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Autore Discussione: MICHELE BRAMBILLA  (Letto 66650 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:16:01 pm »

9/5/2012

Il rischio di sottovalutare un allarme

MICHELE BRAMBILLA

C’ è una certa sottovalutazione dell’attentato all’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. La notizia è spesso relegata in seconda o terza fila. Sbaglieremo, ma ci pare non sia stata colta la gravità dell’accaduto.

Forse un primo motivo di questa, chiamiamola così, scarsa attenzione, sta nel fatto che l’attentato non ha avuto gravi conseguenze. Adinolfi è stato ferito solo di striscio. E quindi non è scattata una reazione emotiva popolare. Ma come non pensare al significato del gesto? La «gambizzazione» in Italia ha una tragica storia in un contesto preciso. Parlavamo ieri con Antonio Iosa, un militante della Dc milanese che il primo aprile del 1980 fu appunto «gambizzato» dalla colonna Walter Alasia delle Brigate rosse come rappresaglia per i quattro brigatisti uccisi proprio a Genova in via Fracchia. Iosa fu colpito a entrambe le gambe e ha dovuto subire 34 interventi chirurgici (l’ultimo pochi giorni fa) per le conseguenze dirette o indirette di quel ferimento. Ma al di là della menomazione fisica, Iosa ci spiegava ieri che la «gambizzazione» non è affatto, come molti pensano, un «attentato minore», perché la vittima - anche quella colpita in modo lieve - subisce un trauma psicologico che lo accompagna per tutta la vita; e perché i terroristi le attribuiscono un alto significato simbolico, quello di «colpirne uno per educarne cento». E dunque per costringere tutti ad avere paura.

L’agguato di Genova è poi trascurato anche per un secondo motivo: non si crede fino in fondo che si possa trattare di terrorismo. È vero che una certezza sulla matrice non c’è ancora, e può anche essere che il terrorismo non c'entri. Ma colpisce la sicurezza con la quale da molte parti si ritiene «impossibile» o «molto improbabile» che il terrorismo possa tornare. Ma perché?

Si dice: se sono terroristi, per quale motivo non rivendicano? E più in generale si aggiunge: oggi non ci sono le ideologie di quel vecchio mondo diviso in due blocchi. Sono argomentazioni alle quali gli inquirenti - guarda caso i nuclei antiterrorismo dei carabinieri e della polizia - reagiscono con un sorriso amaro. In questi giorni, a Genova, chi conduce le indagini ha giustamente invitato noi giornalisti a «non leggere gli avvenimenti di oggi con le categorie di quarant’anni fa». Perché anche i terroristi cambiano: nei metodi, nelle strategie e pure nelle motivazioni.

Ad esempio: la rivendicazione. Oggi spesso non la si fa di proposito, per non lasciare tracce (il modo di scrivere, il mezzo usato) che possano mettere chi indaga sulla pista giusta; e non la si fa anche perché, proprio per la fine delle grandi ideologie, i gruppi rigidi tipo Brigate rosse non ci sono più. Ci sono invece tante individualità il cui unico collante è l’odio verso qualunque cosa abbia l’aspetto di un «potere». Dicono, gli inquirenti, che oggi alcuni vecchi brigatisti hanno passato le armi a elementi di questa magmatica galassia «arrabbiata» esattamente come quarant’anni fa alcuni vecchi partigiani le passarono a loro.

È un errore - ci hanno detto ancora gli uomini dell’antiterrorismo a Genova - pensare che la lotta armata non si possa ripetere perché le condizioni sono cambiate. Più saggio pensare che corriamo il rischio di trovarci di fronte a un terrorismo diverso nelle sigle e nelle modalità, ma pur sempre un terrorismo. Oggi al Quirinale sarà celebrato il Giorno della memoria dedicato alle vittime degli anni di piombo. È la quinta volta che viene celebrato. La prima, però, in cui ci si troverà a parlare, oltre che degli attentati di allora, di uno dell’altro ieri.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10077
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« Risposta #76 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:18:35 pm »

Politica

09/05/2012 - IL CASO

Da Como a Monza il "Mugello azzurro" ha cambiato colore

Bassa affluenza alle urne, elettori moderati delusi.

I candidati di sinistra favoriti per il ballottaggio


MICHELE BRAMBILLA
inviato a Como

La chiamavano «il Mugello del centro destra». Dalla fine della guerra a oggi Como ha avuto al massimo, e solo per due anni, un sindaco socialista quando i socialisti erano quelli di Craxi e stavano nel pentapartito con la Dc. Ma giunte di centrosinistra, mai, e di sinistra men che meno. Anzi: questa è stata l’ultima città d’Italia a potersi permettere, fino agli Anni Settanta, giunte Dc-Pli.

Perché i liberali, quando nel resto d’Italia erano già una specie protetta, a Como erano il secondo partito, davanti anche al Pci. Il quale Pci, poi, qui non è che fosse proprio un Pci: diciamo che un comunista comasco era di sinistra come un repubblicano di Sesto San Giovanni.

Per questo il quotidiano «La Provincia», che ha 120 anni e ne ha viste di tutti i colori, ieri ha titolato «Elezioni a Como, voto choc». Davvero è stato uno choc vedere che il Pd è il primo partito e che il candidato del centrosinistra, Mario Lucini, ha preso più del doppio (quasi il triplo) dei voti di quello del Pdl, Laura Bordoli.

I numeri: Lucini è al 35,54, Bordoli al 13,17. Un terremoto che non può essere spiegato solo con le divisioni nella coalizione del centrodestra, perché anche sommando ai voti di Laura Bordoli quelli del candidato sindaco della Lega Alberto Mascetti (6,89 per cento) e quelli del pidiellino transfuga Sergio Gaddi che ha fatto una lista sua (8,30), Lucini sarebbe nettamente in testa.

Quel che fa più impressione è lo «storico» della Seconda Repubblica. Nel 1994 Forza Italia era al 24,6 per cento e Alleanza Nazionale al 10,7: Alberto Botta fu eletto sindaco al ballottaggio. Nel ’98, Fi al 20 e An al 12,4, Botta rieletto sempre al ballottaggio.

Dal 2002 il centrodestra si rafforza ulteriormente: Fi sale al 27,08 e An al 13,4, Stefano Bruni (di Forza Italia) viene eletto sindaco al primo turno. Cosa che gli succede anche cinque anni dopo, nel 2007, quando Fi cresce ancora e arriva al 32,46 per cento con An all'11,14.

Basta quest’ultimo dato per dare la misura del tracollo: in cinque anni il Pdl (Fi più An) è passato dal 43,6 per cento al 13,66.

Com’è stato possibile? C’è chi attribuisce la sconfitta alla cattiva amministrazione di Bruni, del quale si ricorda soprattutto la costruzione di un muro che ha privato i comaschi della vista del lago dalla centralissima piazza Cavour; altri puntano sulle divisioni interne del Pdl, gestito dal senatore Alessio Butti in alleanza con la corrente ciellina. Ma sono quasi certamente spiegazioni insufficienti.

È che il vento è cambiato in tutta un’area che da Como scende fino a Monza, un’area che è stata la culla del berlusconismo. A Monza Andrea Mandelli del Pdl si è fermato al 20,04 per cento contro il 38,29 di Roberto Scanagatti del centrosinistra.

A Cantù il candidato del Pdl è arrivato quarto, sconfitte pesanti anche ad Appiano Gentile e Campione d’Italia, tutte ex roccaforti. Non sono diventati di sinistra, da queste parti: più semplicemente non sono andati a votare (a Como si è astenuto il 40 per cento), pensando che questo centrodestra non è più il loro centrodestra.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453466/
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« Risposta #77 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:34:14 am »

18/5/2012 - IERI A MILANO LA COMMEMORAZIONE DEL COMMISSARIO UCCISO

A 40 anni dall'omicidio Calabresi ricordare significa non ripetere

MICHELE BRAMBILLA

Ieri erano quarant’anni dall’assassinio di Luigi Calabresi. In via Cherubini a Milano, dove il commissario abitava e dove fu ucciso con un colpo di rivoltella alle spalle, s’è tenuta una breve cerimonia con la moglie Gemma Capra, i figli Mario (direttore de La Stampa), Paolo e Luigi, il sindaco Giuliano Pisapia, il prefetto Gian Valerio Lombardi, il presidente della Provincia Guido Podestà, il questore Alessandro Marangoni. È stata deposta una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda l’agguato, e che fu collocata lì solo cinque anni fa dal Comune di Milano: la inaugurò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, particolarmente sensibile al dramma vissuto dalle vittime del terrorismo e dai loro familiari.

