LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:38:23 pm



Titolo: FRANCESCO MANACORDA.
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:38:23 pm
22/7/2007
 
Politica e ipocrisia
 
FRANCESCO MANACORDA
 

Il rapporto tra etica e politica è questione su cui tutti, e in particolare il centrosinistra, hanno il dovere non solo di riflettere, ma anche di avanzare proposte che fissino regole e principi capaci di assicurare trasparenza di comportamenti».

E’ il 4 gennaio 2006 e il segretario dei Ds Piero Fassino detta con queste parole la sua linea sui rapporti tra politica e affari.  Ce ne ricordiamo tutti». E’ il 5 luglio 2005 - sei mesi prima, mica un trentennio, di quelle parole su etica e politica - e lo stesso Fassino rassicura così Giovanni Consorte che lo aggiorna sui progressi della scalata a Bnl e se la piglia nell’ordine con i banchieri Bazoli, Iozzo, Modiano, Geronzi dicendo anche che «bisogna ricordarsi, poi» del loro atteggiamento.

Dunque, almeno un merito a questo stillicidio di conversazioni intercettate tra il gran capo dell’Unipol e i vertici dei Ds va riconosciuto. Quei nastri trascritti rappresenteranno pure il massimo dell’inciviltà giuridica e mediatica, saranno con ogni probabilità irrilevanti ai fini del codice penale, ma hanno il pregio di aprire per una volta - una volta sola, nella miriade di intrecci spesso non rivelati che ci circondano - il velo che avvolge i rapporti tra politica e affari. Non uno squarcio rivelatore, per carità. Appena un piccolo strappo che permette di gettare un’occasionale occhiata di disincanto sulla realtà di quei rapporti rispetto alla loro rappresentazione pubblica, sulle pratiche private della politica in contrasto con le sue ritualità pubbliche quando si tratta di uno dei grandi argomenti - e dei grandi poteri - tabù come il denaro.

Del resto sempre un anno e mezzo fa, mentre esplodeva il caso delle intercettazioni Unipol, Romano Prodi spiegava proprio in una lettera a La Stampa che la politica «deve fare un passo indietro» e «non deve partecipare alle vicende dell’economia ma deve essere interlocutore indipendente di coloro che sono chiamati ad assumere le decisioni operative».

Dove sono le regole nuove che alcuni dei massimi esponenti della maggioranza proponevano un anno e mezzo fa? Per quel che riguarda le enunciazioni di Prodi non risultano, al momento, particolari passi indietro. E in quanto al «non partecipare alle vicende dell’economia», le notizie di questi ultimi mesi sulle vicende Telecom - piano Rovati compreso - sembrano arrivare da un altro pianeta rispetto a quello descritto dal premier. Anche da Fassino, che pochi giorni dopo quel 4 gennaio aveva tracciato davanti alla direzione nazionale dei Ds un piano tanto esteso quanto vago che andava dall’attacco alle scatole cinesi al fatto «che i fondi d’investimento non siano proprietà delle banche», fino a «un vero e netto rafforzamento dei poteri della Consob e dell’autorità Antitrust», non paiono essere arrivate novità sui temi economici e sui loro rapporti con la politica.

Quella in azione, insomma, è una politica distratta o più probabilmente ipocrita. Una politica che invoca le regole sull’onda dell’emergenza, ma che poi quelle regole non le mette mai in campo o - se e quando ci sono - dimostra di essere pronta ad accantonarle per interessi di parte. Una politica - parlando del centrosinistra di governo - che si è proposta come alternativa a quel conflitto di interessi fatto persona che porta il nome di Silvio Berlusconi, con le sue molteplici aziende e con una leadership istituzionale che è prima di tutto leadership economica, ma che allo stato delle cose non è stata certo in grado di mantenere i suoi impegni.

A dirlo, però, c’è da vedersi rilanciare contro proprio l’accusa di ipocrisia. Lo stesso premier, parlando a Trento ai primi di giugno, ha messo in scena una sorta di «Prodi Pride» con l’orgogliosa rivendicazione dell’intervento pubblico in economia come caratteristica comune di tutto l’Occidente, almeno a parole, liberista: «A Bruxelles, quando con Mario Monti abbiamo bloccato la fusione tra i colossi americani General Electric e Honeywell, si è mossa pure la Madonna». E ancora, «quando vedo Bush di che cosa credete che si parli? Di musica e farfalle?».

Tutto vero. Ma le strade per affermare il ruolo della politica rispetto all’economia possono essere anche diverse rispetto a quelle dell’ingerenza sulle singole operazioni. Ne sa qualcosa la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in queste settimane sta mobilitando - pubblicamente - i governi europei alla ricerca di regole comuni contro i «sovereign funds», quei megafondi d’investimento controllati da governi spesso asiatici che hanno messo gli occhi su settori importanti per l’economia Ue. La sua battaglia è discutibile e discussa, gli interessi che vuole difendere possono non rivelarsi gli interessi dell’economia tedesca ed europea. Ma quella della Merkel è una posizione che ha il pregio di essere alla luce del sole: la si legge sui giornali senza che debba prima passare dai dattilografi delle Procure.

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO MANACORDA.
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:32:26 pm
15/3/2012

Wall Street colpita al cuore dal pentito di Goldman Sachs

FRANCESCO MANACORDA

Gli interessi dei clienti continuano ad essere penalizzati dal modo in cui l’azienda pensa e agisce quando si tratta di fare soldi». Il re di Wall Street è nudo. E’ chi lo grida al mondo non è un bambino, o un contestatore anti-sistema, ma un navigato banchiere d’affari che fino a ieri ricopriva un posto di non infimo rango alla corte di Goldman Sachs; come dire la real casa della finanza Usa con 143 anni di tradizione alle spalle.

Ora non più. Sbatte la porta Greg Smith - dodici anni in Goldman fino a guidare il business dei derivati azionari americani in Europa, Medio Oriente ed Africa - lanciando un anatema che colpisce ancora più duro proprio perché arriva dal cuore stesso dell’impero finanziario. E per sovrammercato lo fa tradendo la regola aurea della discrezione: la sua lettera di dimissioni non plana silenziosa sulla scrivania del supercapo globale Lloyd C. Blankfein, ma esplode dalla pagina dei commenti del New York Times, lasciando ko la banca e deflagrando nell’intero universo di Wall Street.

Dunque l’ambiente di Goldman Sachs - scrive Smith nel suo testamento professionale - «è oggi così tossico e distruttivo come non l’ho mai visto», mentre alle riunioni di lavoro «non si spende un singolo istante per chiedersi come possiamo aiutare i clienti. Si tratta solo di come possiamo fare più soldi possibile levandoli a loro». Parole forti. Ma sono notizie? Probabilmente no. Forse si tratta addirittura di parole banali, che anche molti di noi - plebei della finanza lontani anni luce da Wall Street - potrebbero tranquillamente sottoscrivere anche dopo un’occhiata al loro desolante estratto conto. La denuncia risuona però fortissima perché a pronunciarla non sono i ragazzi barbuti e le signore di mezza età che da mesi sfilano al grido di «Occupy Wall Street». No, questa volta c’è un «insider», uno dei dodicimila vicepresidenti - non è un errore di stampa - sui trentamila dipendenti, segretarie comprese, di Goldman che all’improvviso decide di dire basta.

Nella lettera di Smith ci sono altri dettagli che spiegano più di molti trattati le ragioni del divorzio tra la grande finanza e il mondo reale: «Negli ultimi dodici mesi ho visto almeno cinque manager riferirsi ai loro clienti chiamandoli “muppets”»; intesi non tanto come i pupazzi dell'omonimo show, ma come l’equivalente di «idioti». E poi il breviario per far carriera in Goldman: dal «persuadere i tuoi clienti a investire in azioni o altri prodotti di cui noi stiamo cercando di sbarazzarci», alla «caccia all’elefante», leggasi «portare i tuoi clienti a vendere o comprare quello che fa fare i maggiori profitti a Goldman».

Ieri, mentre le parole del «pentito di Wall Street» - come è stato facile soprannominarlo al volo - facevano il giro del mondo, la macchina ufficiale di Goldman si è messa al lavoro per contenere i danni e quella ufficiosa della maldicenza si è attivata per derubricare le sue parole al mugugno di un frustrato che - spiegano alcuni suoi colleghi - guadagnava «solo» 750 mila dollari l’anno. «Ovviamente le asserzioni di questa persona non riflettono i nostri valori e la nostra cultura», replicano i vertici della banca in una lettera dove non mancano gli «impegni a lungo termine» e la «cultura del cliente». Per Goldman Sachs, già colpita un anno fa da un’inchiesta della Sec - la Consob americana - che l’accusava di scommettere contro gli stessi strumenti finanziari che vendeva ai propri clienti, il «fuoco amico» di Smith rischia di provocare danni enormi. Per Wall Street tutta il messaggio è che il nemico non è più laggiù, nei cartelloni che riempiono le strade sotto i grattacieli, ma potrebbe essere nel cuore stesso di un sistema che non sa - e non vuole - cambiare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9883


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il vero peccato delle agenzie? Arrivare tardi
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 04:57:58 pm
16/5/2012

Il vero peccato delle agenzie? Arrivare tardi

FRANCESCO MANACORDA

No, non ha certo ragione chi dal mondo politico, da quello industriale e da quello bancario, grida con toni altissimi al complotto antitaliano delle agenzie di rating.

E non si capisce a quale titolo se non per una costante e impropria voglia di protagonismo politico - la Consob faccia sapere di aver convocato i vertici di Moody’s.

Ma questo non significa che l’agenzia Usa, abbassando lunedì sera il merito di credito di ventisei nostre banche abbia reso un buon servizio al mercato e agli investitori. Il motivo è semplice: il giudizio emesso - che in sostanza significa che i nostri istituti hanno un po’ meno probabilità di rimborsare i loro debiti di quanto la stessa agenzia pensasse in precedenza e che quindi prendere denaro in prestito diventerà per loro più caro - era già scontato dal mercato. La prova? Ieri mattina, all’apertura delle Borse europee e con il corposo rapporto di Moody’s universalmente noto, le banche italiane andavano benissimo. Unicredit e Intesa-Sanpaolo erano addirittura le due migliori in Europa. Poi, nel pomeriggio, il clima è bruscamente cambiato. Ma non solo sulle banche e non certo per il giudizio di Moody’s. Il motivo, sotto gli occhi di tutti, si chiama Grecia. La paura, ovviamente, è quella di un’esplosione dell’euro.

Ancora una volta, insomma, un’agenzia di rating non ha fatto da vedetta per segnalare al mercato quali terreni e quali insidie ha davanti, ma da semplice cartografo che descrive un territorio già esplorato. La riduzione del voto sulle banche segue del resto in modo quasi automatico quella del voto sulla Repubblica italiana espressa da Moody’s lo scorso febbraio e si basa su tre motivi principali - economia in recessione aggravata dalla politica di austerità, aumento delle sofferenze bancarie, accesso più difficile al finanziamento da parte degli istituti che non sono smentibili, ma che non rappresentano una novità. Anzi, alla luce dei buoni risultati trimestrali di alcune banche che stanno uscendo in questi giorni, certe preoccupazioni potrebbero anche risultare eccessive.

La bocciatura, per quanto scontata, non è però neutra: riducendo il merito di credito degli istituti colpiti ne aumenta i costi di finanziamento. E questo, in un momento in cui la liquidità di tutta Europa è scarsa e sostanzialmente parcheggiata presso la Banca centrale europea che dopo due maxioperazioni di finanziamento potrebbe già vedersi costretta a una terza mossa dello stesso tipo - rischia di aggravare la situazione dell’economia italiana, spingendo le banche a ridurre ancora di più i finanziamenti alle imprese. Questo può spiegare le reazioni accese di industriali e banchieri. Mentre le dichiarazioni roboanti dei politici si possono facilmente ascrivere al capitolo della demagogia: tuonare contro le agenzie di rating, gli immancabili «speculatori» e la cecità della finanza, non ha mai fatto perdere un voto. Anzi. E nessuno pare avere interesse a chiedersi se chi urla oggi contro la presunta congiura di Moody’s sia stato a qualche titolo corresponsabile di una situazione dei conti pubblici italiani che si tira dietro le ricette di austerità, il rallentamento economico e in ultima istanza il giudizio peggiore sulle banche.

Se le agenzie di rating volessero servire a qualcosa, e magari riacquistare un minimo di credibilità, potrebbero sforzarsi di guardare avanti invece che indietro. Se le agenzie di rating volessero servire a qualcosa, e magari riacquistare un minimo di credibilità, potrebbero sforzarsi di guardare avanti invece che indietro. E magari, come suggerisce Antonio Guglielmi di Mediobanca - uno degli analisti più esperti di banche in Europa, che il suo giudizio sul settore, non solo in Italia, l’aveva abbassato già quindici mesi fa potrebbero rompere il tabù della tripla A, ossia il voto massimo, costantemente attribuito alla Germania: «Con un’Europa in tempesta, un’economia tedesca che si basa per metà sulle esportazioni e una politica monetaria comune appare incomprensibile come Berlino possa essere ancora considerata un’isola felice». E un realistico abbassamento del suo rating - sostiene Guglielmi – «oltre a orientare per una volta i mercati invece di seguirli, potrebbe spingere nell’inevitabile direzione degli Eurobonds - i titoli di Stato dell’intero Continente - e di una politica monetaria più permissiva». Come quella che oggi aiuta gli Usa o il Giappone a non affogare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10110


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Avio, la strada è il mercato
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 10:18:00 am
1/6/2012

Avio, la strada è il mercato

FRANCESCO MANACORDA

Una mossa strategica per assicurare che un’eccellenza tecnologica - quella di Avio resti in qualche modo ancorata all’Italia. Ma anche un segnale chiaro che la strada maestra per l’uscita del gruppo aerospaziale dall’orbita del fondo di private equity, che oggi ne possiede l’85%, è quella di una quotazione.

Dietro la mossa annunciata ieri dalla Cassa Depositi e Prestiti, che attraverso il Fondo Strategico Italiano si è impegnata a rilevare la quota che Finmeccanica possiede oggi in Avio e a salire fino al 15% del capitale a patto che la strada scelta sia proprio quella della quotazione in Borsa, si legge una scelta finalmente dettata da logiche di medio periodo e da un’idea di sviluppo che guarda anche oltre i confini nazionali.

La strada da percorrere per Avio, che significa anche 5200 dipendenti sul territorio italiano, dal Lazio al Piemonte, e circa seicento all’estero, non è ancora stata scelta dal fondo Cinven che ne controlla la maggioranza. All’ipotesi di quotazione si potrebbe infatti sostituire quella di una vendita ad altri fondi di private equity e quella dei cosiddetti «compratori strategici», un’acquisizione da parte di gruppi oggi collaboratoriconcorrenti della stessa Avio come la francese Safran o il colosso americano Ge. Dipenderà dalle condizioni dei mercati e, in ultima istanza, da quale soluzione offrirà a Cinven il massimo profitto. Ma è il caso di dire che una quotazione, oggi non scontata viste le condizioni dei mercati, sarebbe la scelta che più garantirebbe lo sviluppo futuro del gruppo. La scelta che sperabilmente dovrebbe far crescere sulle gambe del mercato un gruppo con ambizioni europee e, perché no, mondiali, che proprio alla Borsa potrebbe rivolgersi per trovare risorse.

