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Autore Discussione: FRANCESCO MANACORDA.  (Letto 29714 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 05, 2013, 06:52:59 pm »

Editoriali
05/02/2013

La paura di un Paese in stallo

Francesco Manacorda


«Il rischio di ingovernabilità rimane secondo noi molto alto». «Il rischio di instabilità politica è aumentato sostanzialmente». «La coalizione di centro-destra, secondo i sondaggi più recenti, è appena il 5% sotto il centrosinistra e questa ultima proposta (la promessa di rimborsare l’Imu, ndr) mira a ridurre ulteriormente il divario». Le tre frasi che avete appena letto sono state scritte ieri, in inglese, in altrettanti rapporti firmati da Deutsche Bank, Nomura e Mediobanca.

 

Sono frasi che per qualsiasi elettore italiano appaiono scontate: da settimane leggiamo pronostici sulla probabilità di un governo Vendola-Bersani-Monti a geometria variabile con tutti i «rischi di ingovernabilità» che ne deriverebbero; da settimane sentiamo le dichiarazioni del centrodestra certificate in parte anche dai sondaggi, sulla rimonta di Silvio Berlusconi che mentre il traguardo delle elezioni si avvicina potrebbe insidiare un centro-sinistra finora sicuro della vittoria. 

Eppure queste constatazioni banali, che ieri mattina a inizio settimana sono planate sui computer degli operatori di Borsa di tutto il mondo, hanno contribuito a innescare una giornata nerissima per Piazza Affari e per i nostri titoli di Stato.

 

La Borsa ha chiuso in ribasso del 4,5% mentre lo spread - ossia la differenza di rendimento - tra i Btp decennali e i Bund tedeschi, che a inizio giornata era a quota 261, ha chiuso la seduta a 287 punti. Il livello più alto dall’inizio dell’anno. Solo cinque giorni fa, era il 30 gennaio, le aste dei Btp a cinque e dieci anni avevano visto i rendimenti tornati al livello di fine 2010. Ora, invece, l’allarme risale. 

 

Le paure dei mercati finanziari, cui danno voce anche giornali come il Wall Street Journal e il Financial Times, sono dunque sostanzialmente politiche e vertono su un «fattore S», come Silvio. Va detto che alle promesse elettorali di Berlusconi sull’Imu nessuno, nelle sale operative di Londra o di Milano, crede davvero. Del resto se anche l’ex ministro e sodale Giulio Tremonti ammette che ci sarebbero problemi per i conti pubblici nel trovare 8 miliardi (4 di Imu da restituire e altri 4 per rimpiazzare quel gettito mancante), appare difficile che qualcun altro possa prendere sul serio l’idea. Ma è vero che l’ultima sortita di Berlusconi, che secondo Nomura può valere almeno un paio di punti di risultato elettorale, aumenta ancora la difficoltà di «leggere» in anticipo un esito chiaro delle urne e incrementa i rischi di uno stallo politico. E questo per chi opera in Borsa e sui titoli di Stato - di solito la finanza non apprezza le sorprese a meno che non sia lei a organizzarle - è un male. 

 

I timori per l’instabilità politica non riguardano però solo l’Italia e i timori per l’Italia non riguardano solo l’instabilità politica. Anche nella Spagna flagellata dalle polemiche per i presunti «fuori busta» pagati a mezzo governo del premier Mariano Rajoy la Borsa affonda, seppur meno che da noi, e lo spread tra i titoli locali e quelli tedeschi sale. E anche in questo caso i timori riguardano la tenuta di un possibile governo che succeda all’attuale esecutivo guidato dai Popolari e il rischio di un ammorbidimento delle politiche di rigore fiscale proprio in quella area dell’Europa mediterranea - Italia e Spagna - che ha i conti meno in ordine. 

 

In quanto al nostro Paese, nello «spread» di credibilità che allontana gli investitori, specie dalla Borsa, pesa ovviamente anche un caso come Mps. La magistratura indaga su ipotesi che vanno da una tangente passata di mano nell’affare Antonveneta a possibili «stecche» su operazioni finanziarie prese da alcuni manager. Spetterà ai giudici decidere le responsabilità penali, ma intanto l’affare della banca senese offre al mondo pittoreschi quadretti italiani che piacciono poco: confusione di ruoli tra gli azionisti - La Fondazione - e la banca; inefficienza (a dir poco) di chi come il collegio sindacale del Monte avrebbe dovuto vigilare sui conti e di chi, è il caso dei revisori, avrebbe dovuto certificare la regolarità dei bilanci; e ancora qualche perplessità sull’efficienza della vigilanza della Banca d’Italia o almeno sulle norme che regolano la sua attività. Per chi vede l’Italia da lontano è difficile fare troppe distinzioni: quello che è accaduto in una banca, si può pensare, potrebbe accadere agevolmente anche in altre. Ma sopra a tutto resta quella «political uncertainty», l’incertezza politica, che campeggia su tutti i rapporti delle banche d’affari: chi si occupa d’Italia a Londra o a Wall Street vorrebbe che fosse già il 25 febbraio. 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/05/cultura/opinioni/editoriali/la-paura-di-un-paese-in-stallo-PcSX0AShH8OwFF7NVVEaAL/pagina.html
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:47:19 pm »

Economia
27/03/2013 - il caso

Le imprese sono allo stremo “Non si può più perdere tempo”

Buzzetti (Ance): “In due anni sono saltate oltre 10 mila aziende edili”

Francesco Manacorda
Milano


«Sono convinto che a metà anno molte piccole e medie imprese tireranno giù il bandone, come diciamo noi in Toscana». Dall’avamposto pistoiese del Consorzio Leonardo Servizi - 16 imprese, dalle pulizie all’impiantistica, con un fatturato aggregato che supera i 100 milioni di euro - il presidente Gino Giuntini vede la maratona per i rimborsi dei crediti della pubblica amministrazione come una gara dove molti cadranno ben prima del traguardo». Andrea Bolla, presidente di Confindustria di una Verona relativamente felix: «Quello che mi dà fastidio è che ancora una volta stiamo dibattendo sul se pagare, invece di concentrarci sul come pagare. Ma che il settore pubblico non paghi i propri debiti semplicemente non è più un’opzione». 

 

Le schermaglie euro-italiane sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, insomma, si infrangono contro un fronte assai composito, ma molto compatto, fatto di imprenditori piccoli e grandi. C’è chi fa le pulizie nelle scuole e si scontra contro «questi maledetti patti di stabilità degli enti locali», come dice ancora Giuntini, ma ci sono anche i costruttori edili che - spiega il presidente della loro associazione Paolo Buzzetti - «hanno avuto negli ultimi due anni 10.400 fallimenti. Siamo in una situazione che non è più compatibile con nessuna perdita di tempo». Dopo una prima ondata di entusiasmo, mentre il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi spiegava che la ripresa dei pagamenti avrebbe portato un aumento del Pil dell’1% e 250 mila posti di lavoro in cinque anni, adesso tra le imprese pare prevalere l’ansia per quei pagamenti - settanta miliardi di euro come dice bankitalia? Oppure di più? anche il fatto che nessuno sia mai riuscito o abbia voluto censirli è significativo - che non arrivano mai all’incasso. 

 

Dopo che le commissioni parlamentari avranno approvato la relazione di aggiornamento del Def, toccherà al ministero dell’Economia emanare il suo decreto, che dovrebbe dare una prima indicazione sulle priorità con cui procedere al rimborso dei debiti della pubblica amministrazione. Ma in ogni caso anche al ministero ammettono che i primi soldi arriveranno dopo giugno, forse addirittura a settembre. «E’ una soluzione assolutamente insoddisfacente - attacca Franco Tumino che guida l’Anseb, l’associazione delle imprese che emettono buoni pasto - anche perché già oggi il ritardo medio per i pagamenti per noi va tra un anno e un anno e mezzo. Prendere un impegno non per tutti i debiti, ma per 20 miliardi soli, e poi rimandare i pagamenti a fine anno significa lasciare più o meno le cose come stanno». «Se tutti andassero nella stessa direzione si potrebbe anche aspettare fino a settembre - commenta Gabriele Vitali, che si occupa del commerciale nell’emiliana Effe Gi impianti di cui il padre è uno dei soci - ma le banche dovrebbero seguire le aziende nel percorso. Invece sono troppo tirate e se il primo del mese ti chiedono di rientrare dagli affidamenti tu fallisci, anche se hai già fatto il lavoro e aspetti i soldi». La Effe Gi, poco più di cinque milioni di fatturato nell’impiantistica, molti clienti pubblici, è un buon esempio della sfida che una fattura rappresenta per una piccola impresa: «Un anno e mezzo fa ci siamo salvati - dice Vitali - perché avevamo tenuto i soldi in azienda. I crediti verso clienti sono l’80% circa del nostro fatturato e la rotazione del nostro capitale è di 333 giorni. Insomma, i soldi li pigliamo dopo un anno». 

