UMBERTO ECO.
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Umberto ECO
Una bella Compagnia
Sindrome del complotto?
Se volete un esempio su Internet c'è un sito che attribuisce tutti gli eventi del mondo (non solo contemporaneo) al complotto universale dei gesuiti
Ogni volta che in questa Bustina sono tornato sul tema della sindrome del complotto ho ricevuto lettere di persone sdegnate che mi ricordavano che i complotti esistono davvero. Ma certo che sì. Ogni colpo di stato sino al giorno prima era un complotto, si complotta per dare la scalata a una azienda rastrellando a poco a poco le azioni, o per mettere una bomba sulla metropolitana. Di complotti ce ne sono sempre stati, alcuni sono falliti senza che nessuno se ne fosse reso conto, altri hanno avuto successo, ma in generale quello che li caratterizza è che sono sempre limitati quanto a fini e area di efficacia. Quello di cui invece si parla quando si cita la sindrome del complotto è l'idea di un complotto universale (in certe teologie addirittura a dimensione cosmica), per cui tutti o quasi tutti gli eventi della storia sono mossi da un potere unico e misterioso che agisce nell'ombra.
È questa la sindrome del complotto di cui parlava Popper ed è peccato che sia passato quasi inosservatao il libro di Daniel Pipes,'Il lato oscuro della storia' tradotto nel 2005 dall'editore Lindau ma in effetti uscito nel 1997 con un titolo più esplicito, 'Conspiracy' (e come 'Come fiorisce lo stile paranoico e da dove viene'). Il libro si apre con una citazione di Metternich che pare abbia detto, apprendendo della morte dell'ambasciatore russo: "Quali saranno state le sue motivazioni?".
Ecco, la sindrome del complotto sostituisce agli accidenti e alle casualità della storia un disegno, ovviamente malvagio e sempre occulto.
Sono abbastanza lucido per sospettare talora che, a lamentare le sindromi da complotto, forse sto dando prova di paranoia, nel senso che manifesto una sindrome per cui credo che esistano ovunque sindromi da complotto. Ma a rassicurarmi basta sempre una rapida ispezione a Internet. I complottardi sono legione e talora raggiungono vette di raffinato umorismo involontario. L'altro giorno sono capitato sul sito 'www.conspiration.cc/sujets/religion/monde_malade.jesuites.html' dove appare un lungo testo 'Le monde malade des jesuites, Revue Undercover 14', di Joël Labruyère. Come suggerisce il titolo si tratta di un'ampia rassegna di tutti gli eventi del mondo (non solo contemporaneo) dovuti al complotto universale dei gesuiti.
I gesuiti del diciannovesimo secolo, da padre Barruel alla nascita della 'Civiltà cattolica' e ai romanzi di padre Bresciani sono stati tra i principali ispiratori della teoria del complotto giudaico massonico, ed era giusto che fossero ripagati della stessa moneta da parte di liberali, mazziniani, massoni e anticlericali, con la teoria appunto del complotto gesuitico, reso popolare non tanto da alcuni pamphlet, o da libri famosi, a partire dalle 'Provinciali' di Pascal a 'Il gesuita moderno' di Gioberti o agli scritti di Michelet e Quinet, ma dai romanzi di Eugène Sue, 'L'ebreo errante' e 'I misteri del popolo'.