È vero che proprio la parabola di Avio - soci privati stranieri e crescita del fatturato e della redditività con più occupazione in Italia - confrontata a quella di Finmeccanica - presenza di un socio pubblico nazionale unita a risultati nel complesso tutt’altro che esaltanti potrebbe mettere in guardia da interventi come quello annunciato ieri, che rischiano di essere tacciati di protezionismo. Ma guardando un po’ più a fondo, dietro quella che alcuni chiameranno l’invadenza del capitalismo pubblico, si può scorgere invece un segno di impegno - e di preoccupazione - istituzionale che non sbarra la strada al mercato, ma si fa invece suo garante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10174


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La spinta da ritrovare
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2012, 10:39:58 am

7/6/2012

La spinta da ritrovare

FRANCESCO MANACORDA

Il nostro sistema industriale perde colpi sul piano internazionale e dal 5˚ posto nella classifica della produzione manifatturiera che occupava nel 2007 - avverte la Confindustria - è sceso, lo scorso anno, all’ottavo.

Certo, nella gara conta la cavalcata dei Paesi emergenti, con Cina, India e Brasile in testa a tutti. Ma sul rischio di un declino del sistema produttivo, che gli stessi industriali evocano parlando di «soffocamento», pesano anche fattori che poco hanno a che vedere con la globalizzazione e molto con i mali di casa nostra: dalla difficoltà del credito che colpisce specie le piccole e medie imprese, ai ritardi dei pagamenti della Pubblica amministrazione, fino a un deficit di produttività delle imprese italiane dietro il quale stanno debolezze industriali mai risolte così come fattori «ambientali» che vanno da un prezzo dell’energia più alto dei concorrenti europei alla lunghezza incalcolabile dei tempi della giustizia.

Oggi suonerà così quasi come una risposta alle posizioni di Confindustria - che avverte anche di come rinunciare al manifatturiero significhi anche rinunciare all’evoluzione del sistema industriale - la prima parte del decreto Sviluppo, varata dal consiglio dei ministri. Il piano messo a punto dal ministro Corrado Passera punta sulla riforma degli incentivi con crediti d’imposta per assunzioni di nuovo personale altamente qualificato; apre la possibilità anche per le piccole e medie imprese di ricorrere al mercato dei capitali, promettendo così di strapparle alle difficoltà del credito bancario e una Borsa che per la maggior parte di loro resta irraggiungibile; introduce una riforma del diritto fallimentare che dovrebbe rendere meno rischioso per le imprese in crisi dichiarare in tempo la loro situazione.

Tra i tecnici che hanno a messo a punto le norme si parla di una rivoluzione per certi versi «epocale», ma si respira anche la frustrazione che i vincoli di bilancio impongono, con il risultato di soluzioni tendenzialmente a costo zero e qualche vigorosa sforbiciata - rispetto alle attese - sull’entità di alcune misure.

Una situazione che riporta al dilemma irresolubile del rilancio di un Paese, ma anche dell’Europa, sotto il giogo di un pesantissimo rigore finanziario. Perfino il presidente della Bce Mario Draghi, utilizzando ieri parole non scontate per un banchiere centrale che si esprime dalle parti di Francoforte, ha avvertito che «ora c’è bisogno di crescita» e che il risanamento «non si può basare solo sulle tasse». E anche per non deresponsabilizzare i governi europei e la regìa comunitaria, ha suggerito, la Banca centrale non offre almeno per ora la sponda a una politica monetaria più rilassata.

Per il governo Monti, nei fatti e nelle dichiarazioni di questi giorni, c’è un doppio avviso. Il primo riguarda la necessità di non spingere oltre la pressione fiscale, lavorando invece su quella riduzione della spesa pubblica che sta faticosamente avviando, per portare verso l’equilibrio indispensabile i conti dello Stato senza che la congiuntura abbia a soffrirne più di tanto. Ma è il secondo avviso, forse meno esplicito, quello che suona più forte: la necessità di ritrovare la spinta riformatrice che aveva caratterizzato i primi mesi, forse solo le prime settimane, di questo esecutivo e che adesso sembra essersi rapidamente spenta. Chi ci osserva, anche dall’estero, non può fare a meno di notare come il cammino verso vere riforme si sia interrotto troppo presto. E senza riforme, non solo fare impresa rimarrà una corsa a ostacoli, ma quella crescita tanto evocata rischierà di non materializzarsi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10200


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Crescita low cost
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:38:29 pm
16/6/2012

Crescita low cost

FRANCESCO MANACORDA

Stretto tra un’Europa in fibrillazione, un Paese col fiato corto e una politica dalla vista cortissima, il governo guidato da Mario Monti compie allo stesso tempo uno scarto e uno scatto in avanti allineando il decreto sviluppo approvato ieri, le prime mosse sulla revisione della spesa pubblica e l’avvio della vendita di società statali. È una ripartenza obbligata tra spread in crescita e crescita economica che latita e in parte limitata, ma non per questo meno significativa.

Il primo provvedimento, quello sullo sviluppo, che porta la firma del ministro Corrado Passera e che viene raggiunto dopo settimane di estenuanti trattative tra i suoi tecnici e la Ragioneria dello Stato, punta a levare freni e aggiungere incentivi alla crescita delle imprese. Ci sono misure che interesseranno in primo luogo le famiglie - e di riflesso il settore in crisi dell’edilizia -, come quella che aumenta a 96 mila euro il tetto delle spese deducibili per le ristrutturazioni.

Norme che riguardano più da vicino le imprese: dagli sgravi per chi assume personale qualificato alla possibilità di emettere strumenti per finanziarsi sul mercato invece che in banca. E poi iniziative - come i «project bond» per le infrastrutture - che mirano a rimettere in moto grandi cantieri grazie a investimenti privati.

La vendita delle società pubbliche alla Cassa Depositi e prestiti - dove i soci di maggioranza, accanto al Tesoro, sono le Fondazioni bancarie, non solo segnala un passo indietro del capitalismo statale, e in prospettiva anche di quello municipale, ma consente anche di recuperare 10 miliardi che potranno essere portati ad abbattimento del debito. Una goccia, forse, ma una goccia che cade nella giusta direzione.

Certo, non bisogna eccedere nel valutare le virtù salvifiche dei provvedimenti appena approvati, specie in un clima italiano ed europeo dove la fiducia è merce sempre più rara. Gli 80 miliardi di cui ha parlato ieri Passera illustrando gli effetti del decreto sviluppo sono «mobilitati», parola un po’ fumosa dietro la quale si cela la semplice verità che di soldi disponibili ce ne sono pochi o punto e che qui si tratta soprattutto di tagliare dove si può, o di inventare formule innovative, invece che di spendere risorse che non ci sono. Di fatto l’impegno finanziario in senso stretto per le casse pubbliche potrebbe fermarsi, a regime, a circa 200 milioni di euro che sono quelli legati agli sgravi sulle ristrutturazioni edilizie ed energetiche e all’autonomia dei porti.

Ma la politica, anche e forse ormai soprattutto quella dei tecnici, è fatta anche di potenti simboli. E qui, oltre alle numerose novità del decreto sviluppo, i primi frutti della revisione della spesa pubblica sono significativi al di là del loro valore strettamente economico. L’affondo sulle alte cariche della burocrazia statale che parte da Palazzo Chigi e dal ministero dell’Economia - ovvero il territorio dove più direttamente esercita il suo potere il presidente del Consiglio - segna una rottura per certi versi epocale. L’abolizione e lo snellimento di agenzie pubbliche mostra che qualcosa si può cambiare anche in quella foresta pietrificata. E più che un significato simbolico va dato ai primi passi sulla riforma della giustizia civile, con un meccanismo che blocca l’automatismo del giudizio d’appello. Tempi e incertezza della nostra giustizia hanno un peso concreto sul Pil che, forse, comincerà a calare.

La ripartenza di Monti va collocata in una fase europea che pone l’Italia, e non solo l’Italia, in una posizione assai difficile ma al tempo stesso ci consente di cercare soluzioni che possono uscire dal dualismo obbligato e un po’ logoro dell’alternativa tra rigore e crescita. Come spiega oggi Fabio Martini su questo giornale, il governo intende giocare ancora molte carte da qui al vertice europeo di fine mese, quando i leader dell’Unione si riuniranno per cercare di ritrovare la fiducia - quella dei mercati, ma anche la loro - nell’euro. La scommessa è comune, l’impegno deve essere di singoli Stati. Anche cercando, è il messaggio che arriva da Roma, la crescita «low cost».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10233


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Draghi, le parole che vogliono i mercati
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 04:32:15 pm
27/7/2012

Draghi, le parole che vogliono i mercati

FRANCESCO MANACORDA

Se l’Europa parla in modo chiaro il mercato ascolta. In fondo il «miracolo» provocato ieri dalle parole di Mario Draghi sta tutto qui. Per la prima volta, dopo settimane, operatori dai nervi fragilissimi si sono trovati di fronte a qualcosa di nuovo.

Non l’antilingua che da Bruxelles e dalle capitali europee dice e smentisce allo stesso tempo, non le sfiancanti acrobazie lessicali che escono condivise dai vertici per poi moltiplicarsi nelle tante interpretazioni ad uso e consumo delle opinioni pubbliche nazionali, ma parole quasi brutali nella loro semplicità.

Quel «credetemi, sarà abbastanza», che Draghi ha pronunciato parlando di una Banca Centrale «pronta a fare qualsiasi cosa serva» per fermare la tempesta che infuria sulle Borse e sui titoli di Stato dell’Europa mediterranea, segna una svolta. Non solo linguistica.

Presto per dire se l’annuncio di Draghi avrà un effetto duraturo. Molto più facile prevedere che anche nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, si attraverseranno fasi di altissima tensione. Del resto anche nella reazione entusiastica innescata ieri dai mercati si colgono segni di un’isteria collettiva capace di buttare giù o di spingere verso l’alto le quotazioni nel giro di pochi minuti proprio sull’onda di una dichiarazione o di un’intenzione solo intuita.

Ma proprio per questo, perché quei mercati che rappresentano l’aggregato di milioni di decisioni individuali, sono in questa fase esageratamente sensibili, è necessario parlare loro con voce chiara e forte, dare loro messaggi privi di ambiguità, non aprire lo spazio per incertezze o equivoci.

È ovvio, poi, che alle parole devono seguire i fatti. In caso contrario il contrappasso scatta rapidamente e senza sconti. Ma sotto questo profilo il ruolo e la personalità di Draghi offrono una doppia garanzia. Anche se il presidente della Bce considera legate a tempi eccezionali, come questi, le misure straordinarie che la Banca centrale deve mettere in campo e accetta a malincuore di svolgere un ruolo di surroga rispetto ai governi, bisogna dare per scontato che dietro le sue dichiarazioni, che mettono direttamente in gioco la sua credibilità, ci sia un programma - che va dal riacquisto dei titoli di Stato dei Paesi nel mirino delle vendite fino a spingersi forse ad altre misure meno ortodosse - già delineato. Un programma che in qualche misura deve aver superato anche le resistenze dell’ala più dura - quella di osservanza germanica - della Bce.

Che Draghi parli chiaro, sebbene costretto dagli eventi, è una buona notizia. Quella migliore sarebbe che anche l’Europa in cerca di maggiore integrazione politica riuscisse a trovare una voce - e prima di tutto una direzione - unica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10378


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Ferragosto una malattia italiana
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2012, 11:26:51 pm
14/8/2012 - DA WINDJET ALL'ILVA

Ferragosto una malattia italiana

FRANCESCO MANACORDA

Quale legame c’è fra i trecentomila passeggeri lasciati a terra da WindJet e i settemila lavoratori dell’Ilva che rischiano di rimanere a casa se l’impianto di Taranto, come ha deciso il Gip, dovrà bloccare la produzione? Sono due facce dello stesso male italiano. Un male che nasce dalla mancanza di qualsiasi prevenzione, si alimenta di continui rinvii e rimpalli che rappresentano la negazione delle responsabilità amministrative e di governo, esplode infine nell’emergenza. Anzi, nell’emergenza di Ferragosto: una forma tipica e cronica della nostra patologia nazionale che ha la caratteristica di essere di solito prevedibilissima, ma che nonostante questo, anno dopo anno, allarme dopo allarme, si ripete come se fosse inevitabile.

Così è difficile stabilire adesso di chi sia esattamente la colpa dei passeggeri rimasti a terra negli aeroporti, sebbene avessero un biglietto pagato regolarmente e spesso anzi con mesi di anticipo.

Si può attribuire la responsabilità, o parte di essa, alla stessa WindJet, che già dal 2009 chiudeva i bilanci in rosso, all’Enac che sovrintende a tutta l’aviazione civile e non ha vigilato a sufficienza, all’Alitalia che ha scoperto solo all’ultimo di non potere o volere concludere la trattativa per l’acquisizione del concorrente in cattive acque.

Ma una certezza c’è: l’immagine drammaticamente negativa che il caso WindJet proietta nel mondo - con i bivacchi dei passeggeri, la Caporetto dei call center e i costi supplementari caricati su chi vuole tornare a casa - è devastante per l’intero comparto turistico italiano. I russi o gli israeliani accampati nei nostri aeroporti faranno comprensibilmente - i titoloni sui loro giornali. E su un settore fondamentale per la nostra economia come quello del turismo calerà ancora una volta un giudizio di inaffidabilità, senza che a Mosca o a Tel Aviv si faccia troppa differenza tra il fallimento di un singolo gestore aereo, le inadempienze di chi avrebbe dovuto vigilare, e l’inaffidabilità di un Paese nel suo complesso.

Paragonare la disavventura estiva dei viaggiatori al bivio drammatico dell’Ilva non deve suonare irriguardoso. Anche a Taranto la (non) scelta è stata quella di lasciar correre, di rimandare anno dopo anno la soluzione di problemi certamente complessi come quelli posti dall’enorme stabilimento siderurgico situato in città. Ma anche in questo caso i mesi, e prima ancora gli anni, paiono essere passati inutilmente: ci si ritrova in piena estate con una crisi potenzialmente esplosiva che offre pochi spazi di mediazione e favorisce soluzioni paradossalmente affrettate, sebbene arrivino con grandissimo ritardo. Difficile che dal braccio di ferro istituzionale innescato sull’Ilva tra magistratura e governo possano venire scelte mediate e meditate. E difficile, più in generale, affrontare la questione costretti dal solito meccanismo dell’emergenza agostana a una contrapposizione irrisolvibile come quella tra diritto alla salute e diritto al lavoro.

Anche in questo caso è più facile prevedere gli effetti su ampia scala dello scontro che va in scena a Taranto. Al di là di quello che sarà l’esito della vicenda il messaggio per chi avesse intenzione di investire in Italia è chiaro: da noi i problemi non si affrontano per lungo tempo, ma quando poi lo si fa le decisioni si accavallano l’una sull’altra, contraddittorie; a decidere - quando si decide - sono spesso poteri concorrenti, che con un semplice atto paiono poter rovesciare quanto stabilito solo poche ore prima.

Anche questo, non solo quello che ansiosamente seguiamo ormai ogni giorno sui mercati finanziari, è uno «spread», una differenza che penalizza l’Italia nei confronti di Paesi più affidabili. E anche su questo fronte rischiamo di pagare un prezzo assai tangibile - meno turisti nel nostro Paese, meno investimenti nelle nostre imprese - per colpa di un deficit che non si calcola in euro, ma in quella moneta assai più delicata che si chiama fiducia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10427


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Zonin: Voglio portare il Prosecco oltre la Grande Muraglia
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:44:34 pm
News

17/09/2012 - intervista

Zonin: "Voglio portare il Prosecco oltre la Grande Muraglia cinese"

I cicli cambiano ogni decennio, bisogna indovinare le tendenze. Oggi? Vanno i veneti e i pugliesi

FRANCESCO MANACORDA

Vede questo bicchiere? Se convincessimo tutti i cinesi a bere solo un bicchiere di vino l’anno il nostro export potrebbe aumentare di un milione e mezzo di ettolitri». No, la Cina non è ancora vicina per il vino italiano, ma Gianni Zonin, alla guida di quello che è il primo produttore vitivinicolo privato nazionale - duemila ettari di vigneti, 38 milioni di bottiglie prodotte nel 2011 - non dispera di conquistare anche Pechino e vasti dintorni: «E’ tutto da esplorare, là vendiamo già un po’, ma abbiamo avviato una ricerca per capire che cosa vuole il consumatore cinese. Solo dopo aver studiato a fondo le sue scelte decideremo come investire. Comunque la vera diffusione del vino italiano si avrà, in Cina come altrove, quando i loro turisti verranno in massa qui e proveranno come si mangia e come si beve».

