova, Pavia Bergamo e Brescia. Ma in queste ultime tre province, così come naturalmente in tutte le rimanenti, il candidato del centrosinistra ha dovuto soccombere. C’è andato, in provincia: nel Varesotto, in Brianza, nelle valli bergamasche. Ma forse troppo poco. Ha incontrato le cosiddette «categorie produttive». Ma non tanto lui, quanto la coalizione che lo sostiene, di quelle «categorie» non parla la stessa lingua.

«Ambrosoli è una bravissima persona, se vincessi io lo vorrei assessore nella mia giunta», aveva detto Gabriele Albertini. Aggiungendo però subito dopo: «Ma la coalizione che lo sostiene è da paura». L’ex sindaco di Milano, che viene dal centrodestra, conosce bene la sua gente e sa che quel termine, «paura», è particolarmente appropriato. In Lombardia un’alleanza con Vendola e con la Cgil è ancora qualcosa che fa paura al mondo della piccola e media impresa.

 

È la sconfitta perfetta di una sinistra che si scopre improvvisamente vecchia, staccata dalla gente, incapace di cogliere i cambiamenti. Questa sinistra si era probabilmente illusa di rivivere una nuova stagione nella primavera del 2011, quando Pisapia aveva conquistato Milano e Nichi Vendola era venuto in piazza Duomo a celebrare la vittoria di un candidato di Sel. Fu la «rivoluzione arancione». Qualcuno pensò appunto a un passo nel futuro. Ma mai come ora si fa forte il sospetto che quella vittoria fu solo l’effetto del tragico momento che stava vivendo il centrodestra, con Berlusconi svillaneggiato in tutto il mondo per il caso Ruby, con il governo di Roma in agonia, con un sindaco uscente che non aveva mai legato con la città. Non si volle guardare con realismo a un dato reale, e cioè al fatto che Pisapia aveva vinto con gli stessi voti con cui cinque anni prima un altro candidato del centrosinistra, Bruno Ferrante, aveva straperso. Non ci si volle insomma rendere conto che la vittoria di Pisapia era arrivata non perché tirava un vento nuovo, ma perché gli elettori di centrodestra, che continuavano a restare la maggioranza, si erano presi un periodo sabbatico.

 

Nel tentativo di conquistare il Pirellone - o Palazzo Lombardia, come si chiama la nuova sede della giunta - il centrosinistra aveva di fatto rinunciato a primarie vere, e candidato un personaggio di valore e di indiscussa moralità. Nessuno, neppure a destra, può parlare male di Umberto Ambrosoli. E nessuno, neppure a destra, può pensare che egli sia un «comunista».

 

Ma come diceva Albertini, è la sua coalizione che non rassicura l’elettorato lombardo. È forse altamente simbolica l’immagine della presentazione del candidato Ambrosoli il 12 gennaio scorso al Teatro Dal Verme di Milano. Lui sul palco attorniato da Lella Costa, Roberto Vecchioni, Umberto Eco, Gad Lerner, Gherardo Colombo. Con tutto il rispetto, icone di una sinistra che probabilmente ha fatto il suo tempo. Quell’immagine del Dal Verme è tanto somigliante a quella di Nanni Moretti salito sul palco accanto a Bersani lo stesso giorno in cui, su un altro palco - in piazza Duomo a Milano - Beppe Grillo portava il suo tsunami. L’accostamento delle due immagini, quella di Moretti e quella di Grillo, è perfino impietosa nel far risaltare ciò che appare nuovo e ciò che appare uscito da un vecchio film.


«Non vorrei», aveva detto Matteo Renzi qualche mese fa, «che il giorno delle elezioni i leader del Pd dovessero ripetere quello che hanno detto a Parma, e cioè “non è che abbiamo perso, è che non abbiamo vinto”». È esattamente quello che s’è sentito ieri.

da - http://lastampa.it/2013/02/27/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-fiasco-perfetto-della-sinistra-che-non-seduce-la-lombardia-uUG29cJNGfn4sEGKy72pSO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il confine tra la risorsa e il disastro
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:17:19 pm
EDITORIALI
04/03/2013

Il confine tra la risorsa e il disastro

MICHELE BRAMBILLA

In poco tempo e a quanto pare con poche risorse, Beppe Grillo ha fatto un capolavoro. Neanche Berlusconi nel 1994, al suo primo colpo, era arrivato a tanto. Il Movimento Cinque Stelle non si è limitato a vincere le elezioni. Dà anche l’impressione di poter cambiare, e radicalmente, l’andazzo della politica italiana e perfino lo stile di vita di tutti noi: dal modo di comunicare fino a un ripensamento di tante idolatrie dei nostri tempi come il mito della crescita eterna e la sottomissione incondizionata agli onnipotenti Mercati.
 
Quella dei grillini è anche, indubbiamente, una lezione: impartita ad almeno un paio di mondi che improvvisamente si sono scoperti vecchi. 
 
Per primo al nostro mondo dell’informazione. Un mondo lento a capire quello che si agita nel profondo del Paese, e così supponente dal pensare di esorcizzare un problema dandolo per abortito, magari per via di qualche lite interna di provincia (lo stesso errore che fu compiuto nei primi Anni Novanta con la sottovalutazione della Lega). 
 
E poi il mondo della politica, o meglio di quella che Grillo chiama con un vecchio stereotipo «la politica politicante». 
 
Questo è un mondo che davvero vive fuori dal mondo. Provate a rileggere le cronache politiche di neanche un anno fa, dopo il voto alle amministrative. Circa la metà degli italiani aveva dato un chiaro segno di disgusto verso la politica o votando per Grillo, o non andando a votare: eppure a Roma si discuteva di quali sarebbero state le prossime mosse di Casini, del futuro ruolo personale di Veltroni e D’Alema, delle strategie dei finiani con particolare attenzione alla corrente di Briguglio.
 
Insomma Grillo fin qui non ha sbagliato nulla. Fin qui, appunto. Perché adesso anche per lui viene il difficile. Mantenere il successo, come sanno anche gli sportivi, è più difficile che raggiungerlo. Come l’ex comico genovese intenda gestire il successo in questa prima fase, è fin troppo chiaro. Mantenendo lo stile aggressivo della campagna elettorale. Dando a tutti «gli altri» della faccia da c., fosse anche una faccia nuova come quella di Matteo Renzi. Dicendo «no» a priori a qualsiasi possibile alleanza. Schifando tutti i mezzi di informazione italiani per parlare solo con quelli stranieri, magari americani, cioè di un Paese dove notoriamente le Borse non contano nulla. E così via.
 
Ieri i neoparlamentari grillini si sono riuniti in un albergo segreto di Roma e si sono ben guardati dal far sapere di cosa e come hanno discusso. Oggi saranno raggiunti dal Grande Capo e dal suo misterioso spin doctor - quello di cui si sa solo che ha una capigliatura da Toro Seduto e un nome da formaggio - ed è scontato che la riunione verrà investita della stessa sacralità di un conclave, con tanto di scomunica per chi spiffera anche un solo dettaglio all’esterno. Una decisione legittima: ma un po’ stridente con la sbandierata trasparenza di parlamentari che hanno annunciato di sbarcare alle Camere muniti di webcam per mettere in rete i loro colleghi deputati e senatori.
 
Anche rifiutarsi di collaborare con le altre forze politiche è legittimo. A patto però di smettere di criticare, ad esempio, un Berlusconi, al quale si dava del dittatore perché chiedeva il 51 per cento per governare il Paese come si governa un’azienda. Su questo punto Grillo fa di peggio, visto che gli basta il suo 25 per cento per pretendere un governo che approvi solo quello che c’è nel suo programma, e senza variazioni. Grillo dovrebbe ricordarsi che il 75 per cento di chi ha votato, non ha votato per lui.
 
Si dice che tutto questo faccia parte di una strategia: puntare a nuove elezioni fra breve per ottenere la maggioranza assoluta. Beh, se è così, non sappiamo fino a che punto Grillo sia lungimirante. Il suo movimento ha vinto le elezioni soprattutto facendo leva sulla preoccupazione - in alcuni casi sulla disperazione - di tanta gente schiacciata dalla crisi. Questa gente chiede che sia fatto qualcosa adesso, subito. Puntare alle elezioni fra sei mesi o un anno vuol dire puntare prima a far precipitare la situazione. E se si precipita, non è detto che alle urne gli italiani poi si dimentichino che qualcuno non s’è preso le responsabilità che poteva prendersi. Se invece si dimenticheranno e porteranno Grillo in trionfo, non sappiamo quanto sarebbe poi possibile risollevare il Paese da una situazione diventata nel frattempo ancora più critica. A quel punto Grillo finirebbe processato da quelle stesse piazze che l’hanno portato in gloria: in Italia, di giravolte così, ne abbiamo già viste.
Ecco perché Grillo, che porta avanti molte battaglie condivisibili e anche forse salutari, può essere una grande risorsa per il Paese, ma anche un disastro alla Pancho Villa. Dipende da quanto accetta le regole delle democrazia, e da quanto si mette la mano sulla coscienza.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/04/cultura/opinioni/editoriali/il-confine-tra-la-risorsa-e-il-disastro-iMsd1AeZH5svZmLLjig9VO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Chi aveva capito l’umore del Paese
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 11:39:21 pm
Elezioni Politiche 2013
09/03/2013

Tasse, disoccupati ed Equitalia

Chi aveva capito l’umore del Paese


Dopo le amministrative, il disagio ha allontanato milioni di voti da Pd e Pdl

Michele Brambilla
Milano


«Leghisti e berlusconiani hanno dimezzato i voti» e «ora Grillo sta venendo a prenderseli, quei voti»: era il 23 febbraio, cioè il giorno prima dell’apertura dei seggi elettorali, quando si leggevano su La Stampa queste parole. «Purtroppo devo dire che è così», commentava uno dei pochissimi deputati che non hanno perso l’abitudine di stare in mezzo alla gente, il varesino Daniele Marantelli del Pd. 

 

Era scritto pure che «Grillo, in verità, sta portando via un po’ a tutti», anche alla sinistra; e che aveva un prezioso alleato: «la divisione nelle fila del nemico». È proprio vero, come si dice, che lo tsunami è arrivato improvviso? Che non c’erano segnali? Provate a riguardare le immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale. E a ripensare a due palchi di Roma: quello del teatro Ambra Jovinelli con Nanni Moretti e Pier Luigi Bersani e quello di piazza San Giovanni con Beppe Grillo. Allora, non è per dire: Moretti è di cinque anni più giovane di Grillo. Ma provate a rivedere con l’immaginazione quei due palchi - Moretti in maglione rosso e pantaloni beige di velluto a coste che parla di conflitto d’interesse e Grillo che urla «arrendetevi» e dà i dati sullo streaming - e dite qual è il nuovo e qual è il Sessantotto.

 

Per carità: più che un segnale, questa dei due palchi è una suggestione. Ma anche le suggestioni comunicano qualcosa. La distanza tra i politici e la gente. La distanza tra un milieu intellettuale e la gente. Il Pd era convinto di vincere da quando, nel novembre del 2011, Berlusconi si è dovuto dimettere. Il risultato era in tasca. Sì, c’era da aspettare un anno abbondante, ma anche quel periodo passato ad appoggiare il governo tecnico sarebbe servito a guadagnare consensi, perché la gente avrebbe detto «però, guarda il Pd com’è responsabile».

 

Ma in quest’ultimo anno e quattro mesi la gente ha più che altro dovuto preoccuparsi di come tirare a campare. Licenziamenti, cassa integrazione, aziende che chiudono. E tasse. Tutte preoccupazioni e difficoltà che alla lunga hanno spento l’entusiasmo per il cambiamento, hanno fatto venir meno la gratitudine verso un premier che ci aveva riportato in Europa, insomma hanno eroso il consenso nei confronti del governo tecnico. E, di conseguenza, quello per i due principali partiti che lo sostenevano.

 

In primavera 2012 ci sono state le elezioni amministrative in molti centri importanti. E il Pd si è convinto ancora di più che alle politiche non ci sarebbe stata storia. Aveva vinto in posti impensabili per la sinistra, come Monza e Como, roccaforti del berlusconismo, e Cantù, fortino leghista. Cose mai viste. Qualche numero. A Monza, dove cinque anni prima il centrodestra aveva vinto al primo turno, il candidato del Pd ha battuto quello del Pdl con un 63,40 per cento contro il 36,60. A Como 74,87 a 25,13. Como, la città dove il Pdl in cinque anni è passato dal 43,6 per cento al 13,66.

 

Come non pensare che il vento era cambiato? Eppure si registrava questo fatto: «Il centrosinistra ha certamente motivo per far festa. Ma i numeri dicono anche che, più che una vittoria di Pd e alleati, questa è una Waterloo del centrodestra. Per esempio. Mario Lucini, che ieri è diventato sindaco di Como con il 74,87 per cento, al primo turno ha preso meno voti (14.261) di quanti ne aveva presi cinque anni fa il candidato del suo stesso schieramento, Luca Gaffuri (15.224)», che aveva perso nettamente.

 

Insomma il Pd, in termini di voti, non stava crescendo. E quando le tasse e il crollo dei consumi hanno cominciato a strangolare il Nord, Berlusconi ha iniziato la rimonta in quel mondo che lo aveva abbandonato. «Su dieci imprenditori che si rivolgono a me, nove mi dicono che torneranno a votare Berlusconi», aveva detto il 17 gennaio scorso a La Stampa Wally Bonvicini, la piccola imprenditrice di Parma che è diventata la pasionaria anti-Equitalia. Dice che nelle cartelle delle tasse, aumentate di interessi stratosferici, è ravvisabile il reato di usura, e inonda le procure di denunce su denunce. Giusto o sbagliato? Semplicemente reale. È un fenomeno reale di cui si parla pochissimo, ma che ha influenzato il voto.

 

Grillo, che la pancia della gente la sa capire, se n’è accorto per tempo e contro Equitalia ha scatenato buona parte del suo tsunami. Quello che non ha recuperato Berlusconi, l’ha guadagnato lui. E così è arrivato lo stallo. Sorprendente, anzi choccante, per le segreterie dei partiti, ma non per la gente comune. Il 5 febbraio, in una giornata intera passata in piazza Duomo a Milano, tutti ci dicevano: di quello che dice Grillo si capisce tutto; di quello che dice Berlusconi, quasi tutto; di quello che dice Monti, abbastanza; di quello che dice Bersani, niente. «Grillo, a giudicare da quel che si sente in giro, di voti ne prenderà tanti», era stata la conclusione. Anche di Renzi molti avevano pensato che avrebbe potuto essere il nuovo: ma sappiamo com’è andata a finire.

da - http://lastampa.it/2013/03/09/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tasse-disoccupati-ed-equitalia-chi-aveva-capito-l-umore-del-paese-GvGZzQB39BhorSlFo5X4LI/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il tramonto degli esterni
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 10:55:31 am
Editoriali
28/03/2013

Il tramonto degli esterni

Michele Brambilla


Il governatore della Regione Sicilia Rosario Crocetta ieri ha cacciato in un colpo solo due assessori: il cantante Franco Battiato (Turismo) e lo scienziato Antonino Zichichi (Beni culturali). Le colpe del primo erano note a tutta Italia da parecchie ore. 

 

Aveva dato delle «troie» praticamente a tutte le parlamentari e forse anche ai parlamentari. Quelle di Zichichi le ha invece fatte conoscere Crocetta al momento del licenziamento: «Bisognava lavorare sodo e lui parlava di raggi cosmici».

 

Ora, si sa che a Palermo hanno l’esonero facile. Ma se si esclude che il governatore della Sicilia sia stato contagiato dalla sindrome-Zamparini, il doppio benservito di ieri potrebbe essere letto come un segnale da non sottovalutare. E cioè: nel momento in cui anche Bersani, per cercare la benevolenza di Grillo e un po’ di tutto il Paese, insegue nomi ad effetto per alcuni ministeri, magari pescando nel giornalismo d’inchiesta e fra i predicatori, in Sicilia sperimentano che non basta essere persone note - e stimate nelle rispettive professioni - per essere buoni amministratori.

 

Un anno e mezzo fa sembrava che per governare l’Italia bisognasse a tutti i costi essere dei «tecnici». Già Leo Longanesi, mezzo secolo prima, aveva ammonito a non farsi troppe illusioni, definendo così la figura dell’«esperto»: «È un signore che, a pagamento, ti spiega perché ha sbagliato l’analisi precedente». Usciti non troppo soddisfatti dall’esperienza del governo tecnico, adesso magari non cerchiamo più tanto «l’esperto» quanto «l’esterno». Personaggi da copertina, professionisti di successo o magari anche solo semplici cittadini (Grillo non aveva forse detto che se avesse vinto le elezioni avrebbe messo una mamma con tre figli al ministero dell’economia?): tutto va bene purché non si sia mai stati contaminati dal cancro della politica. 

 

Eppure basterebbe un po’ di sforzo della memoria per ricordare che quelli che oggi consideriamo «i soliti politici» vent’anni fa erano l’antipolitica dell’epoca. Forza Italia non era forse l’irrompere della società civile nel Palazzo? E la Lega non era «l’Italia che lavora», anzi che «laüra»? E Di Pietro?

 

Ma ancora prima. La smania dell’«esterno» era già esplosa quasi quarant’anni fa, con Paolo Villaggio che si mise in lista per Democrazia Proletaria dicendo in un’intervista «è impossibile che io risulti eletto e se la cosa accadesse passerei subito il testimone a un altro», inaugurando così la figura del candidato alle dimissioni. E Ilona Staller? Vi ricordate Cicciolina? Ci fu una tristissima trasmissione post-voto in cui lei, eletta, sedeva accanto al povero Valerio Zanone, anziano liberale piemontese bocciato alle urne. «Ci battiamo perché la luce rossa diventi luce del sole», diceva la porno-innovatrice ispirata da Pannella.

 

Abbiamo già dato, verrebbe da dire. Crocetta se n’è accorto in tempo rimandando a cantare (cosa in cui è eccelso) l’«esterno» Battiato, il quale nel frattempo stava già entrando nella parte, visto che ha cercato di smentire il suo discorso sul lupanare dicendo di essere stato frainteso, nel più classico stile del politico professionista.

 

È un peccato, perché di un rinnovamento avremmo un bisogno vitale. Ma forse, da quarant’anni a questa parte, certi «esterni» i politici di professione li scelgono con cura, mettendoli in lista o nei posti di governo, al solo scopo di farsi rimpiangere.

da - http://lastampa.it/2013/03/28/cultura/opinioni/editoriali/il-tramonto-degli-esterni-OlbxYHK1MycWWUaWhJVeVM/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA L’autogol che aiuta l’antipolitica
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 04:57:21 pm
Editoriali
21/05/2013

L’autogol che aiuta l’antipolitica

Michele Brambilla


Abbiamo più volte sottolineato - e continueremo a farlo - gli eccessi dell’antipolitica, i suoi qualunquismi e i suoi moralismi, il suo giacobinismo fanatico e il suo furor cieco, la facile demagogia e la tragicomica ossessione del complotto. Ma c’è qualcosa che nonostante tutto continua a dare, a questa antipolitica rabbiosa e urlante, fiato e ragion d’esistere: ed è la politica.

 

La giornata di ieri ne è stata una triste conferma. Grillo e i suoi, fino a una certa ora del pomeriggio, apparivano in difficoltà. Era successo che domenica sera, a Report, Milena Gabanelli, dopo aver parlato del finanziamento dei partiti, aveva posto al Movimento Cinque Stelle due domande: che fine fanno i proventi del blog di Grillo, e quanto guadagna la Casaleggio e Associati dalla pubblicità sul sito. Due domande destinate a restare senza risposta sia durante la trasmissione - Casaleggio, assicura la Gabanelli, ha rifiutato l’intervista - sia dopo. 

 

Scossi dall’essere, per una volta, sul banco degli imputati di un tribunale «amico» come Report, Grillo e i suoi seguaci hanno dato in un certo senso il peggio di sé. Primo: hanno dimostrato di essere, sul tema della trasparenza, piuttosto doppiopesisti: esigono la luce del sole per gli altri, ma non per loro stessi (e verrebbe da dire che non è la prima volta: ricordate le dirette streaming degli incontri con Bersani e Letta e, viceversa, le loro riunioni a porte chiuse?). Secondo: hanno dato un’ennesima prova di incontinenza verbale, visto che Milena Gabanelli, sul blog di Grillo, è stata insultata con tutto il consueto repertorio che si usa in questi casi, in particolare con le donne. Terzo: non hanno saputo spiegare ai propri militanti, e forse neanche a loro stessi, come mai certe incalzanti richieste di glasnost provenissero da una persona che, solo poche settimane fa, era la candidata del Movimento Cinque Stelle al Quirinale.