Alle nove, nella basilica di Sant’Ambrogio, c’è poi stata una messa in suffragio: l’ha officiata padre Umberto Ceroni, uno dei due sacerdoti che il 31 maggio del 1969 celebrarono il matrimonio del commissario. Quindi, familiari e autorità sono andati in Questura per un ultimo ricordo.

Dei tanti delitti di quella cupa stagione, quello del commissario Calabresi è uno dei più presenti nella memoria del nostro Paese. Sia perché conseguenza indiretta di un altro fatto sconvolgente - la strage di piazza Fontana, sulla quale Calabresi aveva indagato - sia per i numerosi processi che ancora in anni recenti hanno portato alla condanna dei suoi responsabili. Con sentenza definitiva, sono stati infatti ritenuti colpevoli dell’omicidio Calabresi il leader di Lotta Continua Adriano Sofri e altri tre militanti dello stesso movimento: Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, quest’ultimo reo confesso. Anche libri di successo come «Spingendo la notte più in là» di Mario Calabresi e il recente film di Marco Tullio Giordana «Romanzo di una strage» hanno contribuito a far conoscere la vicenda del commissario Calabresi pure a chi all’epoca era troppo giovane o non era ancora nato.

Ed è un bene che di un fatto come quello si continui a tener viva la memoria. La vicenda di Luigi Calabresi, giovanissimo commissario della squadra politica della questura di Milano, è infatti emblematica di dove possa portare una spirale di disinformazione e di odio. Accusato ingiustamente - anche da gran parte dell’intellighenzia italiana di allora di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, Calabresi fu fatto oggetto di una campagna di calunnie che costituì il lungo prologo alla sua esecuzione. Diventò un simbolo da abbattere, in una stagione in cui ci si cominciò a dimenticare che ogni persona è, prima che un simbolo, un essere umano.

L’omicidio di Calabresi è considerato il primo degli anni di piombo. Una stagione chiusa da tempo, ma che rischia sempre di riaprirsi: i brutti segnali, negli ultimi tempi, non mancano. Anche per questo, commemorazioni come quella di ieri non servono solo per guardare al passato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10120
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 20, 2012, 11:10:22 pm »

20/5/2012

Il ritorno delle solite paure

MICHELE BRAMBILLA

L’attentato di ieri a Brindisi è talmente pazzesco che siamo qui tutti a sperare che a compierlo sia stato, appunto, un pazzo.

Se così non fosse, saremmo infatti di fronte a uno sconvolgente cambio di passo della criminalità organizzata, o del terrorismo se di terrorismo si trattasse. Finora la mafia e le organizzazioni della lotta armata avevano infatti colpito bersagli precisi, cioè uomini considerati «nemici», oppure seminato la morte nelle banche o sui treni. Era mostruoso, ma mai si era arrivati a voler colpire una scuola per uccidere deliberatamente degli studenti che sono poco più che bambini. Questo sarebbe ancora più mostruoso.

Ecco perché siamo qui a sperare che l’attentatore sia una specie di Unabomber al quadrato. Altrimenti, se dietro a tanto orrore ci fosse un disegno anziché una mente malata, dovremmo concludere che l’Italia è condannata a non essere mai un Paese normale.

Infatti la prima riflessione che viene spontanea è questa: ogni volta che nel nostro Paese c’è un periodo di transizione, qualcuno cerca di gestirlo con il sangue. Accadde così dopo il Sessantotto, quando ci fu chi cercò di condizionare il cambiamento con le bombe e chi invece con un partito armato. Furono anni in cui mutò quasi tutto, nel mondo occidentale: dai rapporti sociali al costume, e le tensioni esplosero ovunque. Ma solo in Italia ebbero effetti tanto tragici e prolungati nel tempo. Negli Stati Uniti si parla ancora oggi della rivolta di Berkeley del 1964, a Parigi di un mese soltanto («il maggio francese»), in Germania il terrorismo si aprì e si chiuse in poche settimane con la cruenta vicenda della banda Baader Meinhof. In Italia invece si andò avanti almeno fino agli Anni Ottanta, e per giunta con una serie di misteri ancora oggi non chiariti.

La seconda riflessione: siamo sempre in ritardo a capire quello che ci succede attorno. Leggiamo sempre il presente con le categorie del passato. Due settimane fa, dopo il ferimento dell’amministratore delegato dell’Ansaldo a Genova, abbiamo pensato subito alle Brigate Rosse, alla lotta al capitalismo e così via. Tutta roba di trenta o quaranta anni fa, mentre l’Italia e il mondo sono profondamente cambiati e nuove rabbie stanno montando: contro la finanza, contro le ultime frontiere del progresso tecnologico, contro l’incubo dell’inquinamento e del disastro nucleare. Stanno montando e alimentano ahimè anche alcune frange estremiste e potenzialmente omicide. Il rischio di un nuovo terrorismo dunque c’è, e quelli che dicono che invece non c’è perché il mondo non è più diviso in due blocchi suscitano francamente un po’ di tenerezza.

Sempre per questa propensione a leggere l’oggi con le categorie di ieri o dell’altro ieri, adesso siamo qui a cercare un nesso tra la bomba di Brindisi e quelle del ’92 e ’93, altro periodo di transizione. Allora fu la mafia a colpire. Lo fece con una strategia per quei tempi nuova. Adesso cercare di indirizzare il cambiamento con le bombe non sarebbe più una novità. Ma nuovo sarebbe sicuramente l’obiettivo - una scuola, appunto - e quindi siamo in ogni caso di fronte a un fenomeno inedito, e non a una replica.

Terza cosa. Non riusciamo mai a essere un Paese normale anche perché in nessun altro angolo del mondo i profeti del complottismo e della dietrologia fanno tanti proseliti. È vero che in Italia, a partire da Piazza Fontana in poi, ne abbiamo viste di ogni colore. È vero che le trame sono state molte (le abbiamo appena ricordate) e spesso oscure. Ma sostenere - o insinuare, che è la stessa cosa - che la bomba di Brindisi l’ha messa o fatta mettere il governo Monti per distogliere l’attenzione degli italiani dalla crisi economica e dalle cartelle esattoriali, è anche questa l’espressione di una follia, e non del tutto innocente. Eppure tesi del genere ieri pomeriggio circolavano sulla rete con l’ammiccamento di qualche politico, o meglio antipolitico, in cerca di voti e di visibilità.

Insomma questa è l’Italia. Un Paese talmente anormale da costringerci a sperare davvero che ci sia in giro qualche pazzo che collega tre bombole del gas con un timer così, per il gusto di farlo, e senza secondi fini.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10124
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« Risposta #79 inserito:: Maggio 24, 2012, 11:41:39 am »

Economia

23/05/2012 - REPORTAGE

Tra gli imprenditori brianzoli: traditi dal berlusconismo


MICHELE BRAMBILLA
inviato a Como

A Como non si vedono bandiere rosse e neppure quelle arancioni di Pisapia. Ma si odono parole che danno ancor di più il senso della rivoluzione: «Ho 65 anni e per la prima volta in vita mia ho votato a sinistra», ci confida Graziano Brenna, imprenditore tessile e vicepresidente della Confindustria locale.

Orrore! Un imprenditore comasco che vota a sinistra! Ma quando mai? Berlusconi la prenderà come una coltellata. Eppure la sua terra e la sua gente gli hanno voltato le spalle. Como è la capitale del ribaltone, luogo simbolico perché è sempre stata di centrodestra, perché solo cinque anni fa An e Forza Italia avevano insieme il 43 per cento e ora il Pdl ha racimolato un misero 13 al primo turno e incassato un umiliante cappotto (75 a 25) al ballottaggio.

«Sono sorpreso dai numeri ma non dalla dinamica di quel che sta succedendo», dice Paolo De Santis, presidente della Camera di commercio, cinquantamila aziende associate. È questo il mondo che credeva nel Cavaliere e adesso non ci crede più. È un mondo che grosso modo si può dividere in tre aree.

La prima è quella del lago, cioè a nord di Como e lungo il confine di Stato: qui le imprese vivono soprattutto di turismo e tutto sommato reggono; la gente poi se la cava anche perché la Svizzera fa da ammortizzatore sociale offrendo posti di lavoro.