L’export strada obbligata per chi produce in un’Italia dove costumi e recessione limitano i consumi?
«No, l’export è una scelta fatta già dagli Anni ‘60, quando dopo essere entrato in azienda assieme a mio zio Domenico, che nel 1921 aveva cominciato l’attività dai vitigni di Gambellara che possedevamo già da un secolo, decisi prima di portare il nostro vino fuori dal Veneto e poi di andare all’estero quando il mercato unico ovviamente non esisteva ancora: prima la Germania, poi Belgio, Olanda, Svizzera... Oggi facciamo quasi il 70% del nostro fatturato dalle esportazioni e vendiamo in più di cento diversi Paesi».

Dove va il vino italia­ no e dove potrà anda­re?
«Oltre la metà delle esportazioni della Zonin son o s u i t re grandi mercati del vino italiano - Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna. Negli Usa nel Regno Unito abbiamo anche creato società di distribuzione proprie per controllare meglio la nostra espansione. Poi vengono Australia e Svezia con un 5% dell’export a testa e dopo una miriade di Paesi con quote dell’1 o del 2%: si va per l’appunto dalla Cina alla Russia, dagli Emirati al Brasile, che per noi è uno dei mercati più promettenti; anche là potremmo creare una nostra società di distribuzione. Ma bisogna saper cogliere il momento giusto: il vino è come la moda, segue precisi cicli, che vanno all’incirca di decennio in decennio, e bisogna fiutare prima dove va il mercato. Dodici anni fa decisi di piantare cinquanta ettari a Prosecco; i miei enologi pensavano che volessi dire cinque, ma io insistevo: cinquanta. Adesso ne abbiamo duecento ettari e non bastano».

E le ultime mode?
«In Italia, dopo una stagione in cui sono andati molto i vini siciliani si sta tornano a quelli veneti come l’Amarone, il Ripasso e il Prosecco. Mi aspetto ancora molta espansione dei vini pugliesi: hanno buoni prodotti, a cominciare dal Primitivo e dal Negramaro e poi con il boom turistico del Salento la gente va in vacanza, beve e quando torna a casa cerca quei vini. A livello internazionale Il Prosecco e il Pinot gigio vanno benissimo, ma anche il Moscato sta vivendo un boom nel mondo. Il Piemonte ha adottato una politica conservativa e così si vendono Moscati anche di altra origine, a partire da quelli dell’Oltrepo».

Vuole fare campagna acquisti per diversificare ancora l’offer­ ta? E dove guarda?
«In Italia siamo già presenti con nove aziende agricole in sette regioni, dal Veneto alla Sicilia, passando anche per il Friuli, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana e la Puglia. Per noi la diversificazione è andata sempre al seguito dell’espansione commerciale nel corso degli anni. Adesso guardo ad altre aree, ma sempre per vitigni autoctoni: inutile andare a fare concorrenza a vini prodotti negli Usa o in Australia come i Merlot, i Cabernet e gli Chardonnay. Sono molto interessato alle Marche per la zona del Verdicchio; l’Umbria mi piaceva, ma da un po’ mi pare soffrire; non abbiamo Lambrusco e per questo una presenza in Emilia potrebbe essere utile...».

Fuori dall’Italia avete già Bar­ boursville, in Virginia. Pensate anche ad altre acquisizioni estere?
«Sì. Quella americana, partita nel 1975, è stata un’esperienza faticosa ma esaltante. Pensi che all’inizio abbiamo dovuto combattere anche contro i pregiudizi: la prima auto che acquistammo per la tenuta era nera e la gente del luogo la chiamava la “Mafia Car”. Ma adesso siamo un’azienda modello e facciamo vini di grande successo come l’Octagon e il Viognier. Ci sono tante aree dove sarebbe bello comprare vitigni, dall’Australia al Sud Africa, dal Cile all’Argentina, per non parlare di Spagna o Francia. Questo però è un mondo dove bisogna muoversi con prudenza. Il vino non è un prodotto ricco, anche se dà grandi soddisfazioni».

Non è un prodotto ricco forse per l’Italia. Ai francesi le cose vanno meglio. Perché?
«Certo, i francesi esportano la metà dei nostri ettolitri e fatturano il doppio, circa 10 miliardi di euro. Hanno grandi vini, ma sanno anche valorizzare i loro prodotti. E poi possono contare sullo Champagne. Lo sa che una famiglia che ha tre ettari di Champagne vive è sistemata? Ma anche l’Italia sta facendo grandi progressi: negli ultimi anni la qualità è decisamente aumentata, molte vigne sono state rinnovate e le esportazioni sono salite a 22 milioni di ettolitri».

La crisi premia solo i prodotti di lusso, come in altri settori?
«Diciamo che con la crisi la gente vorrebbe prodotti di lusso a prezzi da outlet. Noi ci manteniamo su un prezzo al consumatore che generalmente va dai 5 ai 15 euro. Abbiamo anche bottiglie molto più care, ma non andiamo sopra i 60 euro. E in quanto a prezzi più bassi dei 5 euro, come pure si vedono, vuol dire compromettere la qualità».

I disciplinari attuali funziona­ no?
«Sì, mi pare che la piramide che parte dalla vino da tavola per arrivare al Docg, passando per l’Igt e per il Doc sia corretta e venga sostanzialmente rispettata. Poi, come è ovvio, bisogna sempre puntare il più possibile sulla qualità per affermarsi. Nel nostro settore il “Made in Italy” vale proprio come per la moda, ma più delle campagne pubblicitarie contano il passaparola e i giudizi degli esperti, che ci stanno dando soddisfazioni».

I vostri conti?
«Quest’anno arriveremo a 140 milioni circa di fatturato, con una crescita del 7-8% sul 2011 che in questi tempi di crisi ha del miracoloso, tutta trainata dall’export visto che in Italia le vendite rimangono stabili. In tempi non troppo lunghi puntiamo ad arrivare a 200 milioni. Ma ovviamente, come in molti altri settori, anche per il nostro l’Italia soffre un problema di dimensioni medie delle aziende. Noi che siamo il primo gruppo privato di questo Paese siamo circa un ventesimo del primo gruppo californiano. Davvero troppo piccoli».

Fusioni tra produttori sarebbe­ro consigliabili?
«Certamente, ma mi paiono difficili. Siamo tutti troppo individualisti, troppo legati ai nostri vini e alle nostre terre. E già creare vigneti di certe dimensioni è complesso: pensi che quando ho comprato la tenuta piemontese del Castello del Poggio ho dovuto fare 132 atti notarili per prendere 154 ettari!».

Resta il fatto che gli italiani be­ vono di meno...
«Certo, quando ho iniziato a lavorare, alla fine degli Anni ‘60, il consumo medio degli italiani era di 120 litri l’anno: dal muratore al contadino, chiunque andava a lavorare con una bottiglia di vino. Oggi si porta dietro l’acqua minerale e i consumi di vino sono calati a 38 litri l’anno. E’ un fenomeno che interessa tutti i grandi consumatori: noi come la Francia e la Spagna. Ma allo stesso tempo Paesi che non erano tradizionalmente consumatori di vino si stanno aprendo molto».

In media gli europei quanto vi­ no consumano? «Considerando anche i Paesi del Nord il consumo medio è attorno ai 25 litri procapite per anno».

Ambizioni nei superalcolici?
«Assolutamente no, quello è un mercato diverso che - come quello della birra - si sta concentrando nelle mani di pochi colossi mondiali. Sappiamo fare il vino e continueremo a fare quello, anche con i miei tre figli che sono in azienda: Domenico che si occupa della parte tecnica, Francesco che cura il settore commerciale e Michele che segue la parte finanziaria».

da - http://www3.lastampa.it/tuttosoldi/soldi/news/articolo/lstp/468858/


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. iGuzzini illumina la Cina
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 03:04:05 pm
Tuttosoldi

01/10/2012 - intervista

Guzzini: “Led, una svolta a costo zero ma Europa e Italia non si muovono”

L’imprenditore marchigiano Aldolfo Guzzini, a capo del gruppo di illuminazione iGuzzini

iGuzzini illumina la Cina

FRANCESCO MANACORDA


E poi prendemmo uno psicologo del lavoro per aiutare i nostri capireparto, che venivano affiancati dai tecnici e dai designer, a passare da una produzione che era in sostanza artigianale a un modello industriale». Ci vuole una buona dose di psicologia - sostiene Adolfo Guzzini - non solo nel mondo del lavoro, ma anche in quello dell’illuminazione dove con la sua iGuzzini l’industriale marchigiano è diventato uno dei protagonisti mondiali di quel mondo concretissimo eppure impalpabile fatto dalle grandi e piccole installazioni luminose. Nella hall di un grande albergo milanese, luci ovviamente soffuse, Guzzini racconta il percorso che dalla provincia marchigiana ha portato la sua azienda alla collaborazione con i maggiori studi di architettura del mondo e a un fatturato che quest’anno si attesterà attorno ai 200 milioni.

 

Dalla plastica alla luce non è proprio una scelta scontata. Come è avvenuto? 

«L’innovazione è nel nostro Dna. Proprio quest’anno festeggiamo il centenario della Fratelli Guzzini, nata quando nel 1912 il nonno Enrico tornò nelle Marche dall’America Latina, dove aveva imparato a lavorare il corno di bue: prima le tabacchiere, poi le posate, da lì gli articoli per la casa. E allo stesso modo, quando negli anni ’60 decidemmo di guardare nuovi impieghi del materiale acrilico che usavamo per gli articoli per la casa cominciammo a produrre lampade. Sfruttammo anche brevetti nati in casa, come quello che ci permetteva di produrre l’acrilico direttamente in due colori diversi. Poi, quando ci trovammo di fronte alla scelta di espanderci in un settore prendemmo in considerazione l’illuminazione industriale e quella architetturale. Decidemmo per la seconda perché era il segmento più alto del mercato, che abbinava la lampada alla regia luminosa. E in coincidenza con la crisi petrolifera degli Anni ’70 ci riconvertimmo su apparecchi realizzati per la maggior parte in metallo ». 

 

Anche la luce è un prodotto che va «localizzato», adattato al Paese in cui si vende? 

«Assolutamente sì. Ogni Paese ha una sua cultura della luce e, di più, ogni edificio o showroom ha un impiego diverso dell’illuminazione, a seconda - ad esempio - di quali oggetti si vogliono mostrare e di come li si vuole far percepire». 

 

In concreto cosa significa? 

«Ad esempio che nei Paesi del Medio Oriente si preferiscono le luci multicolori a quelle bianche, un po’ come se fossimo a Las Vegas. Ma anche, più semplicemente, che se devo mostrare un’automobile non basta illuminarla con luce indiretta, ma devo anche creare quelle ombre che danno la sensazione della tridimensionalità». 

 

Come è arrivata la collaborazione con il mondo dell’architettura? 

«Prima, a partire dagli Anni ’70, con la collaborazione di grandi nomi - da Renzo Piano a Gae Aulenti - per il design dei nostri prodotti, poi spostandoci nell’illuminazione di edifici, aree pubbliche e grandi progetti, è cominciata una collaborazione con i più grandi studi di architettura, da Ron Adrau, a Herzog & De Meuron, ma anche con famosi scenografi. Al Museo Egizio di Torino, ad esempio, abbiamo collaborato con Dante Ferretti per illuminare le statue anche nella parte posteriore, quella che di solito non si vede, riflettendola su lastre di vetro nero». 

 

La rivoluzione, nel vostro settore, sono stati i Led. Come hanno cambiato prodotti e prospettive dell’azienda? 

«Il nostro primo prodotto Led risale al 2008. Ma sui Led l’Europa e l’Italia stanno mostrando di essere ancora una volta vecchie. Non esistono norme sull’adozione di questo nuovo tipo diodi luminosi che danno una qualità di luce corretta e a parità di illuminazione consentono di risparmiare dal 50 al 70% di energia rispetto alle lampade oggi installate. Se venissero adottate dappertutto si farebbe una “spending review” a costo zero. Inoltre si spingerebbe anche il settore dell’illuminazione, che in Italia è il secondo in Europa. Del resto la Cina pensa di impiegare un milione di persone nei prossimi anni solo nell’industria dei Led ed ha un programma secondo cui 21 città dovranno essere illuminate esclusivamente con questo sistema».

 

Ma in Italia ci sarebbe spazio per un’industria dei Led? 

«Per produrre i Led, ormai no. Ci sono gli Usa, la Corea del Sud, la stessa Cina, che hanno ormai posizioni consolidate. E poi da noi manca ormai un’industria televisiva, che è quella a cui i Led sono molto legati. Ma ciò non toglie che proprio l’industria dell’illuminazione, con i suoi contenuti di elettronica, ingegneria e design, possa avere grandi opportunità di sviluppo proprio grazie ai Led».

 

Voi esportate oltre i due terzi della produzione. Ma il futuro è nell’essere esportatori o produttori all’estero? 

«Oggi la nostra aspirazione è essere leader mondiali, con centri di servizio collegati alla casa madre. Abbiamo mercati importanti nell’Est europa, dalla Russia ai Paesi del Baltico, e anche gli Stati Uniti e l’Asia, che da sola rappresenta il 20% del nostro fatturato, stanno reagendo bene. Proprio per il Sud Est asiatico abbiamo aperto sette anni fa una fabbrica in Cina, a Sud di Shangai, dalla quale produciamo per tutta l’area. Nei beni durevoli non è come nella moda, non si può pensare di esportare tutto per tutti dall’Italia, ci vuole una piattaforma produttiva in loco».

 

E la congiuntura? 

«I nostri grandi mercati tradizionali europei, ossia Italia, Spagna e Gran Bretagna risentono in modo differenziato della crisi. Ma gli Stati Uniti ci stanno dando buone soddisfazioni. E se le cose resteranno così i Paesi dell’Est europeo e la Cina ci potranno dare grandi soddisfazioni». 

 

Come si possono spingere le esportazioni italiane? 

«Con servizi migliori. Il nuovo Ice mi pare andare in questo senso, le ambasciate italiane, in questo contesto, non possono che essere antenne che aiutano l’economia nazionale a trovare occasioni anche all’estero. E poi bisogna obbligare le Regioni a collaborare tra di loro. E poi ovviamente bisogna mettere la nostra industria in condizione di essere competitiva». 

 

Le ricette? 

«Nessun aiuto di Stato, ma abbattimento delle imposte sul salario e detassazione degli utili reinvestiti in azienda. Ci vogliono più soldi dati ai lavoratori, in modo che aumentino i consumi, e meno soldi presi alle imprese,. E poi la lista dei problemi da risolvere la conosciamo tutti: costo dell’energia, burocrazia, corruzione incidono sulla nostra produttività». 

 

Ma forse incide anche il fatto che le piccole e medie imprese italiane non investono troppo... 