 

Le schermaglie, a dire il vero, sono anche italo-italiane. Il piano che permette alle imprese di scontare in banca i crediti verso la pubblica amministrazione, voluto dal ministro dell’Economia Corrado Passera è stato finora un flop. Poche centinaia i casi in cui è stato utilizzato. «Senza contare che - dice ancora Tumino - scontare i crediti significa avere oneri finanziari a carico delle imprese e un peggioramento dello stato patrimoniale».Per il ministero dello Sviluppo Economico è presto per valutare il successo o l’insuccesso dello strumento, visto che ha cominciato a funzionare solo da inizio gennaio. Inoltre la pubblica amministrazione di cui si vuole ottenere la certificazione del debito deve essere registrata in un sito apposito. E se per chi non si registra non ci sono sanzioni - si spiega - è difficile pensare che Asl e Comuni facciano la fila per iscriversi. Anche Bolla, da Verona conferma che finora i suoi associati hanno incontrato «problemi burocratici». 

 

All’Economia, del resto, vivono con qualche insofferenza l’attivismo di Passera su questo versante e si concentrano sulla tenuta dei bilanci pubblici sui quali Bruxelles, come si è visto, non fa grandi sconti. Ma certo l’alternativa tra ripresa e rigore è sempre più evidente per gli imprenditori che a gran voce chiedono i crediti che gli spettano da tempo. «In fondo - dice ancora Giuntini - meglio pigliare un ceffone
dall’Europa che finire strangolati». 

da - http://lastampa.it/2013/03/27/economia/ma-le-imprese-lanciano-un-sos-non-si-puo-piu-perdere-tempo-87c0Gy3joqf0PcLKjZd7sJ/pagina.html
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 04, 2013, 06:10:35 pm »

Editoriali
04/04/2013

È l’ora di soluzioni chiare

Francesco Manacorda


No, non è un buon segnale quello che arriva dal rinvio - si spera di pochissimi giorni - del Consiglio dei Ministri che ieri avrebbe dovuto approvare il decreto per sbloccare una parte dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. 

 

Non lo è per almeno due motivi: il primo, e il più ovvio, è che su questa materia bollente ed essenziale non per lo sviluppo, ma per la sopravvivenza, di molte aziende non sono più ammissibili ulteriori ritardi, esitazioni o soluzioni pasticciate; il secondo motivo è che lo stop improvviso al decreto è stato determinato in buona sostanza dai dubbi espressi dalle stesse imprese sull’efficacia dei meccanismi previsti dal governo per i pagamenti. Sono loro che esaminando la bozza del testo in circolazione fino a ieri, si sono trovate davanti un meccanismo poco efficiente e hanno trasferito i loro dubbi all’esecutivo, che ha preferito rimandare il via libera al testo. Tra le critiche delle imprese un eccesso di burocrazia nelle procedure per i rimborsi e il fatto che in molti casi gli enti locali fossero non incentivati, ma addirittura disincentivati, a pagare i loro debiti. Questo perché, secondo la bozza, il Comune che per pagare i propri creditori avesse chiesto di attingere al fondo creato dal ministero dell’Economia si sarebbe poi visto restringere in maniera significativa negli anni successivi la possibilità di effettuare spese correnti o di indebitarsi per fare investimenti. 

 

Dunque, quello che doveva essere un provvedimento fondamentale per rimettere in moto il Paese viene frenato appena prima della linea del traguardo proprio da quei soggetti che dovrebbero beneficiarne e che hanno invece la motivata convinzione che in questo modo si aprirebbero nuovi contenziosi e che quella certezza di cui le imprese hanno bisogno rischierebbe di svanire di nuovo. Tra le poche note positive c’è invece da prendere atto che la frenata del governo pare sancire anche la scomparsa di un’ipotesi - di sicuro recessiva - come l’aumento delle addizionali regionali dell’Irpef proprio per finanziare il rimborso dei debiti. 

 

Adesso c’è solo da augurarsi che il rinvio serva per rendere lo strumento dei rimborsi un’arma efficace - senza soluzioni troppo arzigogolate - per fare fronte alla crisi e dare un puntello, uno almeno, per cercare di uscire dal pantano della recessione italiana. Non a caso di «misure urgenti» per sbloccare i pagamenti della Pubblica amministrazione aveva parlato tre settimane fa anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio dopo aver ricevuto al Quirinale il numero uno di Confindustria Giorgio Squinzi che portava dati allarmanti e inequivocabili. 

 

Ma per far sì che l’arma dei rimborsi possa servire davvero a rimettere in moto l’economia c’è probabilmente ancora da fare anche a Bruxelles. Alla Commissione europea il premier Mario Monti ha dato assicurazione ufficiale che l’avvio dei pagamenti non porterà l’Italia a sforare la soglia del 2,9% del rapporto tra deficit pubblico e Pil. Con le regole attuali è giusto farlo. Ma forse è il caso di pensare se le regole attuali sono le più adatte per affrontare una situazione che ha dello straordinario: nel solo Paese del G7 dove (è l’Ocse a dirlo) nel primo trimestre del 2013 il Pil è sceso invece di salire, nell’Italia in cui - lo abbiamo raccontato ieri parlando della provincia di Savona - l’anticipo della cassa integrazione si estrae a sorte tra i lavoratori, i criteri di Maastricht rischiano sempre più di apparire come un vuoto feticcio. Attorno a noi ci sono esempi che vanno dalla Francia, dove la soglia del 3% viene sfondata con il benestare di Bruxelles, alla Spagna che spinge anch’essa il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, ma con regole contabili che incidono assai meno sul deficit. Monti potrebbe giocare ancora la sua credibilità per cercare in Europa una soluzione più attenta alle esigenze italiane? Difficile pensarlo, visto che sulla futura maggioranza e sull’esecutivo, ammesso che ci sia, è ancora buio pesto. E anche questo, dunque, è un prezzo che paghiamo per l’ingovernabilità.

da - http://lastampa.it/2013/04/04/cultura/opinioni/editoriali/e-l-ora-di-soluzioni-chiare-IbceSn9sfTaeHe0KgYx2WN/pagina.html
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 14, 2013, 07:24:10 pm »

Editoriali
14/04/2013

Il dramma della doppia povertà

Francesco Manacorda


E’ un dato incoraggiante o invece avvilente che nello stesso giorno, sebbene con toni diversi, il Pd e la Confindustria - assai distanti tra loro - parlino entrambi di povertà? 

Il Pd lo ha fatto con una manifestazione in più città, dedicata alla «Povera Italia». Il mondo delle imprese, riunito a Torino, ha affrontato di fatto il tema della povertà ricordando da una parte l’impoverimento del tessuto industriale del Paese - le aziende che chiudono, avverte il loro presidente Giorgio Squinzi, rappresentano «capitale sociale perso definitivamente» - e dall’altra ha guardato in faccia anche la povertà dei suoi (talvolta ex) dipendenti, dibattendo sul palco con i segretari generali di Cgil e Cisl sulle possibili mosse in comune per far fronte all’emergenza economica.

 

La manifestazione contro la povertà organizzata da un partito che ha ambizioni - per ora frustrate - di governo si presta ovviamente a ironie anche feroci. Perché organizzare raduni nei cinema invece di muoversi sul terreno dell’agire? Il Pd lo ha fatto, spiega, per illustrare di nuovo le sue proposte a favore dell’occupazione e del Welfare, contenute negli otto punti che ha lanciato dopo le elezioni. Punti che, segnalano molti anche a sinistra, vanno però ancora riempiti di contenuti.

 

Del resto anche la grande alleanza tra produttori, il «patto della fabbrica», che dovrebbe unire imprenditori e dipendenti e sul quale Confindustria ha molto insistito nella due giorni torinese è una formula da riempire di contenuti. Lo ha ricordato ieri proprio il leader della Cgil Susanna Camusso spiegando che il suo sindacato può fare un tratto di strada con gli imprenditori, ma a patto che si parli di redistribuire i carichi del Fisco e del lavoro. In sostanza la Cgil apre sì cautamente alla Confindustria - non bisogna dimenticare che la Camusso ha una situazione interna al suo sindacato tutt’altro che facile da gestire - ma vuole una mediazione tra gli interessi dei suoi associati (ad esempio sgravi sul lavoro dipendente e maggior ricorso ai contratti di solidarietà) e quelli delle aziende.