Niente di nuovo quindi, ma il sito di Labruyère porta al parossismo l'ossessione dei gesuiti. Elenco a volo d'uccello perché lo spazio della Bustina è quello che è mentre la fantasia complottarda di Labruyère è omerica. Dunque i gesuiti sono sempre stati intesi a costituire un governo mondiale, controllando sia il papa che i vari monarchi europei, attraverso i famigerati Illuminati di Baviera (che i gesuiti stessi avevano creato denunciandoli poi come comunisti) hanno cercato di far cadere quei monarchi che avevano messo al bando la compagnia di Gesù, sono stati i gesuiti a far affondare il Titanic perché da quell'incidente gli è stato possibile fondare la Federal Reserve Bank attraverso la mediazione dei cavalieri di Malta che essi controllano - e non a caso nel naufraghio del Titanic sono morti i tre ebrei più ricchi del mondo, Astor, Guggenheim e Straus, che alla fondazione di quella banca si opponevano. Lavorando con la Federal Bank i gesuiti hanno poi hanno finanziato le due guerre mondiali che hanno chiaramente prodotto solo vantaggi per il Vaticano. Quanto all'assassinio di Kennedy (e Oliver Stone è chiaramente manipolato dai gesuiti) se non dimentichiamo che anche la Cia nasce come programma gesuitico ispirato agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che i gesuiti la controllavano attraverso la Kgb sovietica, si capisce allora che Kennedy è stato ucciso dagli stessi che avevano mandato a fondo il Titanic.
Naturalmente sono d'ispirazione gesuitica tutti i gruppi neonazisti e antisemiti, c'erano i gesuiti dietro Nixon e Clinton, sono stati i gesuiti a produrre il massacro di Oklahoma City, dai gesuiti era ispirato il cardinale Spellman che fomentava la guerra in Viet Nam, che alla Federal Bank gesuitica ha fruttato 220 milioni di dollari. Naturalmente non può mancare nel quadro l'Opus Dei, che i gesuiti controllano attraverso i cavalieri di Malta.
Devo sorvolare su tanti altri complotti. Ma adesso non chiedetevi più perché la gente legge Dan Brown. Forse ci sono dietro i gesuiti.
(11 gennaio 2008)
da espresso.repubblica.it
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Umberto Eco
Un paese diverso dagli altri
Dialogo con un amico straniero sulle dimissioni di Mastella, sul governo, sulle dichiarazioni fatte all'estero dai nostri politici, sul ruolo dell'opposizione e quello della maggioranza Ma che cosa è successo da voi nelle ultime due settimane? mi chiede l'amico straniero. Mah, rispondo, un ministro è stato accusato di concussione. Beh, dice l'amico, niente di strano, è successo anche da noi. Come ha reagito il governo? Gli ha assicurato la sua solidarietà morale, rispondo. Giusto, dice l'amico, il governo deve supporre che, sino a che non sia provato che il ministro ha davvero commesso un crimine, egli sia una persona per bene, altrimenti non l'avrebbero mai cooptato. Piuttosto, continua, l'amico, dimmi che ha fatto il ministro. Rispondo che, per essere libero di tutelare la sua onorabilità e non mettere in imbarazzo il governo, ha dato le dimissioni. L'amico osserva che siamo davvero davanti a una persona degna del massimo rispetto. Così si fa nei paesi civili.
È vero, gli dico, ma è successa una cosa strana. Quel ministro, che si trova evidentemente in aspra polemica con la magistratura che l'ha accusato, ha detto che se il governo non aderirà alla sua polemica gli ritirerà i voti del suo gruppo e lo farà cadere. Osserva l'amico che questo suona un poco come un ricatto: se il ministro aveva dato le dimissioni per potersi difendere liberamente senza coinvolgere il governo, perché allora lo coinvolge? La cosa mi fa specie, dice, anche se comprendo che il vostro è un governo che si regge sull'appoggio esterno, contrattato volta per volta, di vari gruppi, tra cui quello del ministro in questione.
No, correggo: al governo c'è una 'unione' di partiti che si sono presentati alle elezioni sotto la stessa bandiera perché condividevano tutti alcuni sacri principi e tutti si opponevano a quello che consideravano il malgoverno precedente. Mi domanda l'amico: compreso il gruppo del ministro dimissionario? Certo, rispondo. E dunque, insiste l'amico, il ministro di cui si parla aveva aderito alla unione per motivi ideali ed era, sia pure in senso metaforico, disposto a battersi sino all'ultimo per il trionfo di quei principi ideali. E come no, rispondo io. E allora, si stupisce l'amico, perché nel momento in cui viene accusato il ministro non crede più in quei principi ideali e minaccia di far cadere quel governo per sostenere il quale è stato eletto?