 

Quarto, Grillo e i suoi ieri stavano offrendo un brutto spettacolo soprattutto perché nel replicare alle critiche hanno fatto ricorso al solito schema che prevede la delegittimazione, per non dire la demonizzazione, dell’«avversario». Come purtroppo quasi sempre accade, chi non è d’accordo con il Movimento non è presentato appunto per quello che dovrebbe essere, cioè per una persona che non è d’accordo: ma come il servo di qualcuno, la longa manus di poteri forti, il solito giornalista prezzolato. Forse ancora più pesanti degli insulti da trivio, infatti, sono le insinuazioni nei confronti di Milena Gabanelli: «È stata richiamata all’ordine dal padrone PD-L»; «Le sue trasmissioni sembrano manovrate da una regìa politica»: «Lei è una asservita al padrone piddino»; «Cara Gabanelli, dicci chi ti ha costretto a fare quel servizio...». Di tutta la violenza verbale dell’antipolitica, questo del voler sempre attribuire loschi mandanti a chi eccepisce è l’aspetto più odioso, il più vile.

 

Ma come dicevamo l’antipolitica non avrebbe di che nutrirsi se non ci fosse la politica. Infatti sempre ieri, proprio mentre Grillo e i suoi si affannavano nella titanica impresa di far apparire Milena Gabanelli come un ventriloquo della Casta, ecco che dai partiti è arrivato l’autogol che ha cambiato la partita. Il Pd ha infatti presentato al Senato un disegno di legge che introduce la «personalità giuridica» dei partiti. Lasciamo agli azzeccagarbugli i dettagli. La sostanza è che, se passasse una legge del genere, il Movimento Cinque Stelle sarebbe costretto o a rinnegare se stesso - diventando un partito - oppure a non presentarsi alle elezioni. E siccome Grillo ha già detto che il suo movimento non diventerà mai un partito, una legge del genere avrebbe l’effetto di tenere i Cinque Stelle fuori dal Parlamento.

 

È bastata la notizia di questo disegno di legge, dunque, a levare i grillini dagli impicci, e a consentire loro di gridare al complotto. E non senza ragioni, stavolta. Il Pd ha già forzato la mano nelle regole delle sue primarie, pochi mesi fa: ora cerca di eliminare Berlusconi dichiarandolo ineleggibile e il Movimento Cinque Stelle costringendolo a cambiare pelle. Si può pensare di risolvere così i propri problemi?

 

No, non si può pensarlo. Ma la cosa più inquietante è che i politici non ci arrivino a capirlo da soli, dimostrando un distacco dal sentire del popolo che è poi la prima e più vitale linfa dell’antipolitica.

 da - http://lastampa.it/2013/05/21/cultura/opinioni/editoriali/l-autogol-che-aiuta-l-antipolitica-se7J4R3UgAPQNJjqhAz3mO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Parole inconciliabili con il ruolo al Senato
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2013, 06:13:10 pm
Editoriali
15/07/2013

Parole inconciliabili con il ruolo al Senato

Michele Brambilla


Quello che stupisce non è tanto il fatto che Calderoli abbia dato dell’orango al ministro Kyenge: per quanto l’insulto questa volta sia particolarmente ripugnante, a certe sparate siamo abituati.

Lo stupore è piuttosto per chi conosce Calderoli: una persona diversa dal volgare tribuno che si è esibito a Treviglio e, ahimè, anche in molte altre occasioni. Stesso discorso per Borghezio. Quando li incontri, trovi persone colte, educate, ragionevoli. Ma quando questi stessi dottor Jekyll diventano mister Hyde, capisci il tragico copione che la Lega ha recitato in questi anni per solleticare la pancia più becera del Nord.

Non è un caso, infatti, che persone come Calderoli – che a tanti di noi giornalisti ha parlato con coraggio e sensibilità del travaglio che ha vissuto per la sua malattia – non si sognerebbero mai di dare dell’«orango» al ministro Kyenge in una conversazione privata o in un’intervista; ma non hanno alcuna remora nel farlo se di fronte hanno una platea con la bava alla bocca. Questa è sempre stata la strategia della Lega: due linguaggi, a seconda di chi ascolta. 

Ma ormai Calderoli e i suoi colleghi leghisti dovrebbero avere gli elementi sufficienti per capire che questa tattica ha portato il loro movimento al suicidio. La Lega aveva tanti argomenti seri da portare in politica; difendeva tanti interessi più che legittimi del Nord. Se ha fallito, è anche perché ha scelto di non crescere, ed è rimasta prigioniera del suo primo elettorato, quello che nei primi Anni Ottanta non voleva gli insegnanti meridionali. Quello che vuol sentirsi dire che il ministro Kyenge assomiglia a un orango.

Calderoli non può non rendersi conto che il suo dell’altra sera è l’ultimo di una lunghissima serie di autogol che l’hanno già, e da un pezzo, portato alla sconfitta. E non può non capire che, se ha scelto di continuare a parlare in quel modo, non può restare alla vicepresidenza del Senato. 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/15/cultura/opinioni/editoriali/parole-inconciliabili-con-il-ruolo-al-senato-7Yh57Xf0Iq5e1Vz3cyDYtO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Nessun ministro al sit-in di solidarietà
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:47:26 am
politica
04/08/2013 - La manifestazione

Nessun ministro al sit-in di solidarietà

Saltata la “manifestazione oceanica” si riuniranno solo pochi militanti davanti a palazzo Grazioli

Michele Brambilla


Sarebbe ingeneroso dire che il Pdl oggi è un esercito in rotta: Maramaldo non è una nobile figura. Ma sicuramente il partito di Berlusconi, che pure ne ha passate tante, è ora in difficoltà come mai prima. E quando le cose vanno male le divisioni si accentuano. 

 

Torna così, prepotentemente, la spaccatura tra i cosiddetti falchi e le cosiddette colombe. I primi, contrariamente a quanto si crede, non sono affatto una maggioranza, anzi sono - dal punto di vista numerico - un’esigua minoranza. Influentissima però: Verdini, Capezzone e Santanchè. L’ultima soprattutto. «Non è un capo corrente perché non esiste una corrente dei falchi», ci dice una delle colombe, «ma ha un ascendente fortissimo sul capo».

 

E il capo in queste ore è facilmente influenzabile. «Non lo abbiamo mai visto così mortificato», dicono tutti i suoi. Pare che quando ha ricevuto notizia del ritiro del passaporto, si sia sentito crollare. Puoi anche avere la solidarietà di milioni di italiani, ma quando vedi che la libertà personale comincia davvero a ridursi, è terribile. «Per questo», dice ancora un esponente dell’ala moderata, «è particolarmente sensibile a quello che gli dice la Santanchè: e lei gli dice quello che lui vuole sentirsi dire». E cioè che è venuto il momento di passare alle maniere forti. 

 

Le colombe, in queste ore, sentono di non avere argomenti. «La verità è che abbiamo perso», dicono: «Per mesi abbiamo predicato la pazienza e la prudenza, e abbiamo convinto Berlusconi a scegliere la via della responsabilità: il governo con il Pd, eccetera. E oggi lui ci dice: che cosa ho guadagnato, ad ascoltarvi? Mi sono comportato da statista e loro mi hanno trattato da bandito».

 

Ecco perché, in un momento in cui tutti nel Pdl si sentono smarriti, e ognuno dice la sua più o meno in libertà, i falchi sono stati ad un passo dall’ottenere ciò che volevano: lo scontro frontale. Ad un passo, però. Perché al traguardo non sono ancora arrivati. Anzi. Nelle ultime ore, il partito delle colombe - Alfano, Gelmini, Lupi, Fitto eccetera - è riuscito, se non a prevalere, a ottenere quello che, quando si giocava da bambini, si chiamava un «crucis». Una pausa.

 

Dimostrazione evidente di questa frenata è il cambio di programma sulla manifestazione di oggi a Roma. Daniela Santanchè era stata l’ideatrice della grande adunata in piazza Santi Apostoli, alle sei del pomeriggio. Ma con il passare delle ore si è deciso di passare a un’iniziativa di ben più basso profilo: un sit-in, alla stessa ora, in via del Plebiscito davanti a Palazzo Grazioli, cioè su uno spartitraffico dove ci staranno sì e no cinquanta persone. È stato proprio il falco Verdini a comunicare al partito il cambio di programma, dopo una lunga mediazione di Gianni Letta. In serata arriva il dietrofront definitivo. Ad annunciarlo è il ministro Maurizio Lupi: nessun ministro parteciperà alla manifestazione. «Per evitare strumentalizzazioni, i ministri non parteciperanno», ha spiegato al Tg1 il titolare delle Infrastrutture, specificando che la decisione è stata presa come segno «di grande responsabilità».

 

Sta insomma succedendo questo: le colombe cercano di far capire a Berlusconi che se fa saltare tutto sarebbe peggio per il centrodestra e per lui, perché Napolitano andrebbe su tutte le furie, e il Pd farebbe un governo (e una legge elettorale) con i grillini. Un incubo, per Berlusconi, che così ha accettato un’altra tregua. Per ora è così. «Ma abbiamo solo guadagnato un po’ di tempo», dicono le colombe. Perché tutto può cambiare di ora in ora.

da - http://lastampa.it/2013/08/04/italia/politica/nessun-ministro-al-sitin-di-solidariet-hgfR41KvyQPsQOLbpADjTM/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Renzi rompe il silenzio e si riveste da rottamatore
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2013, 04:43:18 pm
Cronache

08/08/2013

Renzi rompe il silenzio e si riveste da rottamatore

Epifani, offensiva contro Berlusconi

L’attacco del Pdl

Sulla condanna a Berlusconi: «Le sentenze si rispettano e la legge vale per tutti».

Sfida a governo e Pd: «Letta faccia le cose, niente alibi»

Michele Brambilla
inviato a Castelfranco Emilia (Modena)

Forse mai come ieri sera Matteo Renzi ha abbandonato quel che resta della sua vecchia origine democristiana per parlare senza giri di parole. Dal palco della festa democratica a Bosco Albergati, fra Modena e Bologna, ha urlato un colossale «basta!». Un «basta» rivolto soprattutto al suo partito: basta pensare al proprio ombelico anziché ai problemi del Paese. 

«Basta con l’accusarmi di voler logorare il governo»; basta con i giochetti sul congresso; basta con l’ossessione di Berlusconi; basta con le campagne elettorali con la puzza sotto il naso.

Il Renzi di ieri sera è forse il Renzi più rottamatore fra quelli visti finora. Erano un po’ di giorni che taceva, e si pensava che dietro il suo silenzio ci fosse il timore di un passo falso. Che dire ad esempio della sentenza su Berlusconi? E del governo Letta? E delle primarie? E del governo? Meglio andare avanti o meglio votare? In una politica tutta fatta da dichiarazioni e controdichiarazioni, insomma da tutto un blablabla che non interessa per nulla ai cittadini ma che è l’unica preoccupazione dei professionisti del Palazzo, ogni parola di Renzi sarebbe stata soppesata, valutata, analizzata. Per questo il silenzio di Renzi veniva interpretato come una volontà di non esporsi.

E invece. Altro che preoccupazioni diplomatiche. Ieri è parso che Renzi abbia piuttosto taciuto qualche giorno per caricarsi meglio. E qui alla festa del Pd, davanti a quasi duemila persone, non si è sottratto ad alcuno degli argomenti più caldi del momento. La condanna a Berlusconi? «Le sentenze si rispettano e la legge è uguale per tutti». Stesso concetto espresso da Epifani. Ma, rispetto al segretario, Renzi rovescia la questione: «Qualcuno di noi oggi ha detto che prima di fare il congresso dobbiamo aspettare di vedere che cosa fa Berlusconi. Ma è vent’anni che aspettiamo Berlusconi! Possiamo fare il nostro congresso a prescindere da cosa farà lui, o no?». Non è solo questione che riguardi questi giorni confusi: è un profondo modo di essere del centrosinistra che Renzi contesta: «Siamo stati insieme per vent’anni anche e soprattutto perché di là c’era Berlusconi, salvo poi affossare noi i nostri governi quando abbiamo vinto le elezioni». Attacca Bersani come forse mai aveva fatto prima: «Durante le primarie abbiamo discusso su che cosa dovevamo fare per cambiare l’Italia. Il giorno dopo la fine delle primarie, il nostro motto è diventato “smacchieremo il giaguaro”». Cioè il ritorno della politica «contro» qualcuno e non «per» qualcosa.

Ma anche a Enrico Letta, Renzi non le ha mandate a dire. «Mi accusano di voler logorare il governo. Di sperare che non duri a lungo. Io invece faccio il tifo per il governo. Ma un governo non deve durare, deve fare». Letta sveglia, insomma. «Caro Letta, vai avanti e fai quello per cui sei stato votato. Ma se non sei in grado di farlo, non cercare alibi fuori dal Parlamento».

Parole pronunciate da chi sa che ancora una volta, così come al tempo delle primarie, i nemici li ha soprattutto in casa. Non però tra il popolo del Pd. No, i nemici Renzi li ha nell’apparato del Pd, in una burocrazia interna che pensa che gli italiani aspettino la mattina per conoscere sui giornali i pareri dei dirigenti del partito sulle regole delle primarie o sulla data del congresso. Masturbazioni mentali, per Renzi, mentre «le piccole e medie imprese soffrono o chiudono». «Caro Epifani, non passiamo il tempo a pensare come cambiare le regole delle primarie. Passiamolo a pensare come cambiare l’Italia».

E ancora: «Basta con il politichese, con il dire e il non dire. E basta con le lamentele, i “purtroppo”, il pessimismo». Insiste nel voler dare una sterzata al suo partito: «Negli anni scorsi abbiamo sbagliato troppi calci di rigore». Anche per una certa spocchia: «Ora più che mai bisogna dire che dobbiamo chiedere i voti dei delusi del Pdl e della Lega. A furia di avere certe puzze sotto il naso continuiamo a perdere le elezioni». Anche nel serbatoio dei grillini bisogna attingere, perché «Grillo è stato una grossa delusione per molti di coloro che lo hanno votato». Ma c’è anche una battuta velenosa: «E guardate che dobbiamo inseguire anche i voti dei delusi del Pd».

Ha parlato di piccole e medie imprese come ne parlerebbe un elettore del centrodestra («I piccoli imprenditori italiani sono eroici a restare qui in queste condizioni, lo Stato deve smettere di considerarli come una controparte e l’Agenzia delle entrate deve essere loro alleato») e ha rivendicato l’orgoglio di essere del Pd («Solo il Pd può cambiare l’Italia»). Insomma, un discorso che sembrava già da campagna elettorale. Con un’avvertenza, però. Renzi vuole andare a palazzo Chigi, ma non a qualsiasi costo: «L’importante non è quello che farò io da grande. L’importante è quello che faremo noi». L’importante sono le idee di rinnovamento, insomma: «Nessuno si illuda di usarmi come acchiappavoti per permettere ai soliti di continuare a comandare da dietro le quinte. Non sarò la foglia di fico di nessuno».

Insomma, tutti uniti: ma io sono il leader e si combatte per le idee che ho esposto. La sfida al Pd è partita per la seconda volta. Rispetto alla prima, la gerarchia è ancora ostile. Ma fra la gente che va alle feste del partito, sotto un caldo tremendo come quello di ieri, il vento è cambiato.

da - http://lastampa.it/2013/08/08/italia/cronache/renzi-rompe-il-silenzio-e-si-riveste-da-rottamatore-mpELmhGr6F52YJlFSFLI4J/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Letta-Alfano: è solo tattica politica
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2013, 05:06:17 pm
EDITORIALI
07/10/2013

Letta-Alfano: è solo tattica politica

MICHELE BRAMBILLA

Quando ieri Enrico Letta e Angelino Alfano si sono messi a litigare (o a fingere di litigare: in politica è quasi la stessa cosa) è probabile che la stragrande maggioranza degli italiani abbia esclamato un nauseato «Ancoraaa? Bastaaa!». La crisi di governo è appena stata scongiurata; gli estremisti sembrano nell’angolo; la pace pare tornata per il bene di tutto il Paese, e adesso ricominciano?
 
La nausea degli italiani, e il loro timore di una ripresa delle ostilità, sono più che comprensibili. 
Ma siccome a volte, per non dire quasi sempre, le dichiarazioni dei politici vanno lette in controluce, ecco che forse le prese di posizione di ieri del premier e del vicepremier vanno interpretate, al contrario, come un fattore di stabilità piuttosto che di instabilità. Perlomeno a lungo termine. Vediamo perché.
 
Intanto, i fatti. Intervistato da Sky Tg24, Letta ha detto che una stagione ventennale si è chiusa per sempre, dando in questo modo per morto (politicamente) Berlusconi. «Alfano ha vinto, non ci saranno più tarantelle», ha aggiunto. Ma Alfano, anziché intascare i complimenti, ha risposto per le rime: «Nessuno, premier compreso, si permetta di interferire nelle vicende interne al Pdl. Berlusconi resta il nostro leader».
 
Sembrano i segnali di nervi di nuovo tesi all’interno della maggioranza, e verrebbe da chiedersi per quale ragione Letta e Alfano si sono messi l’uno contro l’altro. Ma in realtà sia il primo, sia il secondo, non potevano fare altro che dire quello che hanno detto.
 
Per quanto riguarda Letta, il motivo è evidente. Il premier voleva ribadire il discorso pronunciato alla Camera poche ore dopo il voto a sorpresa di Berlusconi sulla fiducia: la maggioranza è comunque cambiata, non accetterò più di governare sotto minaccia, basta con Berlusconi, d’ora in poi il mio alleato è Alfano che ha già mostrato senso di responsabilità.
 
A queste parole, però, Alfano ha - come dicevamo - replicato seccamente. Cerchiamo di capirne il motivo. Che è, o almeno dovrebbe essere, il seguente.
 
Nei giorni scorsi il segretario del Pdl e vicepremier ha vinto un’importante scommessa. Quando Berlusconi ha cercato di imporgli la caduta del governo, Alfano ha resistito; lo ha sfidato e lo ha battuto, costringendolo infine a un voltafaccia clamoroso. Quindi il «partito della crisi» interno al Pdl ha dovuto battere in ritirata.
 
Ma, salvato il governo, Alfano punta ora su un’altra scommessa: prendere la guida del centrodestra. In molti, nelle ore successive alla vittoria in Senato, gli hanno suggerito di staccarsi dal Pdl-Forza Italia e di dar vita a nuovi gruppi parlamentari che garantissero stabilità al governo. Alfano però sa che, se così facesse, correrebbe due pericoli: il primo è che si snaturerebbe, diventando una stampella centrista del governo guidato dal Pd; il secondo è che alle elezioni farebbe poi la fine di un Fli o di una Udc, perché alla sua destra resterebbe una Forza Italia comunque capace di raccogliere ancora molti voti.
 
Da qui la seconda scommessa di Alfano: prendere appunto la guida del centrodestra. Sicuramente anche per cambiarne stile e pelle, tenendolo sotto l’ombrello del Partito popolare europeo, al riparo dagli estremisti: ma comunque restando centrodestra, e non diventando centro. Per questo Alfano ha bisogno che non ci sia nessuno, in futuro, alla sua destra; per questo ha bisogno di dire che Berlusconi è il leader storico. Per questo, insomma, ha avuto bisogno di rispondere a muso duro a Letta, il quale avrà capito benissimo e sicuramente anche apprezzato: anche lui ha interesse ad avere, dall’altra parte, un centrodestra guidato da un Alfano, e non da un Berlusconi condizionato dai falchi.
 
Ecco perché, a gioco lungo, la divergenza di ieri tra Letta e Alfano potrebbe portare a una maggiore stabilità del Paese. Il quale ha necessità che il centrosinistra e il centrodestra siano due cose ben distinte; e che il centrodestra non sia più caratterizzato, come è stato fino alla scorsa settimana, da un clima di guerra. Alfano ci sta provando. Il tempo gioca probabilmente per lui, e sicuramente contro i nostalgici.

http://www.lastampa.it/2013/10/07/cultura/opinioni/editoriali/lettaalfano-solo-tattica-politica-xFr1DYAS8tKRFeNDrdhlbK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Renzi non scalda gli imprenditori veneti
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:03:09 pm
Politica
15/10/2013 - reportage

Renzi non scalda gli imprenditori veneti

Renzi a Bari, palco e slogan in stile Usa

Interesse più per lui che per Tosi, ma la scintilla non scatta


Michele Brambilla inviato a verona


L’impressione è che qualcosa si sia un po’ raffreddato rispetto a un anno fa. Matteo Renzi ieri a Verona, all’assemblea della Confindustria provinciale, è stato applaudito, sì, senz’altro: però dire che ha infiammato la platea, no. Molti più applausi - se è questo il metro di giudizio - li hanno avuti gli imprenditori che hanno parlato prima di lui.

 

Certo non era proprio come giocare in casa, per uno che è candidato alla guida del Pd. Il Veneto non ha mai votato a sinistra; qui è nata, con la Liga, l’avventura leghista; qui Berlusconi è stato a lungo la grande speranza di una classe imprenditoriale abituata a credere più in se stessa che nella politica. E ieri Renzi era ospite proprio di questi imprenditori, degli artefici del miracolo del Nord Est. Quindi non era facile.

Però giusto un anno fa, dicevamo, il feeling sembrava diverso. Il sindaco di Firenze aveva voluto che il suo camper partisse proprio da qui, da Verona, nel viaggio alla conquista di Palazzo Chigi. E la sensazione era che, se il Pd avesse candidato lui anziché Bersani, da queste parti di voti ne avrebbe presi parecchi. Renzi avrebbe sfondato tra i delusi della Lega e di Berlusconi; tra imprenditori cui non pareva vero di sentire uno di sinistra che parlava contro le tasse, lo statalismo e la burocrazia.