La seconda area è la città: commercio e servizi, il trend non è malvagio. Ma la terza area, la più grande, è la Brianza comasca manifatturiera e qui la crisi si fa sentire in modo pesante. È qui che ci sono le aziende più grosse.

«Il grido di dolore che viene dal mondo delle imprese è molto forte», dice ancora De Santis: «Ci si aspettava molto di più dagli ultimi governi: non tanto sull’aspetto fiscale, ma sulla riduzione della burocrazia. È l’eccesso di burocrazia che strangola le nostre imprese e scoraggia gli investimenti stranieri in Italia. Speravamo anche in una riforma della giustizia: ma non di quella penale, che forse interessava a Berlusconi e a qualcun altro, bensì di quella civile. Lei mi chiede perché il nostro mondo è deluso e disorientato. E io le dico questo: l’imprenditore comasco oggi è uno che ha paura di non farcela e non vede segnali dalla politica».

Il divorzio tra le categorie produttive e il centrodestra era già evidente da tempo e un giorno la stampa locale aveva titolato in prima pagina «Como, l’economia rompe con il Pdl». Certo ci sono motivazioni anche locali.

La città, finiti da un pezzo i tempi d’oro dell’industria tessile, attende dalla politica un aiuto a riqualificarsi, soprattutto verso il turismo, visto che la natura l’ha omaggiata di tanta meraviglia. Ma non solo non è stato fatto nulla: si sono fatti dei danni, come l’aver occultato la vista del lago con una muraglia da Berlino Est. E con l’aver trascurato la gestione delle piccole ma fondamentali cose, come le buche nell’asfalto: «Le strade di Como sono peggio di quelle di Bucarest», aveva detto all’ormai ex sindaco Stefano Bruni (Pdl) l’allora presidente degli industriali Ambrogio Taborelli.

Anche Graziano Brenna, quello che a 65 anni ha votato a sinistra per la prima volta («Ma lei non immagina quante persone mi hanno detto la stessa cosa»), conferma che «Como è una delle città più belle del mondo e una delle peggio amministrate, faccia un giro in città a vedere gli scempi, a cominciare dalle rovine della ex fabbrica Ticosa a ridosso del centro».

E arrivano conferme perfino da chi è stato assessore di Forza Italia e poi consigliere comunale del Pdl, come Enrico Gelpi, avvocato, ex presidente dell’Automobile Club nazionale e ora membro del Cda della Fia, federazione internazionale dell’automobile. «A Como», dice, «gli ultimi due anni dell’amministrazione Bruni sono stati, per usare un eufemismo, non brillanti».

Gelpi è uno che la passione per la politica l’ha respirata in casa: suo zio, Lino Gelpi, democristiano, è stato forse il più importante sindaco di Como del dopoguerra, dal 1956 al 1970; e suo padre Emilio fu primo cittadino di Castiglione Intelvi addirittura per cinquant’anni. Ma due anni fa ha lasciato il consiglio comunale, deluso anche lui: «Oggi i partiti vivono fuori dal mondo. Pensi alle nostre primarie: il candidato che ha perso ha poi fatto una sua lista contro il Pdl. La gente ha pensato: questi pensano alle loro cose interne anziché alla città». Nessuno comunque crede che le beghe locali bastino a spiegare una débâcle che va ben oltre i confini di Como: «Pdl e Lega hanno certamente risentito anche degli scandali», dice ancora Gelpi.

Maurizio Traglio, imprenditore comasco che ha investito quindici milioni di euro nella nuova Alitalia, non dà la colpa a Berlusconi («Ci ha provato ma è stato frenato in tutti i modi») ma riconosce che una stagione è finita: «Il Pdl ora sta cercando una via diversa, deve mettere in campo persone credibili, nuove e messe in condizione di poter governare». Gli avevano chiesto di candidarsi a sindaco, ma ha rifiutato: «Il centrodestra era troppo diviso, e il centrosinistra non è la mia parte politica».

Attilio Briccola, presidente della Compagnia delle Opere, dice che «il Pdl e la Lega se la sono cercata». Troppe promesse a vuoto: «È svanito il sogno cominciato vent’anni fa, Berlusconi e Bossi hanno deluso perché non hanno fatto quelle riforme che il mondo della piccola e media impresa si aspettava, il mondo che è l’anima di questa terra».

Riuscirà il vecchio centrodestra a riscattarsi? Qui non sembra crederci nessuno. «Il tempo sarà fatale e oggi il mondo gira a velocità che non sono più quelle di una volta», dice Traglio. «Berlusconi era un simbolo per noi imprenditori, ci ha deluso», dice Brenna. «È un momento di forte discontinuità, l’approdo al momento non è definibile ma certamente sarà diverso dal passato», dice De Santis. Le parole forse più tranchant sono però proprio quelle di chi ci credeva così tanto da mettersi in gioco personalmente, l’ex assessore e consigliere Enrico Gelpi: «Io ho comunque votato Pdl, ma è un Pdl che non esiste più».

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/455252/
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 02, 2012, 09:52:00 am »

Cronache

01/06/2012 - terremoto/il commento

Basta con le esagerazioni l'Emilia non è scomparsa

Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente

MICHELE BRAMBILLA

Nelle ultime due settimane in Emilia Romagna ci sono stati 24 morti e danni per svariati miliardi di euro; gli sfollati sono quindicimila. Bastano queste cifre per dire che una situazione è grave e degna di attenzione da parte di tutti gli italiani? Evidentemente no, non basta. Così sono giorni che in tv, alla radio e sui giornali si sente parlare di «interi paesi cancellati dalle carte geografiche», o più sobriamente «rasi al suolo». Ho sentito dire che Cavezzo, dov’ero appena stato, «non esiste più». Ci sono titoli sui siti web - anche, ahimè, dei grandi giornali - che parlano di migliaia di emiliani che «soffrono la fame», di «assalti di sciacalli alle case danneggiate».

Mi domando se chi dice e scrive queste cose sia stato davvero in questi giorni a Mirandola, Cavezzo, Rovereto sul Secchia, Medolla, Carpi. Paesi che hanno subito danni ingentissimi e molti lutti: ma che esistono ancora. Paesi popolati da persone in difficoltà: ma non ridotte alla fame. Paesi in cui i capannoni crollati sono per fortuna una piccolissima percentuale, non la norma. Paesi in cui le abitazioni private hanno tenuto, grazie al cielo: anzi, grazie agli emiliani che le hanno costruite meglio che altrove.

C’è stato un terremoto, e basterebbe usare questa parola, terremoto: ce ne sono molte altre che incutono più terrore? E invece no: si parla di inferno, di un mondo spazzato via, di un’intera regione in ginocchio. Non è così: provate a girare per tutta l’area, da Modena fino su ai paesi dell’epicentro, e vedrete un film che non è quello che viene raccontato. Un film drammatico, certo. Ma perché dire e scrivere che è come il Friuli, l’Irpinia, L’Aquila? In Friuli ci furono mille morti, centomila sfollati, 18.000 case completamente distrutte, 75.000 gravemente danneggiate. In Irpinia tremila morti, 280.000 sfollati, 362.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. L’Aquila è ancora oggi, quella sì, una città in ginocchio. L’Emilia no: la gente che vi abita ha paura, e questo è comprensibile, ma le grandi città sono intatte, il 95 per cento dei paesi pure, eppure l’altra sera in tv abbiamo sentito parlare (testuale) di «una regione distrutta».

Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente, che già ha buoni motivi per avere paura. L’altra notte l’ho trascorsa in piedi fra la gente in tenda. Una notte certamente disagevole, soprattutto per la preoccupazione per il futuro. Ma non ho visto alcuna scena di panico. La mattina alle nove accendo la radio e sento: «Notte di terrore nelle tendopoli per sessanta nuove scosse». Che ci sono state, ma non tali da essere percepite.

Non si tratta di sminuire la gravità di quello che è accaduto, ma di evitare che ai danni del terremoto si aggiungano quelli di un’informazione drogata. L’altra sera parlavo con Michele de Pascale, assessore al Turismo del Comune di Cervia. Mi diceva di non capire la contraddizione: «Stiamo accogliendo nei nostri alberghi gli sfollati perché qui da noi sono al sicuro. Poi riceviamo disdette per quest’estate: i clienti hanno sentito in tv che l’Emilia è distrutta. L’altro giorno un albergatore mi ha detto che lo hanno chiamato dalla Germania per annullare la prenotazione e hanno chiesto: ma siete ancora vivi?».

