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Autore Discussione: FRANCESCO MANACORDA.  (Letto 29720 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 17, 2013, 12:03:13 pm »

Editoriali
17/12/2013

La New Economy del lusso

Francesco Manacorda

La new economy del lusso spinge alle stelle i valori - come è successo ieri in piazza Affari per Moncler - e ci fa scoprire nuovi paradigmi.

Quel produttore di piumini che ieri al suo debutto si è visto attribuire un valore «monstre» di 4 miliardi di euro è il simbolo concretissimo di una rivoluzione che unisce gusto e saper fare artigianali, competenze industriali e la nuova forza di Internet. 

Ha senso - è la domanda che tutti ci poniamo - far volare le azioni e valutare un’azienda oltre 20 volte il margine di profitto atteso per quest’anno? Nel mondo del lusso (ma qui forse bisogna parlare di «lusso accessibile» visti i prezzi non proibitivi) la scommessa è che abbia senso perché quello che si compra non è tanto il risultato attuale, quanto una proiezione sui prossimi anni, con la scommessa che i clienti in grado di spendere un migliaio di euro per un piumone crescano dappertutto, da Hong Kong alla pur calda Florida, e aumentino sempre di più. 

Se però si guarda dietro lo scintillio del brand e il fascino indiscusso della moda, si vede che la crescita industriale e adesso lo sbarco in Borsa di Moncler sono state preparate con tempi lunghi - due anni fa un’altra offerta di azioni non si era concretizzata - e riflessioni approfondite. Attenzione estrema, ad esempio, oltre che alla qualità del prodotto, anche alla catena della distribuzione perché il prodotto deve arrivare al cliente, che ormai è un cliente globalizzato e mondiale, solo nei negozi monomarca controllati dalla stessa azienda: non è solo ciò che si compra, ma dove lo si compra e addirittura come lo si fa. E’ la stessa ricetta che da anni perseguono marchi di grande successo come Prada e Luxottica. E se non è il negozio, per comunicare e per vendere ci sarà Internet. Le nuove tecnologie, ideali proprio per i brand globali perché con un semplice click raggiungono chiunque dovunque, possono aggiungere la loro forza. Non è un caso che il leader indiscusso di questo nuovo commercio elettronico per i gruppi del lusso sia anch’essa una società italiana, partorita dalla creatività di un italiano che prima di farcela si è visto chiudere parecchie porte in faccia. 

Vince il «Made in Italy», insomma, ma non è automatico che vinca tutto il «Made in Italy». Da ieri i banchieri d’affari staranno tempestando di offerte ancora più del solito, le aziende della moda non quotate perché approfittino del momento propizio per lanciarsi in Borsa. Ma non tutte avranno il metodo e le prospettive di successo di Moncler e di altri nomi che si sono quotati con ottimi risultati negli ultimi due anni. E poi bisognerà guardare anche oltre la moda, che pure è un settore importante dal punto di vista dei numeri e fortemente simbolico. Ci sono eccellenze da far crescere anche nella meccanica, nelle biotecnologie o nell’alimentare per sperare in una vera rinascita del «Made in Italy». 

Da - http://lastampa.it/2013/12/17/cultura/opinioni/editoriali/la-new-economy-del-lusso-prV0LRRhns3Xj25OuY8JSM/pagina.html
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 30, 2013, 05:55:05 pm »

Editoriali
29/12/2013

La dannazione del sistema creditizio
Francesco Manacorda

Ma che cosa deve succedere ancora a Siena perché Fondazione e potentati locali accettino il fatto che non possono più essere loro ad esercitare il controllo sulla banca? Che cosa deve accadere ancora nel mondo delle Fondazioni, dove quello senese, tutto all’ombra del Pd e delle sue faide, non è l’unico caso che mostra i limiti di un modello? 

E che cosa deve accadere di più perché si capisca che non risponde al vero il dogma secondo cui proprio quegli enti sono stati, sono e saranno i migliori azionisti per le nostre banche? 

A Siena la Fondazione ha in mano il 33,5% della banca, ma non ha voluto che l’aumento di capitale da tre miliardi proposto dal management - il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola - per ripagare i Monti bond con cui lo Stato aveva aiutato la banca si facesse subito, decidendo invece di rimandarlo di sei mesi. Le conseguenze immediate di questa «vittoria» della Fondazione sono una probabile uscita di Profumo e Viola, un sicuro aggravio di almeno 120 milioni della spesa per interessi sui Monti bond che la banca dovrà pagare, un possibile ulteriore ribasso del titolo e infine la prospettiva di una nazionalizzazione che avverrebbe in automatico se Mps non fosse in grado di rimborsare i Monti bond.

La Fondazione non ha voluto che l’aumento si facesse subito perché non aveva le risorse per sottoscriverlo mantenendo invariata la propria quota. Avrebbe quindi dovuto diluirsi ancora. Ma proprio in nome del controllo da mantenere, possibilmente un controllo oltre il 50%, la Fondazione é riuscita in una decina d’anni a bruciare il proprio patrimonio di 6 miliardi in operazioni su Mps, trovandosi adesso con una partecipazione nella banca che vale circa 700 milioni. In questo lasso di tempo, sotto il controllo della stessa Fondazione, Mps ha fatto in tempo ad acquisire a un prezzo assurdo l’Antonveneta, a vedere nascere in banca operazioni oscurissime sui derivati che hanno portato ad azioni giudiziarie contro il passato vertice dell’istituto nonché a cospicue perdite in bilancio. 

Del resto che l’azionista controllasse davvero i manager e la banca appariva un po’ difficile viste le peculiarità della governance senese: in sintesi i vertici della Fondazione erano e sono nominati dagli enti locali a forte prevalenza Pd, Comune in testa, con il sindaco che di norma era un dipendente dello stesso Monte dei Paschi; in tanto endemico conflitto d’interessi non ha destato nemmeno scalpore negli anni passati la cavalcata di Giuseppe Mussari, passato dalla presidenza della Fondazione a quella della banca.

 

Certo, quello di Siena é un caso patologico, ma di una patologia portata a tali estremi senza che si sia attivato un qualunque anticorpo da far dubitare del sistema immunitario dell’intero sistema degli enti che controllano le banche e degli enti locali che a loro volta li controllano, perpetuando come una dannazione eterna il peso della politica - spesso della sottopolitica - nel sistema creditizio. Anche adesso il riflesso pavloviano dell’Acri, l’associazione delle Fondazioni guidata dall’indomito Giuseppe Guzzetti, che da 18 anni guida anche la Fondazione Cariplo e che di Mussari fu gran sostenitore, non é stato quello qui dissociarsi dalle mosse di chi rischia di gettare discredito sull’intero mondo delle Fondazioni, ma al contrario quello di allestire - per ora senza riuscirci - complesse operazioni «di sistema» per far entrare Cariplo e altre Fondazioni nel capitale di Mps, garantendo così ai colleghi senesi di non perdere troppo quota nell’azionariato della banca. 

Difficile adesso che i prossimi sei mesi passino tranquilli, possibile anche che si arrivi anche alla nazionalizzazione. Non sarebbe certamente un successo per gli azionisti, Fondazione in testa, e non sarebbe un successo per lo Stato. Ma comunque vada alla fine sarebbe più chiara, anche nei suoi aspetti traumatici, una vera nazionalizzazione rispetto alla nazionalizzazione strisciante e in salsa contradaiola che dura da anni e che ha reso la politica onnipotente e irresponsabile sulla terza banca italiana.