 

Oggi molte cose sono cambiate. Renzi ha capito che per conquistare il Paese deve prima conquistare il suo partito: e quindi parla un linguaggio un po’ diverso rispetto all’anno scorso. E poi questi imprenditori veneti sono gente concreta, e concretezza vuole che le larghe intese reggano il più possibile, perché «anche se fragile e lenta, una crescita c’è», ha detto il presidente di Confindustria Verona Giulio Pedrollo, e nessuno ha voglia di affrontare un’ennesima crisi e un’ennesima campagna elettorale per assecondare le ambizioni di Renzi.

 

Gli industriali veneti continuano comunque a vedere in lui un soggetto interessante, se non altro per realismo: il futuro vedrà nuovi referenti politici, e fra questi Renzi ci sarà sicuramente. Così, ieri, in un’assemblea che aveva uno slogan tutto proiettato al futuro, «Oltre», Confindustria ha voluto invitare Matteo Renzi e Flavio Tosi. Due politici con evidenti somiglianze. Tutti e due sono giovani (Renzi ha 38 anni, Tosi 44); tutti e due sono sindaci; tutti e due si sono scontrati contro le leadership storiche dei loro rispettivi partiti, ponendosi come il nuovo che avanza; tutti e due hanno potenzialmente un gradimento trasversale, perché se Renzi a un certo punto piaceva a destra, sicuramente Tosi ha preso tanti voti anche a sinistra. Tutti e due insomma sembrano essere il futuro.

 

Va detto che Renzi non ha cercato l’applauso facile. Nessuna blandizia. Certo ha ripetuto cose che, a onor del vero, dice da sempre: che bisogna smantellare la burocrazia, che «il sistema fiscale è allucinante», che gli studi di settori sono assurdi. Ma a una classe imprenditoriale che è molto orgogliosa («Gli imprenditori italiani sono i migliori del mondo», hanno detto quasi tutti i relatori, da Giulio Pedrollo a Santo Versace, da Nerio Alessandri a Giorgio Squinzi) e che vede i politici come unici responsabili della crisi, Renzi ha detto con eguale orgoglio di essere «un politico che crede nella politica». E ha avuto il coraggio di dire che, se è vero che «bisogna rottamare i politici, è vero che bisogna rottamare anche un certo modo di concepire i rapporti tra economia e politica», ricordando che «con lo sperpero di denaro pubblico si sono arricchiti molti finti imprenditori».

 

Insomma davanti agli imprenditori Renzi non ha fatto finta di essere uno di loro. Ha parlato da politico, e le riforme che ha invocato sono tutte politiche: «Prima di tutto occorre una riforma elettorale chiara, dove vince uno solo; poi via il Senato, basta con il ping pong tra le due Camere; quindi va riformata la giustizia civile, perché non è possibile che in Italia occorrano milleduecento giorni per avere una sentenza contro i trecento della Germania». Ha ribadito il suo «no» all’amnistia («È diseducativa per i nostri giovani») e ha perfino rivelato, ai veneti che non lo sapevano, che da sindaco di Firenze si è messo di traverso agli imprenditori edili.

Dicevamo che non si è avuta l’impressione che sia scoccata la fatale scintilla. Però va detto pure che quando Renzi è sceso dal palco per farvi salire Tosi, molti se ne sono andati. Un po’ perché Tosi lo conoscono già. Ma un po’ anche perché Matteo Renzi, pur qualche entusiasmo in meno rispetto a un anno fa, ai tradizionali elettori del centrodestra continua a destare curiosità. 

da - http://lastampa.it/2013/10/15/italia/politica/renzi-non-scalda-gli-imprenditori-veneti-VshVpzaqYcldyIoYvbZ7FL/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Ma un ministro non può avere amici
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 06:25:18 pm
Editoriali
01/11/2013

Ma un ministro non può avere amici

Michele Brambilla

Sarà certamente vero, come assicura la Procura di Torino, che se Giulia Maria Ligresti è stata scarcerata, non lo è stata per l’intervento del ministro Cancellieri. Però la storia non è bella. 

E soprattutto non è una di quelle storie di cui abbiamo bisogno in questo momento di - come si usa dire - «disaffezione alla politica». 

I fatti sono questi. Nel luglio scorso, praticamente l’intera famiglia Ligresti finisce agli arresti nell’inchiesta sulla compagnia assicurativa Fonsai. Agli arresti Salvatore Ligresti, il capostitite, e tre suoi figli, tra cui Giulia Maria. Per quest’ultima ci sono parecchie preoccupazioni, perché in passato ha sofferto di anoressia. Come potrà reggere al carcere? Il 17 agosto Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti, parla al telefono con Antonino, il cognato, e dice che il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, sua vecchia amica, «potrebbe fare qualcosa per Giulia». Il 28 agosto le porte del carcere, per Giulia, si aprono.

Grazie a un intervento dall’alto? Alcune telefonate tra la Fragni e il ministro lo fanno sospettare. Lei, Annamaria Cancellieri, viene interrogata dai magistrati torinesi e conferma di essersi interessata, di avere «sensibilizzato i due vice capi dipartimento del Dap (...) perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati». È stato, spiega ancora, «un intervento umanitario». E senza alcuna violazione di legge.

Certamente sarà così, nessuna violazione della legge. Ma la storia, dicevamo, è brutta lo stesso. O almeno imbarazzante. Perché?

Annamaria Cancellieri è una specie di incarnazione di quel che gli italiani chiedono, anzi pretendono, dopo tanti anni di malcostume politico: una figura super partes, al servizio delle istituzioni e non di una parte politica. Così è sempre stata: ha fatto il prefetto, poi il commissario a Bologna e a Parma, amministrando (bene) i Comuni in sostituzione di giunte e di sindaci travolte da scandali. Quando, terminato il commissariamento a Bologna, il Pdl le chiese di candidarsi a sindaco, lei rispose di no, per non perdere la sua imparzialità. È stata ministro dell’Interno in un governo tecnico, quello di Monti; e lo è della Giustizia in uno di larghe intese. Sempre senza essere «in quota» a nessuno. La stima che si è conquistata, Annamaria Cancellieri se l’è meritata: e non è un caso se il suo nome è a un certo punto circolato perfino per il Quirinale.

Quando è diventata Guardasigilli, ha preso subito a cuore la condizione dei carcerati, e s’è data da fare, per quanto ha potuto, per alleviarne le sofferenze. Se dice che il suo intervento in favore di Giulia Maria Ligresti era motivato dalla preoccupazione per le condizioni di salute, c’è da crederle. Però, c’è un però. Annamaria Cancellieri è appunto amica da decenni di Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti; e suo figlio, Piergiorgio Peluso, è stato dirigente della Fonsai. Così quelle telefonate e quell’intervento - per legittimo e ininfluente che possa essere stato - dà agli italiani l’impressione che come al solito ci sono cittadini (in questo caso detenuti) di serie A ed altri di serie B, senza alcuna suocera o zio amici del ministro.

Si dirà che le impressioni non sono fatti. È vero. Ma fino a un certo punto. Mai come in questo periodo la politica ha bisogno che perfino la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto: troppi scandali o scandaletti, favoritismi e raccomandazioni, troppe buone parole e dì che ti mando io hanno indotto gli italiani a pensare che sia tutto uno schifo, anche peggio di quello che è. 

Per questo, anche se si è intervenuti in favore pure di altri detenuti, quando chiama un’amica bisognerebbe rispondere «agli altri sì ma a te no, proprio perché sei mia amica». Oggi viene richiesto, a chi è in politica, un supplemento quasi disumano di impeccabilità.

Da - http://lastampa.it/2013/11/01/cultura/opinioni/editoriali/ma-un-ministro-non-pu-avere-amici-GmLzX9C6TpI1fpysHbvXSM/pagina.html


Titolo: VALSERIANA. Il sindaco-bancario che ha fatto sparire il tesoro “in nero”..
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 07:25:31 pm
Cronache
27/11/2013 - la storia

Il sindaco-bancario che ha fatto sparire il tesoro “in nero” della Val Seriana
Valbondione e gli altri paesi della bergamasca erano conosciuti come la «Cina d’Italia» per la presenza di numerose aziende
Dopo mesi di omertà le prime denunce: “Gli versavamo i risparmi sulla fiducia”

Michele Brambilla
Fiorano al Serio (Bergamo)

C’è un’Italia che non compare nei report sulla crisi: è un’Italia dove i soldi vengono portati in banca dentro una borsa o una scatola di cartone, e dietro rilascio di una ricevuta scritta a biro su un pezzo di carta, magari quella del formaggio. È un’Italia che rimane sommersa fino a quando succede un imprevisto, e cioè che i soldi spariscono: a quel punto non resta, seppur dopo tanti imbarazzi, che fare denuncia. Nella storia che andiamo a raccontare, proprio ieri è arrivata la denuncia numero tredici: l’ha presentata la vedova di un operaio, la quale sostiene che dal deposito in banca del marito sono spariti 180 mila euro. In totale, i soldi scomparsi ammonterebbero, in un minuscolo mondo di provincia, a trenta milioni di euro. A quanto pare, il «nero» di una valle: la Val Seriana. 

Tutto si svolge fra due paesi che, per estensione territoriale, sono il più piccolo e il più grande della provincia di Bergamo: nell’ordine, Fiorano al Serio e Valbondione. Di anime, poche: tremila a Fiorano, che sta in centro alla valle, e un migliaio a Valbondione, che è su in cima, ultimo paesino in fondo alla strada. È un Nord in cui i cartelli all’ingresso dei paesi sono orgogliosamente bilingue, per cui Gazzaniga è Gagenica, Vertova è Erfà, Albino è Albì. Paesini in cui l’estraneo, o meglio l’ingenuo, non capisce che cosa ci stia a fare un Private Banking, cioè una banca di grandi investimenti: eppure a Fiorano al Serio c’è un Private Banking di Intesa Sanpaolo.

Forse, anzi sicuramente, è perché la Val Seriana ha avuto fama di essere, a partire dagli anni Sessanta, la Cina d’Italia: qui si racconta ancora di mamme che, mentre accudivano i piccoli, facevano andare i telai della seta. Fu così, con la caparbietà e la laboriosità di questi bergamaschi, che la valle è andata accumulando negli anni un’immensa ricchezza. Adesso c’è la crisi e lungo la strada si vedono pubblicità di «capannoni nuovi/usati»: ma le antiche ricchezze messe via con parsimonia - e forse, chissà, anche guadagni recenti tenuti gelosamente nascosti - sono parte del patrimonio finito negli anni, appunto, nel Private Banking di Fiorano al Serio, e ora materia di uno scandalo di cui tutta la valle parla, anche se sottovoce, con particolare cura di non essere sentiti da orecchie di forestiero.

Tutto comincia quest’estate, quando le chiacchiere sui depositi prosciugati arrivano ai vertici di Intesa Sanpaolo, che manda cinque ispettori a controllare l’operato del direttore di Fiorano, vale a dire Benvenuto Morandi, 53 anni, dal 2006 sindaco di Valbondione per una lista civica di centrodestra. Gli ispettori si accorgono subito che qualcosa non quadra e avvertono la magistratura. Il primo luglio il direttore viene sospeso. Ormai è uno scandalo al sole, anche perché un grosso imprenditore di Gazzaniga, Gianfranco Gamba, ha fatto la prima denuncia ai carabinieri di Clusone: si è accorto che dal suo conto è partito, senza che nessuno lo autorizzasse, un bonifico di 400 mila euro. A questo punto la gente della valle rompe gli indugi: una mamma e suo figlio di quarant’anni presentano la seconda denuncia, in cui si parla di un saldo di 150 euro a fronte di versamenti per seicentomila. Benvenuto Morandi viene indagato per appropriazione indebita aggravata e licenziato da Intesa Sanpaolo.

Nelle denunce si parla di soldi versati sulla fiducia («Sul Benvenuto avremmo messo tutti la mano sul fuoco», dicono in valle) e di ricevute scritte a mano su «fogli volanti - raccontano - alcuni firmati ma senza data, altri con data ma senza firma». Ci sarebbero anche distinte taroccate: «Ho visto quelle di alcuni miei clienti: sono stampate su carta di Banca Intesa ma non originali», ha raccontato all’Eco di Bergamo il commercialista di Leffe Riccardo Cagnoni, che è anche sindaco pidiellino di Vertova. Sempre all’Eco di Bergamo sono arrivate le finora uniche parole pubbliche dell’indagato Benvenuto Morandi: «Le dichiarazioni di alcuni miei clienti che ho letto sui giornali non rispondono a verità, motivo per cui mi riservo di agire nelle sedi opportune».

Morandi ha ricevuto la visita dei carabinieri a casa sua a Valbondione, mentre la Guardia di Finanza - mossa dal sospetto di un colossale «nero» depositato in banca - è andata alla filiale di Fiorano all’inizio di agosto. Va detto che Morandi non è sospettato di aver intascato per sé. Dei trenta milioni di buco, si ipotizza che dieci siano stati sottratti ai conti di Gianfranco Gamba per finanziare gli impianti di risalita di Lizzola, gestiti da una società partecipata dal Comune di Valbondione, la Stl; e gli altri venti, presi dai conti di una sessantina di piccoli commerciati o imprenditori, siano andati perduti in operazioni finanziarie sbagliate. Morandi comunque non molla la poltrona di sindaco a Valbondione e ha la solidarietà di tanti: «Vai Benvenuto, làghei fa», lasciali fare, gli ha detto un collega di partito in Consiglio comunale dopo che l’opposizione aveva chiesto il passo indietro.

Ma il clima è brutto, anche perché nei giorni scorsi un incendio doloso ha distrutto lo chalet di montagna - sul monte Bue, a Cene - di Gianfranco Gamba, e c’è chi teme che la storia del buco in banca non sia estranea. La valle aspetta gli sviluppi dell’inchiesta con qualche timore. Ma anche con orgoglio, perché come mi dice un imprenditore non c’è niente da vergognarsi: «Grazie al nero della Val Seriana e della Val Gandino abbiamo creato ricchezza e posti di lavoro. I guai sono cominciati quando i soldi abbiamo iniziato a mandarli a Roma».

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/27/italia/cronache/il-sindacobancario-che-ha-fatto-sparire-il-tesoro-in-nero-della-val-seriana-YQNw8N8M1qrT4lczRW9RLI/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La Lega è morta il leghismo è più vivo che mai
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 12:05:56 pm
Editoriali
04/12/2013 - questione nordista

La Lega è morta il leghismo è più vivo che mai

Michele Brambilla

Nessuno parla più della Lega. Quando si fanno ipotesi su come andrebbe a finire in caso di elezioni in primavera, tutti si chiedono se un Pd di Renzi potrebbe vincere da solo, se Grillo farà il bis, se Berlusconi compirà l’ennesimo miracolo, se il Nuovo Centrodestra morirà in culla o risulterà determinante. Ma nessuno, appunto, parla della Lega. 

Quando se ne parla, se ne parla come di roba da Storia illustrata. Infatti nei giorni scorsi sulle prime pagine dei giornali la Lega è sì tornata, ma c’è tornata appunto per vicende passate: il processo contro il cerchio magico, il tesoriere infedele, la laurea finta del Trota. Fatterelli, o misfatterelli, un po’ provinciali, in fondo la prova del mesto tramonto di un’epopea durata anche troppo. Soprattutto la scomparsa dalla scena politica di Umberto Bossi - che della Lega era non solo il fondatore, ma anche l’unico vero leader - fa pensare che una stagione sia finita per sempre.

Tutto questo è innegabile. Ma comporta il rischio di una grave sottovalutazione politica. 

Il rischio di non vedere che, se la Lega è morta, il leghismo è più vivo che mai. Per leghismo non intendo un progetto politico, federalista o secessionista che possa essere, ma la rabbia del Nord. Una rabbia che è ancora più forte di quella sul cui fuoco poté soffiare, ormai quasi trent’anni fa, l’allora politico da bar Umberto Bossi e, ancor prima di lui, l’orgoglio veneto che diede vita alla Liga. Allora infatti si recriminava contro l’occupazione dei meridionali nelle scuole e negli uffici pubblici, contro l’arrivo dei primi immigrati, contro Roma ladrona e sì, certo, anche contro le tasse e la burocrazia: ma non c’era, ad aggravare tutto, la drammatica crisi economica di oggi. Il Nordest era in pieno miracolo, e la Lombardia il Piemonte e la Liguria erano sempre e comunque il triangolo industriale d’Italia.

Oggi, chi uscisse dai Palazzi della politica (per Palazzi intendendo anche l’astrazione di molte analisi giornalistiche) e incontrasse gli imprenditori (grandi, medi e piccoli) del Nord - ma anche i professionisti, gli artigiani e pure molti lavoratori dipendenti a rischio disoccupazione - si accorgerebbe che la crisi ha acuito a dismisura il rancore contro Roma e contro l’Italia, più che mai ritenuti capitale corrotta e Nazione infetta, o come minimo inetta.

Lunedì sera, a Milano, c’è stata una cena con Maurizio Lupi e un centinaio di imprenditori. A un certo punto uno di questi imprenditori si è alzato e ha detto: «Caro ministro, la mia azienda ha un carico fiscale di quasi il settanta per cento. Sa che c’è di nuovo? Che con il mio socio abbiamo deciso di aprire un’altra fabbrica in Svizzera, dove produrremo le stesse cose e risparmieremo fin da subito il venticinque per cento di tasse». Tutti i presenti hanno dimostrato di pensarla così, e il problema è che nessuno stava contestando Lupi, al quale anzi riconoscevano buone idee e buona volontà. Il problema è che ormai questo mondo pensa che, anche se c’è un ministro che dice cose giuste, non lo faranno lavorare. Il problema insomma è una sfiducia insuperabile in un sistema che stritola le migliori persone e le migliori intenzioni.

Anche un mese fa, a Verona, all’assemblea della Confindustria provinciale, ho sentito discorsi del genere. E quando, la scorsa settimana, sono stato nella Bergamasca per raccontare una storia di «nero» depositato in banca, ho sentito quanto gli imprenditori siano solidali con chi fa appunto «il nero». E badate bene: se è vero che la furbizia e l’egoismo non sono estranee a queste inclinazioni, è vero pure che sarebbe miope non cogliere anche una giusta esasperazione per un carico fiscale al di là di ogni confronto internazionale («Quest’anno chiudo in perdita, perché devo pagare l’Irap?», mi ha detto uno) e per una burocrazia che rende quasi impossibile l’apertura di una nuova impresa.

Non sappiamo chi raccoglierà, nelle urne, i frutti di questa rabbia: probabilmente nessuno. Ma non è questo, comunque, l’aspetto che deve preoccupare la politica. L’aspetto principale è che il declino della Lega non deve illudere: al Nord c’è qualcosa di più profondo di una protesta, c’è una voglia di andarsene. E una rabbia che non è più contro i politici, ma contro lo Stato, il che è molto peggio.

Da - http://lastampa.it/2013/12/04/cultura/opinioni/editoriali/la-lega-morta-il-leghismo-pi-vivo-che-mai-fw62rsPCo09JsVbLQvRnxK/pagina.html


Titolo: In piazza ci sono i figli della crisi (stiano attenti ai cattivi maestri)
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:51:40 am
Editoriali
11/12/2013

In piazza ci sono i figli della crisi
Michele Brambilla

Nella protesta dei cosiddetti Forconi c’è senz’altro un mix di elementi inaccettabili e inquietanti. Inaccettabili sono i disagi creati ai cittadini (non c’è causa che li giustifichi) e a maggior ragione le vetrine spaccate e le automobili rovesciate. Inquietanti sono le infiltrazioni estremiste e addirittura (pare) mafiose. Aggiungiamoci poi le strumentalizzazioni politiche, che vengono soprattutto da destra, e le istigazioni al linciaggio, che vengono dal solito Grillo.

Basterebbe tutto questo per esprimere una netta condanna. 

Tuttavia, bisogna stare attenti a liquidare la questione solo come un problema di ordine pubblico. Vanno infatti colti, a mio parere, due fenomeni nuovi, e particolarmente preoccupanti.

Innanzitutto. Le manifestazioni di questi giorni sono le prime, a memoria d’uomo, che in Italia si tengono a pancia, se non vuota, quasi vuota. Diciamo più correttamente che si tengono con la testa piena (di paura) per una pancia che potrebbe essere presto vuota (di cibo). Nel Sessantotto e nelle sue derivazioni, in piazza ci si andava un po’ per ideali e un po’ per conformismo, perché come diceva Longanesi in Italia siamo tutti estremisti per prudenza. Ma nessuno era mosso dalla fame. Anzi, al contrario si andava in piazza perfino contro il consumismo, come fece Mario Capanna durante le feste natalizie, mi pare, del millenovecentosessantotto o sessantanove. Il paradosso di quegli anni, semmai, era che nell’Italia del post-boom si prendevano a modello Paesi, come la Cina o Cuba, molto più poveri di noi.