Domande alle quali ne aggiungo una diretta umilmente alla categoria di cui faccio parte: vogliamo davvero aiutare gli emiliani a ripartire? Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/456530/
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« Risposta #81 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:48:10 am »

4/6/2012

Una faccia d'amianto alla Conferenza di Rio

Ci sarà anche Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero del caso Eternit

MICHELE BRAMBILLA

Il magnate svizzero Stephan Schmidheiny è stato invitato alla Conferenza di Rio sullo sviluppo sostenibile, organizzata dall’Onu, come benefattore dell’umanità, guru dell’ambiente, filantropo della green economy. Schmidheiny, per chi non lo ricordasse, è uno degli ultimi due proprietari della Eternit di Casale Monferrato e il 13 febbraio scorso è stato condannato per disastro doloso a sedici anni di carcere dal tribunale di Torino: dove, peraltro, non s’è mai degnato di farsi vedere. Sempre per chi non lo ricordasse, a Casale l’amianto lavorato dalla Eternit ha provocato una strage che continuerà ancora per qualche decennio. Invitare Schmidheiny a Rio è dunque un po’ come invitare Fabrizio Corona a parlare di tutela della privacy, o Cicciolina del valore della verginità. Anzi, è decisamente peggio perché qui ci sono di mezzo dei morti.

Tutti possono cambiare vita, e può darsi che Schmidheiny l’abbia cambiata. Ma una volta i convertiti facevano come fra’ Cristoforo: si chiudevano in convento con la faccia contrita. Adesso invece vanno alle conferenze dell’Onu a pontificare con la faccia di bronzo. O meglio, d’amianto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10188
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« Risposta #82 inserito:: Luglio 12, 2012, 05:19:02 pm »

12/7/2012

Le incognite dell'operazione rivincita

MICHELE BRAMBILLA

L’uscita di scena di Berlusconi dal mondo della politica pare dunque avviata a concludersi nel modo più scontato: con il ritorno di Berlusconi. C’è da stupirsi dello stupore generato ieri dalla notizia della ricandidatura, pubblicata dal Corriere della Sera. Che un uomo del genere si potesse accontentare di fare il «padre nobile» del partito, per giunta accettando l’idea che qualcun altro avrebbe potuto fare meglio di lui, non era credibile. Prima ancora che per calcolo politico, il Cavaliere è incompatibile per carattere alle seconde file.

La notizia dunque non dovrebbe sorprendere, esattamente come nella Prima Repubblica non sorprendevano i ritorni di Andreotti o quelli di Fanfani, che infatti fu ribattezzato «Rieccolo». E per quanto possa apparire paradossale, la decisione di ricandidarsi ha anche una sua logica. Berlusconi dice che i sondaggi danno un Pdl senza di lui intorno al dieci per cento, e un Pdl con lui intorno al trenta. Può anche darsi che siano cifre esagerate, ma non c’è dubbio che la sostanza sia quella. Berlusconi per il Pdl - o per Forza Italia, se il partito tornerà a chiamarsi così, come pare - è più di un fondatore: è tutto.

Intanto perché ci ha messo l’idea, i soldi, la faccia e il carisma; e poi perché più o meno scientemente ha allevato la sua creatura guardandosi bene dal preparare una successione, ligio come molti uomini del suo stampo al principio dell’«après moi le déluge».

È insomma più che verosimile che un partito con il suo nome nel simbolo possa prendere molti più voti di uno guidato, ad esempio, da un Alfano, incoronato come numero uno solo pochi mesi fa, e ora reintegrato fra le comparse. Da quando Berlusconi se n’è andato per lasciare spazio al governo tecnico, c’è nel centrodestra tutto un mondo di vedove e di orfani inconsolabili che non aspettano altro che l’occasione per una rivincita.

Ma proprio questo della rivincita è il tema cruciale. Il Pdl, con Berlusconi candidato, prenderà sicuramente più voti.
Ma saranno voti sufficienti per vincere? Ne dubitiamo. Per tanti motivi.

Intanto, l’uomo è sembrato sinceramente stanco, negli ultimi mesi. È vero che ha dimostrato di avere più di sette vite, ma gli anni passano anche per lui e molte prove hanno lasciato il segno. E poi: che cosa potrebbe ancora promettere, in campagna elettorale, dopo vent’anni di promesse disattese? Come potrebbe far credere di non avere almeno qualche responsabilità nella disastrosa situazione lasciata in eredità al governo Monti?

Certo Berlusconi ripeterebbe che, durante i suoi tre mandati, non l’hanno lasciato governare. Non ha neppure tutti i torti, quando dice che in Italia c’è un diabolico sistema di veti e contro veti che rende difficili le riforme. Ma sarà difficile convincere ancora la maggioranza di chi vota centrodestra che è stata tutta colpa di un complotto ordito da giornali, magistratura e poteri forti.

È improbabile, per non dire impossibile, che Berlusconi non sappia tutto questo; e che non capisca che una stagione è finita per sempre.
E allora cresce il sospetto che la sua ricandidatura non punti a palazzo Chigi, ma a una robusta presenza a Montecitorio che gli garantisca o di far parte di un governo di larghe intese, o quantomeno di essere una minoranza forte e rispettabile. Berlusconi non mirerebbe a vincere, dunque, ma a conquistare una condizione di maggior garanzia per le proprie aziende e per se stesso.

Ecco perché l’annuncio della sua sesta candidatura alla guida del Paese è forse una buona notizia per lui e per il Pdl, il quale, almeno per un po’, riprenderebbe ossigeno. Ma difficilmente è una buona notizia per il Paese, che rischia di risprofondare in uno psicodramma. E difficilmente è una buona notizia per lo stesso centrodestra, che perderebbe l’occasione di riorganizzarsi e di pensare a un futuro non più legato a un nome che appartiene al passato.

A pensarci bene, forse la notizia di ieri è buona soprattutto per il centrosinistra, che potrebbe riagitare il vecchio e sempre efficace spauracchio in campagna elettorale; e più in generale è buona per tutto quel fronte di antiberlusconiani un po’ a corto di argomenti da quando il Nemico si era ritirato, o aveva fatto finta di ritirarsi, a vita privata.

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« Risposta #83 inserito:: Settembre 03, 2012, 11:45:29 am »

31/8/2012 - MANI PULITE

Alla storia non servono ultrà

MICHELE BRAMBILLA

In Italia i conti con la storia sono sempre difficili e così le interviste del nostro Maurizio Molinari sul ruolo degli Stati Uniti durante Mani pulite hanno provocato una serie di reazioni a dir poco sopra le righe. D’altronde in un Paese in cui si litiga ancora sui morti, da Mussolini al Risorgimento, figuriamoci che cosa può succedere quando una ricostruzione tocca i nervi scoperti dei vivi.

Vivi, oltretutto, che dai fatti di cui si parla hanno avuto la carriera stravolta, chi in peggio e chi in meglio.

Dunque: Molinari ha prima pubblicato un’intervista (di cui c’è documentazione scritta) con l’ex ambasciatore Usa a Roma Reginald Bartholomew, morto domenica scorsa; poi ne ha fatta seguire un’altra con Peter Semler, ex console americano a Milano (e prima ancora consigliere militare-politico che gestì l’arrivo dei missili Cruise a Comiso: così, lo ricordiamo tanto per sottolineare che i due intervistati non sono proprio figure di secondo piano).

In stringata sintesi, i due hanno detto questo. Semler che frequentava Di Pietro; che aveva saputo da lui con qualche mese di anticipo di importanti inchieste che avrebbero coinvolto i vertici del Psi; che a Milano era tangibile la sensazione che «in Italia stava per cambiare tutto». Bartholomew, invece, ha detto che, arrivato a Roma a inchiesta di Mani Pulite già iniziata, a un certo punto si preoccupò per i suoi eccessi e soprattutto per il rischio che la transizione italiana fosse gestita esclusivamente dai magistrati, senza che fosse pronta una nuova classe politica dirigente.