 

Sulla diagnosi di un’Italia malata di poco lavoro e di povertà in aumento non possono esserci dubbi. Se serve qualche cifra l’Istat ne ha date in abbondanza, a partire da quel 19,5% di italiani che già nel 2011 erano a rischio povertà; una percentuale che arriva al 28,4% se si aggiunge il rischio di esclusione sociale. E sulle terapie quale accordo c’è? Il minor peso delle imposte su lavoro è una ricetta che piace a molti: ai «saggi» che hanno appena finito il loro lavoro di proposta per un prossimo governo; così come ai sindacati e alle imprese, anche se ovviamente i primi vogliono vedere soprattutto salire il netto in busta paga e i secondi chiedono invece che scenda il lordo da pagare. Sarebbe un terreno sui cui muoversi, diciamo su cui un governo potrebbe muoversi, anche se le risorse necessarie dovrebbero venire da operazioni non indolori come i tagli alla spesa o da difficili trattative europee per ammorbidire i criteri di bilancio pubblico. 

 

E’ comunque bene che il maggior numero possibile di soggetti parli di problemi concreti, della doppia povertà italiana delle persone e del tessuto produttivo. Ma parlarne non basta. il rischio, tra una manifestazione e un rimpallo di responsabilità, è di considerare ormai esaurita del tutto la possibilità di fare quello che la politica sarebbe delegata a fare - formare alleanze di governo e trovare soluzioni ai problemi - per scivolare già verso una precampagna elettorale fatta di slogan e denunce. L’unica certezza, in questo caso, è che le prossime statistiche sul tema saranno ancora peggiori.

da - http://www.lastampa.it/2013/04/14/cultura/opinioni/editoriali/il-dramma-della-doppia-poverta-39yqR30oCIpH63TIF50YrJ/pagina.html
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 18, 2013, 04:47:57 pm »

Editoriali
18/05/2013

Se si logora la coesione sociale

Francesco Manacorda


Il lavoro che scompare, la casa che è a rischio, un futuro che spaventa. In meno di una settimana abbiamo dovuto mettere in fila, nelle cronache di un’Italia impaurita, vicende terribili: il muratore disoccupato che in Sicilia perde la casa per un debito di 10 mila euro con la banca e si dà fuoco, ustionando anche la moglie e due poliziotti, il giovane licenziato che nel Milanese uccide a sangue freddo il datore di lavoro e il figlio, l’artigiano di Savona che proprio ieri brucia in un rogo la sua vita. Storie diverse che non si possono accomunare con superficialità. 

 

E storie le cui cause stanno talvolta anche in situazioni psicologiche fragili, ma che hanno comunque un tratto comune: sono segnali di resa individuale che amplificano, seppure con un effetto di forte distorsione, la paura e il disorientamento di un’intera società. 

Dietro i suicidi degli imprenditori o dei disoccupati e la folle rabbia di chi impugna una pistola per farla finita con il datore di lavoro o con lo Stato - sia esso rappresentato dalle povere impiegate della Regione Umbria uccise in marzo, o dai Carabinieri attaccati mentre erano di servizio davanti a Palazzo Chigi - si legge il logorarsi della coesione sociale, di quel meccanismo che quando funziona è fatto di mille fili spesso impalpabili ma che tutti assieme resistono alle tensioni e permettono di non abbandonare al suo destino chi non ce la fa. 

Non è un problema solo economico, ma è anche un problema economico. A cinque anni dall’inizio della grande crisi finanziaria e dopo almeno un ventennio che l’Italia paga - anche e soprattutto in termini di posti di lavoro - le sue carenze di produttività, non c’è del resto da stupirsi se gli effetti della crisi si fanno sentire soprattutto su quel grande ammortizzatore sociale che è - o è stata - la famiglia. Uno studio pubblicato in febbraio dalla Banca d’Italia su «Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane» segnala come solo nel periodo 2008-2010 la loro capacità di risparmio sia scesa sotto la media dell’area euro e avverte che «nel 2010 il 9 per cento delle famiglie italiane aveva un reddito basso e, in caso di perdita del lavoro, una ricchezza finanziaria sufficiente per vivere al livello della linea di povertà per appena sei mesi».

Chi fa informazione ha il dovere di non assuefarsi allo stillicidio di notizie tragiche, che rischiano di finire rapidamente nel calderone del già visto e già sentito. Chi fa politica ha invece il dovere di prendere questi segnali per quello che sono: episodi patologici, certamente, ma anche sottolineature violente, vere e proprie macchie, su quel diario di speranze e preoccupazioni che un intero Paese scrive in silenzio giorno dopo giorno: che ne sarà del mio posto di lavoro? Servirà far studiare i miei figli? Riuscirò a comprare una casa? 

Ricevendo l’incarico di formare il governo Enrico Letta ha messo l’occupazione, specie quella giovanile, al centro dell’azione dell’esecutivo.
Nel giorno del primo decreto che contiene delle misure destinate a ridare in qualche modo fiato all’economia la scelta è quella di concentrarsi sulla sospensione dell’Imu - punto qualificante del programma elettorale del Pdl - e sul rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga. 

Sull’efficacia di un taglio dell’Imu per aumentare il reddito disponibile delle famiglie, spingendo così i consumi, i pareri sono discordanti.
Ne abbiamo parlato con un dibattito articolato su queste pagine nelle ultime due settimane. Pare comunque difficile che i soldi che gli italiani non verseranno di acconto Imu a giugno entrino per ora - prima di sapere entro fine agosto come verrà tassata la casa - nel ciclo economico.

Il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga è un atto importante, anche alla luce delle risorse che alla fine si è riusciti a trovare, ma sostanzialmente obbligato per far fronte proprio alla caduta dell’occupazione. I provvedimenti di ieri - come Letta sa bene - sono un inizio, ma non sono che un inizio. 

da - http://lastampa.it/2013/05/18/cultura/opinioni/editoriali/se-si-logora-la-coesione-sociale-POwjktVWEXlaa7T8ciCZvO/pagina.html
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 24, 2013, 03:48:27 pm »

Editoriali
24/07/2013

Le riforme che chiedono gli investitori

Francesco Manacorda

Un fremito di vita in un Paese bloccato. L’accordo annunciato ieri, che introduce maggiore flessibilità in 800 posti di lavoro per l’Expo 2015, firmato da tutte le sigle sindacali, non è importante solo per il suo contenuto, né esclusivamente per eventuali altre applicazioni che potrà avere. È importante soprattutto perché segnala che – se lo si vuole – si possono superare contrapposizioni in apparenza insanabili per gettare qualche seme di crescita e innovazione, per cambiare regole che sembrano incise nella roccia mentre attorno tutto si modifica a gran velocità. 

 

Ma la scintilla che arriva dall’Expo, assieme ad altre luci – una per tutte il decreto che ha sbloccato i pagamenti della pubblica amministrazione, non basta ad illuminare un quadro che resta in buona sostanza oscuro. Gli investimenti che creano lavoro e fanno girare l’economia si contraggono: i capitali italiani appaiono sempre più scoraggiati e spesso dilaniati tra il desiderio di restare in Italia e la necessità di spostarsi verso terre più accoglienti; quelli internazionali sono sempre più diffidenti verso un Paese che non riescono a capire e dove troppi aspetti – a cominciare dall’incertezza del diritto – rappresentano svantaggi competitivi secchi. 

Proprio in questi giorni d’estate, mentre l’Italia si avvia al rito della grande vacanza agostana, tra i protagonisti dell’economia sembra prevalere una sorta di rassegnata estenuazione. Pesa un Paese che non pare in grado di acchiappare la ripresa che già altrove – negli Usa, ma anche in Spagna – dà segnali più o meno forti, una politica che non riesce a concretizzare in modo incisivo pochi provvedimenti necessari, uno spirito nazionale che pare anch’esso, per l’appunto, fiaccato da una sfiducia generalizzata. 