Oggi no. Oggi c’è la crisi. Oggi ci sono i suicidi, i debiti, il timore di non poter più dare da mangiare ai propri figli. Questa è la prima novità preoccupante, perché si sa che finché si tratta di questioni ideali, le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola: ma quando la tavola è vuota, può davvero succedere di tutto.

La seconda novità è che per la prima volta (almeno in queste dimensioni) in piazza non vediamo studenti o lavoratori dipendenti, ma imprenditori. Diciamo pure piccoli imprenditori: padroncini, agricoltori, allevatori, ambulanti, tassisti, negozianti, partite Iva. Ma comunque imprenditori.

È gente che in Italia si sente, da sempre, senza patria. Come dice Daniele Marantelli, un deputato varesino del Pd che da anni cerca di capire le ragioni della protesta nordista, «la sinistra ha sempre avuto un pregiudizio negativo nei confronti del piccolo imprenditore, considerato un evasore fiscale che pensa solo a fare il proprio interesse». Nel loro sentirsi soli, l’artigiano, il commerciante, il trasportatore e più in generale tutti i piccoli imprenditori ritengono di avere ottime ragioni. Si considerano «lavoratori» anch’essi, e lavoratori che rischiano un proprio capitale, piccolo o grande che sia, e creano posti di lavoro, pochi o tanti che siano. Certo negli anni di vacche grasse guadagnano più dei lavoratori dipendenti: ma in quelli di vacche magre non hanno paracadute, né sindacato né cassa integrazione, e non di rado devono mettere in azienda il patrimonio di famiglia.

Anche riguardo all’evasione fiscale ritengono di essere vittime di faciloneria e pregiudizi. Invocano la distinzione fra loro - che producono lavoro e sono schiacciati da una pressa fiscale senza eguali - e i veri grandi evasori, finanzieri che vivono di speculazioni, o professionisti che non creano occupazione. Abbiamo evaso? Sì, dicono: ma ricordano che perfino Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha ammesso qualche tempo fa che in Italia esiste «un’evasione da sopravvivenza».

Insomma. Speriamo non succeda, ma non ci sarebbe da stupirsi se nei prossimi mesi accanto a questo un po’ ambiguo popolo dei forconi dovessero scendere in piazza, con eguale rabbia e violenza, tanti altri italiani ridotti allo stremo dalla crisi, dalle tasse, dalla burocrazia. Dovesse succedere, saremo qui tutti a dire che con la violenza si peggiorano solo le cose, che gli estremisti la mafia... Eccetera. Ma sarebbe ormai difficile fermare una deriva barricadiera. Non dimentichiamoci che in Grecia abbiamo visto, nelle piazze incendiate, anche insospettabili pensionati. La disperazione può trasformare chiunque.

Scrivevamo, la scorsa settimana, della rabbia anti-Stato che cova al Nord. Ora questa rabbia sta cominciando a sfogarsi nelle strade e nelle piazze. C’è un solo modo per fermarla, e per non lasciarla strumentalizzare da nessuno: venire incontro veramente a chi cerca di creare lavoro per sé e per gli altri.
http://lastampa.it/2013/12/11/cultura/opinioni/editoriali/in-piazza-ci-sono-i-figli-della-crisi-

2M5Gho7sxKHxZEsaxgacHI/pagina.html
Da – la stampa.it


Titolo: MICHELE BRAMBILLA L’entusiasmo dell’accentratore Renzi a Palazzo travolge tutto
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 07:01:20 pm
Politica
23/02/2014

L’entusiasmo dell’accentratore Renzi a Palazzo travolge tutto
Il rito si accorcia e diventa più interessante.
Lui scherza con tutti, e anche esagera

Michele Brambilla
Roma

Abbiamo un premier che, almeno per adesso, pare il ritratto della felicità. Chi conosce Matteo Renzi è abituato a vederlo scherzoso, divertente, pronto alla battuta. Ma in questi giorni ci appare ilare, diremmo addirittura sovreccitato, come mai prima. 

Ieri ha riso, o sorriso, tutto il giorno. Anche quando aveva a fianco un Napolitano che sembrava l’incarnazione della solennità delle Istituzioni; anche quando Alfano - che non gli è simpatico, e al quale non è simpatico - gli ha giurato davanti; anche e perfino all’inizio del passaggio di consegne più gelido che si ricordi, quello con Letta a Palazzo Chigi.

L’uomo, sia detto senza offesa, è come si sa discretamente ambizioso. Sembra mosso da una sorta di insofferenza nel restare dov’è. Sulla rete circola l’apocrifo di un suo appunto nel quale, sotto il titolo «Cose da fare», si elencano sette passaggi successivi. I primi tre sono spuntati perché raggiunti: sindaco di Firenze; segretario Pd; presidente del Consiglio. Restano: vincere Sanremo; capocannoniere mondiali; Oscar miglior attore; Papa. 

Ma l’ambizione è la molla che ha mosso ogni grande uomo e ogni grande impresa. Fa parte del carisma del leader, e indubbiamente Renzi è un leader carismatico. Se finora è arrivato dov’è arrivato, lo deve soprattutto a questo: al carisma. A Palazzo Chigi non entra perché eletto dal popolo, né perché abbia un curriculum da servitore dello Stato, e neppure per chissà quali protezioni. Semplicemente, vi entra trascinato dalla forza della sua personalità. Non si propone: si impone. È uno che riempie la scena. Ieri mattina, nel Salone delle feste al Quirinale, si faticava a trovare non diciamo un posto, ma anche un minino spazio vitale: «C’è il triplo delle telecamere dell’anno scorso quando ha giurato Letta», ha detto un teleoperatore, e chissà come mai.

Eppure avrebbe dovuto prevalere un senso di noia, o almeno di stanca ripetitività. Era il quinto giuramento davanti a Napolitano; il terzo nel giro di soli ventisette mesi, una frequenza che ci riporta ai tempi delle convergenze parallele e dei governi della non-sfiducia. Ma c’era Renzi: più brillante di Monti, più eccitante di Letta. In una parola, esplosivo. S’è detto che è il più giovane presidente del Consiglio della storia della Repubblica: ma anche Mussolini, che pure di esplosività se ne intendeva, quando arrivò a Palazzo Chigi era più vecchio di lui, di due mesi.

Renzi s’è imposto per la sua diversità da una classe politica che vuole mandare in soffitta per sempre. E anche ieri ha cercato di farla vedere, questa diversità. L’hanno finalmente costretto ad avere una scorta, ma lui è uscito dal suo normalissimo albergo come un normalissimo padre di famiglia, con la moglie Agnese che pare aver tutti i requisiti della perfetta first lady ombra (i grandi leader hanno sempre mogli che sanno stare nell’ombra) e i tre bambini. Ha scherzato con il macellaio che sta all’angolo, ha scambiato due battute con i passanti, poi è salito su una Alfa Romeo grigia fuori produzione con la moglie e la figlia più grande, mentre i due piccoli l’hanno seguito al Quirinale su un’altra auto guidata da Luca Lotti, l’amico di una vita, quello con i riccioli biondi.

Arrivato sul Colle, come detto è entrato nel palazzo del capo dello Stato come una forza della natura. Aveva, questa volta, l’abito giusto, quello scuro. Ha sbrigato la pratica del giuramento in quindici minuti, dalle 11,33 alle 11,48. Poi se n’è andato a palazzo Chigi, e solo lì lo abbiamo visto assumere un’espressione seria, quasi grave, mentre attraversava il cortile passando accanto al picchetto d’onore. Ma poco dopo, quando ha preso in mano la campanella, già era tornato quel tipico fiorentino che pare uscito da Amici miei, nonostante avesse accanto un Letta livido, al quale ha poi dato la mano senza degnarlo di uno sguardo, e senza esserne degnato.

Un uomo che arriva a Palazzo Chigi direttamente da Palazzo Vecchio, a 39 anni, senza essere mai stato in parlamento, e dopo quattordici mesi dalla sconfitta alle primarie contro Bersani, è il trionfo della volontà, la vittoria di chi vuole fortissimamente vuole. Avrà anche la forza per durare? Renzi è un uomo intelligente e scaltro. Sa che in questi primi mesi si gioca tutto. Lui non è come gli altri politici che possono permettersi di non mantenere le promesse: lui non ha detto che farà delle riforme, ha detto che farà una rivoluzione. E le rivoluzioni non si fanno a metà. Perfino uno come Di Pietro è riuscito a durare vent’anni: ma Renzi o funziona subito o non funzionerà mai.

Dicono che abbia scelto ministri di non grande personalità perché è un accentratore e gli garba comandare solitario. A Firenze, in un solo mandato da sindaco, è riuscito a cambiare tutti i suoi assessori. Un po’ dittatore? Forse siamo in uno di quei momenti in cui gli italiani uno un po’ dittatore sono anche disposti a digerirlo. E questa è una delle fortune di Renzi: ridotti come siamo, è difficile trovare qualcuno che, magari sotto sotto, non faccia il tifo per lui.

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/italia/politica/lentusiasmo-dellaccentratore-renzi-a-palazzo-travolge-tutto-GJrQvNcCzgO49SBusDeTMK/pagina.html


Titolo: M. BRAMBILLA La strategia: popolare e genuino è sempre il Matteo della Leopolda
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 07:16:32 pm
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 25/02/2014.

La strategia: popolare e genuino è sempre il Matteo della Leopolda
Renzi ha voluto ribadire che intende cambiare il Palazzo, non viceversa

Ha parlato a braccio, spesso con le mani in tasca, ha citato Gigliola Cinquetti invece di Benedetto Croce: dicono che non si presenta un programma di governo in questo modo. Ma ieri Matteo Renzi non ha presentato un programma di governo: ha presentato se stesso. E non ha parlato ai senatori: ha parlato agli italiani.

Si può pensare che abbia sbagliato, che sia stato impertinente o addirittura irriverente; che vista l’occasione avrebbe potuto prepararsi meglio.

Può darsi. Ma è molto probabile che la sua sia stata una scelta precisa. Cioè è probabile che Renzi abbia voluto far vedere agli italiani che la presa del Palazzo non lo ha ancora contaminato, che lui è sempre quello che al rapporto con i politici preferisce il rapporto con la gente. Non è un caso, credo, se ha parlato dei mercati rionali e non di quelli finanziari; se ha citato più volte la sua esperienza di sindaco a contatto con il popolo; se ha ricordato quando va a incontrare i familiari dei ragazzi morti negli incidenti stradali; se non ha annunciato appuntamenti con i grandi leader mondiali ma quelli, fissati per ogni mercoledì, con alunni e studenti delle scuole. 

Ha cominciato il discorso leggendo parole che parevano ingessate e solenni, usando il noi, «ci avviciniamo in punta di piedi e con il rispetto profondo e non formale che si deve a quest’Aula» eccetera eccetera, ma subito dopo altro che punta di piedi, ha messo giù il testo scritto e ha cominciato a muoversi come un bulldozer. Ai senatori cui stava chiedendo il voto di fiducia ha detto subito, giusto per ingraziarseli, che sono tutti più vecchi di lui («Non ho l’età per sedermi qui dentro») e che saranno presto i rappresentanti di un ente inutile, visto che il Senato, nel suo programma, sarà abolito: «Spero sia l’ultima volta che si vota la fiducia a un governo qui dentro». Ha detto che si avvicinava all’assemblea «con stupore»: ma è probabile che siano rimasti più stupiti i senatori nel vedere questa specie di intruso, di marziano della politica.

Si dice anche che sia rimasto sul generico, che abbia lanciato tanti slogan ma nessun intendimento concreto. Non mi pare sia così. Certo non ha toccato tutti i punti programmatici di un governo che si sta insediando. Ma alcune cose concrete le ha annunciate. Il taglio del cuneo fiscale «a doppia cifra»; i fondi per le piccole e medie imprese; lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione; gli interventi su una giustizia troppo lenta; la messa in rete di ogni centesimo di denaro pubblico che verrà speso; lo sforamento del patto di stabilità per l’edilizia scolastica; la licenziabilità dei dirigenti della pubblica amministrazione; la riforma elettorale, del Senato, del titolo V.

Certo tutto questo non l’ha detto come lo dice di solito un neo premier. Ma probabilmente, per non dire certamente, lo smarcarsi da quel «di solito» fa parte di una strategia studiata: Renzi ha voluto essere se stesso. Chissà che cosa ha pensato, ad esempio, di fronte a certe procedure: la seduta si apre con una dichiarazione del presidente del Senato che dice di aver saputo da una lettera (!) del cambio di governo; e s’interrompe quando il nuovo primo ministro deve portare personalmente alla Camera dei deputati il testo del discorso che ha appena pronunciato e che gli stenografi hanno trascritto. Liturgie ottocentesche insopportabili per uno che comunica via Twitter anche quando è a colloquio con il capo dello Stato al Quirinale.

A chi lo segue da tempo, il Renzi di ieri è parso lo stesso della Leopolda, delle primarie, delle feste del Pd con le salamelle. Qualcuno può pensare che quel Renzi stia a pennello su un camper, ma non a Palazzo Madama. Può pensare, insomma, che ieri l’enfant prodige della politica italiana si sia rivelato inadeguato. Difficile, però, immaginare che certe osservazioni Renzi non le avesse messe in conto. Più probabile che il nuovo premier la parte del marziano l’abbia recitata di proposito, per mostrare che il suo obiettivo è quello di cambiare il Palazzo, non di esserne cambiato. Che poi ci riesca, a cambiare la vecchia politica, è tutto da vedere, e realisticamente molto difficile. Ma a volte la storia è imprevedibile, e sistemi considerati immutabili cadono, o crollano, anche per mano di persone cui all’inizio non si dava un gran credito.

Michele Brambilla

Da - http://lastampa.it/2014/02/25/italia/politica/popolare-e-genuino-sempre-il-matteo-della-leopolda-VsuDNtSSVLIAyirn7OQcNN/premium.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA: ""Barack intimidito..."" Commento assurdo e offensivo.
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:18:09 am
Esteri
27/03/2014 - il commento

Barack intimidito in Vaticano davanti al carisma di Bergoglio

Michele Brambilla

Qualcuno ha notato che durante l’incontro tra Obama e Papa Francesco il primo era raggiante, il secondo serio, compassato, con la faccia di chi sta vivendo un momento tutto sommato «normale». Molti hanno osservato pure che il presidente americano mostrava di essere piuttosto in soggezione, e il Papa no.

Se è così - e guardando le immagini pare proprio che sia così - è forse la prima volta che un presidente degli Stati Uniti, cioè colui che per definizione è l’uomo più potente del mondo, avverte una specie di «stato di inferiorità», se ci si passa il termine, davanti a un interlocutore. È probabile che Obama, che già aveva incontrato Papa Ratzinger, abbia avvertito, fin quasi a intimidirsi, tutto il carisma di un uomo che sta stupendo il mondo non tanto per quello che dice, ma per quello che vive e che ha sempre vissuto. È ancor più probabile che Papa Francesco - pur con tutto il rispetto e la consapevolezza dell’importanza del suo interlocutore - non abbia sentito l’incontro di oggi più importante di tanti altri incontri con «gente normale»: poveri della sua parrocchia di Buenos Aires, penitenti che entrano in confessionale, malati senza speranza di guarigione, genitori preoccupati per un figlio.

Si parlerà molto, ovviamente, dei contenuti del colloquio tra Obama e il Papa. Sulle questioni di politica internazionale, sul disarmo e sulla povertà, sulle cose che uniscono e su quelle che dividono, ad esempio l’aborto e il matrimonio gay. È giusto, naturalmente, tener conto di questi discorsi, che senz’altro ci sono stati. Ma sarebbe sbagliato fare come si fa di solito, cioè considerare l’incontro di oggi come l’incontro tra due capi di Stato. Obama lo è, un capo di Stato; il Papa no. Sono due persone che viaggiano su piani differenti. Uno si occupa delle cose del mondo; l’altro delle cose del mondo pensando che il mondo non è l’ultima parola sulla vita.  

Certo anche Obama, per la sua storia, ha incarnato e incarna ancora una speranza. Ma la speranza incarnata dal Papa, e riposta da miliardi di uomini e donne in un «capo» senza esercito e senza impero, è il segno di qualcosa d’altro, di una risposta non solo alle nostre domande penultime sul senso della vita, ma anche alle ultime.

Da - http://lastampa.it/2014/03/27/esteri/barack-raggiante-in-vaticano-e-francesco-compassato-lincontro-normale-del-papa-u0RvOCinw1o8iQGQsGh6lN/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La voglia d’indipendenza che si trasforma in farsa
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:38:28 pm
Cronache
02/04/2014
La voglia d’indipendenza che si trasforma in farsa

Michele Brambilla

Solo pochi giorni fa, su La Stampa, scrivevo che la voglia di indipendenza del Veneto è una questione troppo vera (citavo il sondaggio di Ilvo Diamanti, secondo il quale l’80 per cento dei veneti è favorevole a un referendum sul tema) e troppo seria (ragioni storiche ed economiche) per lasciarla in mano a personaggi che stanno a metà tra la farsa e l’operetta: dai Serenissimi del ’97, che occuparono piazza San Marco con un «tanko» di cartone, all’ultima consultazione on line, dai contatti misteriosi, compresi voti arrivati dal Cile. L’inchiesta giudiziaria di cui si è avuta notizia oggi conferma questa impressione. I magistrati contestano reati gravissimi, terrorismo compreso: ma francamente pare di assistere, più che a un caso giudiziario, a un caso psichiatrico.

Se anche fosse vero, infatti, che alcuni degli arrestati avevano assemblato un «tanko» meno folcloristico di quello di diciassette anni fa, e addirittura in grado di sparare, ci vuole una buona dose di pazzia nel pensare di poter arrivare, con simili mezzi, alla secessione del Veneto. Se anche ne avessero cento e veri, di carri armati, saremmo comunque nel campo del delirio. Ecco perché ripeto il concetto dei giorni scorsi: è davvero singolare che un’istanza come quella del Veneto sia sempre incarnata da personaggi che finiscono nel gettare tutto in burletta. 

In Veneto la voglia di indipendenza è infatti fondata, come dicevo, su ragioni storiche ed economiche. Quelle storiche. La nostalgia della Serenissima non s’è mai spenta. Anche quando la vecchia Liga, squassata dalla proprie divisioni interne, s’è trovata costretta ad allearsi con la Lega lombarda, l’ha fatto obtorto collo. Che a comandare fosse un lombardo, Bossi, provocava il mal di pancia: i lombardi, per i veneti, sono storicamente dei sudditi. Il Veneto si sente poi, a differenza della Lombardia o del Piemonte, non una regione, ma una Nazione. Non a caso si parla di «venetismo» ma non di «lombardismo» o di «piemontismo». 

Prendiamo il dialetto. In Lombardia, se un cittadino di Milano e uno di Bergamo (quaranta chilometri di distanza) si parlano in dialetto, non s’intendono per nulla; figuriamoci se provano a dialogare uno di Sondrio e uno di Mantova. Nel Nordest, invece, la lingua (guai a chiamarla dialetto) è - salvo piccole differenze - la stessa da Verona a Trieste, ed è il cemento di una cultura, di un popolo. Anche il concetto di Padania, per i leghisti veneti, è sempre stato riduttivo. Vogliono un Veneto che sia indipendente da tutto e da tutti.

Quanto alle ragioni economiche, sono facilmente intuibili. Ex regione più povera d’Italia, il Veneto è diventato una delle più ricche, e lo è diventato anche grazie a un eccezionale spirito imprenditoriale. Ma l’imprenditore veneto non ha mai digerito di dover dipendere da una Roma che è vista solo (e con qualche ragione) come tasse e burocrazia; tanto meno riesce a digerirlo adesso che il tempo delle vacche grasse è finito.

Morale: qualunque cosa si accerti sugli arrestati di ieri e sul referendum on online, la questione del Veneto non può essere liquidata con un’alzata di spalle, perché è molto più seria dei suoi paladini usciti finora, grottescamente, allo scoperto.

Da - http://lastampa.it/2014/04/02/italia/cronache/la-voglia-dindipendenza-che-si-trasforma-in-farsa-1cR0fT5zoXZWarAgCCoTsO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il Ventennio di Formigoni L’uomo vittima del suo potere
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2014, 06:36:13 pm
Cronache
14/10/2012 - LOMBARDIA- IL PRESIDENTE

Il Ventennio di Formigoni
L’uomo vittima del suo potere
Una carriera costruita sbandierando povertà e castità

Michele Brambilla
Milano

Forse più della mannaia dei leghisti colpisce il silenzio di quello che una volta era il suo mondo. Nessuno, a quanto pare, considera più difendibile Roberto Formigoni: neanche gli amici, i quali per tempo, ma inutilmente, gli avevano consigliato di cambiare frequentazioni e di abbandonare supponenza e ostinazione. 

Finisce così, salvo colpi di scena (quando c’è di mezzo la Lega c’è sempre da aspettarsi di tutto) una delle più lunghe monarchie della democrazia italiana. Il vero ventennio della Seconda Repubblica non è stato infatti quello di Berlusconi, ma quello di Formigoni.