Tutto questo ha ridato fiato agli opposti estremismi nati proprio allora. Da un lato le vedove inconsolabili della Prima Repubblica, le quali da quei giorni urlano al complotto, alla mitica riunione dei poteri forti sul panfilo Britannia, insomma a un Di Pietro burattino e agli americani burattinai. Dall’altra parte, i nostalgici dei bei tempi delle manette facili vedono nelle interviste a Semler e Bartholomew un tentativo di delegittimare il Di Pietro di allora e, per estensione, la magistratura di oggi.

Elucubrazioni e dietrologie. Chi crede alla teoria del complotto ha evidentemente una fiducia smisurata nelle capacità degli uomini. Mani Pulite esplose, e la Prima Repubblica implose, per una serie di fattori che vennero a coincidere nel tempo: primo fra tutti il logorio di una classe politica da troppo tempo al potere; poi, sì, anche la fine della guerra fredda; l’esasperazione di una classe imprenditoriale che era stufa di pagare tangenti e che per questo si mise in fila all’ingresso della Procura di Milano; e, ancora, l’abilità investigativa (perché sottovalutare anche questi aspetti?) di un formidabile poliziotto-magistrato che si chiamava Antonio Di Pietro. Tutto questo e molto altro ancora. Chi crede al complotto dimentica soprattutto che Mani Pulite decollò davvero solo dopo lo straordinario successo della Lega alle politiche dell’aprile 1992: e il successo di un movimento guidato da un uomo in canottiera che parla in dialetto e che aveva fatto due finte feste di laurea non è prevedibile, né tantomeno pianificabile, da nessuna Cia e da nessuna massoneria del mondo, neanche se imbarcata sul Britannia.

Dopo di che, succede che quando un cambiamento è in corso, molti cercano di indirizzarlo, di cavalcarlo, di gestirlo. E in questo le interviste di Molinari sono illuminanti. Intanto ci fanno capire che «gli americani» non sono un blocco monolitico. Semler, che stava a Milano, vedeva quel che tutti a Milano vedevano: e cioè che un uragano stava abbattendosi sull’Italia. Bartholomew - e ancor di più, prima di lui, Secchia da Roma la vedeva invece come la vedevano i politici romani: cioè non vedevano, chiusi com’erano (e purtroppo come sono ancora) nel loro mondo fuori dal mondo. Poi, a bufera scoppiata, si tentò di intervenire con realismo: e il realismo portava a capire che il tempo dei vecchi partiti era sì finito, che l’inchiesta contro la corruzione era sì stata un bene, ma che a quel punto bisognava evitare che il Paese fosse governato dalle Procure. Neppure i procuratori - almeno quelli non accecati - lo volevano.

Di tutto questo dovrebbero tenere conto gli ormai un po’ patetici ultrà pro o contro Mani Pulite. Così come fa sorridere la tesi del complotto a tavolino, fanno quasi tenerezza coloro che ancora oggi negano che la carcerazione preventiva fu usata come mezzo per ottenere confessioni. La verità è che tutti sapevano che Di Pietro interrogava come interrogava Tex Willer: ma a tutti, ai primi tempi, andava bene così. Poi è cominciata la stagione delle riflessioni.

Ecco. A questo dovrebbero servire le ricostruzioni storiche. A ragionare, a freddo, sul passato, per capire meglio il presente. Molti, in Italia, evidentemente non sono ancora pronti. Ma bisogna cominciare lo stesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10477
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« Risposta #84 inserito:: Settembre 11, 2012, 10:09:53 pm »

11/9/2012 - CENTRODESTRA

E Berlusconi attende di scoprire l'avversario

MICHELE BRAMBILLA

Mentre i vari candidati premier della sinistra si affannano alla ricerca della visibilità, a destra c’è un uomo che non ha bisogno di apparire per attirare, anzi per monopolizzare, l’attenzione. Inutile dire chi è. È sempre lui.

Silvio Berlusconi, l’unico vero «rieccolo» della Seconda Repubblica, non ha bisogno di primarie per candidarsi a Palazzo Chigi, e non ha bisogno di parlare per far parlare di sé.

Tutto quello che fa, e perfino quello non fa, diventa un affare di Stato. La caduta mentre faceva jogging. La vendita di Villa Certosa. La scoperta di un tunnel segreto fra le rocce della Costa Smeralda per fuggire di nascosto. L’assenza ai funerali del cardinal Martini. La presenza nel resort di Briatore a Malindi. Nel centrodestra non si parla, anzi non ci si interroga, che su di lui. Dov’è? Quando torna? Come sta?

Misteri che fanno solo da contorno al mistero per eccellenza: si ricandida a no? Nel giro di quattro mesi, siamo passati dal suo «lo escludo» (12 maggio) al «si fanno le primarie» (8 giugno); dal «sarà Berlusconi il nostro candidato premier» di Alfano (11 luglio) al «credo di sì» dello stesso Alfano l’altro giorno a Cernobbio.

Nel Pdl assicurano che la risposta è sì, e che il Cavaliere lo confermerà quanto prima: c’è chi dice già questo venerdì, alla festa della Giovane Italia a Roma; e chi invece dice che occorre aspettare la riforma elettorale. Insomma sarebbe solo una questione di tempo. Che non vuol dire, però, una questione di secondo piano. Berlusconi, infatti, di tempo vorrebbe prendersene ancora; i suoi colonnelli, invece, gli mettono fretta.

Perché gliene mettano, è questione controversa. La versione ufficiale parla di amore incondizionato per il Capo. Una seconda, un po’ più malevola, parla di preoccupazione, da parte di molti parlamentari, di andare a casa: con Berlusconi in campo, il Pdl anche senza vincere prenderebbe più voti e quindi più seggi. Una terza, perfida ma secondo alcuni realistica, vede invece questo scenario: gerarchi ormai convinti di una sicura disfatta , e desiderosi che questa disfatta porti il nome e il cognome di Silvio Berlusconi. Il quale sarebbe così poi costretto a levarsi di torno una volta per tutte.

Quale che sia la verità, è certo che sul Cavaliere sia in atto, da parte dell’apparato del Pdl, un pressing insistente affinché annunci presto la sua candidatura. Lui è indeciso. Intanto perché non sa ancora come giustificare agli italiani il suo ripensamento: dicono che quest’estate in Sardegna, davanti ad alcuni ospiti, abbia pronunciato un discorso di prova, e c’è da sbizzarrirsi nell’immaginare la scena. Poi, teme nuovi guai giudiziari, primo fra tutti la sentenza sul caso Ruby, attesa per ottobre. Sa anche che nel suo partito non c’è identità di vedute su un eventuale Monti-bis; sa che esiste il rischio di una scissione degli ex An; sa che un conto è candidarsi con il maggioritario e un conto con il proporzionale, e quindi sa che è meglio aspettare di vedere come va a finire la riforma elettorale.

Soprattutto - uomo che vive sulle contrapposizioni - Berlusconi vuol sapere bene contro chi si candiderebbe. Avesse a che fare con un Renzi, sarebbe in difficoltà: il sindaco di Firenze potrebbe essere suo nipote e ha buoni argomenti sia per i moderati sia per l’antipolitica. Ma se dovesse affrontare un’accoppiata Bersani-Vendola, Berlusconi ritroverebbe il vigore dei bei tempi. Potrebbe spiegare agli italiani il suo ritorno con poche ma semplici parole: «Mi ero fatto da parte per senso di responsabilità, ma ora per lo stesso senso di responsabilità non posso permettere che il Paese ripiombi nelle mani dei comunisti. Perché questi sono davvero ancora comunisti: avete visto come hanno ammazzato il povero Renzi?».

Ecco perché il Cavaliere, fino ad ora, ha resistito al pressing di chi vuole, in tempi brevi, l’annuncio di una sua ri-discesa in campo. Non sappiamo se resisterà ancora, e per quanto. Ma un Berlusconi che si facesse dettare i tempi dalla nomenklatura del suo partito, non sarebbe più Berlusconi. Cioè un uomo che, per invecchiato e acciaccato che sia, i suoi colonnelli se li mangia ancora tutti: non fosse altro per il fatto che se li è scelti lui. Che poi sia anche in grado di governare un’altra volta il Paese, questo è un altro discorso.

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« Risposta #85 inserito:: Settembre 12, 2012, 03:52:47 pm »

12/9/2012 - LA SCUOLA SIMBOLO

Torna la prima dei bambini stranieri

MICHELE BRAMBILLA

C'è anche qualche storia che finisce bene: la scuola più multietnica d’Italia, la statale «Lombardo Radice» di Milano, da oggi ha nuovamente la sua prima elementare. L’anno scorso era stata cancellata perché aveva «troppi stranieri». Un provvedimento che condannava di fatto la scuola, considerata un modello ben riuscito di integrazione, alla chiusura fra cinque anni.