Da - http://lastampa.it/2013/12/29/cultura/opinioni/editoriali/la-dannazione-del-sistema-creditizio-yjC5gsQ7q4AwJkw9zJiPSJ/pagina.html
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 19, 2014, 06:14:17 pm »

Economia

18/01/2014 - Reportage

Manager e sindacati insieme così riparte l’auto americana
L’economia tira e il sistema Fiat ha rivoluzionato le linee del gruppo Chrysler

Francesco Manacorda

«Prima della bancarotta del 2009 tutto questo non sarebbe mai successo». «Certo, non ci avrebbe visto in fabbrica insieme a collaborare in questo modo».

Fianco a fianco nel complesso industriale di Toledo, in Ohio, accanto alla linea di montaggio da cui escono quasi mille nuove Jeep Cherokee ogni giorno e che cercano di migliorare insieme, il direttore Chuck Padden e il delegato sindacale dello Uaw (United auto workers) Mark Epley sono l’immagine della nuova vita dell’auto americana e della scommessa che la Fiat ha fatto salendo nel giro di cinque anni dal 20 al 100% del gruppo Chrysler. Qui, nelle fabbriche americane che trainano la ripresa di Fiat-Chrysler, gli ingredienti sono un’economia che sta ripartendo, un solido patto sociale tra l’azienda e il potentissimo sindacato unico Uaw, ma anche un metodo di miglioramento continuo importato proprio dagli stabilimenti Fiat. Il Wcm, l’acronimo che significa World class management, creato dal Lingotto con i giapponesi all’inizio degli Anni 2000, «è un processo continuo - spiega Mauro Pino, vulcanico ingegnere siciliano che da Termini Imerese è approdato al quartier generale del gruppo Chrysler ad Auburn Hills come responsabile della manifattura e dello stesso Wcm per tutto il Nord America – che non finisce mai. Un sistema basato sulla riduzione sistematica di tutti i tipi di spreco con il contributo di tutti i soggetti e un rigoroso utilizzo di metodi e standard». 

Nasce e si applica in fabbrica, il Wcm, ma si studia e si impara anche alla Wcm Academy di Warren, alla periferia di Detroit, che non a caso è ospitata dallo stesso sindacato nella sua scuola tecnica, con insegnanti scelti insieme da Chrysler e Uaw. Lavagne, sale riunioni e robot. Per capire come si possano rendere più efficienti gesti e procedure operai, tecnici, ingegneri e manager giocano con il Piccolo Chirurgo; per cercare soluzioni di automazione autoprodotte e a basso costo costruiscono una linea di produzione per go-kart o per bici giocattolo; per imparare la prevenzione del rischio indossano le cuffie e gli occhiali 3D e s’immergono in un filmato. Da qualche settimana c’è anche un grande camion in giro per gli stabilimenti americani: portava le auto Dodge alle gare del Nascar, è stato trasformato in scuola itinerante. E quest’anno una Wcm Academy aprirà anche a Melfi, da dove nuove produzioni andranno sui mercati internazionali. «Siamo partiti con quattro corsi e adesso ne abbiamo quarantacinque, più tutti quelli online – spiega Scott Tolmie, il canadese che guida i formatori dell’Academy – da noi sono passate in poco più di due anni oltre 7600 persone».

Verrebbe da paragonarlo a una sorta di religione laica della produttività, questo Wcm, con tanto di citazioni dell’amministratore delegato di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne – «c’è qualcosa di immorale nello spreco» – che passano sullo schermo. Una religione applicata con rigore in tutti gli stabilimenti del gruppo, in qualsiasi parte del mondo, con punte di eccellenza in Polonia e a Pomigliano. «Ma qui all’Academy - avverte Pino - non ci sono preti che rimangono a vita. Tutti vengono dalla fabbrica per imparare o per risolvere un problema che hanno individuato, affrontandolo alla radice, e tutti tornano in fabbrica. E succede anche che qui siano gli operai a spiegare ai manager quali sono le cose da cambiare». Tanto che il metodo si sta affermando anche fuori dal mondo Fiat-Chrysler: lo usano tra gli altri la britannica Royal Mail e la Unilever, il colosso anglo-olandese dei prodotti di largo consumo.

In fabbrica, a Toledo, gli operai fanno vedere le innovazioni introdotte con i loro suggerimenti sulla linea della Wrangler: al posto dei cassoni con i componenti da montare che andavano scelti di volta in volta a seconda della versione, un kit messo direttamente all’interno della vettura sulla linea che contiene solo i componenti necessari per quell’auto; anche per strappare gli adesivi incollati sulle alette parasole o per montare il volante si è studiato come risparmiare qualche secondo alla volta e si cercano ancora nuove idee. Innovazioni continue che moltiplicate per numeri enormi su scala globale – gli stabilimenti si scambiano le soluzioni trovate – permettono risparmi nell’ordine di centinaia di milioni. «Siamo ben consapevoli di lavorare in un ambiente molto competitivo – dice Padden, che dirige i due stabilimenti di Toledo – e che la ricerca dell’efficienza deve essere continua. Questa settimana abbiamo preso 52 persone nuove. Incontrandole gli ho spiegato che i loro posti di lavoro devono essere qui per restare, sono un patrimonio per tutta la comunità». La nuova occupazione, anche se a salari ridotti rispetto a quelli dei vecchi assunti, come prevede un accordo firmato dalla Uaw con Chrysler già nel 2007, è uno degli aspetti più evidenti del rinnovato boom dell’auto. «Qui a Toledo – spiega ancora Padden – abbiamo raddoppiato i dipendenti nell’ultimo anno, superando le 4000 persone. Lavoriamo tre sabati su quattro e la domenica su base volontaria». Solo dai due impianti di Toledo nel 2014, dovrebbero uscire oltre 500 mila nuove Cherokee e Wrangler – nel 2009 erano meno di un terzo – contribuendo così a superare quella soglia di un milione di Jeep vendute entro l’anno annunciata in questi giorni da Marchionne. E sempre sotto il segno della Jeep, partirà quest’anno a Melfi la produzione della «piccola» di casa, assieme alla sua gemella Fiat 500X.

Anche dalla posizione di forza del mercato Usa ci si chiede se e quali saranno le conseguenze della completa fusione tra Fiat e Chrysler. «Non so ancora se qui ci saranno effetti», dice il sindacalista Epley a Toledo. La scommessa di Marchionne è, come ha spiegato lo stesso ad, quella di un’integrazione positiva di esperienze e mercati tra i quattro poli – Europa, Usa, America Latina e Asia – del gruppo con uno spazio di crescita per gli stabilimenti italiani, che dovranno servire il settore «premium» nel mercato globale. Più auto italiane nel mondo, insomma, ma anche più consapevolezza che si lavora in un mondo aperto.