Non sapendo cosa rispondere, prego l'amico di cambiare argomento. Egli mi chiede allora come mai quando un nostro uomo politico, compresi gli uomini di governo, fa un viaggio e viene intervistato all'estero, anziché farsi interprete degli interessi del nostro paese presso il paese ospite, rispondendo alle domande dei giornalisti locali, risponde invece alle domande dei giornalisti italiani, che tra l'altro non si vede perché abbiano fatto un viaggio così costoso per domandare al politico cose che avrebbero potuto domandargli in patria. E nel rispondere a quelle domande il politico parla di cose di casa propria, lanciando dei messaggi sovente minacciosi non solo ai suoi avversari ma spesso anche ai propri colleghi di partito o di governo. Mi dice l'amico che nel resto del mondo civile, se un uomo di governo deve fare una dichiarazione importante, non fa del turismo ma resta nel proprio paese e convoca una conferenza stampa o addirittura lancia un messaggio alla nazione, come fa spesso il presidente Bush; oppure parla in parlamento, che è la sede deputata per dichiarazioni che concernono la politica nazionale. Vedi, gli spiego, se il nostro politico parla in una conferenza stampa o in parlamento, il suo discorso viene registrato parola per parola, e dopo non può più smentire quello che ha detto. Invece parlando all'estero, la sua voce arrivando in patria attraverso la mediazione di cronisti, può sempre dire di essere stato frainteso. Ma perché un politico desidera essere frainteso, mi domanda l'amico? Confesso che anche su questo punto non ho una risposta convincente. In ogni caso gli faccio notare che è importante per un nostro politico parlare all'estero, perché noi siamo dei provinciali e quello che si dice a Roma fa meno notizia di quello che si dice a Mombasa. Per questo i nostri politici fanno tanti viaggi all'estero, magari con famiglia - la cui unità va salvaguardata.
Sembrate quasi un paese diverso dagli altri, dice l'amico. Per esempio, perché sin dal primo giorno dopo le elezioni, pare che il fine dell'opposizione nel vostro paese sia fare cadere il governo, tanto che la sua caduta viene richiesta e annunciata ogni giorno? Ma come, domando, il fine di una opposizione non è quello di fare cadere il governo in carica? Assolutamente no, almeno da noi, risponde l'amico. In democrazia il fine dell'opposizione è, poiché il governo è stato eletto, tallonarlo giorno per giorno, per fargli migliorare le leggi, per impedirgli di prevaricare. Se l'opposizione perde tempo ogni giorno per architettare piani per far cadere il governo, non ha tempo per studiare i progetti alternativi che dovrebbe opporgli, o le critiche circostanziate e continue alla sua azione, per correggerla.
Devo ammettere che ha ragione, anche perché da noi, per far cadere il governo, non è indispensabile l'opposizione, basta la maggioranza.
A questo punto devo ammettere che effettivamente sembriamo un paese diverso dagli altri.
(25 gennaio 2008)
da espresso.repubblica.it
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Umberto Eco
Né col Sessantotto né col Settantotto
Quel che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione sull'infanzia maltrattata, fustigasse a sangue alcuni bambini sulla pubblica piazza Amos OzIniziano le rievocazioni-celebrazioni-glorificazioni-demonizzazioni del Sessantotto. Ne vedremo delle belle. Per cominciare, domenica scorsa un importante quotidiano attribuiva all'onorevole Casini la frase "Il '68 ci ha lasciato in eredità lo slogan 'né con lo Stato né con le Brigate rosse'". Io non mi fido mai di quello che leggo sui giornali ma, anche se Casini non avesse mai pronunciato quella frase, l'avrebbe scritta il cronista che gliela ha attribuita per sintetizzare il suo pensiero, ritenendola sensata. Ora, se vogliamo riflettere sul '68, comportiamoci da storici, non da comari. Una frase del genere non poteva essere pronunciata nel '68 anzitutto perché all'epoca le Brigate rosse non esistevano ancora, e in secondo luogo perché, si dice, fu pronunciata da Leonardo Sciascia (che certamente sessantottino non era) ai tempi dell'affare Moro - e dunque dieci anni dopo.