Invece questa mattina all’ingresso di via Pier Alessandro Paravia 83 - quartiere San Siro - si presenteranno, per il loro primo giorno di scuola, ventun bambini di sei anni. Diciotto di loro sono stranieri.

Una quota in linea con la tradizione della «Lombardo Radice», che due anni fa aveva 93 alunni stranieri (di ventisette nazionalità diverse) su un totale di 97; e l’anno scorso 80 su 93. Quest’anno, se i conti non sono sbagliati, gli stranieri saranno l’83 per cento.

Ma che cosa vuol dire, poi, stranieri? Dei diciotto bambini «non cittadini italiani» (e tutti non comunitari) della prima elementare, quattordici sono nati in Italia; e tutti hanno comunque fatto le scuole dell’infanzia a Milano.

Per noi sono dei piccoli milanesi», dice il vicesindaco Maria Grazia Guida, che questa mattina sarà in via Paravia con il presidente della commissione scuola del Consiglio comunale, Elisabetta Strada; con il consigliere provinciale del Pd Diana De Marchi e con il presidente del comitato dei genitori Domenico Morfino. Tutte persone che si sono date da fare, in quest’ultimo anno, per mantenere in vita la scuola.

Ma perché era stata chiusa? Perché c’era una norma del ministro Gelmini ora abrogata da Profumo - che fissava un tetto massimo di presenza di bambini stranieri per classe: trenta per cento. «Non era una norma del tutto campata per aria, il trenta per cento è una quota indicata dai maggiori esperti di integrazione», dice Diana De Marchi del Pd: «Ma abbiamo cercato di far capire che bisognava interpretare caso per caso. Quando i bambini sono nati in Italia e in Italia hanno fatto le scuole materne, le difficoltà di integrazione linguistica sono minori».

Insomma si è capito che la legge è fatta per l’uomo e non viceversa, e «si è data più importanza alla biografia dei bambini, cioè al luogo di nascita e alle scuole fatte, mentre l’anno scorso si erano solo guardati i cognomi», dice ancora Diana De Marchi. Per molte famiglie la chiusura era stata un brutto colpo. La scuola è praticamente l’unica presenza dello Stato in questa parte povera del quartiere ricco di San Siro; e frequentarla, per i bambini ma anche per i loro genitori, era la migliore possibilità per integrarsi. Papà e mamme avevano anche provato, invano, a far ricorso in tribunale; i bambini avevano scritto al presidente Napolitano. Alla fine, la battaglia è stata vinta.

Anche se ora va proseguita. «Il Comune», dice il vicesindaco Guida, «sosterrà la didattica per venire incontro a eventuali difficoltà, e avvieremo iniziative per collaborare con la scuola elementare vicina di via Giusti». Che è la scuola dove molti genitori italiani mandano i loro figli per timore della eccessiva «multietnicità» di quella di via Paravia. Così si sono creati due mondi: quasi tutti italiani in via Giusti, quasi tutti stranieri in via Paravia. «Adesso», dice ancora Maria Grazia Guida, «coinvolgeremo i genitori italiani di via Giusti, l’obiettivo è che dall’anno prossimo gli studenti siano distribuiti in modo più equilibrato fra le due scuole. Il mondo sta andando incontro a grandi trasformazioni e come dice il cardinale Scola dobbiamo capire che le diversità arricchiscono».

Mancherà, questa mattina all’apertura, la seconda elementare. Ma è la conseguenza di quello che ormai, in via Paravia, è solo un brutto ricordo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10516
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« Risposta #86 inserito:: Ottobre 07, 2012, 11:22:26 pm »

Politica

07/10/2012 - reportage

Renzi avvisa: il ballottaggio a numero chiuso non esiste

Aveva detto “mi fido del segretario”, ma l’hanno messo in allarme le mosse della Bindi

Michele Brambilla
inviato a bari


Alle otto e mezza di sera la faccia di Matteo Renzi è uno spettacolo quando gli chiediamo se, dopo l’assemblea del Pd sulle regole per le primarie, è tutto risolto. Sorride che sembra Crozza quando lo imita. «Discutiamo della sostanza, non delle forme», risponde. Allora gli facciamo una domanda più diretta: ma le va bene il ballottaggio chiuso, cioè che al secondo turno possa votare solo chi ha votato al primo? Stavolta non sorride più: «Io credo che l’ipotesi del ballottaggio chiuso non esista». 

Non esiste proprio, e non solo nel senso che a lui non va bene: pure nel senso che Renzi è convinto che neanche Bersani vuol tagliar fuori chi non ha votato al primo turno. Allora una collega gli fa presente che questa storia del «ballottaggio chiuso» l’ha detta Rosi Bindi. Ma sì, è la Bindi che ad assemblea chiusa va in giro a spiegare che Renzi è rimasto fregato, e che la sua - la sua di Rosi Bindi - è «l’interpretazione autentica». Renzi torna a sorridere e dice: «Sono dichiarazioni che si commentano da sole». Altro che tutto risolto.

Questo è il Matteo Renzi alle otto e mezza di sera a Bari. Quello del pomeriggio, a Brindisi, era più tranquillo. Da Roma gli erano arrivate notizie confortanti. Bersani aveva respinto gli emendamenti presentati dal gruppo del Pd che più detesta il sindaco di Firenze; gruppo che paradossalmente non è la sinistra del Pd, ma la parte che viene dallo stesso partito da cui viene Renzi: la Dc. (Paradossalmente ma non troppo: Bindi, Marini, Fioroni e c. hanno capito che se Renzi prenderà molti voti alle primarie - e li prenderà - i referenti del Pd verso il centro non saranno più loro).

Beghe delle quali Renzi non vuol sapere: «Alla gente interessano le cose concrete. Facciamole su quello, le primarie, non sulle norme». Ma sa benissimo che è con quelle armi lì, è con le regolette ad hoc che qualcuno del suo partito lo vuol far fuori: perché lui è l’Imprevisto arrivato a scuotere i vecchi equilibri e le nuove certezze (o illusioni?) di aver già vinto le politiche dell’anno prossimo. Lui conta però sulla lealtà di Bersani, che al di là delle «interpretazioni autentiche» di questo pomeriggio dovrà ora sciogliere i nodi rimasti. «Saprà trovare una sintesi», dice Renzi.

Che a Bari arriva alle sette e un quarto di sera. Camicia bianca con le maniche arrotolate, pantaloni beige e scarpe sportive. La sala congressi dell’hotel Excelsior è strapiena. Lui parte a palla. Ha un’energia che sembra un Berlusconi con quarant’anni di meno. Infatti i suoi nemici nel Pd gli contestano pure questo, perché per un certo mondo non c’è insulto più pesante di quello: berlusconiano. Forse è per questo che una delle prime cose che Renzi dice è: «Non mi sento l’Unto del Signore».

Fa vedere alcune slide. I conti e i costi della sua campagna elettorale. Il pessimo uso che fa l’Italia dei fondi europei (99,286 miliardi di euro dissipati in 473.048 progetti). Un grafico sul potere d’acquisto delle famiglie, crollato dal 2007 a oggi. Gli scappa un «ora vi fo vedere una foto», e chissà cosa gli diranno gli spin doctor che ritengono «non vincente» la parlata in toscano.

Comunque parla di queste cose, «cose concrete». Fino a quando però, a un certo punto, delle regole per le primarie non può non far cenno. «Oggi abbiamo accettato», dice passando così al noi, «che l’assemblea del Pd scorresse via tranquilla anche se abbiamo molti dubbi sul fatto che si debbano fare regole diverse da quelle del passato».

«Ma a me va bene tutto», prosegue tornando alla prima persona. «Per due motivi». Il primo è che non vuole alimentare polemiche: «Noi le primarie le vinceremo se parleremo di cose concrete». Il secondo motivo infiamma la platea: «Noi le primarie le facciamo in modo diverso da come le si faceva in passato. In passato, le primarie servivano per sistemare qualcuno». E vai con un’altra slide: si vedono i faccioni degli sfidanti del centrosinistra per le politiche del 2006. C’è Prodi che vinse, ok. Ma gli altri? Gli sconfitti? «Bertinotti che aveva preso l’11 per cento ha avuto come premio di consolazione la presidenza della Camera. E questo? Lo riconoscete? È Mastella: 5 per cento e ministero della Giustizia. E questi? Di Pietro e Pecoraro: 5 per cento alle primarie, due ministeri anche per loro». Applausi a scena aperte. «Io, se perdo, non voglio premi di consolazione: rimango a fare il sindaco di Firenze». Ancora applausi. 