In casa Chrysler dirigenti e operai dicono che questa consapevolezza l’hanno acquisita anche con la loro storia molto americana di uno che cade e subito prova a rialzarsi: dopo la bancarotta, l’intervento pubblico e poi l’ingresso della Fiat adesso i conti – e i dipendenti – tornano. Lo stesso sta succedendo all’intera Detroit, la capitale dell’auto americana, che proprio la crisi del settore ha costretto alla maggiore bancarotta municipale degli Usa, con debiti stimati tra i 9 e i 18 miliardi di dollari. Ora prova a ripartire proprio grazie al nuovo boom dell’industria automobilistica. Questi giorni del Naias, il Salone americano dell’auto, sono stati per la città un banco di prova abbastanza confortante. E anche i preziosi quadri europei del Detroit Institute of Art, già prezzati dal Comune per un’eventuale vendita – è la speranza degli ultimi giorni – alla fine potrebbero restare qui.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/economia/manager-e-sindacati-insieme-cos-riparte-lauto-americana-5CiNAVgmuhmZdHtN9GBLbI/pagina.html
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 01, 2014, 10:42:41 am »

Editoriali
31/01/2014 - la scommessa fiat

Oltre la demagogia

Francesco Manacorda

Ma davvero quella T che scompare nella nuova sigla di Fiat Chrysler Automobiles rappresenta un’azienda che lascia Torino e l’Italia al loro destino?

Davvero la holding che cambia pelle e prende sede sociale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna diventa nient’altro che un gruppo apolide? Scattano riflessi ideologicamente condizionati, si regolano vecchi e presunti conti, una parte della politica sceglie la via sicura della dichiarazione indignata e subito la nebbia fitta della demagogia avvolge ogni fatto.

Nelle fabbriche americane del gruppo Chrysler, da Toledo in Ohio a Jefferson North in Michigan, là dove si guarda alla nuova società dall’altra parte dell’Atlantico, restano «proud to be American», come recitano i manifesti sui muri, e non si turbano – anzi – del fatto che l’italiana Fiat sia passata da una maggioranza relativa al 100% del gruppo, se questo significa il salvataggio da un passato impossibile e la promessa di un futuro migliore. Negli interminabili corridoi della sede Chrysler ad Auburn Hills – solo 7000 dipendenti nel 2009 quando il fallimento incombeva e più del doppio adesso – restano ovviamente la bandiera a stelle e strisce e il memoriale «per i nostri soldati», con l’elmetto e un paio di anfibi a simboleggiare il milite ignoto Usa. Sulle linee di produzione il pragmatismo ha la meglio sull’ideologia e lo si vede nella collaborazione quotidiana tra i manager e gli operai iscritti al sindacato Uaw. Del resto quanto può pesare il passaporto della proprietà se – come è successo a Toledo, nella casa della Jeep – i posti di lavoro passano da duemila a oltre quattromila nel giro di un anno?

Non diverse dalle voci dall’America sono quelle che si sentono anche negli stabilimenti italiani del gruppo dove già vedono i primi effetti di un’integrazione che significa anche migliore e maggiore accesso a nuovi mercati. La Maserati di Grugliasco, di cui abbiamo raccontato anche ieri sul giornale, quando fu rilevata da Fiat nel 2009 era uno stabilimento abbandonato che sfornava solo – e non è un modo di dire – topi; adesso da qui escono berline di lusso che vanno soprattutto in Cina e negli Stati Uniti e chi ci lavora non pare temere un futuro comune con il resto del nuovo gruppo. Come è ovvio la scommessa – quella di azionisti e management prima di tutto – è che lo stesso effetto virtuoso si abbia anche con la rinascita del marchio Alfa Romeo destinato a occupare la fascia «premium» del mercato, con l’arricchimento della famiglia della 500, con la piccola Jeep che arriverà presto da Melfi, con il Suv della Maserati per il quale a Mirafiori sono già partiti investimenti per circa un miliardo. Ma pare davvero difficile vedere dietro questo progetto di una Fiat più forte, anche se policentrica, un’Italia e una Torino più deboli. E soprattutto si stenta a capire quale alternativa possa proporre chi, di fronte a una fusione internazionale che aspira a garantire il futuro del gruppo, grida alla «fuga» dell’azienda dall’Italia. 

Certo, anche in America qualcuno – lo ha fatto il blog di una celebre rivista di settore come Automotive News – si chiede se si possa ancora parlare di una Chrysler americana e se Detroit avrà ancora tutte quante le sue «Big Three» dell’auto ora che una di esse sposta il suo baricentro sociale verso l’Europa. Ma proprio questi dubbi, speculari a certi timori italiani che si sentono oggi, rivelano quel che è ovvio: ossia che in una grande fusione, progettata ed eseguita per essere competitivi su scala globale, ci sarà sempre chi si sente abbandonato e preferirà guardare indietro invece che avanti; si attaccherà a ciò che teme di perdere invece che a quello che spera di guadagnare. Non esattamente una ricetta per il successo in una fase storica in cui non solo le aziende, ma anche i Paesi, competono tra di loro in cerca di capitali – quelli sì – sempre più mobili.

Da - http://lastampa.it/2014/01/31/cultura/opinioni/editoriali/oltre-la-demagogia-W8rxAasUoNL07aUIt0ey3O/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 15, 2014, 10:30:33 am »

Editoriali
15/02/2014

Il frutto della lentezza
Francesco Manacorda

Bocciato dalla politica, promosso dal mercato. Nel giorno in cui deve abbandonare Palazzo Chigi, Enrico Letta incassa un riconoscimento ai suoi sforzi che suona come un premio di consolazione. 

Il giudizio sullo stato di salute dell’economia pubblica italiana, arrivato a tarda sera dall’agenzia di rating Moody’s, migliora: le nostre prospettive non sono più considerate negative ma stabili.

Certo, il voto assegnato al nostro Paese da Moody’s non cambia e resta a un livello tutt’altro che eccelso. Vista la mole del debito pubblico non potrebbe che essere così. Ma per la prima volta in dodici anni non accade né che il voto scenda, né che resti stabile con un peggioramento delle prospettive dell’Italia. Questa volta, invece rimane stabile il giudizio mentre migliora l’orientamento su come cambierà la situazione. Nella stessa direzione va un altro dato reso noto ieri dall’Istat, proprio mentre Letta si chiudeva dietro le spalle il portone di Palazzo Chigi, ossia il (micro) aumento del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre del 2013. Anche in questo caso il segnale arriva dopo un lungo periodo - due anni e mezzo - di Pil con segno negativo o al massimo con crescita zero. E se vogliamo, al bilancio in attivo si può aggiungere uno spread da mesi lungamente lontano dai massimi del 2011 che ieri - proprio sull’onda delle aspettative dei mercati per il governo di Matteo Renzi - è sceso sotto quota 200. 

Si tratta, come è ovvio, di dati che non hanno più alcuna utilità politica per il governo uscente e che rischiano quasi di suonare come una beffa, ma che ci impongono di riflettere sull’impazienza con cui si giudicano i risultati delle politiche di governo. 

Ma quello che ci indicano è che il Paese che Letta consegna - contro la sua volontà - a Renzi, ha probabilmente arrestato la caduta libera e va stabilizzandosi. Certo, non siamo ancora di fronte a una ripresa che pure qualcuno nel governo aveva evocato - uno 0,1% del Pil non autorizza a parlarne, mentre un tasso di disoccupazione che resta al massimo storico del 12,7% spegne qualsiasi ottimismo velleitario - ma quantomeno ritroviamo una base stabile sulla quale una ripresa si potrebbe innestare. Se Renzi riuscirà a farlo ne coglierà i frutti, in termini economici e forse anche politici. E se così sarà dovrebbe, anche se non è detto che lo farà, riconoscere che la sua esperienza avrà goduto di un «dividendo» derivante proprio dal risanamento portato avanti da chi lo ha preceduto. 