Se andate ora a ricercarla su Internet vedete che alcuni l'attribuiscono a Lotta continua altri persino a Moravia, troverete che Sciascia ha poi cercato di spiegare in che senso la si poteva intendere, e che all'epoca intorno a questa frase c'era stata amplissima polemica, e dunque se si deve riflettere non dico sul '68, ma su tutto il decennio successivo, che si torni alle fonti, altrimenti ci attende un anno di rievocazioni deliranti tipo "nonno, quand'è l'ultima volta che sei andato in mona?" (e il nonno fa il verso del lupo).
Dopo questa profondissima riflessione, l'ultima che nel corso di quest'anno farò su quell'anno preterito, passiamo a cose più tristi - ma che forse con il sessantottismo deteriore hanno qualche vaga parentela - e mi riferisco all'incrocio di proteste, veti, ukase nati intorno all'invito fatto dal Salone del Libro di Torino a scrittori israeliani, e in particolare a scrittori antiguerrafondai e fondamentalmente pacifisti come Amos Oz, David Grossman o Abraham Yehoshua
Tutti ormai sapete la storia, il Salone di Torino, che nel corso degli anni ha invitato scrittori di tutti i paesi, non dovrebbe invitare gli scrittori israeliani perché il governo di Israele merita numerose censure - alcune delle quali non io, ma gli stessi scrittori israeliani sono disposti a condividere. Ora forse i lettori affezionati di questa rubrica ricorderanno che nel gennaio 2003 avevo denunciato la decisione di Mona Baker, stimabile studiosa di traduttologia e direttrice della rivista 'Translation Studies Abstracts' la quale, non condividendo la politica del governo israeliano (suo diritto) aveva invitato a dimissionare i due studiosi israeliani che facevano parte del comitato direttivo della rivista (e, badiamo, ai quali riconosceva di aver varie volte espresso giudizi critici nei confronti del loro stesso governo) all'insegna di un "richiamo al boicottaggio delle istituzioni di ricerca israeliane".
La decisione della signora Baker era (oltre che vagamente nazista) delirante perché era un poco come se, negli anni Quaranta, un buon democratico antinazista, avesse deciso di mandare al rogo le opere di Thomas Mann, e magari di Goethe. Ma non ci sono limiti al peggio, ed ecco la polemica intorno al Salone del Libro.
Se essa fosse condotta solo da fondamentalisti amici di Bin Laden, niente da obiettare, sono fanatici che non fanno altro che ripetere che se dipendesse da loro su Israele lancerebbero una bomba atomica, e non ci si può attendere da costoro un comportamento da intellettuale illuminato. Ma la protesta contro il salone è venuta anche da rappresentanti della sinistra italiana, come se nulla avessero mai appreso dai roghi nazisti delle opere di arte degenerata, e secoli di cultura umanistica non avessero loro insegnato che un conto è la politica di un governo e un conto è la letteratura o la scienza praticata dai sudditi di quel governo.
Io capisco benissimo il rozzo ragionamento che certi amici della sinistra estrema (che ormai per rotazione di trecentosessanta gradi stanno avvicinandosi pericolosamente alla destra estrema) hanno fatto: siccome bisogna richiamare l'attenzione dei cittadini sulla nefasta politica del governo di Israele, facciamo scoppiare uno scandalo che finirà sulle prime pagine di tutti i giornali. D'accordo, in politica e in tecnica della pubblicità si fa anche così (Berlusconi è maestro), ma quello che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione della pubblica opinione sui maltrattamenti a cui sono sottoposti i bambini, ne fustigasse alcuni a sangue sulla pubblica piazza. Non mi pare che sia così che si fa, perché due torti non fanno una ragione.