Il quale diventa presidente della Regione Lombardia, per la prima volta, nel 1995: solo un anno dopo la prima vittoria di Berlusconi alle politiche. Ma quando Formigoni si insedia al Pirellone, il Cavaliere è già stato fatto sloggiare da palazzo Chigi. Quando poi Formigoni, presumibilmente nell’aprile dell’anno prossimo, lascerà il suo trono, Berlusconi sarà lontano dal comando già da quasi due anni. E comunque: in questo ventennio Berlusconi a volte ha vinto e a volte ha perso le elezioni; a volte è stato al governo e a volte all’opposizione. Formigoni, invece, ha sempre vinto, anzi stravinto (quattro vittorie elettorali con la maggioranza assoluta) e ha sempre governato, sia pure su scala regionale.

In questa cronologia, probabilmente, c’è già la spiegazione di una parabola politica e umana. Per troppo tempo Formigoni è rimasto al potere: nello stesso potere. E quando si rimane troppo al potere, nello stesso potere, si finisce con il convincersi di essere infallibili, intoccabili, immortali. E si perde il contatto con la realtà.

Vedendo in questi giorni Formigoni sorridere ironico e spavaldo ai cronisti e alle telecamere, tornano alla mente i leader democristiani e socialisti di vent’anni fa, quando liquidavano i primi arresti di Di Pietro come gli avventurismi di un incauto che presto sarebbe stato trasferito a fare il vigile urbano a Gallarate. Solo un paio di anni dopo, e solo davanti alla bava alla bocca di Forlani al processo Enimont, quei politici (che pure erano vecchie volpi) tornarono sulla terra.

 

Quante volte il potente finisce con il credersi onnipotente. E cade. Rovinando anche il tanto di buono che aveva costruito. Perché Formigoni, in quasi quattro mandati da presidente, di cose buone ne ha fatte tante. Quando dice che «Regione Lombardia è un modello di buona amministrazione» (proprio così: «Regione Lombardia» senza l’articolo determinativo, come se fosse una persona: è il linguaggio dei manager, e lui è un presidente-manager), Formigoni certamente tira acqua al suo mulino, ma non dice una falsità. La Regione Lombardia marcia con molti meno dipendenti di tante altre. I suoi conti sono senz’altro più virtuosi. I suoi ospedali sono i migliori d’Italia.

Ma proprio perché il potere finisce con l’ottenebrare anche le menti migliori, Formigoni - l’ultimo Formigoni - è giunto a pensare che tutto gli sarebbe stato permesso. Passi per l’igienista dentale nel suo listino bloccato. Ma la giunta? In giunta Formigoni ha imbarcato di tutto. Cinque assessori finiti in manette non possono essere un caso: se un manager mette ai posti chiavi dell’azienda cinque disonesti, o cinque incapaci, vuol dire come minimo che ha perso il controllo.

E poi, mentre crescevano efficienza e potere cresceva anche, nell’uomo Roberto Formigoni, un’ambizione, una voglia di grandeur di cui la costruzione del mega-galattico Palazzo Lombardia è l’immagine più eloquente. Quanto diverso, il Formigoni di oggi, dal giovane barbuto che sembrava sempre appena uscito da un oratorio, e che iniziava l’attività politica non nascondendo - per non dire sbandierando - la sua scelta personale di vita, improntata a povertà e castità.

La politica come servizio: questa era la vocazione del Formigoni dei primi anni Ottanta. Quando cominciava a cercarsi uno spazio nella Dc con il suo Movimento popolare. C’erano, allora, meno di quattro soldi e vecchi uffici vicino alla stazione centrale di Milano, in via Copernico. A dargli una mano niente manager o consulenti d’immagine, ma un po’ di volontari, giovanotti accorsi per la Causa. Formigoni aveva contro i notabili del partito, che ne temevano l’ascesa, ma aveva dalla sua un piccolo popolo. Alle elezioni Europee del 1984 fu il primo degli eletti della Dc con 450.000 preferenze. Quando De Mita gli telefonò per complimentarsi, al centralino c’era una ragazza che rispose più o meno così: «Formigoni non può rispondere perché è in bagno». Ma un attimo dopo si corresse in questo modo: «Aspetti aspetti, sento che ha tirato lo sciacquone, adesso glielo passo».

Un altro secolo, un’altra galassia. Oggi Formigoni a Palazzo Lombardia ha un ufficio forse senza eguali in Europa. Praticamente tutto il trentacinquesimo piano. E l’eliporto. E una vista spettacolare per abbracciare tutto il suo regno. Il regno del Governatore (mai nessun presidente di Regione s’era chiamato così, prima di lui). Il regno del Celeste.

Sbaglia però chi oggi lo mette nello stesso calderone di molti altri politici finiti nel mirino della magistratura. Uomo sicuramente dotato come pochissimi, Formigoni è forse vittima di quel narcisismo che egli stesso ha recentemente riconosciuto. La sua metamorfosi - ahimè riconoscibile anche dalle orribili giacche colorate, dalle disgustose camicie a fiori e dagli imbarazzanti filmati che ha voluto mettere su You Tube - lo ha portato a credersi tanto infallibile da non ascoltare più nemmeno i vecchi amici di Cl. 

Infatti anche pensare che Formigoni sia tutt’uno con Cl è una semplificazione, un errore. Invano lo avevano esortato a evitare, ad esempio, un certo Daccò. Invano gli è stato ricordato che don Giussani chiedeva, in politica, una «presenza»: non una «egemonia». Julián Carrón, il successore di don Giussani, in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica ha espresso concetti che Formigoni non ha recepito. Fino ad andare al Meeting - tra lo sconcerto di tutti - a informare che il Papa prega per lui.

Uomo che comunque non meritava un capolinea così, Formigoni cade senza realizzare il sogno del passo vincente da Milano a Roma. Cade anche per i suoi errori. Tocca a lui, adesso, sperimentare come passa la gloria di questo mondo.

Da - http://www.lastampa.it/2012/10/14/italia/cronache/il-ventennio-dell-uomo-vittima-del-suo-potere-IRRrEJzikK17CAO4ncmYjM/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Lo strabismo sulle violenze di piazza
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2014, 12:14:22 pm
Editoriali
03/05/2014

Lo strabismo sulle violenze di piazza
Michele Brambilla

Quanto siamo strabici in Italia quando guardiamo alle violenze di piazza. Vediamo molto bene gli errori della polizia e siamo prontissimi a denunciarli (giustamente, sia chiaro a scanso di equivoci: giustissimamente) ma chiudiamo un occhio, se non tutti e due, di fronte agli «eccessi» di certi «manifestanti» che protestano, che poi non sono eccessi ma atti di guerriglia, e che poi non sono manifestanti che protestano ma delinquenti che delinquono.

L a cronaca di queste ultime giornate è lì a dimostrare questo strabismo. Per giorni ci si è stracciati le vesti per gli applausi che un sindacato di polizia ha tributato agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. Anche qui, deve essere chiaro che non può esserci alcuna esitazione nel condannare quegli applausi. Benissimo ha fatto il ministro Alfano a non ricevere i membri di quel sindacato e a dire che pure la polizia, oltre ai familiari di Aldrovandi, esce offesa da una simile porcheria. Ma se a quel fatto è stato dato il giusto risalto, pochissimo si è detto e ancor meno si dice oggi, a due giorni di distanza, delle violenze scatenate in piazza, a Torino, da soggetti che chissà perché anche noi dei giornali non abbiamo il coraggio di definire per quel che sono, e chiamiamo «antagonisti», «no Tav», «spezzoni sociali» o altre scemenze del genere. Questi elementi hanno trasformato la manifestazione del primo maggio in una caccia all’uomo e alla fine diversi agenti sono finiti all’ospedale, chi con la testa rotta, chi con il braccio fratturato, e così via. Ma qualcuno ha detto una parola di solidarietà nei confronti di questi uomini che, per poco più di mille euro al mese, erano lì a cercare di garantire la sicurezza di tutti noi? Quei pochi che lo hanno fatto vengono emarginati come «reazionari», ed è già tanto che non siano chiamati «fascisti» come era di moda una volta. 

Intendiamoci. La violenza di chi è in divisa non può essere equiparata a quella di un privato cittadino. È chiaro che è più grave. E quindi è ovvio che quando la si scopre l’impatto mediatico diventa straordinario. Ma come negare che accanto a una simile e doverosa reattività ci sia, in Italia, una particolare indulgenza nei confronti di chi considera una manifestazione di piazza come l’occasione per sfasciare vetrine e incendiare automobili? Provate a vedere se in Francia, o in Germania, o in Inghilterra o in Spagna si fa passare per «democrazia» la pretesa di andare in piazza con i caschi integrali e i bastoni. Solo in Italia si ha un concetto tanto elastico di libertà. Ne ricordiamo a decine, di giornate come il primo maggio torinese: e sono giornate delle quali, alla fine, rimangono solo le discussioni su come è intervenuta la polizia. Chi abbia cominciato a scatenare l’inferno, è sempre un dettaglio. 

Una volta la polizia in Italia era sacra. Anche la malavita le riconosceva uno status particolare: quando cominciai a lavorare come cronista, i vecchi colleghi della «nera» mi ricordavano sempre che quando all’Isola, quartiere allora malfamato di Milano, un rapinatore aveva ucciso un poliziotto, tutti i delinquenti del quartiere si erano dati da fare per prenderlo e consegnarlo alla giustizia. Poi sono venuti anni in cui si è cominciato a disquisire su chi sono, in fondo, i veri criminali (i fuorilegge o la legge?), sul disarmo della polizia, sul diritto costituzionale del passamontagna.


Quegli anni maledetti, grazie al cielo, sono passati. Ma più di una scoria è rimasta, e fa sentire i suoi effetti. A furia di ripetere che bisogna dubitare sempre delle istituzioni – cosa anche giusta – abbiamo finito con il non dubitare mai: nel senso che siamo sempre certi che il potere sia marcio; e siccome la polizia e i carabinieri sono i suoi custodi, chi ce lo fa fare di difenderli.

Eppure, solo se non si fosse tanto strabici si potrebbe essere ancora più inflessibili nei confronti di chi, tra le forze dell’ordine, si rende responsabile di abusi, di violenze, insomma di reati. Invece tanta faziosità finisce anche con l’alimentare, in chi si trova in piazza con la divisa, un senso di frustrazione, di abbandono, di ingiustizia; insomma finisce con il sedimentare rancori che sono poi all’origine di tanti errori, forse anche di certi applausi sbagliati.

Da - http://lastampa.it/2014/05/03/cultura/opinioni/editoriali/lo-strabismo-sulle-violenze-di-piazza-lww8ONOcY6iCf0L1F7tscP/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Il contrappasso dell’ex “Compagno G”
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2014, 05:23:20 pm
Cronache
08/05/2014 - l’analisi

Il contrappasso dell’ex “Compagno G”
Salvò il Pci-Pds da Tangentopoli, finisce in carcere per l’Expo del centrodestra

Michele Brambilla

Qualche vecchio democristiano o socialista forse avrà pensato, questa mattina leggendo dell’arresto di Primo Greganti, alla legge del contrappasso, e sul suo viso sarà comparso quel ghigno che bene esprime la vendetta compiuta.

Greganti, allora detto «il compagno G», era – vent’anni fa o poco più, al tempo del ciclone di Mani Pulite – uno degli amministratori del Pci-Pds e un pm di Milano, Tiziana Parenti, gli contestò svariati milioni incassati «in nero», e quindi dalla provenienza più che dubbia.

A quel tempo Dc e Psi erano già stati decimati dall’inchiesta. E decimati in questo modo: gli inquirenti arrivavano a qualche segretario amministrativo, gli contestavano delle tangenti, dopo di che dicevano che i segretari politici non potevano non sapere, e cominciavano ad indagarli. Quindi, un interrogatorio dietro l’altro, qualche prova arrivava. Così, ad esempio, Forlani e Craxi erano stati impallinati. Ecco dunque che l’arresto di Greganti parve, a molti, il momento in cui sul banco degli imputati sarebbe finalmente finito anche il terzo grande partito della Prima Repubblica, il Pci, fino a quel momento rimasto fuori.

Ma Greganti, in galera, tenne duro, e non ammise nulla. L’allora procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio scavalcò di fatto Tiziana Parenti nelle indagini e concluse che Greganti, i soldi, se li era tenuti per lui, per comprarsi vari appartamenti. Così, il Pci-Pds nazionale uscì illeso anche in quella circostanza.

Naturalmente questa conclusione delle indagini lasciò a rosicare democristiani e socialisti, i quali accusarono D’Ambrosio di benevolenza nei confronti dei comunisti. Tiziana Parenti finì addirittura – per dire come montarono le polemiche politiche – in parlamento con Forza Italia.

Oggi, a distanza di un’era geologica (politicamente parlando) Greganti finisce dentro per affari nati attorno all’Expo, che è una creatura del centrodestra milanese, dalla Moratti a Formigoni. Ecco perché qualcuno penserà alla legge del contrappasso. A meno che Greganti, anche questa volta, non riesca a dimostrare che le cose stanno diversamente, e a uscirne pulito, cosa ovviamente possibilissima.

Da - http://lastampa.it/2014/05/08/italia/cronache/il-contrappasso-dellex-compagno-g-hhOytUbs4wAFW1oCNu7FZP/pagina.html


Titolo: Michele Brambilla Svizzera, il salario minimo corre verso il massimo
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2014, 06:45:00 pm
Economia
16/05/2014 - reportage

Svizzera, il salario minimo corre verso il massimo
Domenica il voto: se c’è l’ok alla proposta la paga sarà tra le più alte del mondo
I sindacati: solo la metà dei lavoratori è tutelata col contratto collettivo

Michele Brambilla inviato a Lugano

Sembra di scrivere dal Paese di Bengodi: qui in Svizzera domenica si voterà un referendum per introdurre un salario minimo garantito di 4 mila franchi al mese, pari circa a 3.300 euro. Avete letto bene: 4 mila franchi, 3.300 euro, al mese: e per tutte le categorie di lavoratori. Se poi aggiungiamo che questo è il Paese con la più bassa disoccupazione d’Europa (3,2%), noi italiani possiamo crepare d’invidia.

Certo anche i numeri vanno interpretati. Dunque, per correttezza: i tremilatrecento euro sono lordi, e non netti. Da quella cifra va tolto un 15 per cento di tasse e contributi vari. Poi bisogna togliere anche la Cassa malattia, che non è trattenuta in busta paga, e che ciascuno si deve fare per conto proprio. Altra precisazione: in Svizzera la vita costa ben di più che in Italia: in quella francese e tedesca il 30-40 per cento in più, nel Canton Ticino il 20 per cento. 

Però, però: nonostante queste precisazioni, vista dall’Italia è tutta manna che cade dal cielo. Infatti complessivamente, cioè compresa la Cassa malattia, il carico fiscale della Svizzera è circa del 30 per cento, quasi la metà che da noi. E quanto al costo della vita, la legge che si voterà domenica prevede che ogni singolo Cantone potrà adeguare il proprio salario minimo garantito, ovviamente alzandolo. In ogni caso, se passasse il referendum di domenica la Svizzera avrebbe il salario minimo più alto del mondo: 22 franchi all’ora, pari a circa 18 euro, contro – per stare in Europa – gli 8 della Francia e gli 8,5 della Germania.

I Socialisti e i Verdi, che hanno proposto il referendum insieme con l’Unione sindacale svizzera, dicono che quattromila franchi al mese non devono fare scandalo perché «siamo uno dei Paesi più ricchi del mondo». Ma i padroni (qui in Svizzera li chiamano tutti ancora così, «i padroni») sono furenti. Quattromila euro al mese è pari al 64 per cento del salario medio svizzero: insomma è uno stipendio pesante, per essere considerato come una soglia minima. E, per giunta, riguarderebbe non pochi lavoratori: quelli che attualmente non raggiungono i quattromila franchi al mese sono il 9 per cento di tutti gli occupati. Ma forse fa più effetto dare i numeri, invece delle percentuali: a prendere il salario minimo garantito sarebbero 330.000 persone in tutta la Svizzera, cioè in un Paese che ha otto milioni e centomila residenti, compresi gli stranieri che sono il 25 per cento.

«Sì, i padroni sono furenti», mi conferma Giancarlo Dillena, direttore del Corriere del Ticino, il più diffuso quotidiano della Svizzera italiana: «Dicono che si rischia di immettere sul mercato una regola che sconvolge equilibri storici. E poi qui in Ticino ci sarebbe qualche problema in più. Intanto perché gli stipendi in media sono più bassi, e si introdurrebbe un minimo uguale per tutta la Confederazione. E poi qui abbiamo sessantamila frontalieri italiani, che avrebbero pure loro diritto ai quattromila franchi». Il rischio, dicono quelli del fronte del «no», è che molte imprese, visto l’andazzo, portino la produzione all’estero. Per questo anche alcuni sindacati, come i cristiano-sociali, vanno molto cauti, e non fanno campagna. 

Decisi, invece, quelli dell’Unia, una specie di Cgil elvetica. «In Svizzera – mi dice da Berna la responsabile nazionale, Vania Alleva – solo la metà dei lavoratori è tutelata da contratti collettivi. Gli altri percepiscono un salario deciso dal proprio datore di lavoro, e uno su dieci prende meno di ventidue franchi all’ora, cioè quattromila franchi al mese per chi è occupato a tempo pieno. Mi rendo conto che in Italia quattromila franchi possono sembrare tanti, ma in Svizzera non è così: se non arrivi a quella cifra, qui da noi vivi malissimo, vicino alla soglia di povertà». Spiega che il referendum è stato praticamente un’ultima spiaggia: «Gli imprenditori si lamentano, ma se non si fossero sempre rifiutati di negoziare contratti collettivi, non sarebbe stato necessario arrivare a proporre questa legge. Che, tra l’altro, avrà un impatto minore che in Germania, dove il salario minimo garantito sarà sì più basso, ma riguarderà il sedici per cento dei lavoratori. In Svizzera, ripeto, solo uno su dieci».

Comunque troppi, secondo Luca Albertoni, direttore della Camera di Commercio e dell’Industria del Canton Ticino. «Siamo contrari», mi dice, «per due motivi. Il primo è che sarebbe un’imposizione dello Stato poco conforme alle nostre abitudini: sarebbe la fine di un patto sociale che in Svizzera ha una lunga tradizione. Secondo, quattromila franchi sono tanti, e metterebbero in difficoltà molti imprenditori. È vero che da noi tutto costa caro, ma ci sono già diverse esenzioni e sovvenzioni, per cui alla fine ciascuno può contare su un livello di vita dignitoso».

Vedremo domenica. I sondaggi dicono che è in vantaggio il «no». Comunque beati loro che vanno a votare su questioni del genere.

Da - http://lastampa.it/2014/05/16/economia/svizzera-il-salario-minimo-corre-verso-il-massimo-lSADSYX5Ec9ZRgmmjRlpHP/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La destra in Veneto si affida a Renzi
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 12:21:19 pm
Politica

26/05/2014 - La svolta nel Nord-Est
Imprese e artigiani La destra in Veneto si affida a Renzi
Gli imprenditori lasciano Lega e Forza Italia
Sia la Lega sia Forza Italia hanno perso molto terreno: alle politiche del 2013 gli industriali avevano guardato a Grillo

Michele Brambilla
Inviato a Treviso

C’è una parte d’Italia che può spiegare molti dei motivi del successo di Matteo Renzi. 

È un’Italia di destra, o al massimo di centrodestra, che per la prima volta ha votato per la sinistra. È il Veneto. Il Veneto degli imprenditori e delle partite Iva; il Veneto che non aveva mai votato a sinistra. 

Scrivo da Treviso perché, di questa parte d’Italia che ha «cambiato verso», Treviso è forse il luogo più simbolico. Lo è perché capitale di quella Marca che è stata il motore, negli ultimi decenni, dello sviluppo economico più miracoloso del nostro Paese. Lo è perché, appunto, zona «di destra» che aveva già dato il primo segnale di inversione di marcia l’anno scorso, quando Giovanni Manildo del Pd era diventato sindaco dopo un ventennio di primi cittadini leghisti. E lo è pure per una terza ragione. Treviso è il primo luogo che Matteo Renzi ha voluto visitare da presidente del Consiglio. Il giorno dopo aver ottenuto la fiducia è venuto subito qui, a incontrare studenti, sindaci e imprenditori. Perché? Ma è semplice: Renzi aveva capito che qui c’era la possibilità di una svolta storica.

Storica? Sì, storica. Il Veneto è, da quando esistono le elezioni, una terra proibita per la sinistra: regione più bianca d’Italia ai tempi della Dc, roccaforte leghista e berlusconiana nella Seconda Repubblica. Qui il centrodestra a volte ha vinto, a volte ha stravinto: come alle Regionali del 2010, quando Pdl e Lega insieme raggiunsero il 59 per cento.

Oggi il vento è cambiato. O sono cambiati i veneti, o è cambiata la sinistra. Fatto sta che già una ventina di giorni fa era arrivato un indizio importante: la Confartigianato regionale aveva reso noti i risultati di un sondaggio fra i suoi iscritti: il Pd era dato come primo partito con il 34 per cento; era al 9, un anno fa, fra gli artigiani. La fiducia personale nel premier e segretario Pd è stata poi stimata, nel sondaggio fra gli artigiani veneti, al 59 per cento: 41 punti in più di quanti ne aveva Bersani un anno fa. La fiducia in Berlusconi è calata dal 31 al 27; Salvini ha il 31, ma Maroni un anno fa aveva il 40. Solo il trevigiano Zaia, nel centrodestra, gode ancora di una fiducia altissima: 72 per cento.