I dati con cui si congeda il governo uscente spingono anche a riflettere sulla velocità del cambiamento. Renzi, come è noto, gioca proprio sulla velocità la scommessa per affermare la sua offerta politica, mentre non ha chiarito finora (tantomeno alla direzione Pd che si è scrollata di dosso Letta) in che cosa la sostanza di questa offerta si differenzi da quella del governo uscente. E quella di velocità è una delle richieste più pressanti che gli arrivano dalle parti sociali. Le imprese piemontesi che sono scese in piazza ieri davanti a Montecitorio, così come i commercianti e gli artigiani che martedì prevedono di ritrovarsi in almeno 30 mila a manifestare a Roma, hanno slogan che chiedono cambiamenti radicali e immediati e non a caso accusano il governo uscente non di politiche sbagliate, ma di immobilismo. 

I dati di ieri ci dicono anche che la pianta delle riforme ha bisogno di tempi non brevi per mostrare i primi germogli e per consolidarsi. C’è da augurarsi che quella specie a fioritura istantanea che Renzi è pronto a piantare sia anche in grado di dare frutti. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/15/cultura/opinioni/editoriali/il-frutto-della-lentezza-d7O0FVsbzD0J9lTmDqWprL/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 07, 2014, 09:08:17 am »

Editoriali
05/03/2014

Condannati a cambiare
Francesco Manacorda

Che cosa succederà se oggi - come pare probabile - arriverà l’annuncio che Bruxelles è pronta a mettere sotto osservazione l’Italia per le riforme che latitano? L’eterno dibattito su quello che andrebbe fatto e non si riesce mai a fare per riaccendere la crescita e liberare le forze del Paese uscirà forse da una dimensione finora compresa tra l’accademia e i dibattiti politici da talk show per entrare nella concretezza, e nei vincoli, delle procedure europee. È uno scenario realistico, come racconta all’interno del giornale Marco Zatterin. Fino alla scorsa notte, infatti, l’Italia era in fondo alla lista delle riforme attuate, assieme a due partner come la Slovenia e la Croazia, fra i «bocciati» dalla Commissione europea. E oggi, a meno di ribaltoni dell’ultimo minuto, potrebbe vedere sancita la sua grave insufficienza su questo fronte con tutto quello che ne consegue: un periodo da «sorvegliata speciale», il monitoraggio della Commissione sulle azioni intraprese per rispettare le sue richieste, fino all’ipotesi estrema di vedere l’Italia sottoposta a una procedura d’infrazione simile a quella per deficit eccessivo, dalla quale per inciso è uscita appena lo scorso maggio. 

Condannati alle riforme, insomma. Se accadrà non è detto che sia necessariamente un male. Per Matteo Renzi l’esistenza di un «vincolo esterno» europeo potrebbe perfino trasformarsi in un mezzo per accelerare ancora di più quella spinta riformatrice che finora ha ampiamente evocato. Per la Commissione e per i partner comunitari, però, non è certo la riforma elettorale che il premier si prepara ad incassare quella che può rendere competitiva la nostra economia. La lista dei compiti a casa che Bruxelles ci darà è più lunga e approfondita e forse più scontata, visto che se ne parla da anni senza risultati apprezzabili: un sistema di ammortizzatori sociali che privilegi la protezione del lavoratore rispetto a quella del posto di lavoro, misure mirate contro la disoccupazione giovanile, un carico fiscale che non penalizzi il lavoro dipendente e l’attività d’impresa, un contesto economico che attiri gli investimenti stranieri, maggiore competizione nelle professioni e nei servizi... L’elenco potrebbe continuare, guardando anche a cosa ci chiedono il Fondo monetario internazionale o quell’Ocse da cui arriva il nuovo ministro dell’Economia. Del resto, come ha detto nei giorni scorsi il presidente della Bce Mario Draghi, «il problema non è cosa fare, ma farlo»; non ci sono insomma formule magiche da scoprire, ma serve la volontà di applicare ricette già conosciute. 

Se un problema esiste, nella condanna alle riforme per mano europea, è però quello che finora si è evidenziato nel campo della finanza pubblica. L’ortodossia comunitaria ha visto l’austerità di bilancio come condizione imprescindibile, anche a costo di mancare azioni di ripresa nelle economie del Sud Europa. Allo stesso modo un’agenda riformatrice dettata da Bruxelles rischia di puntare molto sulla competitività e di non prendere in considerazione azioni straordinarie di cui pure l’Italia ha gran bisogno come il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. È un rischio che nei limiti del possibile andrà evitato.

Da - http://lastampa.it/2014/03/05/cultura/opinioni/editoriali/condannati-a-cambiare-ItDtxcT8Zc4AYeuRFDQxuK/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 29, 2014, 11:11:27 am »

Editoriali
29/03/2014

Parti sociali, i perché di una crisi

Francesco Manacorda

La reazione dei principali sindacati italiani alle parole pronunciate ieri dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è sintomo di un alto grado di nervosismo o più probabilmente della netta percezione di come stia mutando - in negativo - l’orientamento della politica e dell’opinione pubblica nei loro confronti. 

Commemorando il suo predecessore Guido Carli e ricordando un altro periodo difficile come l’inizio degli Anni 70, Visco ha detto che «lacci e lacciuoli, intesi come rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali, sono sempre la remora principale allo sviluppo nel nostro Paese». Non si sono registrate repliche accese delle imprese, dei corpi burocratici o delle pur numerose corporazioni. Dai sindacati, invece - specie dalla Cgil e da una Cisl che tenta sempre più di distanziarsi dalla stessa Cgil - è arrivato un coro di proteste e di rimbrotti alle parole del Governatore. 

Perché il sindacato s’indigna per quello che non è certo un colpo diretto e specifico? Perché avverte che l’attacco portato con insistenza nelle ultime settimane da Matteo Renzi alla sua funzione di rappresentanza - e a quella speculare delle associazioni imprenditoriali - parla oggi agli umori profondi del Paese e si trova in sintonia con essi. E dunque il mondo sindacale reagisce con sensibilità esasperata a ogni commento, anche incidentale, che metta in dubbio la sua ragion d’essere e ne sottolinei invece le rigidità che ostacolano le riforme. 

Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso - oggi il più diretto avversario di Renzi nella battaglia sulla rappresentanza delle parti sociali, ma di fatto anche nel dibattito interno al Pd sulla nuova legislazione del lavoro - sostiene che di crisi del suo sindacato non si può parlare perché gli iscritti aumentano. È vero che nel 2012, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sul suo sito, gli iscritti alla Cgil sono saliti dello 0,49% arrivando a 5 milioni e 712 mila persone. Ma è vero anche che di quei 5,7 milioni 2,7 sono lavoratori attivi e ben 3 milioni pensionati. Tra i lavoratori attivi, poi, i lavoratori «atipici», ossia quelli con le forme di lavoro più diffuse tra i giovani al primo impiego, sono 71 mila e i disoccupati 13.500, ossia rispettivamente circa l’1,2% e poco più dello 0,2% del totale degli iscritti. Percentuali che danno con precisione la misura di quanto (poco) siano rappresentate in una grande organizzazione le nuove categorie del lavoro o quella dei senza lavoro. 