Mi pare che stiamo perdendo la sinderesi, che nel De Mauro viene definita come (in filosofia medievale) la naturale capacità dell'animo umano di distinguere immediatamente il bene dal male e di avere consapevolezza della legge morale, ed estensivamente come capacità di giudizio e discernimento, per cui perdere la sinderesi significa perdere la bussola, non essere in grado di ragionare.
(11 febbraio 2008)
da espresso.repubblica.it
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Umberto Eco
Tredici anni mal spesi
Diceva Oliver Wendell Holmes jr: "Il segreto del mio successo è che da giovane ho scoperto di non essere Dio". Sono pensieri che mi vengono in questo inizio di campagna elettorale Oliver Wendell HolmesL'altro giorno un intervistatore mi ha domandato (e molti lo fanno) quale fosse il libro che mi aveva più influenzato nella mia vita. Se nel corso dell'intera mia vita un solo libro mi avesse definitivamente influenzato più degli altri, sarei un idiota - come molti che rispondono a questa domanda. Ci sono libri che sono stati decisivi per i miei vent'anni e altri che hanno deciso dei miei trenta - e attendo con impazienza il libro che sconvolgerà i miei cento anni. Un'altra domanda impossibile è: "Chi le ha insegnato qualcosa di definitivo nella sua vita?". Non so mai rispondere perché (a meno di non dire "papà e mamma") a ogni tornante della mia esistenza qualcuno mi insegnava qualcosa. Potevano essere persone che stessero accanto a me o alcuni cari defunti come Aristotele, San Tommaso, Locke o Peirce.
In ogni caso ci sono stati insegnamenti non libreschi di cui posso dire con sicurezza che hanno cambiato la mia vita. Il primo è stato quello della signorina Bellini, la mia meravigliosa insegnante di prima media, che ci dava, da preparare per il giorno dopo, considerazioni su parole stimolo (come gallina o bastimento) da cui fare partire una riflessione o una fantasia. Un giorno, preso da non so quale demone, ho detto che avrei sviluppato seduta stante qualsiasi tema mi avesse proposto. Lei ha guardato sulla sua cattedra e ha detto "taccuino". Col senno di poi, avrei potuto parlare del taccuino del giornalista, o del diario di viaggio di un esploratore salgariano, eppure sono salito baldanzoso sulla pedana e non ho saputo aprire bocca. La signorina Bellini mi ha insegnato allora che non bisogna mai presumere troppo dalle proprie forze.
Il secondo insegnamento è stato quello di don Celi, il salesiano che mi ha insegnato a suonare uno strumento musicale, e pare che ora vogliano farlo santo (non per questa ragione, che anzi potrebbe essere usata contro di lui dall'avvocato del diavolo). Il 5 gennaio 1945 sono andato tutto pimpante da lui e gli ho detto "Don Celi, oggi compio tredici anni". Lui mi ha risposto in tono burbero: "Molto mal spesi". Che cosa voleva dire con quella battuta? Che giunto a quell'età venerabile dovevo iniziare un severo esame di coscienza? Che non dovevo sperare di essere lodato per aver fatto semplicemente il mio dovere biologico? Forse era solo una normale manifestazione di senso piemontese del contegno, un rifiuto della retorica, persino delle congratulazioni di maniera. Però credo che don Celi sapesse, e mi insegnasse, che un maestro deve sempre mettere in crisi i suoi allievi, e non eccitarli più del dovuto.