Tanti, ma niente in confronto a quelli che seguono la mossa successiva. Viene proiettato il filmato di D’Alema che a «Otto e mezzo» dice che «se vince Renzi finisce il centrosinistra». È questo l’argomento principe dei suoi nemici interni. E allora Renzi a D’Alema risponde così: «Al massimo, finisce la tua carriera parlamentare», e questa volta è un’ovazione. Arrivata, forse, fino a Roma.

da - http://lastampa.it/2012/10/07/italia/politica/matteo-avvisa-il-ballottaggio-a-numero-chiuso-non-esiste-GJIR8QkKmP0GDs9tXpVf9N/index.html
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« Risposta #87 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:11:32 am »

Politica

08/10/2012 - reportage

In camper con Matteo

“Gli attacchi? Mi portano voti”

 
Tra una tappa e l’altra, il sindaco confida: non capisco l’astio personale

MICHELE BRAMBILLA
INVIATO A CAMPOBASSO


Lo stress è tremendo anche per un giovane rottamatore e così Matteo Renzi appena entra nel camper si trasfigura. Fino a un attimo prima rispondeva alle tv locali con una faccia così radiosa che veniva da dire, bersanianamente, che quello non lo ammazza più nessuno.
Adesso si concede qualche minuto di decompressione. Si toglie la camicia, indossa una polo rosa, respira lentamente. «Dammi qualche minuto».
Ci mancherebbe.

L’accordo è: si viaggia insieme sul camper da Foggia e Campobasso, poco più di un’ora di strada, e venti minuti sono per l’intervista. 

 

Il mega staff di cui si favoleggia è tutto qui dentro: un autista, una portavoce, uno che si occupa delle fotografie e uno degli incontri. «La Fiorentina ha vinto», gli dicono mentre lui si sta ancora resettando. «Una buona notizia». Chiede quali sono le tappe. «Adesso si va a Campobasso, poi alle ventuno Isernia». «Va bene, però per favore questa sera evitiamo di mangiare ancora la pizza, ci stiamo gonfiando in modo pazzesco». In quarantott’ore ha fatto: Taranto, Lecce, Brindisi, Bari, Trani, Matera, Potenza, Foggia, Campobasso e Isernia. Sempre sale strapiene, sempre a ripetere più o meno le stesse cose.

 

«Un attimo ancora e ci sono». Telefona alla moglie. Come stanno i bambini? Ha esultato dopo il gol? E come ha giocato la Fiorentina? Intanto guarda i siti internet dei giornali: «Ah, la Iervolino ha detto che sono un cialtrone». E poi: «Arrivo a casa verso le tre o le quattro. Ma non so se ho le chiavi. Luca, ce le abbiamo le chiavi? Boh, non lo so, ciao amore un bacio». 

 

Eccolo pronto a parlare di politica. Di Vendola che oggi lo ha definito un liberista da rottamare. «È incomprensibile come Nichi abbia sempre bisogno di un nemico. Sempre. Le primarie in Puglia gliele aveva fatte vincere D’Alema. Dico che quella di Vendola è la vecchia cultura del nemico, e io a questo giochino non ci sto».

 

È incredibile quante cose riesca a fare contemporaneamente. Parla con i suoi collaboratori: «Oggi sui giornali come siamo usciti? Bene mi pare, no?». Poi ancora verso di noi: «L’importante era che si capisse che Bersani si staccava dagli altri». Poi ancora ai suoi: «Alla Bindi è bastata mezz’ora». Abbiamo capito che i venti minuti promessi per l’intervista andavano intesi come nel basket: al netto. 

 

Gli chiediamo se comunque, dopo l’assemblea del Pd, si sente tranquillo sulle regole per le primarie. «Sì, sono tranquillo. Io penso che non ci fosse bisogno di inventare regole nuove rispetto al passato. Per esempio avrei voluto evitare il secondo turno. Ma mi fa piacere che abbiamo dato a Bersani l’occasione di cominciare a smarcarsi dai suoi». Per il suo segretario, il sindaco di Firenze ha solo parole di pace: «Io non voglio contrapposizioni con lui. Mi fido di lui. Credo che sia uno serio. Noi avremmo potuto alimentare la tensione. Non lo abbiamo fatto e credo che lui abbia apprezzato. Credo che abbia capito che di noi si può fidare. Che non abbiamo mai avuto intenzione di usare infiltrati per vincere le primarie». Ma adesso restano da definire ancora molti particolari su come si voterà, e dovrete arrivare a un accordo con Bersani. «Di queste cose se ne occupano i miei, che sono bravissimi: Reggi che è stato sindaco di Piacenza, Berruti che è sindaco di Savona, Scalfarotto... Facciano loro». Dovranno trattare anche con Rosy Bindi? «Con lei penso sia inutile perdere tempo. È lei che polemizza, fa tutto da sola».

 

Resta la stranezza di un candidato premier che deve difendersi, più che dagli attacchi dei rivali politici, dal fuoco amico. «Ieri ho chiamato Nichi. È stata una telefonata affettuosa. Con lui ho un buon rapporto. Ma non mi convince questa abitudine di dare, dell’“altro”, un’immagine falsa. Come questa storia della campagna elettorale “faraonica”. Ma di che stiamo parlando? Io sto girando l’Italia con un camper, altro che faraonica. E abbiamo messo on line tutti i contributi...»

 

«Non capisco l’astio personale. Guarda solo gli ultimi giorni. La Bindi ha detto che son berlusconiano. Vendola che sono un liberista. La Iervolino che sono un cialtrone. Sposetti che ho speso due milioni per le primarie... Quando capiranno che tutto questo mi porta solo voti, sarà troppo tardi. La gente poi è stanca di queste cose. Lo vedo nei nostri comitati: continuano ad arrivare persone che vogliono impegnarsi, che chiedono che cosa possono fare. A me interessano queste persone, non le beghe di partito. In meno di un mese ho già girato quarantanove province. Arriverò a farle tutte: centootto. Il ventuno e ventidue ottobre sarò in Piemonte. Poi mi rimarrà solo la Sicilia, che voglio girare dopo le regionali. E come vedi giro così, con un camper, senza scorta. Non ho mai viaggiato con un lampeggiante».

 

Gli dicono che mancano cinque chilometri a Campobasso. «Che camicia mi metto? Quella blu? Maniche arrotolate va bene?». Non ci sono stilisti o guru, ma solo i suoi compagni di viaggio, a suggerirgli il look. «Vorrei essere giudicato per quello che ho fatto e che faccio. A Firenze abbiamo investito sulla cultura, musei aperti fino a mezzanotte, perché Vendola non si confronta su questi temi? Ma la gente sta capendo che parlo dei loro problemi di tutti i giorni. Lo sai qual è la cosa che mi ha colpito di più in questi incontri? Sentire i bambini che piangono. Vuol dire che vengono tante mamme, a sentirmi».

 

Lo interrompono: «Matteo preparati che stiamo arrivando, mi dicono che a Campobasso la sala da quattrocento posti è piena e c’è già gente fuori». E lui: «Piena? A Campobasso? Ma non conosciamo nessuno, là...». Eppure è vero che la sala è piena. Non c’è nessun politico, oggi, che desti tanta curiosità come Renzi. Scende dal camper e dà le ultime disposizioni: «Domattina alle nove sono in Comune, tre ore di lavoro, poi se riesco vado a correre un po’». La strada è ancora lunga. 

da - http://lastampa.it/2012/10/08/italia/politica/in-camper-con-matteo-gli-attacchi-mi-portano-voti-CXhbStAVKYco5nzQYvlXBP/pagina.html
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« Risposta #88 inserito:: Novembre 02, 2012, 05:06:21 pm »

Editoriali
02/11/2012

Grillo e Di Pietro, il mito infranto del partito degli onesti

Michele Brambilla

Dunque la stagione politica di Di Pietro pare giunta al capolinea: è stato per anni il leader della protesta, ora al massimo diventerà un grillino di complemento. Non è la prima volta che un integerrimo trova qualcuno più integerrimo di lui: accadde anche a Robespierre, e parabole del genere le ha raccontate benissimo perfino Alberto Sordi con i suoi film, dal «Vigile» al «Moralista».