In passato il sindacato, con la sua difesa dei diritti - e qualche volta dei privilegi - di chi un posto fisso lo aveva, era visto da chi stava ai margini del mondo del lavoro garantito come un soggetto forse estraneo ma non ostile; la prospettiva e la speranza dei disoccupati e dei lavoratori precari era appunto quella di entrare nel mondo dei «garantiti» difesi da quello stesso sindacato. Negli ultimi anni, invece, la situazione è cambiata radicalmente: chi non ha un lavoro non riesce a sperare che nel suo futuro ce ne sia uno; chi non ha un contratto a tempo indeterminato sa che difficilmente potrà approdarvi. In molte aziende e luoghi di lavoro dipendenti divisi dall’età e dunque da diverse forme contrattuali svolgono mansioni sostanzialmente identiche, ma con sensibili disparità di retribuzione e di diritti. Lavorano fianco a fianco divisi da barriere invisibili eppure altissime. E il sindacato oggi sembra stare da un lato solo di quelle barriere. 

Il gioco al ribasso sui diritti e sulle tutele dei lavoratori è un rischio certamente da evitare, ma da evitare sono anche rigidità che non consentono alcun cambiamento. La sindrome del no - alle riforme del mercato del lavoro così come alla spending review - rischia di bloccare una spinta innovativa senza peraltro garantire un dividendo in termini di consensi a chi pronuncia sempre quel no. 

DA - http://lastampa.it/2014/03/29/cultura/opinioni/editoriali/parti-sociali-i-perch-di-una-crisi-9FAlU8Df6HJOGWhLw7pxQO/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 07, 2014, 08:36:28 am »

Economia
07/05/2014 - il caso

La partita globale di Fca in cui vince anche l’Italia
Marchionne: non un nuovo capitolo ma un nuovo libro

Francesco Manacorda inviato a Detroit

Sarà un gruppo globale, che guarda al mondo intero come mercato. Un produttore che conta su un’integrazione «culturale, prima ancora che industriale» - ci tiene a dire subito Sergio Marchionne - tra la vecchia Europa e la sempre nuova America. 

La rivoluzione cominciata cinque anni fa dalla Fiat a trazione Marchionne, con un presidente come John Elkann che ha traghettato gli azionisti di un produttore locale in continua sofferenza fino alle sponde assai più sicure di un gruppo che vede il mondo come fabbrica e mercato, prende corpo - e anche anima, oggi non sembra enfatico dirlo - in una mattinata di fredda primavera americana. Ad Auburn Hills, quello che era il quartier generale della Chrysler e diventa adesso uno dei centri nevralgici della nuova Fca, Fiat Chrysler Automobiles, i numeri e i progetti che l’amministratore delegato e la sua prima linea di manager («gente che in questi anni ne ha viste di tutti i colori») sfornano per tutta la giornata di ieri davanti agli analisti e ai giornalisti sono al tempo stesso una promessa di un futuro assai diverso da un passato di grandi difficoltà e il bilancio di un enorme cambiamento riuscito ma tutt’altro che terminato: «Non apriamo un nuovo capitolo, cominciamo a scrivere un nuovo libro».

Alcune premesse, in questo nuovo libro che si va a scrivere, sono già chiare. La prima è che nel «mondo piatto - ricorda Marchionne - non sei al sicuro in casa tua se non sei in grado di competere con le altre realtà»; niente più zone franche al riparo dalla concorrenza. La seconda premessa, speculare alla prima, è che nel nuovo mondo senza barriere le fabbriche e le automobili che producono possono avere - a patto che siano competitive - opportunità fino a ieri insperate, senza essere più legate al ciclo di un singolo mercato. 

Proprio grazie a questa nuova geografia della competizione dagli stabilimenti di un’Italia, non certo spumeggiante per domanda interna e ciclo economico, arriveranno nei prossimi anni gli otto modelli che segneranno la rinascita dell’Alfa Romeo, spinta da una robustissima iniezione di alta qualità, investimenti per 5 miliardi di euro e una produzione che a regime arriverà a 400 mila vetture l’anno. Proprio per questo da Melfi, Basilicata, le nuove Jeep Renegade prenderanno - incredibile solo pensarlo fino all’altroieri - anche la strada delle highways americane. Proprio per questo il lusso Maserati, che oggi si fabbrica a Grugliasco - periferia di Torino - e domani sarà sempre italiano ma non solo «Made in Torino», prevede di quintuplicare le vendite da 15 mila a 75 mila vetture. 

Sarà un gruppo dove girano le fabbriche, ma anche le bisarche e le grandi navi, questa Fca. Il mercato Nafta, quello nordamericano che cresce a ritmi sostenuti, lo scorso anno ha importato 32 mila auto dei marchi comuni fabbricate altrove, ne ha prodotte e vendute localmente 2 milioni e centomila, ne ha

esportate 253 mila. Tra cinque anni - raccontano le slides - le importazioni saranno più che decuplicate a 360 mila, la produzione dedicata al mercato interno sfiorerà i 2,6 milioni, l’export sarà a quota 380 mila. Nell’Emea, il mercato che comprende anche l’intera Europa dalla congiuntura ancora poco forte, le vendite saranno meno entusiasmanti e dagli 1,1 milioni del 2013 si arriverà a fine piano a 1,5 milioni. Ma la produzione totale nel continente sarà superiore, visto che il 40% delle auto che usciranno dalle fabbriche saranno destinate alle esportazioni. 

E quel che prevede il piano - spiega il capo dell’area Alfredo Altavilla - è comunque la piena utilizzazione di tutti gli impianti europei del gruppo. In Italia nel 2013 gli stabilimenti hanno girato al 53% delle loro capacità produttive. Nel 2018 quella percentuale passa al 100%. Di fronte a questo obiettivo, con la promessa di stabilimenti pieni anche se la sede sociale non è più a Torino, con la realtà di un gruppo che si rafforza grazie a una proiezione fuori dai suoi confini tradizionali, diventa difficile - se non impossibile - raccontare una Fiat che abbandona l’Italia. Non a caso le prime reazioni dei sindacalisti di casa nostra arrivati anche loro ad Auburn Hills sono molto positive. Certo, c’è anche chi ricorda il precedente di «Fabbrica Italia», il programma di massicci investimenti annunciato nel 2010 e poi non realizzato di fronte al crollo dell’economia. Ma questa volta, anche grazie al grande rilancio dell’Alfa Romeo, con il cambio di paradigma che sposta molti impianti italiani dalla produzione di auto di massa a quel segmento «premium» a maggior valore aggiunto, non si attendono sorprese: il primo modello del nuovo corso Alfa dovrà arrivare il prossimo anno, gli investimenti partiranno a brevissimo.

A completare la geografia globale del gruppo, in America Latina le vendite passeranno da 900 mila a 1,3 milioni nel 2018; in Asia si passerà dalle 235 mila vetture attuali vendute in Cina ad 850 mila per fine piano, anche grazie all’apporto di Alfa Romeo e Jeep, mentre in India - anche qui arriverà nel 2015 la Jeep - è prevista una crescita da 25 mila a 130 mila auto. 

È una scacchiera globale - quella su cui gioca la nuova Fca - dove i prodotti, le economie delle piattaforme su cui si basano modelli diversi, la logistica e le strategie di marketing giocano tutte la loro parte. La scommessa, moltiplicata per i tanti marchi - da Jeep a Fiat, da Alfa Romeo a Chrysler, da Dodge e Ram a Ferrari e Maserati - è quella di trovare per ogni auto il suo posto e la sua clientela in un mercato sempre più grande e sempre più segmentato. Il nuovo gruppo che da Torino e Detroit adesso punta a nuovi mercati, è la promessa di Marchionne, ha le carte in regola per riuscirci. 