 

Che cosa è successo? Che cosa è cambiato? Per capirlo bisogna prima dare un’occhiata ai risultati delle politiche dell’anno scorso. Dunque, dopo anni di vacche grasse leghiste e berlusconiane, in Veneto era andata così: Pdl al 18,5; Lega al 10,4; Scelta Civica al 10; Pd al 21,6; Movimento Cinque Stelle nettamente primo partito con il 26,5. A chi ha «rubato» i voti Grillo l’anno scorso? Non c’è il minimo dubbio: al centrodestra. Il risultato del Pd, infatti, era stato quello di sempre.

Ma il boom di Grillo in Veneto è già finito. Già fra gli iscritti a Confartigianato risultava un calo: dal 35 al 24 per cento. Secondo Natascia Porcellato, la sociologa che ha condotto per Demetra quel sondaggio, c’è stato uno sblocco psicologico: «Le scorse elezioni politiche sono servite ad aprire una breccia. Per la prima volta gli artigiani hanno smesso di votare compatti per il centrodestra e si sono orientati verso un altro partito, il movimento di Grillo. In pratica hanno rotto un tabù e a questo punto il passaggio verso un’ulteriore coalizione, in questo caso il centrosinistra, è diventato più digeribile».

Parlare di tabù e di rischio indigestione non è esagerato. Sentite il racconto che mi fa Bepi Covre, il primo sindaco leghista eletto in provincia di Treviso (a Oderzo) e imprenditore a Gorgo al Monticano: «L’altro ieri sono stato a una cena con una trentina di miei colleghi. Molti mi hanno detto: se lo sapesse mio padre si rivolterebbe nella tomba, ma quest’anno, per la prima volta, voto a sinistra». Sono parole importanti, perché spiegano anche gli errori di tutti i sondaggisti: il Pd è stato sottostimato perché gli elettori di centrodestra si «vergognano» a dire che votano per la sinistra, così come qualche tempo fa molti altri nascondevano l’intenzione di votare per Berlusconi o la Lega. Comunque, la conversione di massa dei veneti c’è stata. Covre me la spiega così: «In realtà non c’è stato uno spostamento a sinistra: c’è stato un interesse pragmatico per Renzi, un leader che parla un linguaggio nuovo. Grillo, invece, l’anno scorso ha preso molti voti da destra: ma adesso fa paura».

Perché paura? Dopo anni di crisi, il Veneto vede qualche piccolo segnale di ripresa: nel primo trimestre di quest’anno il saldo tra assunzioni e cessazioni è stato di più 33.000, e le esportazioni sono cresciute del 5 per cento. I veneti hanno pensato che una vittoria di Grillo sarebbe stata un salto nel buio. Siccome poi di Berlusconi non si fidano più, ecco perché Roberto Zuccato, presidente della Confindustria regionale, pochi giorni fa aveva dichiarato al Corriere del Veneto che «molti industriali vedono in Renzi l’ultima spiaggia». In un’altra intervista allo stesso giornale aveva detto: «Renzi rappresenta l’unica prospettiva reale di cambiamento». Segnali che non tutti hanno colto, ma che le urne hanno confermato, anzi addirittura reso più clamorosi.

Da - http://lastampa.it/2014/05/26/italia/politica/imprese-e-artigiani-la-destra-in-veneto-si-affida-a-renzi-LcN5Byw2e5qSnwmzwpGtIO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Quel doppio malcostume sulla Giustizia
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2014, 11:58:17 am
Editoriali
13/06/2014

Quel doppio malcostume sulla Giustizia

Michele Brambilla

Il giorno in cui Silvio Berlusconi ha cominciato a prestare servizio a Cesano Boscone c’erano molti giornalisti stranieri i quali, in mancanza di meglio (l’ex Cavaliere non poteva rilasciare dichiarazioni) si misero a intervistare noi giornalisti italiani. A un certo punto una collega di una tv francese mi chiese se gli italiani non fossero stupefatti, in quei giorni, nel vedere un ex presidente del Consiglio condannato ai servizi sociali che continuava a fare campagna elettorale per il suo partito. Quando le risposi – senza alcuna intenzione di fare una battuta spiritosa – che noi italiani ormai non ci stupiamo più di niente, lei scoppiò a ridere, così tanto che non riuscì neppure a continuare l’intervista. Evidentemente non le pareva vero che un italiano contribuisse a rafforzare l’immagine che all’estero, purtroppo, hanno di noi. 

Immagino dunque che cosa penseranno oggi, in Francia e altrove, sapendo che un sindaco che ha patteggiato quattro mesi di carcere la mattina, ha tranquillamente guidato la giunta il pomeriggio. Perché questo è quello che è successo a Venezia: Giorgio Orsoni ha fatto colazione da detenuto (sia pure in casa sua) e ha cenato da sindaco.

Certamente il suo è un reato minore, rispetto al marcio che sta emergendo da questa storia del Mose. Altrettanto certamente patteggiare una condanna non significa, dal punto di vista tecnico, ammettere di essere colpevoli. D’accordo. Ma se invece che ai codici ci rifacciamo a un minimo di buon senso, ci vien da dire che così non si fa. A nostro parere, insomma secondo quello che a noi sembra appunto un minimo di buon senso, Orsoni ieri pomeriggio avrebbe potuto guidare la giunta solo se la mattina fosse stato assolto, e se a mezzogiorno i magistrati avessero convocato una conferenza stampa per dire che il sindaco era stato rilasciato con tante scuse perché innocente. Invece la conferenza stampa l’ha fatta Orsoni per dire che resterà al suo posto, nonostante sia stato rilasciato non perché riconosciuto innocente, ma perché non c’erano più esigenze di detenzione, essendosi chiusa questa fase con un patteggiamento.

Può darsi che il sindaco di Venezia sia stato in buona fede, nel ricevere quel contributo per la sua campagna elettorale; in ogni caso, il suo sarà senz’altro un peccato veniale. Ma sempre il nostro ingenuo buon senso ci fa dire che chi governa non deve avere addosso neppure un’ombra. Venezia, una delle nostre icone nel mondo, può permettersi un sindaco con una condanna patteggiata che taglia il nastro della Biennale di Architettura, o che poi inaugura il Festival del Cinema? Ci viene da aggiungere: un leader come Renzi, che ha puntato tutto sul rinnovamento, può permettersi – da segretario del Pd – di tenere nel partito un sindaco in quella condizione che non si dimette?

 Insomma. Tutto quello che abbiamo detto fin qui ci pare documenti un diffuso atteggiamento, anzi malcostume: sono troppi i politici che non capiscono quanto male facciano al Paese nel sentirsi sempre cittadini intoccabili.

 

C’è però anche un altro, e opposto, malcostume italiano. La vicenda delle tangenti veneziane ha scatenato una campagna mediatica che ha finito per gettare nel medesimo calderone tutte le parti in commedia, da chi rubava milioni per vivere da nababbo a chi riceveva (come pare essere appunto il caso di Orsoni) un finanziamento illecito per l’attività politica. Nel modo in cui la vicenda è stata presentata – sia da alcuni inquirenti sia soprattutto da noi giornalisti – c’è stata un’istigazione alla confusione, al tutto fa schifo. Quel che è più grave, c’è stato un compiacimento cialtrone nel diffondere venticelli di calunnia, infilando tra le righe nomi «grossi», ma nomi di persone che con i reati commessi non c’entrano nulla. È il caso di Enrico Letta, ad esempio: è estraneo alla vicenda, ma lo si è voluto mettere in mezzo, naturalmente con l’ipocrita precisazione che «non è indagato», frase furbetta che vien scritta per evitare una querela, ma che non evita il danno e la diffamazione.

Ecco, l’aspetto più sconfortante della vicenda veneziana è forse proprio la persistenza di questa schizofrenia sul tema giustizia, la sopravvivenza di questo doppio estremismo che da anni impedisce all’Italia di affrontare veramente la questione morale.

Da - http://lastampa.it/2014/06/13/cultura/opinioni/editoriali/quel-doppio-malcostume-sulla-giustizia-5iMkYctIz4yZS0rKV2iQpL/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Matteo Salvini un leader per i naufraghi
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:13:35 pm
Editoriali

11/06/2014 - caos centrodestra
Matteo Salvini un leader per i naufraghi

Michele Brambilla

Dal naufragio generale del centrodestra pare essersi salvato un uomo solo: Matteo Salvini, 41 anni, segretario della Lega Nord. Anzi non solo si è salvato: è l’unico, a destra, che può dire di aver vinto. E così adesso si parla di lui come possibile nuovo leader della coalizione. Cioè come possibile erede di Berlusconi.

Diciamo la verità: chi lo avrebbe mai detto. Ancora un giorno prima delle elezioni, a Salvini non veniva dato molto credito.

Intanto, il nuovo segretario leghista raccoglieva un’eredità pesantissima. La Lega pareva un’armata in disarmo. Il vecchio capo, Umberto Bossi, era stato (ed è ovviamente tuttora) scaricato dagli ex fedelissimi, che lo considerano bollito e non gli rivolgono più nemmeno il saluto. Il suo successore, Maroni, non aveva dimostrato neppure la metà del carisma. 

L’immagine del partito che girava era quella delle lauree false in Albania e delle mutande verdi. Insomma rianimare la Lega era un’impresa disperata. 

Poteva riuscirci uno come Salvini? Ben pochi lo ritenevano possibile. Di lui si ricordavano principalmente due cose. La prima è la proposta di separare, sui mezzi pubblici milanesi, i posti per gli italiani da quelli degli immigrati. La seconda è il coro intonato con alcuni amici - tutti armati di boccale di birra - nel 2009 a Pontida: «Senti che puzza/ scappano anche i cani/ sono arrivati i napoletani».

Il look di Salvini, poi, è quello che è: non esattamente il modello di tanti elettori moderati, che in questo giovanotto in barba e maglietta scorgono piuttosto un passato da leoncavallino, quale in effetti l’attuale segretario leghista era, prima della conversione che lo portò a candidarsi nei «comunisti padani».

Eppure quest’uomo ha condotto la Lega al 6,2 per cento, quando tutti o quasi la davano sotto il quorum del 4; portandosi a casa, per giunta, un bottino personale di 387.139 preferenze. Bisogna dunque riconoscergli dei meriti, perlomeno nell’interesse del suo partito.

Intanto, Salvini ha saputo far fare al popolo leghista una sterzata storica, cambiando radicalmente l’obiettivo finale: non più la secessione ma l’uscita dall’euro. Anche il nemico è cambiato: non più Roma ma Berlino; non più i terroni e gli immigrati, ma quelli con i capelli biondi. Da un certo punto di vista, un capolavoro.


Salvini ha usato spesso un linguaggio e argomenti detestabili: ma non c’è dubbio che abbia saputo – frequentando le piazze e i mercati rionali – intercettare malumori e rabbie di un popolo che gli analisti avevano sottostimato. Così, il giovane leader leghista si è ritagliato uno spazio nuovo, salvando il partito e se stesso. Possiamo dire che ha dato una lezione a noi giornalisti e ai sondaggisti? Ma sì: ha avuto più fiuto lui.

Detto tutto questo, però, da qui a vedere Matteo Salvini come nuovo leader di un centrodestra riunificato ce ne corre parecchio. Proviamo solo a elencare le prime domande, e obiezioni, che ci vengono in mente.

La prima: Berlusconi – che tutto ha in testa fuorché di ritirarsi – accetterebbe un ruolo da subalterno? Si farebbe dettare la strategia politica da Salvini?

La seconda: quanti elettori di centrodestra si identificherebbero con una linea che prevede l’alleanza con Marine Le Pen?

Terza obiezione. Il «no euro» può essere uno slogan efficace a breve termine: ma a lungo? Quanti italiani, al momento di arrivare al dunque, avrebbero il coraggio (la follia) di uscire davvero dalla moneta unica? Non dimentichiamo poi che, per quanto seducente, la campagna contro l’euro ha comunque portato a un 6 per cento, non a un 40.

E infine: un centrodestra guidato da Salvini quanti voti penserebbe di prendere al Sud, tra quegli elettori «colerosi terremotati» che «con il sapone non si sono mai lavati»? Forse qualcuno si è già dimenticato che a Salvini, a Napoli, non più tardi di un mese fa è stato fisicamente impedito di parlare.

Ecco perché la discussione di questi giorni su un Matteo Salvini possibile futuro leader è, con ogni probabilità, solo la conseguenza dello choc e della confusione post-sconfitta di un centrodestra il quale ha capito che un’era è finita, ma non riesce ancora a intravedere quella nuova.

Da - http://lastampa.it/2014/06/11/cultura/opinioni/editoriali/matteo-salvini-un-leader-per-i-naufraghi-sEj4HsUd677pqzBT2oODlK/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Gli chef e il bello dell’Expo
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2014, 05:10:38 pm
Editoriali
16/06/2014

Gli chef e il bello dell’Expo
Michele Brambilla

Se si facesse un rapido sondaggio fra gli italiani chiedendo che cosa viene loro in mente non appena sentono la parola «Expo», quasi certamente la risposta più frequente sarebbe: «Tangenti»; e la seconda «ritardi nei lavori». Se ce ne fosse poi una terza, sarebbe «opere inutili».

Di simili risposte i primi responsabili saremmo, ovviamente, noi giornalisti, che dell’Expo raccontiamo esclusivamente gli aspetti negativi.

Ma, più in generale, responsabile sarebbe un’antica – e in questo momento particolarmente vivace – vocazione italiana all’autodiffamazione. Che l’Expo possa essere una straordinaria occasione non solo per creare lavoro nel 2015, ma soprattutto per far conoscere nel mondo le nostre eccellenze, non viene in testa quasi a nessuno. Prova ne sia, fra l’altro, che dell’Expo si continua a parlare come di un evento milanese, senza pensare a quanta parte del Paese si potrebbe coinvolgere. 

Qualcuno, per fortuna, reagisce. Sabato e domenica prossimi, 21 e 22 giugno, davanti al Grand Hotel di Rimini verrà inaugurato un grande spazio nel quale ventiquattro grandi chef – dodici emiliani, dodici stranieri – cucineranno i prodotti di quel pezzo d’Italia che è la via Emilia, i 329 chilometri che collegano appunto Rimini alla Milano dell’Expo. L’iniziativa è del sindaco di Rimini Andrea Gnassi, del grande chef modenese Massimo Bottura e dal patron di Eataly Oscar Farinetti: saranno loro tre, sabato 21 alle 11,30, a presentare la kermesse, che si svolgerà in un grande tendone da circo dedicato al capolavoro di Fellini «Otto e mezzo». La manifestazione sarà aperta al pubblico, che potrà assaggiare i piatti dei grandi cuochi e, alle bancarelle sul lungomare, acquistare i prodotti dop dell’Emilia Romagna, che sono trentanove, in attesa che diventino quaranta con la piadina.

La due giorni è intitolata «Al Meni» (le mani, in romagnolo) come una poesia di Tonino Guerra perché, ha spiegato Massimo Bottura, «noi chef manipoleremo i prodotti raccolti e lavorati con le mani da quegli eroi che sono i contadini: sarà una celebrazione dell’artigianato italiano. Noi possiamo rialzarci grazie a queste cose: abbiamo prodotti straordinari e artigiani straordinari. Dobbiamo dire al mondo: venite a vedere che cosa abbiamo!».

«L’Italia», dice il sindaco di Rimini Andrea Gnassi, «è piazzata dal quindicesimo al diciottesimo posto nel mondo per il brand. Dovremmo essere al primo. Solo su quella via Emilia che vogliamo celebrare in questi due giorni, l’Italia ha dato al mondo la Ferrari e la Ducati, il parmigiano reggiano il culatello la mortadella e la piadina, Verdi Fellini e il turismo balneare. Oggi invece buchiamo lo schermo, purtroppo, su altri temi». Al Meni però è nata proprio come reazione a questi altri temi: «L’abbiamo pensata come risposta alle delusioni che poteva dare l’Expo. Sulla riviera romagnola ogni estate trovano ospitalità sedici-diciassette milioni di persone, in buona parte stranieri: perché non cercare di attirarli all’Expo?».

Eppure, finora il Comune di Rimini non è ancora riuscito a ottenere di poter vendere, ai turisti che verranno, i biglietti per l’Expo: strano caso di autolesionismo o, come è di moda dire, di «un Paese che non fa sistema». Anche la presentazione di Al Meni – avvenuta nella nuova sede milanese di Eataly – avrebbe meritato maggior attenzione da parte dei responsabili dell’Expo. Così, anche una rassegna gastronomica diventa specchio della bizzarria di un Paese che avrebbe tutto per ripartire ma che trova sempre qualche pretesto per non farlo. «Dobbiamo smettere», dice Gnassi, «di dire che abbiamo grandi talenti. Dobbiamo usare i nostri talenti».

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/16/cultura/opinioni/editoriali/gli-chef-e-il-bello-dellexpo-nDm7BmF4Vu80UJpW3ijQPN/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Morire a 14 anni non può essere una fatalità
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2014, 11:04:17 pm
Editoriali
10/07/2014 - il caso di Napoli

Morire a 14 anni non può essere una fatalità

Michele Brambilla

Una trentina d’anni fa, a un suo giovane sostituto che voleva aprire un’inchiesta per la morte di un automobilista schiacciato da un albero caduto durante un temporale, il procuratore di un’importante città lombarda rispose allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo: «Ogni tanto ci scordiamo che esiste pure Iddio», disse. È probabile che l’Onnipotente - inteso come Fato, come Ineluttabile Destino - sia stato scomodato anche in questi giorni per la disgrazia che ha stroncato la vita di Salvatore, il quattordicenne napoletano ucciso da un cornicione caduto dalla galleria Umberto I di Napoli, la sua città. 

«Che sfortuna, che fatalità», vien subito da pensare. È stato così anche un paio di mesi fa, quando addirittura una croce elevata in memoria di Papa Wojtyla è rovinata addosso a un giovane disabile, ammazzandolo.

Allo stesso modo qualcuno avrà inizialmente liquidato la faccenda negli anni scorsi qui nel Torinese, quando uno studente morì per il crollo di un soffitto; e lo stesso pensiero si sarà ripetuto in tanti, innumerevoli altri casi. Che sfortuna. Che fatalità. 

Quando capitano disgrazie simili, viene istintivo ripercorrere gli attimi immediatamente precedenti, che ci paiono la sequenza horror di un film scritto da un regista crudele. Ci sembra che il tragico epilogo sia il frutto di una serie di sventurate coincidenze: se non avesse perso il treno; se avesse risposto a quella telefonata invece di uscire di casa; se avesse girato a destra, come pensava in un primo momento, anziché a sinistra.

Ma se è vero che nessuno di noi è in grado di aggiungere un solo secondo al tempo che ci è dato di trascorrere su questa Terra, è anche vero che con il Destino possiamo collaborare, nel bene e nel male. Il giovane sostituto procuratore di cui parlavamo all’inizio (oggi pm molto noto) aprì ugualmente l’inchiesta, nonostante il fatalismo del suo capo, e il processo finì con la condanna per omicidio colposo di ben due assessori, perché si scoprì che le piante di quel viale erano da tempo malate, e i tecnici del Comune avevano invano sollecitato un intervento per evitare che cadessero.

Insomma, anziché indagare a ritroso sulle imprevedibili coincidenze sfortunate, molto spesso sarebbe più razionale indagare sulle prevedibili conseguenze dei nostri comportamenti. Sul caso di Salvatore, la Procura di Napoli ha già avviato un’indagine, perché pare evidente che non si possa archiviare la tragedia in un fascicolo intestato alla malasorte. I calcinacci non decidono di cadere: cadono se chi ha la responsabilità della manutenzione dello stabile non fa il proprio dovere. E non stiamo parlando di un rudere in periferia: ma di un palazzo della centralissima e famosissima Galleria Umberto I di una città come Napoli.

 
Ma più in generale, la morte di Salvatore ci pare sciaguratamente «normale» in un Paese dove i controlli e le messe in sicurezza sembrano molto spesso un optional. Ci lamentiamo tanto se all’estero ci deridono: ma quanto a rispetto delle regole, diamo buoni argomenti ai nostri denigratori. Poco dopo il terremoto dell’Aquila, l’allora prefetto Franco Gabrielli mi mostrò una cartina in cui erano evidenziate le numerose scuole pubbliche che non risultavano neppure al catasto. Quelle scuole erano naturalmente crollate e migliaia di studenti si erano salvati solo perché la scossa arrivò di notte: in quel caso il Destino, se ebbe un ruolo, ce l’ebbe benevolo.

Oggi la sensibilità comune è per fortuna cambiata, non ci sono più magistrati che allargano le braccia e forse qualcuno pagherà per l’assurda fine di Salvatore, morto in un’Italia che sembra non avere più nemmeno i soldi per la manutenzione dei cornicioni.