«Guardi che l’export italiano è tenuto in piedi proprio dalle piccole e medie imprese che nonostante tutto riescono ancora a produrre a costi accettabili e puntando su innovazione e flessibilità».

da - http://www.lastampa.it/2012/10/01/economia/tuttosoldi/guzzini-led-una-svolta-a-costo-zero-ma-europa-e-italia-non-si-muovono-23Ysor8Qwu32qljOAKvAFJ/index.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il silenzio di fronte agli scandali
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2012, 06:33:19 pm
Editoriali

11/10/2012

Il silenzio di fronte agli scandali


Francesco Manacorda

Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza? 

L’ultimo arresto di ieri per un’accusa - più Calabria che Baviera - di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali. 

Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore. 

Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili. 

Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.

Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica. 

Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito - almeno fino a ieri sera - tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino. 

La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese - ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini - riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.

da - http://lastampa.it/2012/10/11/cultura/opinioni/editoriali/il-silenzio-di-fronte-agli-scandali-POzSz9UWn0GKdafhGys5RP/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il pasticciaccio della Sea in Borsa
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2012, 11:27:52 pm
Editoriali
01/12/2012

Il pasticciaccio della Sea in Borsa

Francesco Manacorda


Vendere l’argenteria di casa non è sempre la soluzione più facile per risolvere i problemi economici. Specie se qualcuno in famiglia fa sapere in giro che le preziose posate della nonna non sono così preziose e ancor di più se sul mercato non c’è nessuno disposto a pagartele quanto speravi. Il pasticciaccio della Sea - la società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa controllata da Comune e Provincia di Milano - si può leggere proprio così. 

 

Ieri sera, infatti, la società ha annunciato il ritiro della sua prevista quotazione in Borsa perché non ha avuto abbastanza offerte per le azioni messe in vendita. A soffrirne è soprattutto la Provincia, che contava sull’incasso di circa 100 milioni per non sforare il patto di stabilità. 

 

Di etro lo stop, però, una storia che ricorda i peggiori esempi del «capitalismo senza capitali» all’italiana e si intreccia con le contraddizioni del «capitalismo municipale». Lo scorso anno, il Comune di Milano spinto dalle necessità di bilancio vende il 29,7% della Sea al fondo per le infrastrutture F2i, spuntando un ottimo prezzo (l’intera società viene valorizzata 1,3 miliardi) e mantenendo comunque un saldo controllo del capitale con il 54%. Gamberale rimedia incidentalmente anche un avviso di garanzia per turbativa d’asta: la sua offerta è superiore di un euro alla base d’asta stabilita. Poi il Comune cerca di fare un baratto con la Provincia, anch’essa bisognosa di soldi: al sindaco Giuliano Pisapia il 14,5% della Sea in mano alla Provincia; al presidente dell’ente Guido Podestà il 18% dell’Autostrada Milano-Serravalle che ha il Comune più un conguaglio in denaro. Ma F2i, guidato da Vito Gamberale, si oppone e ricorda alla Provincia che per cedere la sua quota di Sea deve fare non una trattativa privata ma una gara. Gara nella quale Gamberale conta evidentemente di concorrere per rafforzare la sua posizione nella società. 

 

Niente vendita diretta? E allora, decidono Comune e Provincia, si passi alla quotazione in Borsa, rassegnandosi a una valorizzazione complessiva sotto il miliardo, e mettendo peraltro sul mercato solo la quota di Podestà; senza cioè che Pisapia intacchi più di tanto la sua maggioranza. Da quel momento, però, Gamberale si mette a contestare - per via legale e mediatica - la quotazione, spiegando anche che al mercato non sono state date tutte le informazioni, specie quelle negative, sull’andamento della società. Una mossa che contribuisce non poco a raffreddare i potenziali investitori, del resto già abbastanza freddi di fronte a un’offerta che colloca solo il 23% del capitale e lascia il bastone del comando nelle mani del socio di maggioranza Pisapia. Adesso la Provincia non ha altra scelta che vendere la sua quota all’asta. A comprarla, quasi di sicuro, proprio Gamberale.

 

Ecco così che il fallimento di ieri è così la conclusione quasi scontata di una serie di scelte poco chiare e di errori, ma indica anche che l’illusione degli enti locali di far fronte ai tagli alla spesa del governo centrale e ai vincoli dal patto di stabilità mettendo sul mercato i loro cespiti rischia spesso di rimanere per l’appunto un’illusione. Non è un caso che nelle stesse ore in cui a Milano si blocca la quotazione Sea, a Torino si fanno i conti assai deludenti per il Comune - anche se in assenza di balletti come quelli milanesi - delle offerte ricevute per importanti partecipazioni, tra queste proprio una quota del 28% della società aeroportuale Sagat, dopo che il tentativo di venderle all’asta è fallito per assenza totale di offerenti.

 

Ma il caso Sea, apre anche altre questioni. La prima riguarda la tentazione di una «rendita municipale» da parte di enti locali che da una parte decidono di aprire il capitale delle società da loro controllate ad altri azionisti e dall’altra non accettano di perderne il controllo. Questo è precisamente il caso in esame, figlio anche delle spaccature ideologiche della composita giunta Pisapia: a un assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, che avrebbe ceduto volentieri la maggioranza di Sea, si è contrapposta una sinistra che gridava alla «svendita» degli aeroporti. Tanto svendita non deve essere stata, visto che sul mercato gli acquirenti sono mancati.

La seconda questione è che il mancato decollo della quotazione Sea è l’ennesimo colpo per la credibilità dell’utilizzo della Borsa da parte delle nostre imprese. Nel corso del 2012 - e in dicembre il calcolo è da considerarsi ormai definitivo - due sole società hanno deciso di andare sul mercato azionario a chiedere soldi. Una è il marchio del lusso Brunello Cucinelli, tipico campione di categoria del made in Italy, in forte espansione sui mercati esteri. L’altra è per l’appunto la Sea che aveva destinato parte - 160 milioni - dei soldi che avrebbe raccolto in Borsa a pagare, proprio a Comune e Provincia, un dividendo straordinario. Presentarsi in Borsa con un azionariato già litigioso e dati e progetti men che chiarissimi non solo - come si vede - non paga, ma rischia anche di allontanare ancora di più gli investitori da Piazza Affari. 

 

Una riflessione merita anche il ruolo di F2i, il fondo per le infrastrutture partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti - a sua volta controllata dal Tesoro - da grandi banche come Intesa-Sanpaolo e Unicredit e dalle fondazioni bancarie. Il fondo guidato da Gamberale ha una natura privatistica, ma una missione di investimento nelle infrastrutture che, unito alla composizione del suo azionariato, gli dà un’aura istituzionale. Il suo atteggiamento nella vicenda Sea è una legittima difesa del proprio interesse a conquistare la maggioranza della società o tracima forse in un’esibizione muscolare più da «hedge fund» che da fondo per le infrastrutture? 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/01/cultura/opinioni/editoriali/il-pasticciaccio-della-sea-in-borsa-HIOwQ2YNw2fu9yAqFZvjxI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. “Non conta il passaporto se chi investe crea sviluppo”
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:44:34 pm
Economia
22/12/2012 -  intervista

“Non conta il passaporto se chi investe crea sviluppo”

L’ad Caio: dagli americani un miliardo di dollari in 10 anni

L’azienda diventerà un polo di eccellenza mondiale

Francesco Manacorda
Milano


«Quel che importa non è l’origine del capitale, ma la sua destinazione. L’accordo appena firmato per Avio sancisce il riconoscimento della sua centralità nella filiera aeronautica globale e offre alla società un futuro di sviluppo». Parole di Francesco Caio, il manager che da un anno e mezzo è alla guida di Avio e ha coadiuvato gli azionisti Cinven e Finmeccanica nella vendita di buona parte della società a General Electric. 

 

Ingegner Caio, i soci escono dall’operazione con un beneficio tangibile. Ma l’Italia ci guadagna? 

«Ci guadagna se parliamo di economia reale, di università con cui lavoriamo, di possibilità per le nuove generazioni di siti dove si può crescere e imparare. Grazie a questa operazione, infatti, Avio diventa un centro di eccellenza per tutto il gruppo Ge sulle tecnologie delle trasmissioni meccaniche e delle turbine di bassa pressione, che dall’aeronautica potranno passare anche ad altri settori. È una transizione nel segno dello sviluppo, visto che Ge ha già cominciato ad articolare un piano di investimenti di circa un miliardo di dollari nei prossimi dieci anni». 

 

Ma non è un peccato che Avio, controllata da un private equity straniero, non sia tornata in Italia? 

«Se guardo a questo caso concreto e all’impegno sociale che ogni impresa deve avere, possiamo essere sereni con i colleghi dell’azienda, le università con cui collaboriamo e lo stesso governo che in questa transazione è stato molto vicino all’azienda. Siccome la soluzione trovata ha una logica industriale fortissima porterà a uno sviluppo che beneficerà tutte queste parti».

 

Quindi la nazionalità non importa? 

«Si può fare una riflessione più generale su quanti siano i grandi gruppi a capitale italiano in grado di crescere, ma intanto siamo di fronte alla realtà di altre imprese che sono cresciute anche grazie a mercati dei capitali molto più dinamici dei nostri. Del resto ho difficoltà a capire quale sia il passaporto degli investitori di Ge, che per identità e regole è identificato come gruppo Usa». 

 

Esiste il rischio che i grandi concorrenti di Ge, da Pratt & Whitney a Rolls Royce, taglino le commesse ad Avio ora che sarà una divisione del gruppo Usa? 

«Il nostro settore è un mondo complesso e con pochi attori: per questo su diverse tecnologie e programmi si è alle volte concorrenti e alle volte alleati. Quello di una caduta delle commesse non mi sembra un problema particolarmente rilevante». 

 

Nelle trattative di questi mesi, dove in gara con Ge c’erano anche i francesi di Safran, ha mai pesato il tema delle difficoltà che affronta chi investe in Italia? 

«Nel settore in cui operiamo tutti i concorrenti cercano capacità produttiva, ovviamente di altissimo livello, e quindi sono motivati a fare acquisizioni. In questo caso la voglia di investire si è unita alla decisione del governo di dettagliare gli impegni che eventuali investitori stranieri avrebbero dovuto prendere. Come Paese abbiamo molti problemi, è vero. Ma è anche vero che se ci sono competenze e processi di interazione chiari i capitali arrivano. E quando ci sono i capitali valgono le regole, non i passaporti»

 

Che cosa si devono aspettare i dipendenti di Avio da questa operazione? 

«Investimenti, crescita e formazione. Penso che ci possa essere grande soddisfazione a diventare centro di eccellenza di tutto il gruppo per alcuni settori». 

 

E lei che cosa farà? 

«Nei prossimi mesi ci sarà da gestire la fase di passaggio e lo sviluppo di questa integrazione con Ge. Lo stesso gruppo ha espresso il suo desiderio di avermi con sé sul versante dei motori ed possibile che finisca così».

 

Dalla fusione restano fuori le attività nell’aerospazio. Che cosa succederà? 

«Il successo del lanciatore Vega mette chiaramente Avio spazio tra i leader europei. L’azionariato della società aerospaziale resterà diviso, come oggi, tra l’81% di Cinven, il 14% di Finmeccanica e un 5% per le stock option dei manager. Una composizione coerente con il fatto che in tutto il mondo queste attività sono a cavallo tra pubblico e privato. Non escludo poi che nei prossimi anni ci sia un progresso di integrazione in Europa».

da - http://lastampa.it/2012/12/22/economia/non-conta-il-passaporto-se-chi-investe-crea-sviluppo-eM4TTzQGIeAcZmj2hGNFMM/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Un dibattito che dimentica il futuro
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2013, 07:42:43 pm
Editoriali
10/01/2013

Un dibattito che dimentica il futuro

Francesco Manacorda

Nel giro di pochi giorni la campagna elettorale si è trasformata in una gara - quasi tutta e quasi sempre al ribasso - sul tema delle tasse. Complice qualche osservazione della Commissione europea alla struttura dell’Imu, che «potrebbe essere ulteriormente migliorata - ha detto Bruxelles - per aumentare la sua progressività», e ieri i dati dell’Istat che certificano come nei primi nove mesi del 2012 la pressione fiscale abbia toccato nuovi record, la politica si è appiattita su un dibattito che nella maggior parte dei casi non guarda al futuro ma tocca solo il presente. 

 

Con l’Imu appena saldata e i conti dell’Irpef per l’anno passato che ci aspettano al varco - mentre la riduzione del reddito disponibile è certificata anche dal crollo dei consumi - è quasi ovvio che una classe politica che non ha saputo o voluto riformare se stessa e la legge con cui è eletta si spenda in promesse di riduzione delle imposte. Lo fa, ovviamente, Berlusconi; lo dice Monti, spingendosi a pronosticare un punto di Irpef in meno; lo propone Bersani concentrandosi sulle aliquote più basse e pensando invece a inasprire le più alte.

 

Quel che manca, però, è per l’appunto un’idea di futuro. Meno tasse sul lavoro per spingere l’occupazione? Più tasse sui redditi alti per favorire la creazione di nuove infrastrutture? I fondi dell’Imu ai Comuni anche per favorire progetti di edilizia convenzionata per i giovani? Proposte non pervenute. Insomma, davanti a una campagna elettorale che durerà ancora un mese e mezzo, si preferisce spesso parlare alla pancia invece che alla testa degli italiani, toccando la ferita aperta delle tasse. 

 

Non è un caso che da quando la competizione è ufficialmente aperta il tema dei tagli alla spesa pubblica - dalla caccia alle inefficienze della pubblica amministrazione ai costi della politica - sia sostanzialmente scomparso, a parte qualche lodevole eccezione, dal dibattito pubblico. Perfino quel simbolo della «spendig review» che era Enrico Bondi è finito risucchiato nel vortice, chiamato al compito - forse non meno nobile, ma sicuramente di minore interesse generale - di fare la «moral review» ai candidati montiani. E non è casuale nemmeno il fatto che di evasione fiscale, dopo la stagione dei blitz balneari, si senta parlare poco o nulla. 

 

Meglio promettere, da qui a febbraio, mirabolanti modifiche sulle tasse. O addirittura arrivare all’apologia del «nero» come quella con cui ci ha deliziato ieri Berlusconi, sciorinando nel suo campionario elettorale anche la proposta - di per sé tutt’altro che sbagliata - di esenzioni fiscali per chi assume un giovane. Peccato che per spiegare l’effetto per un’impresa di prendere un nuovo lavoratore con il vantaggio delle esenzioni, il Cavaliere abbia pensato di dire incoraggiante che, «parliamoci chiaro, equivale ad assumerlo in nero».

 

La questione fiscale resta senza dubbio una questione fondamentale dell’economia italiana. Non solo per la profonda ingiustizia della divisione tra chi - lavoratori dipendenti e pensionati in primo luogo - paga tutte le sue tasse e chi invece le evade. Ma anche perché l’evasione fiscale delle piccole e medie imprese costituisce un indebito vantaggio competitivo e spesso rappresenta un incentivo a non crescere, mantenendo così un sistema produttivo frammentato che è un altro dei grandi problemi italiani. Ma concentrarsi solo su quanti soldi entrano nelle casse pubbliche, senza spiegare come e perché andrebbero spesi, rischia di essere un esercizio sterile che può placare le ansie di oggi ma non offre un progetto per domani.

da - http://lastampa.it/2013/01/10/cultura/opinioni/editoriali/un-dibattito-che-dimentica-il-futuro-wqd7X3pG7Dj4EW4MW7yZjN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La giostra delle Procure
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2013, 05:48:30 pm
Editoriali
02/02/2013

La giostra delle Procure

Francesco Manacorda


Sul caso Mps indaga la Procura di Siena, ma al tempo stesso ha aperto un fascicolo anche quella di Roma. E tre giorni fa si è mossa pure la procura di Trani.