Da - http://lastampa.it/2014/05/07/economia/la-partita-globale-di-fca-in-cui-vince-anche-litalia-1jQ1gM6LRjAjAE6s3JLzRN/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Giugno 01, 2014, 05:14:28 pm »

2/6/2008 (7:46) - L'AD DELLA FIAT AL FESTIVAL DELL'ECONOMIA DI TRENTO ACCUSA CHI FRENA LE IMPRESE

"In Italia troppi ostacoli all'industria"
 
«Se non fossi diventato manager avrei studiato fisica teorica» 
 
Marchionne: la finanza internazionale ha assunto un ruolo totalmente sproporzionato

FRANCESCO MANACORDA
INVIATO A TRENTO


«Quattro settimane fa abbiamo concluso un accordo con il presidente serbo. Le discussioni erano cominciate ad aprile e inizieremo a lavorare nello stabilimento in Serbia nel terzo trimestre di quest’anno. Invece un accordo simile per portare lo stabilimento siciliano di Termini Imerese da 90 a 200 mila vetture non siamo riusciti a farlo. Quando il sistema istituzionale comincia a creare ostacoli per ragioni di potere una multinazionale come la Fiat si sposta perché il mercato non può aspettare che qualcuno prenda il tempo per condividere degli obiettivi. In Italia non si creano le condizioni per lo sviluppo dell’industria: e se non ci riesce la più grande azienda italiana, figuriamoci se può farcela una società straniera».

Sergio Marchionne affronta di petto i nodi del sistema Italia. Sul palco del Teatro sociale di Trento l’amministratore delegato del gruppo Fiat - che proprio ieri ha compiuto i suoi quattro anni alla guida del gruppo - risponde alle domande del direttore del Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli di fronte al grande pubblico del Festival dell’Economia.

«È molto difficile fare qualcosa in Italia, dai permessi agli accordi sindacali», afferma Marchionne. Una stasi che dipende dal sindacato? Ha un ruolo positivo o negativo? «Il ruolo del sindacato - è la risposta - è utile, ma il problema è che la dialettica tra azienda e sindacato non è quello che ci vuole. Io parlo di un’azienda che deve diventare la più competitiva al mondo, dall’altra parte si parla di un accordo del ’93 quando il mercato dell’auto era completamente protetto».

Sul quadro internazionale, Marchionne vede "possibile" il petrolio a 200 dollari e non esclude nemmeno un ulteriore ribasso del dollaro: «Stiamo arrivando ai limiti del possibile. Questo non significa che il dollaro non possa raggiungere valori più bassi perché quella americana negli ultimi sette-otto anni è stata una politica non da testo di economia pura, ma criminale».

Nel mirino del Marchionne uomo d’industria c’è però soprattutto una finanza internazionale che «ha assunto un ruolo nella società totalmente sproporzionato». «Il sistema finanziario - dice, parlando della crisi dei subprime - ha creato pezzi di carta e costruito un’iper-realtà cercando di distribuire il rischio». Ora che la gran parte dei subprime «è stata smaltita attraverso le svalutazioni delle grandi istituzioni finanziarie», Marchionne condivide «con il professor Guido Rossi l’opinione che la realtà americana è molto più complessa dei subprime». «C’è un’attività globale - dice ancora l’ad del gruppo Fiat - e un sistema di vigilanza e di amministrazione delle leggi che è del tutto locale. Finché esiste questa situazione il rischio è enorme per tutti, può venir contagiato tutto il sistema finanziario».

Scenario apocalittico? «Non voglio terrorizzare nessuno. Penso solo che ci servano delle regole ben chiare sui livelli di rischio che si possono prendere nei bilanci delle banche e ci voglia un livello di trasparenza ben maggiore».

Ma a Trento non è solo tempo di scenari, c’è anche spazio per qualche divertissment. L’auto dei sogni? «Una Jaguar XKE. Da studente spesi tutto per comprarne una. Era un catorcio di dieci anni, non partì mai». Se non fosse stato un supermanager? «Avrei studiato fisica teorica. In Inghilterra. Mi piace la pioggia».

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:14:03 am »

Editoriali
05/06/2014

Liberarsi dall’abbraccio del passato

Francesco Manacorda

A volte, troppo spesso, ritornano. Ritornano dalle cronache degli Anni 90, come è accaduto per la coppia bipartisan Greganti-Frigerio indagata per le tangenti legate all’Expo 2015, e come è successo anche ieri per alcune figure coinvolte nella nuova inchiesta per corruzione sul Mose, il sistema che dovrebbe difendere Venezia dall’acqua alta, ma che pare averla esposta anche alle correnti tangentizie. Ritornano per affermare un insopportabile teorema - ossia che in Italia i grandi eventi facciano spesso rima con grandi tangenti - per incrinare la nostra immagine all’estero, che di certo uscirà ancora più ammaccata da questa vicenda che coinvolge una città unica al mondo, ma anche per ricordarci che c’è un abbraccio mortale della Prima Repubblica dal quale bisogna liberarsi al più presto. 

Si può discutere a lungo di quanto l’ambiente che scopriamo di nuovo in questi mesi - purtroppo solo grazie alle inchieste della magistratura e non alla presenza di anticorpi nel sistema dei controlli interni - sia simile o diverso da quello della Tangentopoli degli Anni 90. 

È vero, come sottolineano in molti, che vent’anni fa ci trovavamo più spesso in presenza di collettori di tangenti da convogliare poi ai partiti, mentre adesso il quadro è quello di un sistema tangentizio in «franchising» nel quale i vecchi ufficiali pagatori di partito si sono trasformati in indefiniti, ma evidentemente funzionali intermediari d’affari per imprese pronte a utilizzare i loro servizi. 

Ma al di là di queste differenze evidenti resta il fatto che il fallimento della Seconda Repubblica, quella che si sarebbe dovuta sviluppare proprio dalle ceneri del sistema dei partiti crollato nel ’92, si può attribuire anche ad alcune caratteristiche sostanziali e negative della Prima Repubblica che sono andate via via peggiorando nei decenni trascorsi dalla Liberazione e che portavano verso il declino di Tangentopoli. Un’eredità fatta di pratiche clientelari e spesso corruttive, di incapacità di un’azione riformatrice e al contrario di sottomissione a un sistema paralizzante di veti incrociati che nasceva da rapporti in buona parte consociativi ha segnato - sotto il peso della crisi finanziaria ed economica - la fine di un sistema incapace appunto di cambiare. 

Se una Terza Repubblica caratterizzata dall’affermazione personale di Renzi, ma anche da forti sentimenti di antipolitica - che anche ieri hanno trovato nutrimento nella rappresentazione del connubio tra affari e politica in Veneto - vuole avere la speranza di farcela, deve liberarsi da questo lungo abbraccio del passato. Il premier, che gioca la sua partita in conflitto e al tempo stesso sospinto proprio dai sentimenti diffusi di sfiducia nella classe politica tradizionale, ha già annunciato di voler scardinare alcuni elementi fondanti di questa eredità indesiderata, a partire appunto dal sistema di veti incrociati che ha bloccato molte riforme possibili negli ultimi anni. 