A seguito di quella lezione sono stato sempre parco di elogi con chi se li attendeva da me, salvo casi eccezionali di gesta inattese. Forse con questo contegno ho fatto soffrire qualcuno, e se è così ho mal speso non solo i miei primi tredici ma anche i miei primi settantasei anni. Ma ho certamente deciso che il modo più esplicito di esprimere la mia approvazione era non fare un rimprovero. Se non c'è rimprovero significa che qualcuno ha fatto bene. Mi hanno sempre irritato espressioni come 'il papa buono' o 'l'onesto Zaccagnini', che lasciavano solo pensare che gli altri pontefici fossero malvagi e gli altri politici disonesti. Giovanni XXIII e Zaccagnini facevano semplicemente quello che ci si attendeva da loro e non si vede perché dovessero essere particolarmente congratulati.
Ma la risposta di don Celi mi ha anche insegnato a non inorgoglirmi troppo, qualsiasi cosa abbia fatto io, anche se la ritengo giusta, e soprattutto di non andare troppo a inorgoglirsi in giro. Questo significa che non bisogna tendere al meglio? Certamente no, ma in qualche strano modo la risposta di don Celi mi rinvia a un detto di Oliver Wendell Holmes jr. che ho trovato non so più dove: "Il segreto del mio successo è che da giovane ho scoperto di non essere Dio". È molto importante capire di non essere Dio, e dubitare sempre dei propri atti, e ritenere sempre di non avere speso abbastanza bene gli anni vissuti. È l'unico modo per tentare di spendere meglio quelli che restano.
Mi chiederete perché mi vengono in mente queste cose proprio in questi giorni. È che è iniziata la campagna elettorale e in questi casi per avere successo bisogna comportarsi un poco da Dio, e cioè dire delle cose compiute, come il creatore dopo la creazione, che erano 'valde bona', e manifestare un certo delirio di onnipotenza dichiarandosi sicuramente capaci di farne delle migliori (mentre Dio si è contentato di avere creato il migliore dei mondi possibili). Per carità, non moralizzo, per fare una campagna elettorale bisogna fare così, ve lo immaginate un candidato che va a dire ai futuri votanti "sì, sino ad ora ho fatto castronerie, e non sono sicuro che farò meglio in futuro, vi prometto solo che ci provo"? Non sarebbe eletto. Quindi, ripeto, nessun falso moralismo. Solo che ascoltando i vari telecomizi mi viene da pensare a don Celi.
(22 febbraio 2008)
da espresso.repubblica.it
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Umberto Eco.
Un ghiottone di parole
Camporesi ha studiato costumi e comportamenti connessi col corpo, il cibo, il sangue, le feci, il sesso. Ha scoperto o rivalutato testi ignorati perché si occupavano di cose 'basse' Dieci anni fa moriva Piero Camporesi, che proprio nei giorni scorsi è stato ricordato in due occasioni. Una a Milano, per l'uscita di un numero a lui dedicato della rivista 'Riga', curato da Marco Belpoliti, l'altra a Forlì, in un convegno di ben tre giorni dedicato alla sua opera e alle sue molte traduzioni in varie lingue. Una Bustina non basta a riportare tutti i titoli delle sue opere, uno più affascinante dell'altro, e andateveli a cercare su Internet.
Camporesi nel corso di una quindicina di volumi ha studiato costumi e comportamenti connessi col corpo, il cibo, il sangue, le feci, il sesso, come farebbe uno storico della vita materiale. Ma gli unici documenti su cui ha sempre lavorato, erano testi che appartengono alla storia della letteratura. Salvo che egli ha scoperto o rivalutato testi che le storie della letteratura hanno per lo più ignorato, perché si occupavano di cose 'basse' come la cucina, la medicina, o l'agricoltura. Camporesi ha passato invece la vita a rileggerli come testimonianze di un modo di vivere, per lo più ignoto e sotterraneo.