Per inciso lo stesso ufficio giudiziario pugliese, così attento ai temi finanziari che in passato ha aperto un’inchiesta su Standard & Poor’s per il suo rating sull’Italia, ieri ha anche annunciato interrogatori legati ad un’indagine sul tasso Euribor. 

Dunque, in quel polverone, anche mediatico, che si leva attorno al caso Mps e che pure ieri è stato stigmatizzato dal Presidente della Repubblica, le molte sovrapposizioni tra iniziative giudiziarie rischiano di aumentare il grado di disorientamento dei cittadini in una vicenda che - per i suoi complessi aspetti tecnici - è di difficile comprensione. Ma soprattutto la moltiplicazione dei fascicoli rischia di sprecare risorse scarse a disposizione delle Procure e in ultima istanza di diminuire l’efficacia dell’azione giudiziaria. 

 

La frammentazione territoriale e allo stesso tempo la delocalizzazione di fatti per loro natura complessi come quelli finanziari - si troveranno agevolmente nella provincia di Barletta-Andria-Trani così come in quella di Bolzano correntisti del Monte che possono ritenersi potenzialmente danneggiati dalla condotta passata della banca - rendono di fatto una lotteria la ripartizione dell’azione giudiziaria delle varie Procure. Il criterio principe del luogo di consumazione del reato può subire una serie di deroghe: ad esempio il falso in bilancio può portarsi dietro l’ostacolo alle autorità di vigilanza con una diversa competenza territoriale. Chi primo arriva, si potrebbe dire, meglio apre il suo fascicolo. 

 

Del resto ogni Procura può indagare su ciò che vuole, almeno fino a un primo vaglio giurisdizionale che la dichiari eventualmente incompetente. E, fatta salva la questione della competenza, non è detto che piccole procure di provincia siano attrezzate al meglio per affrontare indagini che comprendono spesso complessi esami sui documenti e rogatorie internazionali. Parma, ad esempio, ha sofferto non poco per portare a termine con successo le indagini sul caso Parmalat. 

 

Di fronte a questo quadro e ai suoi rischi si potrebbe essere subito tentati di invocare un antidoto potente, che spinga decisamente nella direzione opposta: una centralizzazione netta del potere d’indagine, magari con la creazione di una Procura unica contro la criminalità finanziaria. Qualcosa che replichi quanto a suo tempo fatto con l’istituzione di una Procura nazionale antimafia, che peraltro si occupa solo del coordinamento delle indagini dei singoli uffici. Ma qui ci si trova subito di fronte a un dilemma classico: da una parte la necessità di accentrare e specializzare, al fine di renderla più efficiente, l’attività delle Procure; dall’altra il rischio insito in qualsiasi accentramento di poteri di una perdita di autonomia e di un possibile controllo «politico» sull’attività della magistratura inquirente. 

 

Sono i due estremi della questione, ma la loro esistenza non autorizza a rimanere immobili. Nella terra di mezzo tra la realtà di una Procura di Trani che indaga Standard & Poor’s e un’ipotetica Superprocura finanziaria c’è spazio per soluzioni mediate. Ad esempio la competenza attribuita alle Procure distrettuali - quelle sede di Corte d’Appello, che sono solo nelle città più grandi - proprio per la lotta alla criminalità organizzata o, come è stato deciso più di recente alcuni anni fa, ai reati di tipo informatico. E guardando fuori dai nostri confini esperienze simili esistono in Francia, dove dal 1999 esistono presso le maggiori sedi giudiziarie alcuni «poli finanziari» specializzati nelle indagini su questo settore. Spetta ovviamente alla politica, se riterrà che il problema si pone, scegliere la linea che riterrà più efficiente. Ma cambiare si può.

da - http://lastampa.it/2013/02/02/cultura/opinioni/editoriali/la-giostra-delle-procure-aSw93WuWD18Ev1d3N0IaNO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La paura di un Paese in stallo
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2013, 06:52:59 pm
Editoriali
05/02/2013

La paura di un Paese in stallo

Francesco Manacorda


«Il rischio di ingovernabilità rimane secondo noi molto alto». «Il rischio di instabilità politica è aumentato sostanzialmente». «La coalizione di centro-destra, secondo i sondaggi più recenti, è appena il 5% sotto il centrosinistra e questa ultima proposta (la promessa di rimborsare l’Imu, ndr) mira a ridurre ulteriormente il divario». Le tre frasi che avete appena letto sono state scritte ieri, in inglese, in altrettanti rapporti firmati da Deutsche Bank, Nomura e Mediobanca.

 

Sono frasi che per qualsiasi elettore italiano appaiono scontate: da settimane leggiamo pronostici sulla probabilità di un governo Vendola-Bersani-Monti a geometria variabile con tutti i «rischi di ingovernabilità» che ne deriverebbero; da settimane sentiamo le dichiarazioni del centrodestra certificate in parte anche dai sondaggi, sulla rimonta di Silvio Berlusconi che mentre il traguardo delle elezioni si avvicina potrebbe insidiare un centro-sinistra finora sicuro della vittoria. 

Eppure queste constatazioni banali, che ieri mattina a inizio settimana sono planate sui computer degli operatori di Borsa di tutto il mondo, hanno contribuito a innescare una giornata nerissima per Piazza Affari e per i nostri titoli di Stato.

 

La Borsa ha chiuso in ribasso del 4,5% mentre lo spread - ossia la differenza di rendimento - tra i Btp decennali e i Bund tedeschi, che a inizio giornata era a quota 261, ha chiuso la seduta a 287 punti. Il livello più alto dall’inizio dell’anno. Solo cinque giorni fa, era il 30 gennaio, le aste dei Btp a cinque e dieci anni avevano visto i rendimenti tornati al livello di fine 2010. Ora, invece, l’allarme risale. 

 

Le paure dei mercati finanziari, cui danno voce anche giornali come il Wall Street Journal e il Financial Times, sono dunque sostanzialmente politiche e vertono su un «fattore S», come Silvio. Va detto che alle promesse elettorali di Berlusconi sull’Imu nessuno, nelle sale operative di Londra o di Milano, crede davvero. Del resto se anche l’ex ministro e sodale Giulio Tremonti ammette che ci sarebbero problemi per i conti pubblici nel trovare 8 miliardi (4 di Imu da restituire e altri 4 per rimpiazzare quel gettito mancante), appare difficile che qualcun altro possa prendere sul serio l’idea. Ma è vero che l’ultima sortita di Berlusconi, che secondo Nomura può valere almeno un paio di punti di risultato elettorale, aumenta ancora la difficoltà di «leggere» in anticipo un esito chiaro delle urne e incrementa i rischi di uno stallo politico. E questo per chi opera in Borsa e sui titoli di Stato - di solito la finanza non apprezza le sorprese a meno che non sia lei a organizzarle - è un male. 

 

I timori per l’instabilità politica non riguardano però solo l’Italia e i timori per l’Italia non riguardano solo l’instabilità politica. Anche nella Spagna flagellata dalle polemiche per i presunti «fuori busta» pagati a mezzo governo del premier Mariano Rajoy la Borsa affonda, seppur meno che da noi, e lo spread tra i titoli locali e quelli tedeschi sale. E anche in questo caso i timori riguardano la tenuta di un possibile governo che succeda all’attuale esecutivo guidato dai Popolari e il rischio di un ammorbidimento delle politiche di rigore fiscale proprio in quella area dell’Europa mediterranea - Italia e Spagna - che ha i conti meno in ordine. 

 

In quanto al nostro Paese, nello «spread» di credibilità che allontana gli investitori, specie dalla Borsa, pesa ovviamente anche un caso come Mps. La magistratura indaga su ipotesi che vanno da una tangente passata di mano nell’affare Antonveneta a possibili «stecche» su operazioni finanziarie prese da alcuni manager. Spetterà ai giudici decidere le responsabilità penali, ma intanto l’affare della banca senese offre al mondo pittoreschi quadretti italiani che piacciono poco: confusione di ruoli tra gli azionisti - La Fondazione - e la banca; inefficienza (a dir poco) di chi come il collegio sindacale del Monte avrebbe dovuto vigilare sui conti e di chi, è il caso dei revisori, avrebbe dovuto certificare la regolarità dei bilanci; e ancora qualche perplessità sull’efficienza della vigilanza della Banca d’Italia o almeno sulle norme che regolano la sua attività. Per chi vede l’Italia da lontano è difficile fare troppe distinzioni: quello che è accaduto in una banca, si può pensare, potrebbe accadere agevolmente anche in altre. Ma sopra a tutto resta quella «political uncertainty», l’incertezza politica, che campeggia su tutti i rapporti delle banche d’affari: chi si occupa d’Italia a Londra o a Wall Street vorrebbe che fosse già il 25 febbraio. 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/05/cultura/opinioni/editoriali/la-paura-di-un-paese-in-stallo-PcSX0AShH8OwFF7NVVEaAL/pagina.html


Titolo: Francesco Manacorda. Le imprese sono allo stremo “Non si può più perdere tempo”
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2013, 06:47:19 pm
Economia
27/03/2013 - il caso

Le imprese sono allo stremo “Non si può più perdere tempo”

Buzzetti (Ance): “In due anni sono saltate oltre 10 mila aziende edili”

Francesco Manacorda
Milano


«Sono convinto che a metà anno molte piccole e medie imprese tireranno giù il bandone, come diciamo noi in Toscana». Dall’avamposto pistoiese del Consorzio Leonardo Servizi - 16 imprese, dalle pulizie all’impiantistica, con un fatturato aggregato che supera i 100 milioni di euro - il presidente Gino Giuntini vede la maratona per i rimborsi dei crediti della pubblica amministrazione come una gara dove molti cadranno ben prima del traguardo». Andrea Bolla, presidente di Confindustria di una Verona relativamente felix: «Quello che mi dà fastidio è che ancora una volta stiamo dibattendo sul se pagare, invece di concentrarci sul come pagare. Ma che il settore pubblico non paghi i propri debiti semplicemente non è più un’opzione». 

 

Le schermaglie euro-italiane sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, insomma, si infrangono contro un fronte assai composito, ma molto compatto, fatto di imprenditori piccoli e grandi. C’è chi fa le pulizie nelle scuole e si scontra contro «questi maledetti patti di stabilità degli enti locali», come dice ancora Giuntini, ma ci sono anche i costruttori edili che - spiega il presidente della loro associazione Paolo Buzzetti - «hanno avuto negli ultimi due anni 10.400 fallimenti. Siamo in una situazione che non è più compatibile con nessuna perdita di tempo». Dopo una prima ondata di entusiasmo, mentre il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi spiegava che la ripresa dei pagamenti avrebbe portato un aumento del Pil dell’1% e 250 mila posti di lavoro in cinque anni, adesso tra le imprese pare prevalere l’ansia per quei pagamenti - settanta miliardi di euro come dice bankitalia? Oppure di più? anche il fatto che nessuno sia mai riuscito o abbia voluto censirli è significativo - che non arrivano mai all’incasso. 

 

Dopo che le commissioni parlamentari avranno approvato la relazione di aggiornamento del Def, toccherà al ministero dell’Economia emanare il suo decreto, che dovrebbe dare una prima indicazione sulle priorità con cui procedere al rimborso dei debiti della pubblica amministrazione. Ma in ogni caso anche al ministero ammettono che i primi soldi arriveranno dopo giugno, forse addirittura a settembre. «E’ una soluzione assolutamente insoddisfacente - attacca Franco Tumino che guida l’Anseb, l’associazione delle imprese che emettono buoni pasto - anche perché già oggi il ritardo medio per i pagamenti per noi va tra un anno e un anno e mezzo. Prendere un impegno non per tutti i debiti, ma per 20 miliardi soli, e poi rimandare i pagamenti a fine anno significa lasciare più o meno le cose come stanno». «Se tutti andassero nella stessa direzione si potrebbe anche aspettare fino a settembre - commenta Gabriele Vitali, che si occupa del commerciale nell’emiliana Effe Gi impianti di cui il padre è uno dei soci - ma le banche dovrebbero seguire le aziende nel percorso. Invece sono troppo tirate e se il primo del mese ti chiedono di rientrare dagli affidamenti tu fallisci, anche se hai già fatto il lavoro e aspetti i soldi». La Effe Gi, poco più di cinque milioni di fatturato nell’impiantistica, molti clienti pubblici, è un buon esempio della sfida che una fattura rappresenta per una piccola impresa: «Un anno e mezzo fa ci siamo salvati - dice Vitali - perché avevamo tenuto i soldi in azienda. I crediti verso clienti sono l’80% circa del nostro fatturato e la rotazione del nostro capitale è di 333 giorni. Insomma, i soldi li pigliamo dopo un anno». 

 

Le schermaglie, a dire il vero, sono anche italo-italiane. Il piano che permette alle imprese di scontare in banca i crediti verso la pubblica amministrazione, voluto dal ministro dell’Economia Corrado Passera è stato finora un flop. Poche centinaia i casi in cui è stato utilizzato. «Senza contare che - dice ancora Tumino - scontare i crediti significa avere oneri finanziari a carico delle imprese e un peggioramento dello stato patrimoniale».Per il ministero dello Sviluppo Economico è presto per valutare il successo o l’insuccesso dello strumento, visto che ha cominciato a funzionare solo da inizio gennaio. Inoltre la pubblica amministrazione di cui si vuole ottenere la certificazione del debito deve essere registrata in un sito apposito. E se per chi non si registra non ci sono sanzioni - si spiega - è difficile pensare che Asl e Comuni facciano la fila per iscriversi. Anche Bolla, da Verona conferma che finora i suoi associati hanno incontrato «problemi burocratici». 

 

All’Economia, del resto, vivono con qualche insofferenza l’attivismo di Passera su questo versante e si concentrano sulla tenuta dei bilanci pubblici sui quali Bruxelles, come si è visto, non fa grandi sconti. Ma certo l’alternativa tra ripresa e rigore è sempre più evidente per gli imprenditori che a gran voce chiedono i crediti che gli spettano da tempo. «In fondo - dice ancora Giuntini - meglio pigliare un ceffone
dall’Europa che finire strangolati». 

da - http://lastampa.it/2013/03/27/economia/ma-le-imprese-lanciano-un-sos-non-si-puo-piu-perdere-tempo-87c0Gy3joqf0PcLKjZd7sJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. È l’ora di soluzioni chiare
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 06:10:35 pm
Editoriali
04/04/2013

È l’ora di soluzioni chiare

Francesco Manacorda


No, non è un buon segnale quello che arriva dal rinvio - si spera di pochissimi giorni - del Consiglio dei Ministri che ieri avrebbe dovuto approvare il decreto per sbloccare una parte dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. 

 

Non lo è per almeno due motivi: il primo, e il più ovvio, è che su questa materia bollente ed essenziale non per lo sviluppo, ma per la sopravvivenza, di molte aziende non sono più ammissibili ulteriori ritardi, esitazioni o soluzioni pasticciate; il secondo motivo è che lo stop improvviso al decreto è stato determinato in buona sostanza dai dubbi espressi dalle stesse imprese sull’efficacia dei meccanismi previsti dal governo per i pagamenti. Sono loro che esaminando la bozza del testo in circolazione fino a ieri, si sono trovate davanti un meccanismo poco efficiente e hanno trasferito i loro dubbi all’esecutivo, che ha preferito rimandare il via libera al testo. Tra le critiche delle imprese un eccesso di burocrazia nelle procedure per i rimborsi e il fatto che in molti casi gli enti locali fossero non incentivati, ma addirittura disincentivati, a pagare i loro debiti. Questo perché, secondo la bozza, il Comune che per pagare i propri creditori avesse chiesto di attingere al fondo creato dal ministero dell’Economia si sarebbe poi visto restringere in maniera significativa negli anni successivi la possibilità di effettuare spese correnti o di indebitarsi per fare investimenti. 