 

Così il banchiere racconta che il suo cliente, ottima media azienda del Nord con grande proiezione internazionale, sta decidendo di spostare il quartier generale all’estero, non per pagare meno tasse, ma per avere un costo del denaro più accettabile di quello esorbitante che oggi tocca alle imprese battenti bandiera italiana; il manager della multinazionale giapponese che ha scelto proprio l’Italia per farne il suo quartier generale europeo spiega quanto sia difficile far capire a Tokyo cosa sia un condono fiscale e quanto pesi dover fare la fila in questura per chiedere il permesso di soggiorno degli ingegneri nipponici assieme alle signore che regolarizzano la colf; l’investitore internazionale con il portafoglio gonfio di euro in cerca di impieghi spiega che l’Italia, dove le valutazioni delle aziende sono ai minimi storici e corrispondono a un terzo di aziende simili in Germania, potrebbe essere il posto giusto dove mettere i soldi, ma che per adesso è preferibile aspettare in attesa di capire meglio che strada prenderemo. 

 

Sono loro – l’azienda italiana, la multinazionale giapponese, l’investitore internazionale – i soggetti che decideranno nei prossimi mesi che cosa fare, quante persone assumere o meno, su quali progetti – e dove – puntare nei prossimi anni. È da loro che dipende la crescita o, viceversa, il declino. Chiedono stabilità politica, ovviamente, perché non si può lavorare in un Paese che cambia un governo l’anno. Ma la stabilità da sola non basta. Ci vogliono anche decisioni e riforme che si aggiungano a quelle già prese, che sfoltiscano la giungla di norme, riconnettano scuola e lavoro, permettano forme nuove e diverse di occupazione, trovino anche rimedio a vicoli ciechi come quello di Basilea 3 che colpisce banche e clienti e amplifica, invece di diminuirli, gli effetti della crisi. 

 

Da questo punto di vista i giorni da qui a fine agosto con sei decreti legge da approvare – da quello che fa slittare l’aumento dell’Iva al decreto del Fare – saranno per il governo una gimcana impegnativa nella quale è però vietato sbagliare. Il mercato non passa agosto al mare o in montagna e nemmeno le difficoltà delle imprese vanno in vacanza. Senza un’azione che aiuti a ristabilire la fiducia e faccia ripartire gli investimenti sarà difficile vedere quella ripresa d’autunno in cui molti sperano. 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/24/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-che-chiedono-gli-investitori-SJLLgTpUoyuZdHK1kCLMXK/pagina.html
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 30, 2013, 11:04:51 am »

Editoriali
30/07/2013

Un Paese senza manutenzione

Francesco Manacorda


Al chilometro 32,6 della Napoli-Bari domenica sera, non ci sono solo trentotto morti da piangere. C’è anche la necessità di capire che cosa sia successo su quel tratto di autostrada. 

 

Capire per accertare precise responsabilità e per far sì che eventi del genere non si ripetano. 

 

È un lavoro che spetta ovviamente ai magistrati e ai loro periti, ma già ora alcuni elementi indicano che problemi del pullman precipitato - arrivato sulla strada nel 1995, quasi vent’anni fa, e poi reimmatricolato nel 2008 - e tenuta del parapetto di cemento, il cosiddetto «new jersey», che non è riuscito a bloccare la caduta, saranno centrali nelle indagini. 

 

E centrale appare così, proprio alla luce di questi primi e sommari elementi, anche il tema di una manutenzione che troppo spesso viene trascurata o relegata a mero adempimento burocratico.

 

L’Italia è un Paese che invecchia non solo dal punto di vista demografico. L’usura delle cose e dei luoghi, unita a una congiuntura economica che obbliga ai tagli di molti bilanci - pubblici e privati - e a una gestione che spesso punta non tanto a ridurre le spese improduttive, quanto a tagliare quelle spese il cui effetto è meno evidente, possono generare un mix pericolosissimo. 

 

Oggi ci chiediamo chi abbia fatto passare appena quattro mesi fa la revisione al pullman caduto, e con quale attenzione abbia operato. Ma in un Paese che avrebbe un gran bisogno di manutenzione, e che spesso se ne accorge solo quando è troppo tardi, sono mille gli interrogativi dello stesso genere, anche se non sempre, per fortuna, spinti da eventi così tragici. 

 

Non fanno o non riescono a fare manutenzione i sindaci, anche quelli che hanno il bilancio in attivo e sono comunque costretti a non spendere dal Patto di stabilità. I risultati più evidenti - in termine di buche nell’asfalto - sono sotto gli occhi di tutti, ma altri rischi meno visibili sono spesso più pericolosi. Lo scorso anno, ad esempio, i Comuni italiani hanno speso 19,3 miliardi di euro per «vie di comunicazione e infrastrutture connesse», circa il 20% in meno di quanto avessero speso nel 2008 , hanno ridotto del 21% la spesa per la manutenzione degli immobili, del 30% quella per la «sistemazione del suolo», addirittura del 39% è calata la spesa per le «infrastrutture idrauliche». Eppure, secondo i dati di Legambiente e della Protezione Civile, sono più di 5 milioni i cittadini che vivono in aree a forte rischio idrogeologico, come scopriamo ogni volta che una frana o un’alluvione si mangiano via terra e - qualche volta - vite. 

 

Si lascia senza manutenzione anche il patrimonio archeologico di Pompei, dove si rischia - lo hanno detto a gennaio scorso gli esperti dell’Unesco - l’inclusione tra i siti patrimonio dell’umanità in pericolo se entro due anni non verranno prese misure per frenare i crolli e il deterioramento degli affreschi. E in alcuni casi la manutenzione e le migliorie - non domenica sera, dove per ironia della sorte è stato proprio un cantiere autostradale a provocare la coda di veicoli su cui si è abbattuto il pullman - devono essere chieste in modo assai fermo a quei concessionari che hanno la tendenza a considerarle una voce utilmente cancellabile dai bilanci. 

 

È una questione di soldi che mancano, certo, ma sulla scarsa manutenzione dell’Italia pesa anche qualcosa di più radicato: un’incapacità di guardare in prospettiva - che riguarda molti aspetti della nostra vita comune - e il vizio di pensare che prevenire eventuali rischi e curare con attenzione quel che si ha serva a poco. Quei trentotto morti, ai quali si deve una spiegazione che non potrà essere quella della semplice fatalità, ci ricordano che non è così. 

da - http://lastampa.it/2013/07/30/cultura/opinioni/editoriali/un-paese-senza-manutenzione-vzDE5oyNsbp74839So7XNK/pagina.html
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 11, 2013, 05:04:53 pm »

economia
11/08/2013 -

Flavio Zanonato “Energia meno cara e più credito Così aiuteremo le imprese”

Il ministro: tra un mese nuovo decreto del Fare per spingere la competitività

Francesco Manacorda


«Con un nuovo decreto del Fare, che sarà varato ai primi di settembre, puntiamo a mettere le imprese italiane alla pari con quelle del resto
d’Europa. Lo faremo agendo su capitoli sostanziali: abbassando il costo dell’energia, favorendo il credito, intervenendo sul peso della fiscalità e semplificando la burocrazia». Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo economico, annuncia misure a favore delle imprese, dice che «è ora di smettere di piangere» sulle sorti dell’industria italiana e assicura che il governo non cadrà sull’Imu: «Troveremo una soluzione condivisa.
Il governo farà una proposta per fine mese che sarà soddisfacente per tutti». 

 

Ministro, prima di tutto: ci sono elementi che indicano davvero una ripresa in arrivo o è troppo presto per parlarne? 

«Diciamo che ci sono elementi isolati che danno l’idea che qualcosa si sta muovendo. Le faccio un esempio: venerdì ero a Trezzo sull’Adda, in Lombardia, per un giro tra le aziende colpite dal maltempo. Tutte mi dicevano che hanno il portafoglio ordini pieno e anche per questo vogliono rimettersi in piedi il prima possibile. E girando per l’Italia vedo tante eccellenze, tante aziende che esportano e vanno bene.
A smuovere la situazione ha contribuito anche lo sblocco dei pagamenti dei debiti alle imprese». 

 

Lei però appena un mese fa, erano i primi di luglio, avvertiva che eravamo «a un punto di non ritorno». Ha cambiato idea? 

«No. Il fatto di dire che siamo in difficoltà non contraddice il fatto che abbiamo delle potenzialità. Questo non è un mondo in bianco e nero, ma un mondo pieno di rischi dove però, operando bene, si possono avere delle opportunità». 

 

In concreto come si articolerà il nuovo decreto del Fare? Sull’energia a che cosa pensate? 

«L’obiettivo è trovare un meccanismo per ridurre il costo della bolletta senza però toccare il sistema di incentivi per le rinnovabili, visto che abbiamo 500 mila produttori di energia con i quali non si possono rinegoziare gli accordi». 