 

Non stupiscono quindi né la cancellazione del nome dal simbolo del partito (quante icone, in politica, sono diventate all’improvviso motivo di imbarazzo), né la probabile dissoluzione della stessa Italia dei Valori. A stupire, piuttosto, è la reazione, diciamo così, «garantista», dell’intero fronte, diciamo così, «giustizialista».

 

Di Pietro è difeso a sciabola sfoderata sia dal «Fatto quotidiano» sia da Beppe Grillo, il quale l’ha addirittura proposto per il Quirinale. «Certamente meglio lui, uomo onesto, di Napolitano, il peggior presidente che abbiamo avuto», ha detto più o meno il comico e nuotatore genovese, e basterebbe questo per far capire di chi e di che cosa stiamo parlando.

 

Comunque. Perché chi è sempre stato tanto spietato con tutti i politici indagati o anche solo chiacchierati è ora tanto indulgente con Di Pietro? Perché le inchieste di Milena Gabanelli sono il Verbo quando toccano i professionisti della politica e spazzatura quando toccano quelli dell’antipolitica?

 

Azzardando una prima ipotesi benevola, si potrebbe dire questo: Grillo e il fronte giustizialista che lo sostiene non vogliono che si cada nell’equivoco del «tutti colpevoli quindi tutti innocenti». Non vogliono insomma che si corra il rischio di mettere ogni cosa e ogni persona sullo stesso piano. Questa è una preoccupazione legittima perché, effettivamente, sul motto «non facciamo i moralisti perché tanto tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare» c’è chi ci ha marciato, in questi anni.

 

Ma è chiaro che questa ipotesi benevola non basta a spiegare il motivo di tanto accanimento alla rovescia sul caso Di Pietro. Perché è certamente possibile che il leader dell’Italia dei Valori non abbia commesso alcun reato, e che possa chiarire tutto ciò che riguarda l’utilizzo del denaro ricevuto per l’attività politica. Ma è ancora più certo che, in casi analoghi e anche per molto meno, Grillo e i suoi alleati giornalistici non hanno usato la stessa clemenza. Hanno piuttosto gridato al ladro, chiesto immediate dimissioni, invocato ergastolo politico, suggerito di buttare via la chiave.

 

E allora, perché? Avanziamo un’altra ipotesi, questa. La scoperta della non impeccabilità di Di Pietro (che non impeccabile lo è a prescindere da quanto denunciato da Report: basta pensare alla scelta di tanti dirigenti sbagliati nel partito) smaschera il nulla politico che si nasconde dietro tutto quel fronte che da anni sta vivendo e lucrando sui peccati altrui.

 

Intendiamoci: meno male che c’è chi denuncia, punta il dito, s’indigna. Non ci fosse, politici e affaristi sarebbero ancor più liberi e indisturbati nelle loro razzie. Ma denunciare, puntare il dito e indignarsi, anche quando è legittimo, non è sufficiente per candidarsi a guidare un Paese. Per questo diciamo che tanta furia garantista pro Di Pietro è dovuta al fatto che quel che emerge sull’Italia dei Valori smaschera il nulla che c’è dietro a quel partito, ma anche dietro a Grillo e ai suoi sodali. Cioè dietro a tutto quel movimento di protesta che periodicamente si affaccia sulla scena di ogni nazione, denunciando (non senza ragioni) il marcio del potere, ma fermandosi lì.

 

Come si è presentato, quasi vent’anni fa, Di Pietro in politica? «Sono l’uomo dalle mani pulite». Come si chiama il suo partito. «Dei Valori». È di destra o di sinistra? «Sono onesto». Che programmi ha per la ripresa economica? «I corrotti in galera». E la sanità? «Non bisogna rubare». E l’Europa, l’America, i mercati emergenti, la questione ambientale, la bioetica? «Io non rubo». Tutto così. La verginità, anzi l’immacolata concezione come unica ragione sociale. 

 

Ecco perché quando il mito dell’onestà assoluta si rivela per quello che è - un mito, appunto - non resta più niente. A Di Pietro e al suo successore Beppe Grillo.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/02/cultura/opinioni/editoriali/grillo-e-di-pietro-il-mito-infranto-del-partito-degli-onesti-xKD1dSKUvHfGQHSzxg62xN/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:31:34 pm »

Editoriali
14/11/2012

La Controriforma

Michele Brambilla


Solo in Italia poteva succedere una cosa paradossale come quella che è accaduta ieri, quando il Senato ha approvato un emendamento presentato da Lega e Api per stabilire che la diffamazione a mezzo stampa va punita col carcere. 

 

La cosa paradossale non è tanto il contenuto di quell’emendamento, quanto il fatto che in Senato si stava discutendo della nuova legge sulla diffamazione a mezzo stampa proprio perché la politica - praticamente tutta - aveva annunciato solennemente di voler cancellare il carcere per i giornalisti. 

 

I fatti sono noti. Il direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti è stato recentemente condannato per diffamazione a un anno e quattro mesi di reclusione, senza la condizionale. La cosa ha destato scalpore soprattutto perché l’Italia è praticamente l’unico, fra i Paesi dell’Occidente democratico, a prevedere la pena del carcere per i giornalisti. Negli altri, si prevedono multe, risarcimenti e magari sospensioni temporanee dal lavoro; ma la galera, no.

 

Sull’onda emotiva del caso-Sallusti (in Italia ci si muove sempre così: su onde emotive) era dunque partita una campagna bipartisan per indurre il Parlamento a mettere fine a questa anomalia italiana: insomma a modificare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa prevedendo per i giornalisti colpevoli pene diverse dal carcere. E i politici, in coro, si erano impegnati a farla, quella modifica.

 

Così nelle scorse settimane erano cominciate riunioni, commissioni, gruppi e sottogruppi di lavoro, fino a quando era parso di trovare una quadra, come dice Bossi, e ieri in Senato doveva essere votata la nuova legge, frutto soprattutto della mediazione del parlamentare del Pdl Berselli.

 

Sennonché, ecco la sorpresa: la Lega e l’Api di Rutelli propongono un emendamento che reintroduce il carcere, e la maggioranza dei senatori (a scrutinio ovviamente segreto, perché come diceva don Abbondio il coraggio uno non se lo può dare) approva l’emendamento, reintroducendo il carcere. Ma allora, perché tutta la messa in scena di queste settimane? Non potevano lasciare la legge di prima, senza fingere di volerla cambiare? E senza perdere tempo e sperperare denaro pubblico?

 

Il perché ha una risposta precisa. Sta nel livore, nel rancore che la stragrande maggioranza dei politici nutre nei confronti dei giornalisti, colpevoli di dare spazio alle inchieste giudiziarie sul loro conto, agli scandali che li riguardano, ai guasti prodotti dalla loro incapacità di riformarsi. Così, un Parlamento tra i più disastrosi della storia d’Italia chiude la legislatura prima con una presa in giro («cambieremo la legge»), poi con un regolamento di conti.

 

Certo anche noi giornalisti siamo considerati «una casta». Su quale sia oggi il nostro effettivo potere, ciascuno è libero di pensare quello che vuole. Ma il lettore vittima di tanti luoghi comuni conosca almeno le seguenti informazioni basilari: 1) noi non abbiamo l’immunità che hanno i parlamentari; 2) noi veniamo giudicati dai tribunali ordinari, e non da organismi di autocontrollo; 3) noi veniamo regolarmente condannati per i nostri errori e le multe e i risarcimenti li paghiamo o con le nostre tasche, o con quelle dei nostri editori: mai, in ogni caso, con i fondi di un ministero come avviene per altri; 4) noi siamo, credo, l’unica categoria professionale che non può neppure assicurarsi contro i rischi del mestiere, perché la diffamazione è un reato doloso e sul dolo ovviamente non si fanno polizze.

 

Così, solo alcuni punti per fare chiarezza. E per distinguerci da chi continua a credere di avere il diritto di essere intoccabile, e che poi si lamenta se in Italia monta l’antipolitica e se basterà un Beppe Grillo per mandarli a casa.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/la-controriforma-atZyDdipPcRvNsnBBqTsTK/pagina.html
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