 

Dunque, quello che doveva essere un provvedimento fondamentale per rimettere in moto il Paese viene frenato appena prima della linea del traguardo proprio da quei soggetti che dovrebbero beneficiarne e che hanno invece la motivata convinzione che in questo modo si aprirebbero nuovi contenziosi e che quella certezza di cui le imprese hanno bisogno rischierebbe di svanire di nuovo. Tra le poche note positive c’è invece da prendere atto che la frenata del governo pare sancire anche la scomparsa di un’ipotesi - di sicuro recessiva - come l’aumento delle addizionali regionali dell’Irpef proprio per finanziare il rimborso dei debiti. 

 

Adesso c’è solo da augurarsi che il rinvio serva per rendere lo strumento dei rimborsi un’arma efficace - senza soluzioni troppo arzigogolate - per fare fronte alla crisi e dare un puntello, uno almeno, per cercare di uscire dal pantano della recessione italiana. Non a caso di «misure urgenti» per sbloccare i pagamenti della Pubblica amministrazione aveva parlato tre settimane fa anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio dopo aver ricevuto al Quirinale il numero uno di Confindustria Giorgio Squinzi che portava dati allarmanti e inequivocabili. 

 

Ma per far sì che l’arma dei rimborsi possa servire davvero a rimettere in moto l’economia c’è probabilmente ancora da fare anche a Bruxelles. Alla Commissione europea il premier Mario Monti ha dato assicurazione ufficiale che l’avvio dei pagamenti non porterà l’Italia a sforare la soglia del 2,9% del rapporto tra deficit pubblico e Pil. Con le regole attuali è giusto farlo. Ma forse è il caso di pensare se le regole attuali sono le più adatte per affrontare una situazione che ha dello straordinario: nel solo Paese del G7 dove (è l’Ocse a dirlo) nel primo trimestre del 2013 il Pil è sceso invece di salire, nell’Italia in cui - lo abbiamo raccontato ieri parlando della provincia di Savona - l’anticipo della cassa integrazione si estrae a sorte tra i lavoratori, i criteri di Maastricht rischiano sempre più di apparire come un vuoto feticcio. Attorno a noi ci sono esempi che vanno dalla Francia, dove la soglia del 3% viene sfondata con il benestare di Bruxelles, alla Spagna che spinge anch’essa il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, ma con regole contabili che incidono assai meno sul deficit. Monti potrebbe giocare ancora la sua credibilità per cercare in Europa una soluzione più attenta alle esigenze italiane? Difficile pensarlo, visto che sulla futura maggioranza e sull’esecutivo, ammesso che ci sia, è ancora buio pesto. E anche questo, dunque, è un prezzo che paghiamo per l’ingovernabilità.

da - http://lastampa.it/2013/04/04/cultura/opinioni/editoriali/e-l-ora-di-soluzioni-chiare-IbceSn9sfTaeHe0KgYx2WN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il dramma della doppia povertà
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 07:24:10 pm
Editoriali
14/04/2013

Il dramma della doppia povertà

Francesco Manacorda


E’ un dato incoraggiante o invece avvilente che nello stesso giorno, sebbene con toni diversi, il Pd e la Confindustria - assai distanti tra loro - parlino entrambi di povertà? 

Il Pd lo ha fatto con una manifestazione in più città, dedicata alla «Povera Italia». Il mondo delle imprese, riunito a Torino, ha affrontato di fatto il tema della povertà ricordando da una parte l’impoverimento del tessuto industriale del Paese - le aziende che chiudono, avverte il loro presidente Giorgio Squinzi, rappresentano «capitale sociale perso definitivamente» - e dall’altra ha guardato in faccia anche la povertà dei suoi (talvolta ex) dipendenti, dibattendo sul palco con i segretari generali di Cgil e Cisl sulle possibili mosse in comune per far fronte all’emergenza economica.

 

La manifestazione contro la povertà organizzata da un partito che ha ambizioni - per ora frustrate - di governo si presta ovviamente a ironie anche feroci. Perché organizzare raduni nei cinema invece di muoversi sul terreno dell’agire? Il Pd lo ha fatto, spiega, per illustrare di nuovo le sue proposte a favore dell’occupazione e del Welfare, contenute negli otto punti che ha lanciato dopo le elezioni. Punti che, segnalano molti anche a sinistra, vanno però ancora riempiti di contenuti.

 

Del resto anche la grande alleanza tra produttori, il «patto della fabbrica», che dovrebbe unire imprenditori e dipendenti e sul quale Confindustria ha molto insistito nella due giorni torinese è una formula da riempire di contenuti. Lo ha ricordato ieri proprio il leader della Cgil Susanna Camusso spiegando che il suo sindacato può fare un tratto di strada con gli imprenditori, ma a patto che si parli di redistribuire i carichi del Fisco e del lavoro. In sostanza la Cgil apre sì cautamente alla Confindustria - non bisogna dimenticare che la Camusso ha una situazione interna al suo sindacato tutt’altro che facile da gestire - ma vuole una mediazione tra gli interessi dei suoi associati (ad esempio sgravi sul lavoro dipendente e maggior ricorso ai contratti di solidarietà) e quelli delle aziende.

 

Sulla diagnosi di un’Italia malata di poco lavoro e di povertà in aumento non possono esserci dubbi. Se serve qualche cifra l’Istat ne ha date in abbondanza, a partire da quel 19,5% di italiani che già nel 2011 erano a rischio povertà; una percentuale che arriva al 28,4% se si aggiunge il rischio di esclusione sociale. E sulle terapie quale accordo c’è? Il minor peso delle imposte su lavoro è una ricetta che piace a molti: ai «saggi» che hanno appena finito il loro lavoro di proposta per un prossimo governo; così come ai sindacati e alle imprese, anche se ovviamente i primi vogliono vedere soprattutto salire il netto in busta paga e i secondi chiedono invece che scenda il lordo da pagare. Sarebbe un terreno sui cui muoversi, diciamo su cui un governo potrebbe muoversi, anche se le risorse necessarie dovrebbero venire da operazioni non indolori come i tagli alla spesa o da difficili trattative europee per ammorbidire i criteri di bilancio pubblico. 

 

E’ comunque bene che il maggior numero possibile di soggetti parli di problemi concreti, della doppia povertà italiana delle persone e del tessuto produttivo. Ma parlarne non basta. il rischio, tra una manifestazione e un rimpallo di responsabilità, è di considerare ormai esaurita del tutto la possibilità di fare quello che la politica sarebbe delegata a fare - formare alleanze di governo e trovare soluzioni ai problemi - per scivolare già verso una precampagna elettorale fatta di slogan e denunce. L’unica certezza, in questo caso, è che le prossime statistiche sul tema saranno ancora peggiori.

da - http://www.lastampa.it/2013/04/14/cultura/opinioni/editoriali/il-dramma-della-doppia-poverta-39yqR30oCIpH63TIF50YrJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Se si logora la coesione sociale
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 04:47:57 pm
Editoriali
18/05/2013

Se si logora la coesione sociale

Francesco Manacorda


Il lavoro che scompare, la casa che è a rischio, un futuro che spaventa. In meno di una settimana abbiamo dovuto mettere in fila, nelle cronache di un’Italia impaurita, vicende terribili: il muratore disoccupato che in Sicilia perde la casa per un debito di 10 mila euro con la banca e si dà fuoco, ustionando anche la moglie e due poliziotti, il giovane licenziato che nel Milanese uccide a sangue freddo il datore di lavoro e il figlio, l’artigiano di Savona che proprio ieri brucia in un rogo la sua vita. Storie diverse che non si possono accomunare con superficialità. 

 

E storie le cui cause stanno talvolta anche in situazioni psicologiche fragili, ma che hanno comunque un tratto comune: sono segnali di resa individuale che amplificano, seppure con un effetto di forte distorsione, la paura e il disorientamento di un’intera società. 

Dietro i suicidi degli imprenditori o dei disoccupati e la folle rabbia di chi impugna una pistola per farla finita con il datore di lavoro o con lo Stato - sia esso rappresentato dalle povere impiegate della Regione Umbria uccise in marzo, o dai Carabinieri attaccati mentre erano di servizio davanti a Palazzo Chigi - si legge il logorarsi della coesione sociale, di quel meccanismo che quando funziona è fatto di mille fili spesso impalpabili ma che tutti assieme resistono alle tensioni e permettono di non abbandonare al suo destino chi non ce la fa. 

Non è un problema solo economico, ma è anche un problema economico. A cinque anni dall’inizio della grande crisi finanziaria e dopo almeno un ventennio che l’Italia paga - anche e soprattutto in termini di posti di lavoro - le sue carenze di produttività, non c’è del resto da stupirsi se gli effetti della crisi si fanno sentire soprattutto su quel grande ammortizzatore sociale che è - o è stata - la famiglia. Uno studio pubblicato in febbraio dalla Banca d’Italia su «Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane» segnala come solo nel periodo 2008-2010 la loro capacità di risparmio sia scesa sotto la media dell’area euro e avverte che «nel 2010 il 9 per cento delle famiglie italiane aveva un reddito basso e, in caso di perdita del lavoro, una ricchezza finanziaria sufficiente per vivere al livello della linea di povertà per appena sei mesi».

Chi fa informazione ha il dovere di non assuefarsi allo stillicidio di notizie tragiche, che rischiano di finire rapidamente nel calderone del già visto e già sentito. Chi fa politica ha invece il dovere di prendere questi segnali per quello che sono: episodi patologici, certamente, ma anche sottolineature violente, vere e proprie macchie, su quel diario di speranze e preoccupazioni che un intero Paese scrive in silenzio giorno dopo giorno: che ne sarà del mio posto di lavoro? Servirà far studiare i miei figli? Riuscirò a comprare una casa? 

Ricevendo l’incarico di formare il governo Enrico Letta ha messo l’occupazione, specie quella giovanile, al centro dell’azione dell’esecutivo.
Nel giorno del primo decreto che contiene delle misure destinate a ridare in qualche modo fiato all’economia la scelta è quella di concentrarsi sulla sospensione dell’Imu - punto qualificante del programma elettorale del Pdl - e sul rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga. 

Sull’efficacia di un taglio dell’Imu per aumentare il reddito disponibile delle famiglie, spingendo così i consumi, i pareri sono discordanti.
Ne abbiamo parlato con un dibattito articolato su queste pagine nelle ultime due settimane. Pare comunque difficile che i soldi che gli italiani non verseranno di acconto Imu a giugno entrino per ora - prima di sapere entro fine agosto come verrà tassata la casa - nel ciclo economico.

Il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga è un atto importante, anche alla luce delle risorse che alla fine si è riusciti a trovare, ma sostanzialmente obbligato per far fronte proprio alla caduta dell’occupazione. I provvedimenti di ieri - come Letta sa bene - sono un inizio, ma non sono che un inizio. 

da - http://lastampa.it/2013/05/18/cultura/opinioni/editoriali/se-si-logora-la-coesione-sociale-POwjktVWEXlaa7T8ciCZvO/pagina.html


Titolo: Francesco MANACORDA. Le riforme che chiedono gli investitori
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2013, 03:48:27 pm
Editoriali
24/07/2013

Le riforme che chiedono gli investitori

Francesco Manacorda

Un fremito di vita in un Paese bloccato. L’accordo annunciato ieri, che introduce maggiore flessibilità in 800 posti di lavoro per l’Expo 2015, firmato da tutte le sigle sindacali, non è importante solo per il suo contenuto, né esclusivamente per eventuali altre applicazioni che potrà avere. È importante soprattutto perché segnala che – se lo si vuole – si possono superare contrapposizioni in apparenza insanabili per gettare qualche seme di crescita e innovazione, per cambiare regole che sembrano incise nella roccia mentre attorno tutto si modifica a gran velocità. 

 

Ma la scintilla che arriva dall’Expo, assieme ad altre luci – una per tutte il decreto che ha sbloccato i pagamenti della pubblica amministrazione, non basta ad illuminare un quadro che resta in buona sostanza oscuro. Gli investimenti che creano lavoro e fanno girare l’economia si contraggono: i capitali italiani appaiono sempre più scoraggiati e spesso dilaniati tra il desiderio di restare in Italia e la necessità di spostarsi verso terre più accoglienti; quelli internazionali sono sempre più diffidenti verso un Paese che non riescono a capire e dove troppi aspetti – a cominciare dall’incertezza del diritto – rappresentano svantaggi competitivi secchi. 

Proprio in questi giorni d’estate, mentre l’Italia si avvia al rito della grande vacanza agostana, tra i protagonisti dell’economia sembra prevalere una sorta di rassegnata estenuazione. Pesa un Paese che non pare in grado di acchiappare la ripresa che già altrove – negli Usa, ma anche in Spagna – dà segnali più o meno forti, una politica che non riesce a concretizzare in modo incisivo pochi provvedimenti necessari, uno spirito nazionale che pare anch’esso, per l’appunto, fiaccato da una sfiducia generalizzata. 

 

Così il banchiere racconta che il suo cliente, ottima media azienda del Nord con grande proiezione internazionale, sta decidendo di spostare il quartier generale all’estero, non per pagare meno tasse, ma per avere un costo del denaro più accettabile di quello esorbitante che oggi tocca alle imprese battenti bandiera italiana; il manager della multinazionale giapponese che ha scelto proprio l’Italia per farne il suo quartier generale europeo spiega quanto sia difficile far capire a Tokyo cosa sia un condono fiscale e quanto pesi dover fare la fila in questura per chiedere il permesso di soggiorno degli ingegneri nipponici assieme alle signore che regolarizzano la colf; l’investitore internazionale con il portafoglio gonfio di euro in cerca di impieghi spiega che l’Italia, dove le valutazioni delle aziende sono ai minimi storici e corrispondono a un terzo di aziende simili in Germania, potrebbe essere il posto giusto dove mettere i soldi, ma che per adesso è preferibile aspettare in attesa di capire meglio che strada prenderemo. 

 

Sono loro – l’azienda italiana, la multinazionale giapponese, l’investitore internazionale – i soggetti che decideranno nei prossimi mesi che cosa fare, quante persone assumere o meno, su quali progetti – e dove – puntare nei prossimi anni. È da loro che dipende la crescita o, viceversa, il declino. Chiedono stabilità politica, ovviamente, perché non si può lavorare in un Paese che cambia un governo l’anno. Ma la stabilità da sola non basta. Ci vogliono anche decisioni e riforme che si aggiungano a quelle già prese, che sfoltiscano la giungla di norme, riconnettano scuola e lavoro, permettano forme nuove e diverse di occupazione, trovino anche rimedio a vicoli ciechi come quello di Basilea 3 che colpisce banche e clienti e amplifica, invece di diminuirli, gli effetti della crisi. 

 

Da questo punto di vista i giorni da qui a fine agosto con sei decreti legge da approvare – da quello che fa slittare l’aumento dell’Iva al decreto del Fare – saranno per il governo una gimcana impegnativa nella quale è però vietato sbagliare. Il mercato non passa agosto al mare o in montagna e nemmeno le difficoltà delle imprese vanno in vacanza. Senza un’azione che aiuti a ristabilire la fiducia e faccia ripartire gli investimenti sarà difficile vedere quella ripresa d’autunno in cui molti sperano. 

da - http://www.lastampa.it/2013/07/24/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-che-chiedono-gli-investitori-SJLLgTpUoyuZdHK1kCLMXK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Un Paese senza manutenzione
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2013, 11:04:51 am
Editoriali
30/07/2013

Un Paese senza manutenzione

Francesco Manacorda


Al chilometro 32,6 della Napoli-Bari domenica sera, non ci sono solo trentotto morti da piangere. C’è anche la necessità di capire che cosa sia successo su quel tratto di autostrada. 