Così ci ha raccontato come nei secoli passati il mondo fosse abitato da vagabondi, saltimbanchi, guaritori, ladri, assassini, pazzi illuminati da Dio, falsi lebbrosi e lebbrosi veri, ha ritrovato i sogni millenari di un paese di Cuccagna, nati in popolazioni oppresse dalla fame, ha riscoperto i riti del carnevale, dei Sabba stregoneschi, delle allucinazioni diaboliche, ha riportato alla luce pagine da cui si comprende come nel passato si avesse una idea diversa del proprio corpo, dell'odore di un formaggio, del sapore del latte, ha riletto i passaggi dei predicatori religiosi che parlavano dell'Inferno e dei suoi patimenti (il che significava riscoprire una visione del corpo come luogo e occasione di dolore, supplizio, sofferenze interminabili).
Ha guardato come gli uomini mangiavano, cuocevano, come schioccavano la lingua deglutendo, come si eccitavano sessualmente attraverso unguenti ed elisir, come nel Diciottesimo secolo fossero state accolte quelle bevande esotiche e (allora) meravigliose che erano il caffè e il cioccolato, come lavorassero i minatori, i tessitori, i barbieri, i chirurghi, i medici e i guaritori, quale fosse l'immagine del povero, del diseredato, del mascalzone, del ladro, dell'assassino, del disperato, ci ha parlato del modo in cui i corpi venivano amati, squartati, nutriti, anatomizzati, divorati, rifiutati, umiliati, e si è soffermato su fibre, intestini, bocche, bubboni, vomiti e prelibatezze.
Tutto insieme? Sì, perché Camporesi, che si occupasse di delizie culinarie o di putredini da lazzaretto, era eminentemente un buongustaio di parole, che lo affascinavano sia che parlassero della crema che delle feci. E valga come assaggio questo stralcio, non si sa se ghiotto o schifato, di elogio e condanna del formaggio.
"Per parecchi secoli e da parte di molti si ritenne che la malignità intrinseca del formaggio, la sua 'nequizia', venisse preavvertita e segnalata dal suo odore, per non pochi nauseabondo e stomachevole, indice sicuro di materia 'morticina', di residuo in decomposizione, materia sfatta e deleteria, sostanza putredinosa nociva alla salute e terribile corruttore degli umori. scrematura della parte escrementizia del latte, delle scorie nocive, coagulo della parte infima, melmosa e terrestre del bianco liquido, copula. delle peggiori sostanze, al contrario del burro che ne è la parte migliore, eletta, pura. 'Res foeda, graveolens, immunda, putridaque', il formaggio niente altro è che. cibo da lasciare agli uomini di vanga e ai poveracci. indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto, in una parola, di straccioni e villani, soliti a mangiare brutti cibi...
I mangiatori di formaggio appaiono a Pietro Lotichio simili a degenerati amatori e sordidi degustatori delle sostanze putrefatte. Cibandosene si metteva in moto un meccanismo incontrollabile di moltiplicazione di quei vermi che, anche normalmente, 'in viscerium latibulis pullulant'. Questa era l'orribile verità: il formaggio generava negli oscuri meandri dei visceri, nelle latebre del budellame umano, incrementandone la preesistente putredine, piccoli, schifosi mostri... Se dalla putredine si formavano spontaneamente, casualmente lumache e chiocciole; se dal letame bovino scaturivano scarafaggi, bruchi, vespe, fuchi; se dalla rugiada uscivano farfalle, formiche, locuste, cicale, come poteva non accadere - si chiedeva il medico tedesco - che negli intestini dell'uomo, viscidi di pituita, di residui di decomposizione, non si verificasse lo stesso processo che dava vita incontrollata e sorprendente (al di fuori della copula e dell'inseminazione dell'uovo) a miriadi di orridi animalcula? Perché non ritenere che anche nel basso ventre, letamaio dell'uomo, non fermentasse la stessa immondizia, la stessa brulicante equivoca fauna dei 'piccoli animali', degli 'animaluzzi', piaga crudele dell'uomo?".
(07 marzo 2008)
da espresso.repubblica.it
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