 

La strada potrebbe essere quella di rinegoziare i mutui che sono stati contratti per pagare gli incentivi, abbassando gli oneri annuali che si riversano sulla bolletta? 

«E’ una strada un po’ più complessa, ma che si muove su questa linea. Invece un’altra misura che abbiamo già deciso, in accordo con il ministro dell’Ambiente, è quella di togliere il Sistri, cioè l’obbligo di tracciabilità, sui rifiuti non pericolosi. Questo comporterà un risparmio per le aziende di circa un miliardo di euro. E ancora, di concentro con il ministero dell’Economia, aumenteremo il fondo di garanzia per le imprese, portandolo nel prossimo triennio da 2 a 5 miliardi. In questo modo aumenterà il numero di aziende che potranno ottenere crediti grazie alle garanzie pubbliche». 

 

Resta il tema del cuneo fiscale. Confindustria vorrebbe ridurlo almeno di una decina di punti. Riuscirete a farlo? 

«Posso dire che condivido questo obiettivo, ma non sono in grado di impegnarmi perché su questa materia assai delicata incide il tema della tenuta dei conti pubblici e degli impegni europei». 

 

Sulle imprese pesa anche l’Imu per i capannoni: che programmi ha su questo? La soddisfa l’ipotesi che avrebbe il ministero dell’Economia di renderla deducibile al 50 per cento? 

«Togliere l’Imu sugli immobili delle imprese sarebbe la cosa migliore, anche perché un capannone è un investimento in un bene strumentale, come quello fatto per un tornio o una pressa. Ma se questo non sarà possibile allora bisogna far sì che quanto pagato per l’Imu venga detratto dal reddito d’impresa». 

 

E l’Imu sulla prima casa? Abolirla e basta è possibile o siamo alla propaganda? 

«L’impegno preso dal presidente del Consiglio è preciso: ridimensionare in modo importante l’Imu sulla prima casa, tenendo conto sempre della condizione dei conti pubblici. Entro la fine di agosto arriveremo in Parlamento con una proposta concordata con la maggioranza, che soddisferà
l’impegno assunto. Mi disturba questa volontà di alimentare il conflitto tra forze politiche, mentre al governo interessa ridurre i conflitti e trovare una soluzione».

 

Ma tra le nove proposte che il ministero dell’Economia ha prospettato sull’Imu, per lei qual è la migliore? 

«Quella che metterà d’accordo tutte le forze politiche che sostengono il governo. Metto da parte le mie aspettative perché in questa fase
l’obiettivo primario è avere un governo che porti il Paese fuori dalla crisi». 

 

Insomma, lei pensa che alla fine l’accordo sull’Imu ci sarà? 

«Senza dubbio». 

 

Torniamo alle imprese. L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne dice che in Italia non ci sono le condizioni per fare industria.
Cosa replica? 

«Intanto che la Fiat in Italia ha investito. Ad esempio a Grugliasco, dove lo stabilimento Maserati può arrivare a produrre 50 mila auto di alta gamma l’anno, o per fare la Jeep. Adesso si tratta di mettere la Fiat in condizione di usare l’Italia, dove il gruppo è nato, come una delle sue grandi sedi produttive. Bisogna trovare un accordo e penso che lo si debba e lo si possa fare perché è fondamentale difendere questo grande patrimonio nazionale».

 

Ma secondo lei l’Italia non rischia di perdere le sue industrie? 

«Il rischio c’è sempre, ma io preferisco vedere l’opportunità di un Paese che ha numerose eccellenze, dall’avionica alle macchine utensili, che è il secondo produttore manifatturiero e il secondo produttore di acciaio in Europa. Siamo una potenza industriale che, se opportunamente guidata, può lasciare un segno forte. E l’importante è evitare di piangersi troppo addosso e fare le cose».

 

Eppure, qualsiasi imprenditore si senta, l’elenco delle cose che non vanno è lunghissimo: dalla burocrazia, all’incertezza del diritto, alle condizioni del credito bancario... 

«Comprendo le preoccupazioni, ma non ci sono solo sciagure e disgrazie! Il Paese è fatto di tante aziende forti nell’innovazione, di grandi esportatori, di aziende che vanno bene. Certo, ci rendiamo conto che viaggiano con un fardello sulle spalle e il nostro obiettivo è alleggerire questo peso». 

 

E’ una posizione che sente condivisa da tutti all’interno del suo partito, il Pd? 

«A parte qualche caso isolato direi di sì. Non abbiamo solo un problema di redistribuzione equa della ricchezza, ma che prima di quella redistribuzione abbiamo il problema di creare più ricchezza, cosa che si può fare solo con lo sviluppo. In generale una politica che metta assieme sviluppo ed equità è la bussola di questo governo. Anche in consiglio dei ministri non avverto mai atteggiamenti ostili a queste linee guida.
Il governo ha, abbastanza incredibilmente, una volontà ferma e trovo sintonie che non immaginavo anche con chi è politicamente lontano da me, come Alfano, Lupi o la Di Girolamo». 

da - http://lastampa.it/2013/08/11/economia/energia-meno-cara-e-pi-credito-cos-aiuteremo-le-imprese-N9Xk19ORUjIbYcIYqqpB9O/pagina.html
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 22, 2013, 11:08:44 pm »

Editoriali
21/09/2013

L’ottimismo e il rischio della palude

Francesco Manacorda


Anche se al momento il deficit «sfora» la soglia del 3% del Pil, le previsioni sulla finanza pubblica approvate ieri dal Consiglio dei ministri non lasciano - almeno in apparenza - troppi motivi di preoccupazione. Il percorso segnato per i prossimi tre anni esclude manovre straordinarie, la stagione dei grandi sacrifici sembra anche ufficialmente chiusa. Dal governo arrivano segnali di moderato ottimismo, primo fra tutti la previsione di uno spread a quota 100 sui titoli tedeschi che dovrebbe essere raggiunto fra tre anni. 

 

Dietro la possibilità che questi numeri si concretizzino, legata anche alla difficile stabilità del governo, c’è però il rischio della palude. La crescita del Pil - che vedremo solo il prossimo anno, dato che nel 2013 calerà dell’1,7% - sarà un debolissimo 1%. Poco per mettere in sicurezza i conti pubblici, pochissimo per far ripartire l’occupazione. Il rischio, adesso, è quello del galleggiamento, senza una spinta che consenta di uscire dalle acque, forse non più in tempesta, ma certo limacciose, in cui ci troviamo. 

 

Servono scelte precise. E alcune scelte appena fatte dal governo - in particolare l’abolizione dell’Imu che rende obbligato l’aumento dell’Iva - non vanno nel senso che ci si aspetterebbe da chi vuol fare ripartire consumi ed economia. 

 

Il rischio concretissimo della palude - di cui anche il presidente del Consiglio Enrico Letta è ben conscio, come dimostrano le sue dichiarazioni ieri all’uscita dal Quirinale - ha anche un’altra faccia. È quella di grandi aziende un tempo pubbliche, come Alitalia e Telecom, oggi giunte al capolinea di un percorso di privatizzazione fallimentare. Mentre il governo cerca, a ragione, di rendere più appetibile l’Italia per gli investitori esteri, contando sul fatto che essi portino capitali e posti di lavoro, i soci privati di Alitalia e Telecom tentano anch’essi di attrarre azionisti esteri, ma con il solo obiettivo di uscire da una situazione per loro insostenibile. 

Si pagano i peccati originali. La privatizzazione di Alitalia, quella dei «patrioti», è stata il frutto di un’indebita ingerenza politica su un capitalismo debole e di un sistema bancario prono al Palazzo; quella più antica di Telecom ha visto prima - in due differenti fasi e con due differenti governi - capitalisti senza capitali riuscire nella conquista grazie alla manleva della politica, poi le solite banche arrivare in soccorso in nome dell’«italianità». 