 

Capire per accertare precise responsabilità e per far sì che eventi del genere non si ripetano. 

 

È un lavoro che spetta ovviamente ai magistrati e ai loro periti, ma già ora alcuni elementi indicano che problemi del pullman precipitato - arrivato sulla strada nel 1995, quasi vent’anni fa, e poi reimmatricolato nel 2008 - e tenuta del parapetto di cemento, il cosiddetto «new jersey», che non è riuscito a bloccare la caduta, saranno centrali nelle indagini. 

 

E centrale appare così, proprio alla luce di questi primi e sommari elementi, anche il tema di una manutenzione che troppo spesso viene trascurata o relegata a mero adempimento burocratico.

 

L’Italia è un Paese che invecchia non solo dal punto di vista demografico. L’usura delle cose e dei luoghi, unita a una congiuntura economica che obbliga ai tagli di molti bilanci - pubblici e privati - e a una gestione che spesso punta non tanto a ridurre le spese improduttive, quanto a tagliare quelle spese il cui effetto è meno evidente, possono generare un mix pericolosissimo. 

 

Oggi ci chiediamo chi abbia fatto passare appena quattro mesi fa la revisione al pullman caduto, e con quale attenzione abbia operato. Ma in un Paese che avrebbe un gran bisogno di manutenzione, e che spesso se ne accorge solo quando è troppo tardi, sono mille gli interrogativi dello stesso genere, anche se non sempre, per fortuna, spinti da eventi così tragici. 

 

Non fanno o non riescono a fare manutenzione i sindaci, anche quelli che hanno il bilancio in attivo e sono comunque costretti a non spendere dal Patto di stabilità. I risultati più evidenti - in termine di buche nell’asfalto - sono sotto gli occhi di tutti, ma altri rischi meno visibili sono spesso più pericolosi. Lo scorso anno, ad esempio, i Comuni italiani hanno speso 19,3 miliardi di euro per «vie di comunicazione e infrastrutture connesse», circa il 20% in meno di quanto avessero speso nel 2008 , hanno ridotto del 21% la spesa per la manutenzione degli immobili, del 30% quella per la «sistemazione del suolo», addirittura del 39% è calata la spesa per le «infrastrutture idrauliche». Eppure, secondo i dati di Legambiente e della Protezione Civile, sono più di 5 milioni i cittadini che vivono in aree a forte rischio idrogeologico, come scopriamo ogni volta che una frana o un’alluvione si mangiano via terra e - qualche volta - vite. 

 

Si lascia senza manutenzione anche il patrimonio archeologico di Pompei, dove si rischia - lo hanno detto a gennaio scorso gli esperti dell’Unesco - l’inclusione tra i siti patrimonio dell’umanità in pericolo se entro due anni non verranno prese misure per frenare i crolli e il deterioramento degli affreschi. E in alcuni casi la manutenzione e le migliorie - non domenica sera, dove per ironia della sorte è stato proprio un cantiere autostradale a provocare la coda di veicoli su cui si è abbattuto il pullman - devono essere chieste in modo assai fermo a quei concessionari che hanno la tendenza a considerarle una voce utilmente cancellabile dai bilanci. 

 

È una questione di soldi che mancano, certo, ma sulla scarsa manutenzione dell’Italia pesa anche qualcosa di più radicato: un’incapacità di guardare in prospettiva - che riguarda molti aspetti della nostra vita comune - e il vizio di pensare che prevenire eventuali rischi e curare con attenzione quel che si ha serva a poco. Quei trentotto morti, ai quali si deve una spiegazione che non potrà essere quella della semplice fatalità, ci ricordano che non è così. 

da - http://lastampa.it/2013/07/30/cultura/opinioni/editoriali/un-paese-senza-manutenzione-vzDE5oyNsbp74839So7XNK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Flavio Zanonato “Energia meno cara e più credito ...
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2013, 05:04:53 pm
economia
11/08/2013 -

Flavio Zanonato “Energia meno cara e più credito Così aiuteremo le imprese”

Il ministro: tra un mese nuovo decreto del Fare per spingere la competitività

Francesco Manacorda


«Con un nuovo decreto del Fare, che sarà varato ai primi di settembre, puntiamo a mettere le imprese italiane alla pari con quelle del resto
d’Europa. Lo faremo agendo su capitoli sostanziali: abbassando il costo dell’energia, favorendo il credito, intervenendo sul peso della fiscalità e semplificando la burocrazia». Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo economico, annuncia misure a favore delle imprese, dice che «è ora di smettere di piangere» sulle sorti dell’industria italiana e assicura che il governo non cadrà sull’Imu: «Troveremo una soluzione condivisa.
Il governo farà una proposta per fine mese che sarà soddisfacente per tutti». 

 

Ministro, prima di tutto: ci sono elementi che indicano davvero una ripresa in arrivo o è troppo presto per parlarne? 

«Diciamo che ci sono elementi isolati che danno l’idea che qualcosa si sta muovendo. Le faccio un esempio: venerdì ero a Trezzo sull’Adda, in Lombardia, per un giro tra le aziende colpite dal maltempo. Tutte mi dicevano che hanno il portafoglio ordini pieno e anche per questo vogliono rimettersi in piedi il prima possibile. E girando per l’Italia vedo tante eccellenze, tante aziende che esportano e vanno bene.
A smuovere la situazione ha contribuito anche lo sblocco dei pagamenti dei debiti alle imprese». 

 

Lei però appena un mese fa, erano i primi di luglio, avvertiva che eravamo «a un punto di non ritorno». Ha cambiato idea? 

«No. Il fatto di dire che siamo in difficoltà non contraddice il fatto che abbiamo delle potenzialità. Questo non è un mondo in bianco e nero, ma un mondo pieno di rischi dove però, operando bene, si possono avere delle opportunità». 

 

In concreto come si articolerà il nuovo decreto del Fare? Sull’energia a che cosa pensate? 

«L’obiettivo è trovare un meccanismo per ridurre il costo della bolletta senza però toccare il sistema di incentivi per le rinnovabili, visto che abbiamo 500 mila produttori di energia con i quali non si possono rinegoziare gli accordi». 

 

La strada potrebbe essere quella di rinegoziare i mutui che sono stati contratti per pagare gli incentivi, abbassando gli oneri annuali che si riversano sulla bolletta? 

«E’ una strada un po’ più complessa, ma che si muove su questa linea. Invece un’altra misura che abbiamo già deciso, in accordo con il ministro dell’Ambiente, è quella di togliere il Sistri, cioè l’obbligo di tracciabilità, sui rifiuti non pericolosi. Questo comporterà un risparmio per le aziende di circa un miliardo di euro. E ancora, di concentro con il ministero dell’Economia, aumenteremo il fondo di garanzia per le imprese, portandolo nel prossimo triennio da 2 a 5 miliardi. In questo modo aumenterà il numero di aziende che potranno ottenere crediti grazie alle garanzie pubbliche». 

 

Resta il tema del cuneo fiscale. Confindustria vorrebbe ridurlo almeno di una decina di punti. Riuscirete a farlo? 

«Posso dire che condivido questo obiettivo, ma non sono in grado di impegnarmi perché su questa materia assai delicata incide il tema della tenuta dei conti pubblici e degli impegni europei». 

 

Sulle imprese pesa anche l’Imu per i capannoni: che programmi ha su questo? La soddisfa l’ipotesi che avrebbe il ministero dell’Economia di renderla deducibile al 50 per cento? 

«Togliere l’Imu sugli immobili delle imprese sarebbe la cosa migliore, anche perché un capannone è un investimento in un bene strumentale, come quello fatto per un tornio o una pressa. Ma se questo non sarà possibile allora bisogna far sì che quanto pagato per l’Imu venga detratto dal reddito d’impresa». 

 

E l’Imu sulla prima casa? Abolirla e basta è possibile o siamo alla propaganda? 

«L’impegno preso dal presidente del Consiglio è preciso: ridimensionare in modo importante l’Imu sulla prima casa, tenendo conto sempre della condizione dei conti pubblici. Entro la fine di agosto arriveremo in Parlamento con una proposta concordata con la maggioranza, che soddisferà
l’impegno assunto. Mi disturba questa volontà di alimentare il conflitto tra forze politiche, mentre al governo interessa ridurre i conflitti e trovare una soluzione».

 

Ma tra le nove proposte che il ministero dell’Economia ha prospettato sull’Imu, per lei qual è la migliore? 

«Quella che metterà d’accordo tutte le forze politiche che sostengono il governo. Metto da parte le mie aspettative perché in questa fase
l’obiettivo primario è avere un governo che porti il Paese fuori dalla crisi». 

 

Insomma, lei pensa che alla fine l’accordo sull’Imu ci sarà? 

«Senza dubbio». 

 

Torniamo alle imprese. L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne dice che in Italia non ci sono le condizioni per fare industria.
Cosa replica? 

«Intanto che la Fiat in Italia ha investito. Ad esempio a Grugliasco, dove lo stabilimento Maserati può arrivare a produrre 50 mila auto di alta gamma l’anno, o per fare la Jeep. Adesso si tratta di mettere la Fiat in condizione di usare l’Italia, dove il gruppo è nato, come una delle sue grandi sedi produttive. Bisogna trovare un accordo e penso che lo si debba e lo si possa fare perché è fondamentale difendere questo grande patrimonio nazionale».

 

Ma secondo lei l’Italia non rischia di perdere le sue industrie? 

«Il rischio c’è sempre, ma io preferisco vedere l’opportunità di un Paese che ha numerose eccellenze, dall’avionica alle macchine utensili, che è il secondo produttore manifatturiero e il secondo produttore di acciaio in Europa. Siamo una potenza industriale che, se opportunamente guidata, può lasciare un segno forte. E l’importante è evitare di piangersi troppo addosso e fare le cose».

 

Eppure, qualsiasi imprenditore si senta, l’elenco delle cose che non vanno è lunghissimo: dalla burocrazia, all’incertezza del diritto, alle condizioni del credito bancario... 

«Comprendo le preoccupazioni, ma non ci sono solo sciagure e disgrazie! Il Paese è fatto di tante aziende forti nell’innovazione, di grandi esportatori, di aziende che vanno bene. Certo, ci rendiamo conto che viaggiano con un fardello sulle spalle e il nostro obiettivo è alleggerire questo peso». 

 

E’ una posizione che sente condivisa da tutti all’interno del suo partito, il Pd? 

«A parte qualche caso isolato direi di sì. Non abbiamo solo un problema di redistribuzione equa della ricchezza, ma che prima di quella redistribuzione abbiamo il problema di creare più ricchezza, cosa che si può fare solo con lo sviluppo. In generale una politica che metta assieme sviluppo ed equità è la bussola di questo governo. Anche in consiglio dei ministri non avverto mai atteggiamenti ostili a queste linee guida.
Il governo ha, abbastanza incredibilmente, una volontà ferma e trovo sintonie che non immaginavo anche con chi è politicamente lontano da me, come Alfano, Lupi o la Di Girolamo». 

da - http://lastampa.it/2013/08/11/economia/energia-meno-cara-e-pi-credito-cos-aiuteremo-le-imprese-N9Xk19ORUjIbYcIYqqpB9O/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. L’ottimismo e il rischio della palude
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 11:08:44 pm
Editoriali
21/09/2013

L’ottimismo e il rischio della palude

Francesco Manacorda


Anche se al momento il deficit «sfora» la soglia del 3% del Pil, le previsioni sulla finanza pubblica approvate ieri dal Consiglio dei ministri non lasciano - almeno in apparenza - troppi motivi di preoccupazione. Il percorso segnato per i prossimi tre anni esclude manovre straordinarie, la stagione dei grandi sacrifici sembra anche ufficialmente chiusa. Dal governo arrivano segnali di moderato ottimismo, primo fra tutti la previsione di uno spread a quota 100 sui titoli tedeschi che dovrebbe essere raggiunto fra tre anni. 

 

Dietro la possibilità che questi numeri si concretizzino, legata anche alla difficile stabilità del governo, c’è però il rischio della palude. La crescita del Pil - che vedremo solo il prossimo anno, dato che nel 2013 calerà dell’1,7% - sarà un debolissimo 1%. Poco per mettere in sicurezza i conti pubblici, pochissimo per far ripartire l’occupazione. Il rischio, adesso, è quello del galleggiamento, senza una spinta che consenta di uscire dalle acque, forse non più in tempesta, ma certo limacciose, in cui ci troviamo. 

 

Servono scelte precise. E alcune scelte appena fatte dal governo - in particolare l’abolizione dell’Imu che rende obbligato l’aumento dell’Iva - non vanno nel senso che ci si aspetterebbe da chi vuol fare ripartire consumi ed economia. 

 

Il rischio concretissimo della palude - di cui anche il presidente del Consiglio Enrico Letta è ben conscio, come dimostrano le sue dichiarazioni ieri all’uscita dal Quirinale - ha anche un’altra faccia. È quella di grandi aziende un tempo pubbliche, come Alitalia e Telecom, oggi giunte al capolinea di un percorso di privatizzazione fallimentare. Mentre il governo cerca, a ragione, di rendere più appetibile l’Italia per gli investitori esteri, contando sul fatto che essi portino capitali e posti di lavoro, i soci privati di Alitalia e Telecom tentano anch’essi di attrarre azionisti esteri, ma con il solo obiettivo di uscire da una situazione per loro insostenibile. 

Si pagano i peccati originali. La privatizzazione di Alitalia, quella dei «patrioti», è stata il frutto di un’indebita ingerenza politica su un capitalismo debole e di un sistema bancario prono al Palazzo; quella più antica di Telecom ha visto prima - in due differenti fasi e con due differenti governi - capitalisti senza capitali riuscire nella conquista grazie alla manleva della politica, poi le solite banche arrivare in soccorso in nome dell’«italianità». 

Adesso che anche il sistema creditizio fa i conti con una crisi sfibrante e con la necessità di capitali - e chissà che i prossimi soci esteri non vengano chiamati a entrare proprio nelle banche - la svendita è in corso senza badare a sottigliezze come le prospettive strategiche di reti di trasporti e telecomunicazioni. Un Paese fermo non è un Paese stabile, ma è destinato a un’inesorabile discesa. 

da - http://lastampa.it/2013/09/21/cultura/opinioni/editoriali/lottimismo-e-il-rischio-della-palude-wljep04UN6Oj2lvNDYlvgL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Dalle scatole cinesi a quelle spagnole
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 04:50:57 pm
Economia
24/09/2013 - il caso

Dalle scatole cinesi a quelle spagnole

Così perde il mercato


Niente Opa. L’operazione premia solo i grandi azionisti e non i piccoli soci

Francesco Manacorda
MILANO


La «scatola cinese» che controlla Telecom che diventa una scatola spagnola; l’Air France verso il 50% di Alitalia. Naufraga l’illusione di tenere in mani italiane le grandi infrastrutture con - pochi - capitali privati. Questa mattina un annuncio ufficiale spiegherà che una complessa struttura societaria che vede un manipolo di soci controllare Telecom Italia con appena il 22,4% del capitale riunito nella finanziaria Telco - quella che in gergo finanziario si chiama una scatola cinese, per l’appunto - cambierà in parte padrone. 