Da - http://lastampa.it/2014/07/10/cultura/opinioni/editoriali/morire-a-anni-non-pu-essere-una-fatalit-HDDzKcpIZGvTuZgOyRqCkL/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA L’irresistibile tentazione di un “cheese” col comandante
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:47:14 am
Editoriali
23/07/2014

L’irresistibile tentazione di un “cheese” col comandante

Michele Brambilla

Credo che ciascuno di noi abbia almeno un parente o un amico che tiene in casa, appesa a qualche parete o appoggiata su qualche mensola, una foto che lo ritrae accanto a un Papa. Sono scatti di udienze collettive spesso spacciate come incontri privati, li si espongono per devozione ma anche per segnare una piccola differenza di status: hai visto a chi ho stretto la mano io? Ma ora che il Santo Padre è diventato molto più accessibile la foto in Vaticano ha perso valore (semmai durante una conversazione si butta lì: sapessi chi mi ha telefonato l’altra sera) e a quanto pare diventa molto più trendy mostrarsi immortalati accanto a un altro Francesco: Schettino. 

Proprio nei giorni in cui la Concordia riemerge in mare, il Comandante è infatti riemerso in società, in una magnifica villa di Ischia dove l’editore Piero Graus ha organizzato un esclusivo White party. Tra gli ospiti, tutti vestiti di bianco da capo ai piedi, c’era appunto anche lui, Schettino, che peraltro si sarà sentito in divisa d’ordinanza. Non sappiamo se la festa sia stata martellata dall’«A far l’amore comincia tu» della Carrà e allietata da un trenino finale: di sicuro Schettino, a giudicare dalle foto che da ieri circolano in rete grazie al quotidiano «Il Golfo», appare abbronzatissimo e in gran forma come un Jep Gambardella.

Affari suoi. E poi anche lui ha diritto a difendersi (pare che stia scrivendo un libro con la sua versione dei fatti) e a rivivere. Quello che stupisce un po’ è la corsa, scattata fra i partecipanti al White party, al «cheese» con l’imputato. Schettino non è solo accusato di aver provocato trentadue morti in un disastro che ha fatto il giro del mondo: è anche il Comandante (con moldava in cabina) che abbandona la nave che affonda, è quello che non torna a bordo c... Insomma è il simbolo di tante cose per cui noi italiani non godiamo di grande fama. Lo è anche ingiustamente, perché per Schettino non è scattato neppure il garantismo di maniera. Ma lo è.

Eppure nell’epoca della visibilità anche un selfie con Schettino è un’immagine da incorniciare o meglio da postare. Apparire, non importa come; conoscere, non importa chi. Una sera, davanti a un tg con gli amici, si potrà commentare una notizia sulla Concordia ostentando un rapporto confidenziale: non credete a queste balle, Francesco mi ha spiegato com’è andata veramente. E per chi non ci crederà, ci sarà sulla mensola la foto che ha sostituito quella con il Papa: in fondo anche il Comandante Schettino è vestito di bianco.

Da - http://lastampa.it/2014/07/23/cultura/opinioni/editoriali/lirresistibile-tentazione-di-un-cheese-col-comandante-IlivNDtag9HQRY5LKVIFoM/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Demagogie e buoni esempi
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2014, 06:15:16 pm
Demagogie e buoni esempi

15/09/2014
Michele Brambilla

Si dirà che, con tutti i problemi che abbiamo, c’è ben altro a cui pensare. Però la politica si sta dividendo anche su questo: sull’orario di lavoro dei parlamentari e sulle ferie dei magistrati. 

Cominciamo con la prima questione. Il premier Renzi, nei giorni scorsi, ha chiesto ufficialmente ai capigruppo di Camera e Senato, Speranza e Zanda, di allungare appunto l’orario di lavoro di deputati e senatori, portandolo a cinque giorni su sette. Il lettore comune forse penserà a un refuso, ma non è così: il sacrificio richiesto ai parlamentari è proprio quello di lavorare cinque giorni su sette, cioè di adeguarsi ai ritmi di ciascun italiano che abbia la fortuna di non essere ancora disoccupato. 

La seconda questione riguarda, dicevamo, le ferie dei magistrati. Attualmente sono di quarantacinque giorni all’anno e il governo le vorrebbe portare a trenta. Come quelle degli impiegati degli operai dei baristi e dei camerieri: anzi probabilmente ancora un po’ di più. 

Le reazioni a entrambe le proposte non sono state di entusiastica adesione. In Parlamento frenano. Attualmente le due Camere sono popolate solo dal martedì mattina al giovedì sera. Perché mai lavorare anche di lunedì e di venerdì? Ci aveva già provato Gianfranco Fini, quando era presidente della Camera: ma era stato respinto con perdite. Ora pare che nel Pd ci sia una certa diffusa disponibilità, anche per non far innervosire il capo: ma nel centrodestra, casa politica della meritocrazia, non hanno gradito. Certo nessuno dice apertamente che cinque giorni alla settimana sono roba da sfruttamento ottocentesco: però, insomma, si nicchia. 

Quanto ai magistrati, hanno reagito in modo veemente. Dicono che in realtà un giudice non è mai davvero in ferie, perché si porta a casa le carte da studiare; così come i parlamentari dicono che il lunedì, il venerdì - e a volte anche nel week end - devono «presidiare il territorio», ascoltare la voce degli elettori (i quali, peraltro, ormai da tempo non possono più nemmeno sceglierli, i parlamentari).

Sarà tutto vero. Sarà vero che gli indici di produttività - almeno quello diffusi dalle rispettive categorie - testimoniano una certa efficienza da parte sia dei parlamentari, sia dei magistrati. Ma il cittadino forse non ha la stessa impressione. La politica non dà certo l’idea di marciare spedita, e quanto alla giustizia i numeri dicono anche che il tempo medio per una sentenza civile di primo grado in Italia è di 945 giorni, contro i 350 della Francia e i 300 della Germania.

Certamente le cause dei tempi lunghi della politica e della giustizia non sono da attribuire né alla settimana corta di Montecitorio e Palazzo Madama, né al fatto che i tribunali chiudono il 31 luglio per riaprire il 15 settembre. È chiaro che le lungaggini italiane dipendono soprattutto da un sistema che complica e rallenta tutto. Così come è chiaro che bisogna evitare facilonerie populiste.

Tuttavia, è vero anche che la fiducia dei cittadini passa pure attraverso alcuni segni. Certo a volte i segni sono demagogia o peggio propaganda: Mussolini lasciava accesa la luce del suo studio di Palazzo Venezia fino alle tre di notte per comunicare agli italiani che lavorava per loro, e gli italiani pensavano che il loro Duce avrebbe fatto meno danni se fosse andato a casa prima: oltretutto avrebbe risparmiato sulla bolletta della luce. Ma anche i parlamentari con il trolley che arrivano a Fiumicino e alla stazione Termini già alle tre di giovedì pomeriggio non sono un bel segno. Così come i tribunali deserti ogni giorno della settimana dalle ore quattordici in poi. Quando entrò in magistratura arrivandovi dalla polizia, Antonio Di Pietro si fece largo a suon di inchieste anche perché in ufficio arrivava alle sette di mattina e ci restava fino alle otto di sera: oggi, forse perché ha conservato uno spirito di appartenenza alla categoria, dice che le ferie dei magistrati non sono un problema.

Può darsi. Ma anche se abbiamo ben altro a cui pensare, sarebbe sbagliato non capire che, oggi più che mai, gli italiani hanno bisogno pure (e sottolineo pure) di piccoli gesti di buona volontà.

Da - http://lastampa.it/2014/09/15/cultura/opinioni/editoriali/demagogie-e-buoni-esempi-CmpTsTABjwIbYsmtgdglBO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Chiamparino nessuno mi ha avvisato che i tagli erano cresciuti
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:08:28 pm
Chiamparino: “L’amico Matteo mi ha deluso, da lui neppure un sms”
Chiamparino: nessuno mi ha avvisato che i tagli erano cresciuti

18/10/2014
Michele Brambilla
Biella

Si erano tanto amati. Sergio Chiamparino era renziano quando nel partito, ai renziani, c’era chi dava del fascista. E Matteo Renzi di Chiamparino pensava tanto bene che lo voleva al Quirinale. Ora invece volano parole grosse. Uno dice che l’altro offende; l’altro gli replica di piantarla con i tweet. Colpa della manovra, dei tagli che il governatore del Piemonte tenta di far digerire qui a Biella - nel palazzo della provincia - agli imprenditori, ai sindacati e agli amministratori locali. Insomma proprio lui deve fare il poliziotto cattivo. Riusciamo a parlarci tra un incontro e l’altro, tra l’annuncio di un sacrificio e una lamentela.

Presidente, che cosa è successo tra lei e Renzi? Fine di una sintonia? 
«No, io continuo a essere in sintonia con lui. Condivido le linee di fondo della sua manovra».

Ma? 
«Ma alcune modalità non sono sostenibili. Dalle regioni, ma anche da altri enti locali. Le province, ad esempio. Nessuno parla più delle province perché si pensa che non esistano più. Ma la legge Delrio continua ad assegnare loro funzioni fondamentali. Lo vede quel signore lì? È il presidente della provincia di Biella. Mi ha appena detto che a gennaio finisce i soldi per riscaldare le scuole. Sa che cosa vuol dire? Che da gennaio i soldi li deve metter la regione. O dobbiamo lasciare i bambini al freddo?».

Non sia mai. Ma lei i soldi dove li trova? 
«Indebitandomi ancora di più. Ascolti bene: per prima cosa, i quattro miliardi di tagli alle regioni di questa manovra si sommano al miliardo già previsto dal governo Monti e agli ottocento milioni già previsti dal governo Letta: quindi i miliardi sono sei, non quattro. Seconda cosa, a questi sei miliardi vanno sommati quelli tolti alle province».

Se l’aspettava una mannaia del genere? 
«Mah, guardi. Io ero in contatto con Delrio via sms. Ma sapevo di tre miliardi, non di più. Evidentemente c’è stato un cambiamento di rotta negli ultimi giorni».

 

Con il premier niente sms? 
«Ce ne siamo scambiati un po’ nelle scorse settimane sull’articolo 18. Una volta mi ha anche chiamato chiedendomi consigli sul trasporto pubblico. Ma sui tagli alle regioni niente telefonate e niente sms».

Renzi dice: le regioni pensino a tagliare i loro sprechi. 
«Se parliamo di sprechi, potrei dire che ce ne sono molti di più nei ministeri: eppure la manovra prevede quattro miliardi di tagli a tutte le regioni d’Italia e solo sei ai ministeri. Ma non voglio alimentare polemiche. Lei ha sentito che cosa ho appena detto qui a Biella: ho presentato un piano di riordino per ridurre le spese. Quindi non è che non facciamo la nostra parte. Ma se non si trova una modalità per correggere la finanziaria, dovremo tagliare su sanità e trasporti: il 90 per cento della spesa delle regioni sta lì».

E lei pensa che sia possibile trovare una modalità per correggere? 
«Certamente sì. Ma dobbiamo incontrarci e parlarne. Non si può andare avanti a tweet. Guardi, la questione non è tra Renzi e il sottoscritto, ma tra Renzi e tutti i presidenti di regione. E noi presidenti di regione non siamo cialtroncelli che fanno polemiche per il gusto di farle. Oltretutto, nessuno di noi ha interesse a fare strumentalizzazioni politiche».

Nessuno? 
«Nessuno. Non c’è alcuna rottura politica tra le regioni e il presidente del consiglio. Lui ha fatto una manovra che punta a rimettere in circolazione tutta una serie di risorse, e noi siamo perfettamente d’accordo: è la strategia giusta. Però se non correggiamo la parte che riguarda i tagli, ci sarà un’altra rottura: non fra il governo e le regioni, ma fra il governo e i cittadini».

Insomma, lei sta dicendo: Renzi deve capire che le nostre critiche possono aiutare anche lui. 
«Sì, io ritengo sinceramente di difendere la manovra. Noi - le regioni, le province, i comuni - siamo tutti sulla linea generale di questa manovra».

Però Renzi ha detto che le sue parole sono state offensive. 
«Non credo si riferisse a me. Forse a qualche altro presidente di regione, che magari ha un po’ esagerato».

Dicono che il premier abbia un carattere non facile, di quelli che non amano essere contraddetti. 
«Non è che abbia poi avuto grandi frequentazioni con lui, e quindi non saprei dire molto sul suo carattere. Certo ha dei toni un po’ forti: ma fanno parte del personaggio, e lui fa anche bene a fare così. Per quanto mi riguarda, quando sento toni da battaglia non mi tiro indietro. Anzi, alla mia età è l’unica cosa che mi rianima».

À la guerre comme à la guerre? 
«Senta, ho fatto il sindacalista, so che c’è un momento dello scontro e un momento dell’accordo».

Eh ma con i sindacati Renzi non è che parli molto. Ha presente che cosa dice della concertazione? 
«No alla concertazione, lo affermo anch’io. Però se noi delle regioni e il governo avessimo potuto lavorare insieme a questa manovra, non saremmo arrivati a questo punto».

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/18/economia/chiamparino-lamico-matteo-mi-ha-deluso-da-lui-neppure-un-sms-ttHBKWI9HilrewVCoRWXzO/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Le torbide conseguenze dei sospetti
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2014, 07:02:20 pm
Le torbide conseguenze dei sospetti

29/10/2014
Michele Brambilla

Il Presidente della Repubblica ha dunque risposto ieri, nel tanto atteso interrogatorio al Quirinale, alle domande dei magistrati e degli avvocati impegnati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Per la precisione ha risposto a «tutte» le domande: aveva detto di non avere nulla da nascondere, e nulla ha nascosto. Va aggiunto che c’è un terzo «nulla» di cui parlare, ed è il nulla che seguirà dal punto di vista giudiziario, visto che c’era pure un quarto «nulla», e cioè il punto di partenza. Il Presidente della Repubblica - come spiega bene Francesco La Licata nella sua analisi - non sapeva e non sa alcunché su questa trattativa, ammesso che una trattativa ci sia stata e ammesso (e non concesso) che siano stati fatti regali alla mafia.

Tuttavia, al nulla che seguirà sul piano giudiziario si affiancherà purtroppo qualcosa di concreto: il fango lasciato sulle istituzioni da una campagna dissennata.

Facciamo un esempio. Pochi minuti dopo la fine della deposizione al Quirinale, molti organi di informazione stranieri hanno titolato, sui loro siti web, più o meno così: «Giorgio Napolitano ascoltato come testimone in un importante processo di mafia». Una semplificazione giornalistica, certo: ma una semplificazione alla quale i colleghi stranieri sono stati indotti dalla «Disinformatia» messa in scena qui da noi in Italia; e una semplificazione drammatica perché questo è purtroppo quel che rischia di rimanere non solo negli archivi dei giornali stranieri ma anche nella memoria di tanti italiani: che il Presidente della Repubblica è stato sentito come testimone «in un importante processo di mafia». E che magari sapeva chissà quante e quali cose che per anni ha taciuto.

Naturalmente non è così, e infatti Napolitano ieri non ha avuto alcuna difficoltà nel rispondere alle domande dei magistrati e degli avvocati. Ma chi ha messo in piedi la campagna mediatica che ha portato alla deposizione del Quirinale proprio questo si prefiggeva: insinuare sospetti, lasciare qualche macchia.

Non c’è nulla di illecito, ovviamente, in ciò che hanno fatto i giudici di Palermo, e non c’è nulla di sbagliato neppure nel tentare di approfondire - non solo nelle aule di giustizia, ma anche sui media - quello che è successo in Italia durante gli anni delle stragi mafiose. Anzi, cercare la verità è doveroso. Ma sul ruolo di Giorgio Napolitano tutto un mondo di sedicenti paladini della giustizia ha giocato una subdola campagna fatta di allusioni e sottintesi, mirando in fondo a creare confusione sulla vera veste in cui il Capo dello Stato veniva sentito dai giudici: testimone o imputato?

Parallelamente a questa campagna mediatica ne è stata portata avanti un’altra, non accessoria ma del tutto funzionale alla prima, della quale è stata indispensabile stampella. Cioè s’è detto e scritto che, mentre i pm di Palermo cercavano di scoprire le inconfessabili verità, c’era tutta una stampa di regime che quelle verità le voleva seppellire per sempre. È una tattica ormai consumata: chi la pensa diversamente da me non è, appunto, qualcuno che la pensa diversamente: è uno che la pensa come me ma non lo dice perché è un traditore dell’informazione, un prezzolato, un servo. Come si delegittima il nemico, si delegittima - e sul piano personale - anche chi il nemico non lo attacca o addirittura lo difende.

Tutto questo, insomma, è il vero lascito torbido, le vere macerie lasciate da questa campagna contro il presidente Napolitano e più in generale da campagne che in Italia si ripetono ormai da anni, promosse da gruppi che si autodefiniscono «gli onesti», «i migliori». Sono gruppi che diffondono fra gli italiani l’idea che - a parte loro, naturalmente - tutto sia marcio, tutto corrotto, tutto senza speranza. Gruppi che hanno un bisogno vitale di sempre nuovi bersagli: eliminato uno, avanti con il prossimo. E che cosa abbiano prodotto questi veleni, nella politica e nel Paese, lo vediamo ormai da anni: quali frutti e quali tribuni.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/29/cultura/opinioni/editoriali/le-torbide-conseguenze-dei-sospetti-wU0G6KVG47QIoNWSJ1dMhJ/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Italia unita solamente nelle divisioni
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2014, 04:09:40 pm
Italia unita solamente nelle divisioni
12/11/2014

Michele Brambilla

La Regione Veneto avvia pratiche formali per staccarsi dall’Italia. «La consultazione sull’indipendenza del Veneto, anche alla luce di quanto accaduto in Catalogna, è un punto da cui non si torna indietro», ha detto il governatore Zaia. In effetti i 2,3 milioni di catalani andati alle urne e soprattutto il risultato (80% di «sì» all’addio a Madrid) sono dati incoraggianti. 

E così la Regione ha deciso di presentare un comitato referendario sotto la supervisione dell’assessore al bilancio, Roberto Ciambetti.

Insomma si vuole una votazione che abbia l’imprimatur della Regione, in modo da dare un seguito ufficiale a quella del tutto privata condotta nei mesi scorsi dal movimento Plebiscito.eu. Ricordate? Gianluca Busato, il Casaleggio dei separatisti, aveva detto che due milioni di veneti avevano scelto on line di staccarsi da Roma. È vero che quella consultazione fu contestatissima, e che secondo alcuni i votanti non furono più di centomila: tuttavia, non c’è dubbio che la voglia di indipendenza del Veneto sia reale, come hanno accertato diversi sondaggi della Demos & Pi di Ilvo Diamanti, l’ultimo dei quali attribuisce un 53 per cento ai separatisti.

Il Veneto dunque se ne va? Calma. C’è modo e modo di andarsene. Infatti, la stessa Regione - nel dubbio, nell’incertezza - sta pensando di fare non uno, ma due referendum: uno sull’indipendenza e uno sull’autonomia, perché i veneti insofferenti verso Roma si dividono in due categorie, i falchi e le colombe.

Ma in fondo anche i falchi indipendentisti non sono poi così uniti. Noi Veneto indipendente, Pasque veronesi, Raixe venete ed Europa Veneto faranno parte del comitato regionale per il referendum. Invece Indipendenza veneta non ne riconoscerà la legittimità, così come Plebiscito.eu (quelli del referendum on line): Busato ha detto che quello di Zaia è un referendum leghista e «la politica della Lega, da 25 anni a questa parte, ha portato solo ad affamare ancora di più i veneti». Resta poi da sentire il parere di Governo veneto, di Veneti indipendenti, di Prima il Veneto, di Veneto Stato e della Liga veneta repubblicana. Pare siano già in programma, dopo la proclamazione dell’indipendenza del Veneto, altri sette-otto referendum per ritagliarsi ciascuno un proprio territorio.

D’altra parte siamo in Italia e prima delle regioni vengono i campanili. I bergamaschi non sopportano i bresciani, leccesi e baresi sono come cani e gatti e a Cuneo e ad Alba - che pure sono nella stessa provincia - i vecchi raccontano che prima della legge Merlin la casa di tolleranza di Cuneo era in via Alba e quella di Alba era in via Cuneo.

 

Ma poi non è solo questione di campanili. È che nel nostro popolo c’è un’irrefrenabile propensione a dividersi anche quando si combatte per la stessa causa. Il partito che ci ha governato per mezzo secolo era famoso per le sue correnti: degasperiani, dossettiani e vespisti (che non erano seguaci di Bruno Vespa); poi Iniziativa popolare da non confondersi con Alleanza popolare e con Iniziativa democratica, la quale era a sua volta cosa diversa da Impegno democratico; quindi gli andreottiani e i pontieri, i fanfaniani e i basisti, i dorotei e i morotei.