Adesso che anche il sistema creditizio fa i conti con una crisi sfibrante e con la necessità di capitali - e chissà che i prossimi soci esteri non vengano chiamati a entrare proprio nelle banche - la svendita è in corso senza badare a sottigliezze come le prospettive strategiche di reti di trasporti e telecomunicazioni. Un Paese fermo non è un Paese stabile, ma è destinato a un’inesorabile discesa. 

da - http://lastampa.it/2013/09/21/cultura/opinioni/editoriali/lottimismo-e-il-rischio-della-palude-wljep04UN6Oj2lvNDYlvgL/pagina.html
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 26, 2013, 04:50:57 pm »

Economia
24/09/2013 - il caso

Dalle scatole cinesi a quelle spagnole

Così perde il mercato


Niente Opa. L’operazione premia solo i grandi azionisti e non i piccoli soci

Francesco Manacorda
MILANO


La «scatola cinese» che controlla Telecom che diventa una scatola spagnola; l’Air France verso il 50% di Alitalia. Naufraga l’illusione di tenere in mani italiane le grandi infrastrutture con - pochi - capitali privati. Questa mattina un annuncio ufficiale spiegherà che una complessa struttura societaria che vede un manipolo di soci controllare Telecom Italia con appena il 22,4% del capitale riunito nella finanziaria Telco - quella che in gergo finanziario si chiama una scatola cinese, per l’appunto - cambierà in parte padrone. 

 

Ne trarranno però beneficio solo alcuni soci. Gli spagnoli di Telefonica, finora al 46% della Telco, saliranno al 60%, conquistando quindi la maggioranza assoluta della scatola societaria e guadagnando di fatto il controllo - che nel tempo aumenterà - della stessa Telco e di conseguenza della Telecom. I soci che vendono parte delle loro quote - Mediobanca, Intesa-Sanpaolo, le Generali - ne avranno qualche consolazione perchè loro - e solo loro - si vedranno riconosciuto un prezzo di favore per quello che è, o almeno assomiglia molto, al cambio di controllo della Telecom. 

 

La società telefonica si è orribilmente svalutata da quando i suoi soci finanziari, ligi al ruolo di banche e assicurazioni «di sistema» e troppo ossequiosi di fronte alle richieste della politica che non voleva vedere i telefoni italiani cadere in mani straniere - entrarono nel capitale. Allora pagarono le azioni 2,8 euro l’una; qualche mese fa le hanno svalutate per l’ennesima volta a 1,2 euro, ma sempre considerando un ricco premio di controllo, visto che ancora ieri sul mercato per un qualsiasi acquirente o venditore le stesse azioni valevano solo 59 centesimi. Adesso Telefonica riconoscerà a quelle azioni «più uguali» delle altre, che stanno in Telco, un valore di oltre un euro. il tutto, ovviamente, senza passare per la strada maestra dell’Opa, l’offerta che tocca tutti gli azionisti, perché la legge italiana prevede che questo strumento entri in azione solo se passa di mano almeno il 30% di una società. Adesso la - debole - speranza di un piccolo azionista può essere solo quella che qualche altro operatore decida di sfidare Telefonica percorrendo proprio al strada dell’Opa. 

 

Ma questioni finanziarie a parte, la parabola di Telecom che va agli spagnoli e quella dell’Alitalia, che in queste stesse settimane vede concretizzarsi la salita dei soci transalpini di Air France dal 25% al 50%, sono percorsi in qualche modo paralleli che segnano la fine di un’età illusoria. Fallisce quel modello ibrido fatto di - scarsi - capitali privati e di una politica che a seconda dei casi aveva aperto le porte ai nuovi padroni - come in Telecom - o di spinta a cercare azionisti - come in Alitalia - magari lasciando intravedere contropartite su altri piani. In entrambi i casi un ruolo improprio di cui adesso si mostrano tutti i limiti. La partita che la politica ha invece rinunciato a giocare fin dall’inizio è quella dell’interesse generale, delle regole chiare in cui inserire lo sviluppo delle infrastrutture - le rotte aeree come le reti Internet - preoccupandosi non del passaporto degli investitori, ma della loro capacità di investire. Ora che il potere negoziale dei soci di Telecom e Alitalia è ai minimi, come le quotazioni delle due società, è difficile pensare che ai nuovi azionisti si possano chiedere impegni vincolanti per lo sviluppo delle aziende che conquistano. 

da - http://lastampa.it/2013/09/24/economia/dalle-scatole-cinesi-a-quelle-spagnole-cos-perde-il-mercato-KMXde8ig85DZzrodNiIvfN/pagina.html
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:26:52 pm »

EDITORIALI
11/10/2013

Condannati all’ultima spiaggia

FRANCESCO MANACORDA


Condannati all’ultima spiaggia. Condannati ancora una volta a una soluzione di emergenza, a una parziale ma comunque dolorosa nazionalizzazione di Alitalia, dopo la pessima prova di quegli azionisti privati che nel 2008 entrarono nel capitale dopo aver lasciato i debiti della compagnia sulle spalle dei contribuenti.
E’ perfino superfluo gridare all’ovvio scandalo per l’ingresso delle Poste in Alitalia. 
Certo, si tratta di un’accoppiata che richiama l’esatto contrario di un campione nazionale. Ma la cifra più evidente delle vicende di queste ore è l’affannoso arrocco del sistema Italia, in cerca di capitali che nessuno più pare disposto a mettere; nella compagnia aerea così come è avvenuto per la Telecom. L’intervento appena annunciato è tutt’altro che risolutivo e a Palazzo Chigi ne sono ben consci nonostante la «soddisfazione» espressa ieri sera. Ma senza l’unica e criticabilissima operazione che in tutta fretta si è riusciti a mettere in piedi, Alitalia domani mattina avrebbe bloccato i suoi voli e si sarebbe avviata al fallimento. Il governo ha ritenuto che la compagnia sia «un asset strategico per il Paese» e che da questa posizione la trattativa con Air France-Klm sarebbe stata un massacro. Così ha cercato di «comprare» sei mesi di tempo - tanto vale l’operazione annunciata - ben cosciente che la destinazione finale di Alitalia sarà sempre e comunque quell’alleanza internazionale. Forse, questa è la speranza, in una posizione un po’ più forte di quella pre-fallimentare in cui è oggi. 
Condannati all’ultima spiaggia, comunque, perché i soci privati che nel 2008 risposero alle richieste di Silvio Berlusconi, con l’attivo sostegno di Intesa-Sanpaolo - tra di loro Colaninno, i Benetton, la stessa Intesa-Sanpaolo, Marcegaglia che all’epoca guidavano una Confindustria filogovernativa, nomi ormai crollati come quello dei Ligresti - non ce l’hanno fatta e hanno perso quasi un miliardo dalla privatizzazione del 2008. 
Questo nonostante all’epoca avessero scaricato sulla comunità i costi miliardari di una «bad company» dove era finito il debito di Alitalia. Adesso il ritorno allo Stato padrone, o quantomeno azionista di riferimento non avviene a cuor leggero. Palazzo Chigi cita nel suo comunicato, come è ovvio, la «discontinuità» e «una importante ristrutturazione» della compagnia. Ma è legittimo chiedersi perché dovrebbero farla con successo i soci attuali, che finora non ci sono riusciti. E significativo è anche che il governo senta il bisogno di ricordare loro che dovranno «assumersi appieno le loro responsabilità», cosa che evidentemente finora non è avvenuta. 
Soci privati e governo dovranno però fare molta attenzione. I salvataggi, questo in particolare, non sono gratis. I 75 milioni con cui le Poste si impegnano non sono una cifra enorme nei loro attivi totali, ma è ovvio che con i depositi postali - che in buona parte si identificano con il risparmio della parte meno ricca e meno istruita del Paese - è vietato correre qualsiasi rischio eccessivo. In primo luogo quello di mettere soldi in una compagnia aerea decotta e appesantita dai debiti, senza una valida strategia industriale e dove i soci pensano che se dovessero fallire ci sarà ancora un’altra chance.

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/11/cultura/opinioni/editoriali/condannati-allultima-spiaggia-8AAobEOAZWg7l8Gd6MjKfJ/pagina.html
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« Risposta #26 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:35:49 pm »

Editoriali
06/11/2013

Ma l’incertezza sfinisce i contribuenti

Francesco Manacorda

Scene di rivolta fiscale all’ora di punta. I venditori ambulanti dei mercati torinesi scendono in piazza per protestare contro il rincaro della Tares, la tassa sui rifiuti, e una città rimane semiparalizzata nei suoi collegamenti ferroviari per mezza giornata. Scene di incertezza fiscale all’ora dei telegiornali.

Il ministro dell’Economia avverte di come sia difficile - sempre più difficile man mano che si avvicina la fine dell’anno, anche se non impossibile - trovare le risorse per evitare che si paghi la seconda rata dell’Imu. Scene da un Paese che stenta a trovare la chiave di quella ripresa che molti annunciano ma che pochi riescono a vedere e dove proprio il carico fiscale rischia di portare alla chiusura troppe piccole e piccolissime imprese.