Perché la politica possa riformarsi e riguadagnare consensi deve andare a fondo anche nel rapporto con il mondo degli affari. Non si tratta solo di condannare, come è ovvio, comportamenti illeciti sanzionabili dalla magistratura. Né di reintrodurre, come pure sarebbe assai auspicabile, una disciplina sul falso in bilancio più severa di quell’unicum planetario passato in epoca Berlusconi. E non basteranno nemmeno figure come quelle del Commissario anticorruzione previsto proprio per l’Expo. La battaglia contro la burocrazia che il premier considera uno dei punti fondamentali del suo programma può servire a snellire i processi decisionali, ma anche a non offrire troppo potere discrezionale a chi concede permessi e licenze, ad evitare che nella giungla di norme e regolamenti ci sia chi si offre a pagamento per trovare il percorso migliore e chi accetti quell’offerta. Lo chiedono quasi in contemporanea, ed è significativo, il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi - che prende atto della gravità della situazione annunciando che nella sua associazione non c’è spazio per i corruttori - e il Procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. Processi decisionali trasparenti, pubblicità di tutti gli atti, procedure il più possibile standard sono anch’essi un modo per sfuggire all’abbraccio mortale del passato. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/05/cultura/opinioni/editoriali/liberarsi-dallabbraccio-del-passato-vzIKAIqs9FkSfqxG8GTqgK/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:03:57 pm »

Editoriali
30/07/2014

L’ultima chiamata

Francesco Manacorda

Questa è davvero l’ultima chiamata per Alitalia. La mail inviata ieri pomeriggio dall’amministratore delegato di Etihad James Hogan al «Dear Gabriele» Del Torchio - che guida la compagnia di bandiera - è ultimativa nei contenuti, se non negli stessi toni. Senza una soluzione chiara sui punti ancora aperti nella trattativa - e in parte scompaginati dalla decisione dell’azionista Poste di non partecipare all’aumento di capitale della «vecchia» Alitalia-Cai, ma di versare invece i suoi soldi in una società intermedia tra la vecchia e la nuova Alitalia - gli arabi avvertono che la chiusura dell’accordo prevista al massimo per domani, non ci potrà essere. 

Elenco lungo, quello delle questioni aperte, e tempi cortissimi. Non è una combinazione ideale. Mentre le banche azioniste paiono aver appena trovato un faticoso accordo con le Poste per la sua partecipazione all’operazione, Etihad vuole garanzie che la vecchia Alitalia sia comunque capitalizzata a sufficienza - 250 milioni era l’impegno originario dei soci italiani - per evitare di trovarsi invischiata in contenziosi del passato. Ribadisce che dagli Emirati arriveranno 560 milioni, ma che questa cifra servirà al rilancio della compagnia e non certo a tamponare vecchie emergenze. Dunque, senza l’impegno esplicito dei soci italiani a mettere i soldi stabiliti - o forse anche più di quei 250 milioni - l’accordo non si farà. Ma tra le richieste di Etihad ci sono anche questioni che giacciono da lunghissimo tempo sulle scrivanie dei manager Alitalia e dei loro azionisti e che in parte chiamano in causa anche il governo: dalla decisione sul contenzioso con la Air One di Toto a quell’accordo con i sindacati che - incredibilmente - ancora non è condiviso da tutti, viste le resistenze dei piloti rappresentati dalla Uil. 

Anni e anni di incrostazioni sindacali e partitiche, di compromessi della finanza e delle banche con la politica, di improbabili impegni di imprenditori «patrioti», adesso devono insomma trovare soluzione. E non entro i prossimi quarantotto mesi o in quarantotto giorni, ma nel giro di sole 48 ore. Sarà possibile che questo avvenga? L’aria di grande preoccupazione che si respirava ieri sera nei palazzi delle banche e del governo non era certo un indizio confortante. A molti pare impossibile dare una riposta alle richieste della compagnia degli Emirati entro domani. 

È possibile che la missiva di Hogan rappresenti anche la classica «stretta» negoziale. E che nella migliore tradizione italiana dell’accordo all’ultimo minuto, della trattativa notturna con il sindacato, del rito dell’ultimatum, alla mezzanotte di giovedì si arrivi al termine di questo estenuante negoziato. Ma se così non fosse ci sarebbero davvero poche alternative al fallimento dell’Alitalia. Sarà meglio che molti lo tengano a mente in queste brevissime 48 ore.

Da - http://lastampa.it/2014/07/30/cultura/opinioni/editoriali/lultima-chiamata-BBXeYipYN34NGSjxQ1iOWN/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:30:03 pm »

Casaleggio parla troppo, Trichet chiude il microfono
A Cernobbio l’intervento sulla scuola del guru del M5S

07/09/2014

Francesco Manacorda
Inviato a Cernobbio (Co)

Era attesissimo a Cernobbio come l’AntiRenzi, il politico che pur stando contro i poteri forti non rifiuta di mostrare il suo volto dialogante. Ma l’intervento di Gianroberto Casaleggio al Forum Ambrosetti si trasforma ieri sera in una scena un po’ incresciosa, con il guru del movimento Cinque Stelle - qui però solo in veste di imprenditore della new economy - palesemente in difficoltà di fronte a un pubblico non generosissimo che rumoreggia. Casaleggio entra nei saloni di Villa d’Este da un ingresso secondario, schivando giornalisti e fotografi; abito chiaro e un cappello che terrà sempre sulla testa. 

In sala lo attende un panel sull’istruzione, l’ultimo della giornata, al quale partecipa anche il ministro Stefania Giannini. In aprile, secondo notizie di stampa, è stato operato per un edema al cervello e da allora nelle sue apparizioni pubbliche è apparso provato. 

Quando arriva il suo turno offre al pubblico una corposa spiegazione sulle prospettive di internet e dell’economia digitale, condita da slides con le immagini del gioco del Monopoli. Chi lo ha già visto qui lo scorso anno lo trova decisamente meno brillante, come è del resto comprensibile per chi ha avuto problemi di salute.

Peccato però che le regole dei dibattiti al Forum siano ferree: un tot di minuti per oratore e poi un allarmante lampeggiatore rosso si accende a placare qualsiasi residua velleità di parola. Casaleggio, che non ha finito nel quarto d’ora regolamentare, incorre nelle ire dell’ex presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, inflessibile nella conduzione degli oratori così come lo è stato - non sempre con esiti felici - nella politica monetaria di austerità degli ultimi anni. Il banchiere lo interrompe in inglese, richiamandolo ai tempi, ma Casaleggio non pare darsene per inteso. Impossibile però per lui continuare a parlare, anche perché al primo accenno di voler dare ulteriori spiegazioni dalla platea parte un coro non proprio entusiasta: «No! Basta!». E Trichet, rigido controllore dei tempi del dibattito, gli chiude il microfono. 

Non andrà molto meglio al momento delle repliche: Casaleggio sfora di nuovo, i banchiere francese s’inquieta, il ministro Giannini media cedendo il suo tempo all’imprenditore, ma anche questo non basta. Chiusura, anche in questo caso, con qualche contestazione del pubblico. Lui, prima di riprendere l’uscita secondaria e imbarcarsi sulla sua auto dribblando di nuovo i cronisti, la prende con filosofia: «Vi ringrazio per l’attenzione a questo mio non voluto intervento sincopato».