Perfino gli anni di piombo segnarono la nostra straordinaria diversità. In Germania i terroristi si raccolsero tutti nella Raf: Rote Armee Fraktion. In Italia si contarono 71 sigle: le Brigate rosse e le Brigate comuniste, i Nap e i Gap (anzi di Gap ce n’erano due: Gruppi armati proletari e Gruppi d’azione partigiana). Poi Guerriglia rossa, cosa diversa rispetto a Guerriglia comunista e anche a Guerriglia proletaria; i Comitati comunisti rivoluzionari che avevano una linea molto, molto differente dai Comitati organizzati per la liberazione, i quali a loro volta avevano obiettivi divergenti rispetto ai Comitati proletari. Quindi il Fronte armato rivoluzionario operaio, il Fronte comunista combattente, il Fronte popolare per la liberazione. Poi - dopo i Gruppi, i Comitati e i Fronti - c’erano le Formazioni: quella comunista armata e quella comunista combattente, il che farebbe supporre che la seconda combatteva senza armi. Dimenticavamo Prima linea.

Questa è l’Italia, insomma: un Paese unito solo nel dividersi. E anche chi ora vuole andarsene, in fondo, si dimostra molto italiano.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/12/cultura/opinioni/editoriali/italia-unita-solamente-nelle-divisioni-CW5hKGllmHLaR9iRdr4A0M/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La lezione dell’ex sindaco anti-amianto
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:24:27 pm
La lezione dell’ex sindaco anti-amianto
Con un’ordinanza bloccò la riapertura dell’Eternit a Casale. Contro tutti e tutto

01/12/2014
Michele Brambilla

In questi giorni in cui, dopo la prescrizione che ha salvato l’ultimo proprietario della Eternit, si è tanto parlato - anche a sproposito - della distinzione fra diritto e giustizia, sarà bene far tesoro della lezione di Riccardo Coppo, l’ex sindaco di Casale Monferrato scomparso ieri.

Coppo non era un rivoluzionario. Era un democristiano. Ma nel 1987, forzando la legge, da sindaco fece un’ordinanza con la quale vietava, all’interno del Comune di Casale, la lavorazione, la commercializzazione e l’utilizzo di qualsiasi manufatto che contenesse l’amianto. Perché la fece? La Eternit di Casale era chiusa l’anno prima, ma una società francese si era offerta di riaprire lo stabilimento e riprendere la produzione. Coppo impedì questa operazione con la sua ordinanza, mettendosi contro tutti: la legge appunto, perché un’ordinanza del genere sarebbe stata di competenza dello Stato e non di un Comune; i molti casalesi che erano rimasti senza lavoro dopo la chiusura dell’Eternit, e che andavano sotto casa sua a contestarlo gridandogli «adesso dai tu da mangiare ai nostri figli?»; e persino molti suoi amici, i quali pensavano che mettendosi contro il diritto Coppo avrebbe compromesso la giusta battaglia contro l’amianto.

Ma oltre che un giudice a Berlino, ci deve essere evidentemente anche una Giustizia nella Storia, e così non solo la fabbrica non riaprì: ma lo Stato si dovette sottomettere all’evidenza dei fatti, recependo l’ordinanza di Coppo che diventò legge nazionale nel 1992. Così oggi tutti gli italiani devono ringraziare la forzatura delle regole imposta da questo sconosciuto piccolo grande eroe, che ci ha insegnato che se il diritto è in contrasto con la giustizia, va cambiato il diritto, non la giustizia. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/01/cultura/opinioni/editoriali/la-lezione-dellex-sindaco-antiamianto-xzV065gSdie7WgSne3So6H/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Allergie alimentari, l’Europa smetta di ossessionarci
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:30:01 pm
La ½ Porzione
Allergie alimentari, l’Europa smetta di ossessionarci
03 dicembre 2014

Di Pierluigi Battista

Quando ero ragazzo, non esistevano le allergie alimentari. Cioè, magari esistevano, ma non si chiamavano così. Le malattie cambiano definizione a seconda dei contesti culturali. Sigmund Freud credeva in una nevrosi femminile che chiamava “isteria”, ma quella definizione era legata a una certa temperie storico-culturale. Ai miei tempi (riporto legittimamente a me una locuzione molto cara ai miei nonni e ai miei genitori) non esisteva nemmeno l’anoressia adolescenziale: in compenso c’erano molti adolescenti eroinomani. Con tutto il rispetto per la celiachia e per i celiaci, apprendo con un certo disappunto l’ingiunzione europea ai ristoranti di pubblicare con grande evidenza sul menu gli ingredienti che potrebbero provocare allergie alimentari. Si vede che l’Europa sta facendo molti tentativi per rendersi odiosa e incrementare il boom elettorale della Le Pen e di Salvini.
Inoltre dovrebbero smetterla di trattare i neo-allergici come degli sciocchi. Io so benissimo di essere allergico al kiwi (“ai miei tempi” il kiwi non esisteva quasi) e non c’è bisogno di un menu vidimato dall’Unione Europea per capire che al ristorante non posso ordinare la mia adorata macedonia, che adesso tra l’altro si presenta con prevalente colorazione giallo-verde (verde intenso kiwi e verde pallidino acini d’uva) mentre, come diceva sempre mia madre, “la macedonia senza un po’ di rosso fa schifo”. Figuriamoci il kiwi.
Questa storia del menu antiallergici mette in luce due manie abbastanza nuove. La prima è la mania ossessivo-geometrica degli euroburocrati, che hanno in testa una dittatura della misura, dell’uniformità, della regolazione universale, dell’astrazione dottrinaria così totalitaria e pervasiva da dar ragione ai cupi lamenti reazionari di De Maistre sulle pretese tiranniche della neo-religione illuministica. Sento montare già una grande nostalgia per le oliere di una volta che campeggiavano con una certa leziosità artigianale sui tavoli dei ristoranti. Ora dicono che quelle oliere sono pericolosamente fuorilegge. Via quelle ampolline bombute, via quelle composizioni a quattro -olio, aceto, sale e pepe dal gusto un po’ kitsch. A un certo punto le ampolline a quattro smisero di essere rivestite di vetro trasparente e da quel momento il pepe cominciò ad essere confuso e nelle sale dei ristoranti rimbombava l’allarme: “attento, quello è l’aceto”. Niente più allarmi. Ora le vetuste oliere saranno ghigliottinate per decreto eurofobico. Niente etichetta, niente olio al ristorante.
La seconda mania culturale che traspare da questo nuovo diktat dei despoti di Bruxelles è la vittimizzazione degli allergici, che amano molto rappresentarsi come una minoranza perseguitata, come i neri dell’Alabama negli anni Cinquanta, e che dunque esigono tutele, riconoscimenti, possibilmente romanzi, film e naturalmente disposizioni europee.
Ma le allergie alimentari, appunto, non esistevano. Fossero esistite, non ci avrebbero tramandato fondamentali narrazioni evangeliche. In una vignetta uscita negli Stati Uniti si vede Gesù Cristo impegnato nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma subito dalla folla dei discepoli e dei seguaci s’alza forte il lamento allergico e post-carnivoro: “non posso mangiarli, sono vegano”, dice uno; “il pesce è stato testato per evitare sovrappiù di mercurio?”; “il pane è gluten-free?”. Gesù, oggi, non avrebbe fatto quel miracolo. Anche l’olio santo, senza etichetta doc, non poteva certo essere travasato in una normale oliera. Il miracolo di origine controllata, altrimenti niente: bocciato dall’Europa.

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Da - http://cucina.corriere.it/letture/mezza-porzione/14_dicembre_03/gli-allergici-non-sono-sciocchi-sanno-esserlo-anche-senza-europa_d0c12ae2-7b27-11e4-825c-8af4d2bb568e.shtml



Titolo: MICHELE BRAMBILLA Così Salvini si gioca tutto il suo futuro
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:43:36 pm
Così Salvini si gioca tutto il suo futuro

10/03/2015
Michele Brambilla

Quel che più colpisce nella lotta intestina che sta lacerando la Lega in Veneto è l’incredibile tasso di autolesionismo. Si fatica a capire come un partito che pare in grande ascesa, perlomeno per la conquista della leadership nazionale del centrodestra, possa rischiare di suicidarsi mettendo a rischio l’unica Regione in cui la vittoria, alle prossime elezioni, sembra certa. Il Veneto, appunto.

Cerchiamo di vederci chiaro, per quanto possibile.
Intanto, va detto che la guerra non è solo fra Zaia e Tosi, cioè fra due veneti. La prima guerra, in fondo, è tra i veneti e i lombardi. È una storia antica che periodicamente riaffiora. I leghisti veneti non hanno mai accettato del tutto il fatto di prendere ordini da Milano. Primo, per ragioni storiche: nella Serenissima, i lombardi erano sudditi. Secondo, per ragioni politiche: la Liga è nata prima della Lega. Terzo, per ragioni elettorali: in Veneto, i leghisti hanno sempre preso più voti che in Lombardia.

Ciononostante, da quando la Liga veneta e la Lega lombarda si sono unite dando vita alla Lega Nord, a comandare sono sempre stati i lombardi: Bossi, Maroni e adesso Salvini. Il motivo è semplicissimo: la prima Liga, che pure aveva il copyright, si frantumò presto in decine di gruppuscoli e correnti, senza trovare un leader in grado di ricondurre tutti all’unità; mentre i lombardi un leader ce lo avevano eccome. Ruspante quanto si vuole, ma un leader.

Adesso si sta ripetendo esattamente quel che accadde allora, quando Bossi si impose sui vari Rocchetta. Salvini è il padrone assoluto del partito, e i veneti si dividono in almeno due rivoli: quello che conduce a Zaia, e quello che conduce a Tosi. Chi crede che la differenza tra il primo e il secondo sia di natura politica, cioè che uno non voglia allearsi con i centristi e l’altro sì, sopravvaluta la politica o almeno sottovaluta quanto le questioni personali la possano influenzare.

In realtà la rivalità fra Zaia e Tosi è una questione innanzitutto personale. Di reciproca antipatia – i due non si sono mai «presi» – e di ambizioni che confliggono. Zaia non ha nessuna intenzione di lasciare la poltrona da presidente della Regione, mentre a Tosi quella da sindaco di Verona sta stretta. Avrebbe voluto diventare lui il governatore del Veneto: ma c’è Zaia da confermare; oppure avrebbe voluto fare lui il segretario della Lega Nord: ma c’è il milanese Salvini.

 Ecco perché il «caso» che è scoppiato in queste settimane, e che sta facendo sognare alla candidata del Pd Alessandra Moretti, un clamoroso ribaltone, ha ben poco di politico. Anzi, il paradosso è che, se si guardassero le affinità ideologiche, Salvini dovrebbe essere più vicino a Tosi che a Zaia. I leghisti veneti, infatti, sono in fondo degli ex democristiani. Autonomisti, allergici alla sinistra quanto si vuole: ma democristiani. Il milanese Salvini è ai loro occhi qualcosa di molto simile a un fascista. I pochi veneti che sono stati alla manifestazione di Roma non hanno nascosto il loro imbarazzo per i ritratti del Duce e i saluti romani. Viceversa Tosi è sempre stato considerato, all’interno della Liga, quello che «ha portato i fascisti dentro il Comune di Verona». Quindi, in teoria, sarebbe stata più naturale una vicinanza tra Salvini e Tosi che non tra Salvini e Zaia.

Ma Salvini appoggia Zaia perché Zaia non ha altre mire che quella di guidare il Veneto, mentre Tosi è un concorrente perché ambisce a una leadership nazionale. E così le posizioni dei contendenti sembrano difficilmente conciliabili. 

Tuttavia, come dicevamo all’inizio il rischio dell’autolesionismo è grande. Il sindaco di Verona potrebbe fare una lista sua, con la quale non punterebbe a vincere, ma a molto di più: far perdere Zaia. Secondo qualche sondaggio, Tosi potrebbe portar via diversi punti alla Lega, anche un 8 per cento. Se poi dovesse passare la modifica della legge elettorale veneta con l’introduzione del doppio turno, le possibilità di far vincere la Moretti sarebbero ancora superiori.

Ecco perché ieri il vertice della Lega ha preso tempo. Salvini finora s’è mosso come l’altro Matteo, quello del Pd, e cioè mostrandosi sempre spavaldo e coraggioso fino all’azzardo. Era partito così anche nella gestione della campagna elettorale per il Veneto, dicendo che la Lega sarebbe andata da sola: ma poi ha accettato l’alleanza con Forza Italia. Adesso sembra cercare anche un accordo in extremis con Tosi. 

Vedremo se, alla fine, prevarrà il Salvini d’assalto o quello prudente; il Salvini che punta a vincere o quello che punta a stravincere. Di certo, in gioco non c’è solo il Veneto. Perché Salvini, se perde il Veneto, perde tutto il suo futuro.

Da - http://www.lastampa.it/2015/03/10/cultura/opinioni/editoriali/cos-salvini-si-gioca-tutto-il-suo-futuro-lvZ1jfuUUowbH2FTraIjkN/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA Expo, il rischio di mostrare il peggio
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:46:36 am
Expo, il rischio di mostrare il peggio

01/04/2015
Michele Brambilla

Tra un mese esatto comincia l’Expo e a Milano ci si sta dando da fare affinché tutto sia pronto. O meglio, affinché tutto sembri pronto. Dire che siamo indietro, infatti, sarebbe poco. Il 74 per cento dei padiglioni è ancora in costruzione, altri sono in fase di collaudo o verifica amministrativa, solo il 9 per cento è ultimato.

Così, il 26 marzo scorso è stato chiuso l’appalto per il «camouflage», modo elegante per dire camuffamento. In pratica saranno costruiti dei pannelli mobili - che sempre in modo elegante vengono chiamati «exthernal exhibition elements» - i quali serviranno a non far vedere, ai visitatori, le opere ancora incompiute, i cantieri aperti, insomma il brutto del provvisorio. L’inaugurazione del primo maggio a qualcuno ricorderà probabilmente quella della casa «a comparti mobili» del decaduto conte Mascetti in «Amici miei», con il Necchi-Duilio Del Prete che dice «pare che non c’è nulla invece c’è tutto», e il Mascetti-Ugo Tognazzi che risponde amaro «pare che c’è tutto invece non c’è nulla».

Come si sia arrivati in dirittura d’arrivo in queste condizioni, è presto detto, anche se resta un mezzo mistero, vista la fama di efficienza che ha, o meglio che aveva, Milano. Il tempo per far meglio, sinceramente, non mancava. Dell’Expo s’era cominciato a parlare addirittura nel 2006. Un paio di anni più tardi il Comune di Milano se l’era aggiudicato formalmente, grazie all’impegno della giunta Moratti. Poi, qualcosa è successo e, come sempre in questi casi, un po’ di colpa è anche della sfortuna. Infatti a un certo punto è arrivata, imprevista, la grande crisi economica, e il governo - ministro Tremonti - ha cominciato a tagliare a Milano un certo numero di finanziamenti. Poi, ancora più imprevisto, è arrivato il terremoto de L’Aquila, e i fondi per la costruzione della quarta linea della metropolitana milanese sono stati dirottati in Abruzzo.

Ma la sfortuna, come sempre, non basta a spiegare. L’amara verità è che Milano ha commesso molti errori. A cominciare dal fatto che non ha saputo fare squadra. Ci sono stati litigi infiniti, e del gruppo dirigente iniziale è rimasta solo Diana Bracco, la presidente: gli altri sono cambiati tutti. Poi ci sono stati problemi per l’acquisizione delle aree. Poi ci sono stati gli episodi di corruzione, e le inchieste. E qua verrebbe da dire: è vero che la corruzione è un virus onnipresente, ma è anche vero che quando si è in ritardo, e si forzano le procedure per gli appalti per fare in fretta, il virus prende forza.

È mancata anche, come si usa dire, «una visione d’insieme». Beppe Grillo è Beppe Grillo, e quindi esagererà anche quando dice che ci si è limitati a far palazzi «nel luogo più brutto del mondo», fra Pero e Rho, cioè fra l’autostrada e le raffinerie. Però è innegabile che un Expo si fa per mostrare al mondo un Paese intero, non un quartiere. La cultura del cibo, in Italia, è ovunque, i visitatori avrebbero dovuto avere la possibilità di raggiungere facilmente ogni regione, invece saremo ancora qui, tanto per fare un esempio, con la vergogna della Milano-Torino a due corsie, per giunta piene di curve e di camion e delimitate da paratie mobili che quando fai un sorpasso raccomandi l’anima a Dio.

Questo giornale non è, e non è mai stato, «contro» l’Expo. Anzi. Abbiamo sempre pensato che sarebbe stata una grande opportunità per metterci in mostra e per ripartire. Ma per come siamo arrivati impreparati all’appuntamento, il timore è che in mostra metteremo, oltre gli «exthernal Exhibition elementi», il peggio dell’approssimazione italiana.

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/01/cultura/opinioni/editoriali/expo-il-rischio-di-mostrare-il-peggio-gWsyK43dQXNzE89GECbI6H/pagina.html


Titolo: MICHELE BRAMBILLA La doppia ipocrisia di calcio e politica
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:55:46 am

La doppia ipocrisia di calcio e politica

27/04/2015
Michele Brambilla

Sinceramente: non ne possiamo più di sentire un ministro dell’Interno che dice «nessuna clemenza» per i delinquenti che rovinano una partita di calcio. Ci sentiamo presi in giro. Sono anni che, periodicamente, siamo qui a commentare incidenti aggressioni e ferimenti prima, durante e dopo le partite. Abbiamo visto di tutto: tifosi ammazzati con una coltellata, capi ultrà che intimano ai giocatori di non giocare un derby, motorini lanciati dal secondo anello. E i ministri dell’Interno e i capi di governo che dicono: adesso basta, nessuna clemenza. Poi, tutto resta come prima. 

Altrettanto sinceramente: non ne possiamo più neppure di sentire ministri dell’Interno che si complimentano con le forze dell’ordine per aver «subito identificato e fermato» i delinquenti che hanno tirato le bombe carta dentro lo stadio. Eh no, signor ministro, anche qui ci sta prendendo in giro. Qualsiasi buon padre di famiglia sia andato almeno una volta allo stadio, sa che ai tornelli viene fermato, controllato, perquisito: e se ha una bottiglietta di acqua minerale, gli viene ordinato di togliere il tappo. Poi però i cosiddetti ultras possono portare dentro di tutto, compreso il materiale per fabbricare le bombe carta. Ecco perché ci sentiamo presi in giro anche per i complimenti alle forze dell’ordine che individuano e fermano: bisogna pensarci prima, signor ministro. Le «forze dell’ordine», come le chiama lei, devono perquisire i cosiddetti ultrà come intrepidamente perquisiscono i nonni. 

È passato un anno dalla finale di Coppa Italia che aveva fatto indignare il presidente del Consiglio. Era presente allo stadio e aveva assistito con i propri bambini allo strazio della trattativa fra un soggetto chiamato Genny ’a carogna e la polizia. Aveva dunque promesso interventi durissimi e immediati. Siamo ancora qui, come venti o trenta anni fa. E a proposito di trent’anni fa: nel 1985 ci fu la tragedia dell’Heysel, una strage provocata dai cosiddetti hooligans. La Gran Bretagna decise che bisognava fare sul serio, e sul serio fece. Da allora, in Inghilterra non è più successo nulla. In Italia, invece, solo il nuovo stadio della Juventus ha provato a replicare il modello inglese. Per il resto, tutto è ancora come ai tempi di quel derby romano del 1979, quando un tifoso venne accoppato da un razzo sparato dalla gradinata opposta. Questo è dunque un fronte: l’ipocrisia delle società di calcio e della politica, capaci solo di esprimere il consueto «sdegno».

 

Un altro fronte riguarda la domanda, che prima o poi dovremo pur porci in profondità, sull’immensa quantità di rabbia, di rancore e di violenza che si è riversata sul mondo del calcio. Non solo su quello professionistico. Chiunque abbia figli che giocano nelle giovanili sa di che cosa sto parlando. Le partite dei ragazzi e dei bambini sono ormai diventate momenti in cui genitori e ahimè spesso anche gli allenatori e i dirigenti sfogano tutto l’irrisolto che si portano dentro. Ieri ho visto una partita di uno dei miei figli e a un certo punto è entrato un ragazzo di colore. Uno degli avversari gli ha detto: «Sei venuto in Italia a rompere i c...?». L’arbitro per fortuna ha sentito e l’ha espulso. Ma mentre l’espulso, uscendo dal campo, gridava al ragazzo di colore «ci vediamo fuori», il suo allenatore, invece di zittirlo, insultava l’arbitro per aver tirato fuori il cartellino rosso per così poco. Tutto questo mentre sugli spalti i genitori delle due squadre – che avevano appena deprecato gli incidenti del derby di Torino – se ne dicevano di tutti i colori.

Ecco, credo che dovremo anche chiederci come mai il calcio sia diventato il ricettacolo di tanta violenza repressa. I tifosi che gridano «uccideteli» in serie A sono immersi nello stesso odio che fa litigare anche sui campi dove sgambettano i pulcini. Insomma i fronti sono due: la politica e le società che promettono ma non fanno mai nulla; e la grottesca, surreale tensione che è montata sul calcio, dai bambini ai professionisti. Peccato perché era davvero il gioco più bello del mondo.

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-doppia-ipocrisia-di-calcio-e-politica-5DgtOwhM3PM16bYJl4qAQI/pagina.html