Chi ha bloccato ieri la stazione torinese di Porta Susa non rappresenta certo tutti i commercianti di una città, anzi alcune associazioni di produttori e negozianti hanno denunciato intimidazioni contro chi aveva deciso di continuare regolarmente la sua attività. Ma che il malessere da tasse scenda in piazza e assuma la forma di una protesta clamorosa mette in evidenza due aspetti della questione fiscale. 

Il primo è che alla rivolta silenziosa e individuale dell’evasione che fino ad ora ha funzionato alla grande - ad esempio il Comune di Torino ha calcolato proprio tra i venditori ambulanti un’evasione della Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti, pari al 40% - si affianca adesso una dimostrazione pubblica e collettiva che cambia il senso stesso della protesta, rivendicandone la legittimità e legandola a una questione di sopravvivenza economica. 
 
Azioni, anche clamorose, contro le tasse non sono un’esclusiva italiana. Nelle stesse ore in cui a Torino c’era chi marciava sulla stazione di Porta Susa, sulle autostrade francesi venivano abbattuti alcuni «totem» che secondo i piani del governo di Parigi - già sospesi - sarebbero dovuti servire per imporre una tassa ecologica ai Tir in transito. 

Ma è invece una nostra esclusiva quel mix di incertezza e di rimpalli che da mesi alimenta le cronache dei giornali e sfinisce i contribuenti. Privati e aziende non sanno quanto dovranno pagare da qui a poche settimane e in alcuni casi – ad esempio la seconda rata Imu – non sanno nemmeno se dovranno pagare. In molti scopriranno, proprio con il saldo di dicembre della nuova Tares, quanto peseranno sui loro bilanci gli aumenti decisi dai Comuni. 

Questo ci porta al secondo aspetto della questione fiscale, che riguarda la sostanza politica del governo delle larghe intese. Sottoposto fin dall’inizio alle tensioni di forze divergenti – specie e soprattutto sulle tasse, partendo dalla promessa elettorale del centrodestra di abolire l’Imu – non c’è ovviamente da stupirsi se sul Fisco maggioranza e esecutivo non sembrino in grado di trovare una sintesi soddisfacente, ma procedano più che altro per tentativi ed errori. La Legge di Stabilità ha evidenti limiti, legati specialmente alle risorse limitate che può mettere in campo. Ma le richieste - chiamarle proposte sarebbe troppo - che arrivano da destra e da sinistra, specie per una maggior riduzione del cuneo fiscale, sono accomunate da un’assoluta leggerezza nell’identificare le coperture per le maggiori spese. Il populismo fa paura a molti, ma un peso delle tasse che non cala e una giungla fiscale che si fa sempre più intricata sono l’habitat migliore per farlo crescere ancora. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-lincertezza-sfinisce-i-contribuenti-ZhWEoGv924y45yoHW0n3aN/pagina.html
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 17, 2013, 06:34:03 pm »

Editoriali
16/11/2013

Da Bruxelles un esame di realtà
Francesco Manacorda

Adesso si capiscono meglio il significato e il contenuto dell’improvvisa missione del ministro dell’Economia, partito mercoledì pomeriggio da Roma per incontrare a Bruxelles il Commissario agli Affari monetari Olli Rehm. Fabrizio Saccomanni ha tentato di evitare in extremis quello che poi è invece successo ieri, con la decisione della Commissione europea di non consentire più all’Italia di escludere dal computo del deficit pubblico nel 2014 un pacchetto di spese per investimenti. 

La misura, che nelle intenzioni di Bruxelles dovrebbe premiare in qualche modo i Paesi più impegnati nel risanamento dopo essere usciti dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo - quelli cioè che il prossimo anno abbiano un rapporto deficit/Pil sotto il 3% e abbattano di almeno lo 0,5% del Pil il loro deficit strutturale - non si può applicare all’Italia perché il deficit, invece di diminuire dello 0,66% del Pil, come si era impegnato a fare il governo, secondo la Commissione calerà solo dello 0,12%. Una constatazione che ci costringe a un duro esame di realtà e illumina ulteriormente alcune debolezze della legge di Stabilità, diretta conseguenza di una maggioranza - almeno fino a ieri - estremamente divisa e dunque di un governo per forza di cose poco incisivo. 

Ma è una bocciatura, quella arrivata ieri a Bruxelles? Per capirlo conviene dividere il problema in due. Nella sostanza dei numeri la bocciatura c’è, ma non è irrevocabile. Viene infatti stabilita - con una decisione tecnica e non politica, come spiega oggi sul giornale Marco Zatterin - sulla base dei documenti presentati dall’Italia il 15 ottobre scorso. Dunque, se il governo riuscirà a dimostrare, nuove carte ufficiali alla mano, che quella riduzione del deficit strutturale dello 0,5% verrà raggiunta, le stesse procedure si riattiveranno al contrario e per noi sarà di nuovo possibile sfruttare quella importante clausola sugli investimenti che a luglio aveva spinto l’esecutivo a toni che, visti adesso, appaiono eccessivamente trionfalistici. 

E proprio una percezione troppo ottimistica del futuro è il secondo aspetto del problema. In sintesi il rapporto debito/Pil ipotizzato dal governo non è considerato credibile perché non si ritengono realistiche le previsioni che ne stanno alla base: Roma sostiene che il prossimo anno l’economia crescerà di un 1,1% mentre Bruxelles si ferma a un più modesto 0,7%, lo stesso dato che prevede l’Istat. Non è una coincidenza casuale: nell’opinione della Commissione si osserva che sarebbero servite previsioni «prodotte o appoggiate» da entità indipendenti, mentre quelle arrivate a Bruxelles hanno solo il timbro dell’esecutivo. Allo stesso modo le previsioni su quello che il governo potrà fare sul fronte delle entrate - rientro dei capitali dalla Svizzera, privatizzazioni, rivalutazione delle quote di Bankitalia - non sono oggi moneta spendibile di fronte alla Commissione. A Bruxelles vogliono impegni chiari e non promesse che poi andranno mantenute o previsioni che considerano troppo ottimistiche; in questo caso di bocciatura si può parlare. 

È comprensibile, ovviamente, che in una fase difficile dell’economia il governo possa preferire misure «una tantum» a quelle strutturali, che la Commissione dice essere richieste dal «fiscal compact», ma che avrebbero effetti recessivi. Ma anche per questo tra Roma e Bruxelles le nebbie invernali restano fitte. Per diradarle bisogna far chiarezza soprattutto da noi. 

http://lastampa.it/2013/11/16/cultura/opinioni/editoriali/da-bruxelles-un-esame-di-realt-oeEgmLXJSqlbEQtKaVoBEK/pagina.html
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 22, 2013, 08:00:00 pm »

Editoriali
22/11/2013

Privatizzare per necessità, non per scelta
Francesco Manacorda

I 10-12 miliardi di proventi da nuove privatizzazioni annunciate ieri dal premier Enrico Letta sono tanti o sono pochi? A che cosa serviranno queste cessioni? E quale filosofia c’è dietro l’operazione? Sono domande che è doveroso farsi mentre si mette mano a una parte - sebbene piccola - del patrimonio pubblico. 

La cifra, tanto per cominciare, non è stratosferica. 

Il suo effetto potenziale sull’abbattimento del debito pubblico che oggi viaggia a quota 2000 miliardi - a patto che tutti gli introiti fossero destinati a quell’obiettivo, come invece non sarà - ammonterebbe grossomodo allo 0,5% del totale. Si tratta di una cifra assai inferiore a stime e ipotesi che calcolano in qualche centinaio di miliardi i possibili introiti derivanti, ad esempio, dalla dismissione di immobili pubblici. Ma mentre il mattone di Stato e degli enti locali non è di pronto impiego sul mercato, queste partecipazioni - alcune anche in società quotate - hanno il vantaggio di esserlo. 

A che cosa serva poi questo primo round di cessioni lo ha spiegato ieri lo stesso Letta: per circa la metà degli introiti a ridurre nel 2014 il debito pubblico, dopo cinque anni in cui questo è cresciuto senza interruzioni. Ce lo chiede una Commissione europea che, come si è appena visto con la decisione di non consentire più all’Italia di escludere dal computo del deficit pubblico nel 2014 un pacchetto di spese per investimenti, non è disposta né a farci sconti né a prendere per buoni impegni generici e non formalizzati. Quello che invece il premier non ha detto e che nella stragrande maggioranza dei casi – tranne che per Sace e Grandi Stazioni, di cui va in vendita il 60% – lo Stato sta ben attento a non cedere il controllo delle aziende che mette sul mercato, conseguendo così un duplice effetto. 