In serata, l’intervento viene pubblicato sul blog di Beppe Grillo. Ma nell’audio, evidentemente registrato in un’altra occasione, non c’è traccia delle contestazioni in sala. E se la presenza di Casaleggio non è un successo c’è anche un’assenza da spiegare. È quella del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, in mattinata con Renzi nel bresciano e nel pomeriggio atteso qui. Assenza polemica sulla scia della fatwa contro il Forum lanciata dal premier? In collegamento telefonico il ministro assicura di no: un acciacco improvviso lo ha bloccato sulla strada verso Cernobbio

Da - http://lastampa.it/2014/09/07/economia/casaleggio-parla-troppo-trichet-chiude-il-microfono-RrcAwoqohbkzTh9Qshcb8J/pagina.html
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« Risposta #42 inserito:: Settembre 13, 2014, 06:23:43 pm »

Vincere in pista, un passo necessario per la corsa agli Usa
La mossa del Ceo non muta la strategia di Fca in vista dello sbarco a Wall Street di metà ottobre

11/09/2014
Francesco Manacorda

Ha appena vinto il Gran Premio più importante della sua carriera, quello che ha visto Fiat-Chrysler tagliare il traguardo di una fusione che completa dieci anni di lavoro.

Ma adesso, invece di festeggiare ai box, Sergio Marchionne prende la guida della Ferrari e si rimette in gioco con un messaggio chiaro: «Vincere in pista fa parte del Dna della casa; lavoreremo come dannati per questo». Dunque la vittoria «in pista» è ciò che il Ceo del gruppo vuole ottenere dalla Ferrari. Perché, se non è un caso che il Cavallino sia oggi il brand più forte del mondo, l’oggetto del desiderio per il quale tycoon, principi e miliardari si mettono disciplinati in fila dal concessionario, questo avviene in buona parte per la sua reputazione sportiva. E se un Gran Premio perso o vinto non fa certo la differenza in termini di vendite, sei anni di fila senza strappare un titolo, rischiano alla lunga di appannare il marchio che si nutre anche di una lunga serie di successi. Purtroppo passati. È questo il ragionamento che sta dietro le dichiarazioni di ieri di Marchionne; è questo il principale motivo - condito da qualche frizione personale di cui anche nella conferenza stampa congiunta, seppure tra i sorrisi, si è avuta conferma e che pare adesso superata - che porta al cambio della guardia a Maranello, i cui risultati finanziari vengono invece considerati soddisfacenti. 

Ma l’arrivo del Ceo di Fiat-Chrysler ha come obiettivo una rivoluzione in Ferrari anche fuori dai circuiti di gara? I primi segnali non paiono indicarlo. Ieri Marchionne ha confermato la fiducia nella prima linea dell’azienda - in testa l’amministratore delegato Amedeo Felisa. Ed ha indicato anche che nulla cambia nella strategia industriale di Fca illustrata ai mercati finanziari lo scorso maggio ad Auburn Hills - un grande gruppo globale da 7 milioni di auto entro il 2018 - sottolineando più volte la specificità del Cavallino e mandando in archivio i rumors più o meno fantasiosi su possibili novità che spaziavano dalla quotazione separata a una Ferrari «made in Usa». 

 Che la Rossa sotto la nuova gestione possa diventare «americana» non è proprio un tema all’ordine del giorno; diciamo che lo spettro di un Cavallino a stelle strisce è un argomento polemico usato nelle ore passate, quando la tensione sull’asse Maranello-Torino era più alta e i colpi più bassi. Ma come è ovvio in casa Fiat-Chrysler tutti, a partire dal presidente John Elkann e dallo stesso Marchionne, hanno ben chiaro il valore aggiunto della Ferrari sta anche e soprattutto nel suo essere un marchio unico e preziosissimo, che esprime il meglio dell’italianità. Sarebbe «osceno» - Marchionne dixit - solo pensare di produrne una negli Stati Uniti, sebbene proprio gli Usa siano il primo mercato di Maranello. Dunque la questione di un ipotetico sfregio all’identità nazionale di Ferrari, anche se all’interno di un gruppo che è ormai pienamente globale come Fca, si chiude prima ancora di essere aperta. Né il gioiello più prezioso del gruppo automobilistico verrà fagocitato in qualche modo dagli altri marchi. 

«Ferrari - ha ribadito ieri Marchionne - non può appoggiarsi al sistema Fiat-Chrylser nè per le tecnologie nè per l’accesso ai mercati». Se un travaso di competenze e tecnologie avverrà, sarà sempre mettendo Maranello a monte e il resto del gruppo sotto, in modo da raccogliere competenze e innovazione anche nei modelli che dal lusso purissimo della Rossa entrano in quel territorio - su cui il piano industriale di Fca scommette molto - del «lusso accessibile». Accade già con i motori Maserati, che sono «made in Ferrari», non è detto che non possa accadere in futuro per la stessa Maserati o magari per i nuovi modelli Alfa Romeo ai quali dall’anno prossimo spetta uno dei compiti più difficili nella strategia di Marchionne: rompere il predominio dei concorrenti tedeschi nella fascia alta del mercato. Del resto, anche in questo caso il Ceo lo ha ricordato ieri, qualche figura di Maranello è già stata precettata proprio per aiutare i marchi appena citati nell’evoluzione verso fasce sempre più alte di mercato. 

Insomma, il Marchionne che aggiunge alla lista dei suoi uffici a Torino, Londra ed Auburn Hills anche quello a Maranello, porterà qualche rivoluzione in Ferrari e - almeno la sua speranza è questa - sui circuiti di tutto il mondo, ma non sarà certo il nuovo passaggio a rivoluzionare l’intero assetto del piano di Fca per i prossimi cinque anni. Ma certo la chiarezza nella nuova scelta è stata premiata anche ieri dalla Borsa - il titolo va su dell’1,8% - ed è probabile che agli azionisti e al Ceo non dispiaccia presentarsi sul mercato di Wall Street dove Fca sarà quotata da metà ottobre, con tutte le stanze delle grande casa automobilistica messe in ordine. Anche con una governance che attribuisca direttamente a Marchionne onori ed oneri nella gestione del gioiello Ferrari.

Da - http://lastampa.it/2014/09/11/cultura/opinioni/editoriali/vincere-in-pista-un-passo-necessario-per-la-corsa-agli-usa-FPP0SFLwa0gdiIj7EGlUYN/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Settembre 20, 2014, 03:45:27 pm »

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce
19/09/2014

Francesco Manacorda

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira - fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese - rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. 

 In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro - così si chiama in gergo - di Francoforte. 

 Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe. 

 Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria - dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia - ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi. 

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce - seppur praticamente gratuiti - per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. 

Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce. 

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta. 

Da - http://lastampa.it/2014/09/19/cultura/opinioni/editoriali/il-colpo-quasi-a-vuoto-della-bce-Z06iGPp6jA53TN97wx9jPI/pagina.html
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« Risposta #44 inserito:: Ottobre 26, 2014, 08:30:57 am »

Ora sotto esame ci sono le banche

24/10/2014
Francesco Manacorda

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone - analisti di Borsa e uomini delle banche - che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità - e non più delle singole autorità nazionali - su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti - quelli delle banche - si apprestano così a un esame europeo. 

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. 

Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio. 

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. 

Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 - un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose - ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale - per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali - da noi la Banca d’Italia - dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

 

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo - tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo - ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori - chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni - avranno dei parametri per orientarsi meglio. 

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iperprudenziale dei regolatori - dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme - rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/24/cultura/opinioni/editoriali/ora-sotto-esame-ci-sono-le-banche-QegmKH0ufByWqyhaHazvlJ/pagina.html
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