Il primo è quello di rendere meno appetibile, per gli eventuali offerenti, le società messe in vendita: chi compra sa che nella gran parte dei casi si troverà accanto un azionista di controllo, o comunque con un potere di veto ingombrante, e non sempre mosso da logiche puramente economiche. Il secondo effetto riguarda invece il contributo di efficienza che le privatizzazioni – secondo chi le sostiene – dovrebbero apportare al sistema separando la gestione delle imprese dall’influenza della politica. Premesso che in alcune esperienze di parziale privatizzazione di recente tornate alla ribalta come Telecom e Alitalia, quei vantaggi sono tutti da dimostrare, anche eventuali effetti virtuosi risultano qui attenuati o inesistenti. 

Tanto più che il rimpallo delle partecipazioni con la Cassa Depositi e Prestiti (controllata all’80% dal Tesoro e per il 18% in mano alle Fondazioni, che con la politica hanno più di un aggancio), non contribuisce a fare chiarezza: in questa tornata, ad esempio, la Sace che un anno fa era stata privatizzata al 100% passando dal Tesoro alla Cdp, adesso viene «riprivatizzata», mettendone il 60% sul mercato; allo stesso tempo già si può immaginare che la quota di Stm messa in vendita finirà proprio dalle parti della Cdp. 

Questo ci porta dritti alla terza questione, ossia la filosofia che sta dietro le privatizzazioni. Anche in questo caso, come è accaduto per altre questioni nel recente passato, il governo delle larghe intese si muove – poco – negli stretti territori del possibile. Si può accettare che dietro la mossa del governo non ci sia un’ideologia del «privato è bello», bensì una filosofia minimalista come quella enunciata, ossia la rapida riduzione del debito. Ma anche questa motivazione rischia di avere il fiato corto: in termini assai semplici il debito comincerà a ridursi in modo strutturale quando le entrate del bilancio pubblico supereranno le uscite, determinando un avanzo di bilancio invece del disavanzo cui siamo abituati. 

E dato che alzare le entrate appare ormai impossibile, visto il livello raggiunto dalla pressione fiscale, l’unica strada è quella di tagliare le spese. In attesa che i 32 miliardi di tagli nei prossimi tre anni, anch’essi annunciati dal governo, si concretizzino – ma solo la spesa per interessi ci costa quest’anno oltre 80 miliardi – il rischio della tornata di privatizzazioni appena annunciate è che si rivelino nient’altro che una patrimoniale sui beni dello Stato, invece che sui conti correnti o sugli immobili dei contribuenti. Una piccola toppa mentre il buco del debito si allarga. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/22/cultura/opinioni/editoriali/privatizzare-per-necessit-non-per-scelta-uljsxwBGD4NOtKi0fkAVXN/pagina.htmlhttp://lastampa.it/2013/11/22/cultura/opinioni/editoriali/privatizzare-per-necessit-non-per-scelta-uljsxwBGD4NOtKi0fkAVXN/pagina.html
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 30, 2013, 05:21:03 pm »

Politica
28/11/2013 - il caso

Figli e amici fanno quadrato ma ora il partito-azienda teme la svolta movimentista

Marina Berlusconi: questa politica si dovrà pentire di esseri ancora una volta arresa alla magistratura

Francesco Manacorda
MILANO

Il cerchio magico fa quadrato. I figli e gli amici della prima ora, quei fedelissimi che da decenni regnano nelle aziende del Cavaliere, condannano con una sola voce la decadenza dal Senato. Ma dietro la solidarietà, che nessuno si sognerebbe nemmeno di mettere in discussione, il partito-azienda è assai preoccupato. 

La svolta obbligata che mette Berlusconi fuori dal Parlamento potrebbe esporre a più di un rischio le società del gruppo. E anche se ieri la Borsa ha promosso l’impero Fininvest - meglio dell’indice Mediaset a +1,38%, +0,98% Mondadori, invariata Mediolanum - c’è chi vede un futuro minaccioso. 

Sono naturalmente accorate le dichiarazione di Marina, Barbara e Pier Silvio, ieri sera riuniti ad Arcore con il padre. Per la presidente di Fininvest «mio padre decade da senatore, ma non sarà certo il voto di oggi a intaccare la sua leadership e il suo impegno. Questo Paese e questa democrazia devono vergognarsi per quello che sta subendo». Anche Barbara, la cadetta che sta conquistando le scene con la scalata al Milan, usa toni forti: «Con la violenta estromissione di mio padre dal Parlamento, avvenuta attraverso norme incostituzionali e palesi violazioni regolamentari, gli avversari politici si illudono di avere la strada spianata verso il potere. Ma è un’operazione politica che si ritorcerà contro chi l’ha messa in atto, nel momento in cui gli italiani torneranno a pronunciarsi con il loro libero voto». 

Più pacati i toni del vicepresidente Mediaset: «Come figlio, l’amarezza è profonda perché so quello che mio padre è davvero... Come cittadino, provo un forte senso di ingiustizia». E ancora, dice Pier Silvio: «Mi auguro per il futuro dell’Italia che abusi del genere non vengano mai più messi in pratica contro nessun parlamentare di qualsiasi parte politica». 

Anche dall’entourage più stretto, le parole sono gravi. Adriano Galliani, l’ad del Milan che pare pure lui avviato verso la decadenza dal suo ruolo, dice che «è stata presa una decisione ingiusta, deformando norme e regolamenti». Ed Ennio Doris, il numero uno di Mediolanum dove è socio del Cavaliere, ha la voce mesta, anche se non attacca parlamento e giudici: «Sono davvero dispiaciuto per quello che è successo a un uomo estremamente giusto e generoso, di cui sono amico da oltre 30 anni». Che farà ora? «Credo che seguirà se stesso».

 

Dietro alle dichiarazioni ci sono anche i timori per l’impero del Cavaliere, che si colgono più che altro in casa Mediaset. Non è un mistero che Fedele Confalonieri, presidente della società televisiva, assieme a Doris abbia consigliato a Berlusconi, anche negli ultimi tempi, di esercitare la virtù della prudenza. Ma mentre il patron di Mediolanum non teme leggi «contra personam» per la sua attività bancaria e assicurativa e gode inoltre di una posizione di forza perché è l’unico nel gruppo che continua a sfornare utili, a Cologno Monzese il discorso è diverso. 

Con Forza Italia fuori dalla maggioranza il rischio di una leggina sugli affollamenti pubblicitari, che potrebbe mettere in seria difficoltà Mediaset, fa più paura. E soprattutto la svolta movimentista di Silvio significa anche che quegli ambasciatori sui quali il partito-azienda poteva contare non ci sono più. Sparito per ora dai radar il gran mediatore Gianni Letta, uscite di casa figure moderate come quelle di Angelino Alfano e Gaetano Quagliarello, chi potrebbe andare adesso a rappresentare gli interessi aziendali all’Antitrust o presso altre istituzioni? Un vuoto che fa paura, tanto che alcuni colgono come un segnale preciso l’arrivo di Paolo Romani - forse l’uomo che nel partito è più vicino a Confalonieri - a capogruppo di Forza Italia al Senato.

Quel che è certo, intanto, è che il Cavaliere non tornerà alle aziende, ma nemmeno farà mosse inconsulte che le danneggino troppo. L’ipotesi che ripari all’estero, ad esempio, ha una precisa controindicazione, ossia il rischio - che ovviamente non si può correre - di un sequestro di pacchetti azionari. Una mossa cautelare, che non trova però conferme, potrebbe essere quella riferita da un’agenzia di stampa secondo cui due settimane fa avrebbe dato ai due figli maggiori la procura su tutti i conti. 

Tra partito e azienda anche il tema della successione dinastica, con Barbara in irruenta ascesa, resta in qualche misura aperto. È vero che rispetto alle ripetute chiamate - sempre respinte - a Marina perché prendesse il posto del padre la situazione appare ora più chiara: il possibile pretendente Alfano è ormai fuori dal partito e Berlusconi stesso ha fatto capire di voler restare saldamente in sella. Ma in caso di elezioni anticipate con l’ex-senatore incandidabile, o peggio ancora di catastrofi giudiziarie, nessuno può assicurare che alla Dottoressa - come la chiamano in Fininvest - non verrà chiesto ancora di trasformarsi in Cavaliera. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/italia/politica/figli-e-amici-fanno-quadrato-ma-ora-il-partitoazienda-teme-la-svolta-movimentista-EfmnQwwpEKJ0bdkOMRgoZI/pagina.html
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