 

Ne trarranno però beneficio solo alcuni soci. Gli spagnoli di Telefonica, finora al 46% della Telco, saliranno al 60%, conquistando quindi la maggioranza assoluta della scatola societaria e guadagnando di fatto il controllo - che nel tempo aumenterà - della stessa Telco e di conseguenza della Telecom. I soci che vendono parte delle loro quote - Mediobanca, Intesa-Sanpaolo, le Generali - ne avranno qualche consolazione perchè loro - e solo loro - si vedranno riconosciuto un prezzo di favore per quello che è, o almeno assomiglia molto, al cambio di controllo della Telecom. 

 

La società telefonica si è orribilmente svalutata da quando i suoi soci finanziari, ligi al ruolo di banche e assicurazioni «di sistema» e troppo ossequiosi di fronte alle richieste della politica che non voleva vedere i telefoni italiani cadere in mani straniere - entrarono nel capitale. Allora pagarono le azioni 2,8 euro l’una; qualche mese fa le hanno svalutate per l’ennesima volta a 1,2 euro, ma sempre considerando un ricco premio di controllo, visto che ancora ieri sul mercato per un qualsiasi acquirente o venditore le stesse azioni valevano solo 59 centesimi. Adesso Telefonica riconoscerà a quelle azioni «più uguali» delle altre, che stanno in Telco, un valore di oltre un euro. il tutto, ovviamente, senza passare per la strada maestra dell’Opa, l’offerta che tocca tutti gli azionisti, perché la legge italiana prevede che questo strumento entri in azione solo se passa di mano almeno il 30% di una società. Adesso la - debole - speranza di un piccolo azionista può essere solo quella che qualche altro operatore decida di sfidare Telefonica percorrendo proprio al strada dell’Opa. 

 

Ma questioni finanziarie a parte, la parabola di Telecom che va agli spagnoli e quella dell’Alitalia, che in queste stesse settimane vede concretizzarsi la salita dei soci transalpini di Air France dal 25% al 50%, sono percorsi in qualche modo paralleli che segnano la fine di un’età illusoria. Fallisce quel modello ibrido fatto di - scarsi - capitali privati e di una politica che a seconda dei casi aveva aperto le porte ai nuovi padroni - come in Telecom - o di spinta a cercare azionisti - come in Alitalia - magari lasciando intravedere contropartite su altri piani. In entrambi i casi un ruolo improprio di cui adesso si mostrano tutti i limiti. La partita che la politica ha invece rinunciato a giocare fin dall’inizio è quella dell’interesse generale, delle regole chiare in cui inserire lo sviluppo delle infrastrutture - le rotte aeree come le reti Internet - preoccupandosi non del passaporto degli investitori, ma della loro capacità di investire. Ora che il potere negoziale dei soci di Telecom e Alitalia è ai minimi, come le quotazioni delle due società, è difficile pensare che ai nuovi azionisti si possano chiedere impegni vincolanti per lo sviluppo delle aziende che conquistano. 

da - http://lastampa.it/2013/09/24/economia/dalle-scatole-cinesi-a-quelle-spagnole-cos-perde-il-mercato-KMXde8ig85DZzrodNiIvfN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Condannati all’ultima spiaggia
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:26:52 pm
EDITORIALI
11/10/2013

Condannati all’ultima spiaggia

FRANCESCO MANACORDA


Condannati all’ultima spiaggia. Condannati ancora una volta a una soluzione di emergenza, a una parziale ma comunque dolorosa nazionalizzazione di Alitalia, dopo la pessima prova di quegli azionisti privati che nel 2008 entrarono nel capitale dopo aver lasciato i debiti della compagnia sulle spalle dei contribuenti.
E’ perfino superfluo gridare all’ovvio scandalo per l’ingresso delle Poste in Alitalia. 
Certo, si tratta di un’accoppiata che richiama l’esatto contrario di un campione nazionale. Ma la cifra più evidente delle vicende di queste ore è l’affannoso arrocco del sistema Italia, in cerca di capitali che nessuno più pare disposto a mettere; nella compagnia aerea così come è avvenuto per la Telecom. L’intervento appena annunciato è tutt’altro che risolutivo e a Palazzo Chigi ne sono ben consci nonostante la «soddisfazione» espressa ieri sera. Ma senza l’unica e criticabilissima operazione che in tutta fretta si è riusciti a mettere in piedi, Alitalia domani mattina avrebbe bloccato i suoi voli e si sarebbe avviata al fallimento. Il governo ha ritenuto che la compagnia sia «un asset strategico per il Paese» e che da questa posizione la trattativa con Air France-Klm sarebbe stata un massacro. Così ha cercato di «comprare» sei mesi di tempo - tanto vale l’operazione annunciata - ben cosciente che la destinazione finale di Alitalia sarà sempre e comunque quell’alleanza internazionale. Forse, questa è la speranza, in una posizione un po’ più forte di quella pre-fallimentare in cui è oggi. 
Condannati all’ultima spiaggia, comunque, perché i soci privati che nel 2008 risposero alle richieste di Silvio Berlusconi, con l’attivo sostegno di Intesa-Sanpaolo - tra di loro Colaninno, i Benetton, la stessa Intesa-Sanpaolo, Marcegaglia che all’epoca guidavano una Confindustria filogovernativa, nomi ormai crollati come quello dei Ligresti - non ce l’hanno fatta e hanno perso quasi un miliardo dalla privatizzazione del 2008. 
Questo nonostante all’epoca avessero scaricato sulla comunità i costi miliardari di una «bad company» dove era finito il debito di Alitalia. Adesso il ritorno allo Stato padrone, o quantomeno azionista di riferimento non avviene a cuor leggero. Palazzo Chigi cita nel suo comunicato, come è ovvio, la «discontinuità» e «una importante ristrutturazione» della compagnia. Ma è legittimo chiedersi perché dovrebbero farla con successo i soci attuali, che finora non ci sono riusciti. E significativo è anche che il governo senta il bisogno di ricordare loro che dovranno «assumersi appieno le loro responsabilità», cosa che evidentemente finora non è avvenuta. 
Soci privati e governo dovranno però fare molta attenzione. I salvataggi, questo in particolare, non sono gratis. I 75 milioni con cui le Poste si impegnano non sono una cifra enorme nei loro attivi totali, ma è ovvio che con i depositi postali - che in buona parte si identificano con il risparmio della parte meno ricca e meno istruita del Paese - è vietato correre qualsiasi rischio eccessivo. In primo luogo quello di mettere soldi in una compagnia aerea decotta e appesantita dai debiti, senza una valida strategia industriale e dove i soci pensano che se dovessero fallire ci sarà ancora un’altra chance.

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/11/cultura/opinioni/editoriali/condannati-allultima-spiaggia-8AAobEOAZWg7l8Gd6MjKfJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Ma l’incertezza sfinisce i contribuenti
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:35:49 pm
Editoriali
06/11/2013

Ma l’incertezza sfinisce i contribuenti

Francesco Manacorda

Scene di rivolta fiscale all’ora di punta. I venditori ambulanti dei mercati torinesi scendono in piazza per protestare contro il rincaro della Tares, la tassa sui rifiuti, e una città rimane semiparalizzata nei suoi collegamenti ferroviari per mezza giornata. Scene di incertezza fiscale all’ora dei telegiornali.

Il ministro dell’Economia avverte di come sia difficile - sempre più difficile man mano che si avvicina la fine dell’anno, anche se non impossibile - trovare le risorse per evitare che si paghi la seconda rata dell’Imu. Scene da un Paese che stenta a trovare la chiave di quella ripresa che molti annunciano ma che pochi riescono a vedere e dove proprio il carico fiscale rischia di portare alla chiusura troppe piccole e piccolissime imprese.

Chi ha bloccato ieri la stazione torinese di Porta Susa non rappresenta certo tutti i commercianti di una città, anzi alcune associazioni di produttori e negozianti hanno denunciato intimidazioni contro chi aveva deciso di continuare regolarmente la sua attività. Ma che il malessere da tasse scenda in piazza e assuma la forma di una protesta clamorosa mette in evidenza due aspetti della questione fiscale. 

Il primo è che alla rivolta silenziosa e individuale dell’evasione che fino ad ora ha funzionato alla grande - ad esempio il Comune di Torino ha calcolato proprio tra i venditori ambulanti un’evasione della Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti, pari al 40% - si affianca adesso una dimostrazione pubblica e collettiva che cambia il senso stesso della protesta, rivendicandone la legittimità e legandola a una questione di sopravvivenza economica. 
 
Azioni, anche clamorose, contro le tasse non sono un’esclusiva italiana. Nelle stesse ore in cui a Torino c’era chi marciava sulla stazione di Porta Susa, sulle autostrade francesi venivano abbattuti alcuni «totem» che secondo i piani del governo di Parigi - già sospesi - sarebbero dovuti servire per imporre una tassa ecologica ai Tir in transito. 

Ma è invece una nostra esclusiva quel mix di incertezza e di rimpalli che da mesi alimenta le cronache dei giornali e sfinisce i contribuenti. Privati e aziende non sanno quanto dovranno pagare da qui a poche settimane e in alcuni casi – ad esempio la seconda rata Imu – non sanno nemmeno se dovranno pagare. In molti scopriranno, proprio con il saldo di dicembre della nuova Tares, quanto peseranno sui loro bilanci gli aumenti decisi dai Comuni. 

Questo ci porta al secondo aspetto della questione fiscale, che riguarda la sostanza politica del governo delle larghe intese. Sottoposto fin dall’inizio alle tensioni di forze divergenti – specie e soprattutto sulle tasse, partendo dalla promessa elettorale del centrodestra di abolire l’Imu – non c’è ovviamente da stupirsi se sul Fisco maggioranza e esecutivo non sembrino in grado di trovare una sintesi soddisfacente, ma procedano più che altro per tentativi ed errori. La Legge di Stabilità ha evidenti limiti, legati specialmente alle risorse limitate che può mettere in campo. Ma le richieste - chiamarle proposte sarebbe troppo - che arrivano da destra e da sinistra, specie per una maggior riduzione del cuneo fiscale, sono accomunate da un’assoluta leggerezza nell’identificare le coperture per le maggiori spese. Il populismo fa paura a molti, ma un peso delle tasse che non cala e una giungla fiscale che si fa sempre più intricata sono l’habitat migliore per farlo crescere ancora. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-lincertezza-sfinisce-i-contribuenti-ZhWEoGv924y45yoHW0n3aN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Da Bruxelles un esame di realtà
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:34:03 pm
Editoriali
16/11/2013

Da Bruxelles un esame di realtà
Francesco Manacorda

Adesso si capiscono meglio il significato e il contenuto dell’improvvisa missione del ministro dell’Economia, partito mercoledì pomeriggio da Roma per incontrare a Bruxelles il Commissario agli Affari monetari Olli Rehm. Fabrizio Saccomanni ha tentato di evitare in extremis quello che poi è invece successo ieri, con la decisione della Commissione europea di non consentire più all’Italia di escludere dal computo del deficit pubblico nel 2014 un pacchetto di spese per investimenti. 

La misura, che nelle intenzioni di Bruxelles dovrebbe premiare in qualche modo i Paesi più impegnati nel risanamento dopo essere usciti dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo - quelli cioè che il prossimo anno abbiano un rapporto deficit/Pil sotto il 3% e abbattano di almeno lo 0,5% del Pil il loro deficit strutturale - non si può applicare all’Italia perché il deficit, invece di diminuire dello 0,66% del Pil, come si era impegnato a fare il governo, secondo la Commissione calerà solo dello 0,12%. Una constatazione che ci costringe a un duro esame di realtà e illumina ulteriormente alcune debolezze della legge di Stabilità, diretta conseguenza di una maggioranza - almeno fino a ieri - estremamente divisa e dunque di un governo per forza di cose poco incisivo. 

Ma è una bocciatura, quella arrivata ieri a Bruxelles? Per capirlo conviene dividere il problema in due. Nella sostanza dei numeri la bocciatura c’è, ma non è irrevocabile. Viene infatti stabilita - con una decisione tecnica e non politica, come spiega oggi sul giornale Marco Zatterin - sulla base dei documenti presentati dall’Italia il 15 ottobre scorso. Dunque, se il governo riuscirà a dimostrare, nuove carte ufficiali alla mano, che quella riduzione del deficit strutturale dello 0,5% verrà raggiunta, le stesse procedure si riattiveranno al contrario e per noi sarà di nuovo possibile sfruttare quella importante clausola sugli investimenti che a luglio aveva spinto l’esecutivo a toni che, visti adesso, appaiono eccessivamente trionfalistici. 

E proprio una percezione troppo ottimistica del futuro è il secondo aspetto del problema. In sintesi il rapporto debito/Pil ipotizzato dal governo non è considerato credibile perché non si ritengono realistiche le previsioni che ne stanno alla base: Roma sostiene che il prossimo anno l’economia crescerà di un 1,1% mentre Bruxelles si ferma a un più modesto 0,7%, lo stesso dato che prevede l’Istat. Non è una coincidenza casuale: nell’opinione della Commissione si osserva che sarebbero servite previsioni «prodotte o appoggiate» da entità indipendenti, mentre quelle arrivate a Bruxelles hanno solo il timbro dell’esecutivo. Allo stesso modo le previsioni su quello che il governo potrà fare sul fronte delle entrate - rientro dei capitali dalla Svizzera, privatizzazioni, rivalutazione delle quote di Bankitalia - non sono oggi moneta spendibile di fronte alla Commissione. A Bruxelles vogliono impegni chiari e non promesse che poi andranno mantenute o previsioni che considerano troppo ottimistiche; in questo caso di bocciatura si può parlare. 

È comprensibile, ovviamente, che in una fase difficile dell’economia il governo possa preferire misure «una tantum» a quelle strutturali, che la Commissione dice essere richieste dal «fiscal compact», ma che avrebbero effetti recessivi. Ma anche per questo tra Roma e Bruxelles le nebbie invernali restano fitte. Per diradarle bisogna far chiarezza soprattutto da noi. 

http://lastampa.it/2013/11/16/cultura/opinioni/editoriali/da-bruxelles-un-esame-di-realt-oeEgmLXJSqlbEQtKaVoBEK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Privatizzare per necessità, non per scelta
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2013, 08:00:00 pm
Editoriali
22/11/2013

Privatizzare per necessità, non per scelta
Francesco Manacorda

I 10-12 miliardi di proventi da nuove privatizzazioni annunciate ieri dal premier Enrico Letta sono tanti o sono pochi? A che cosa serviranno queste cessioni? E quale filosofia c’è dietro l’operazione? Sono domande che è doveroso farsi mentre si mette mano a una parte - sebbene piccola - del patrimonio pubblico. 

La cifra, tanto per cominciare, non è stratosferica. 

Il suo effetto potenziale sull’abbattimento del debito pubblico che oggi viaggia a quota 2000 miliardi - a patto che tutti gli introiti fossero destinati a quell’obiettivo, come invece non sarà - ammonterebbe grossomodo allo 0,5% del totale. Si tratta di una cifra assai inferiore a stime e ipotesi che calcolano in qualche centinaio di miliardi i possibili introiti derivanti, ad esempio, dalla dismissione di immobili pubblici. Ma mentre il mattone di Stato e degli enti locali non è di pronto impiego sul mercato, queste partecipazioni - alcune anche in società quotate - hanno il vantaggio di esserlo. 

A che cosa serva poi questo primo round di cessioni lo ha spiegato ieri lo stesso Letta: per circa la metà degli introiti a ridurre nel 2014 il debito pubblico, dopo cinque anni in cui questo è cresciuto senza interruzioni. Ce lo chiede una Commissione europea che, come si è appena visto con la decisione di non consentire più all’Italia di escludere dal computo del deficit pubblico nel 2014 un pacchetto di spese per investimenti, non è disposta né a farci sconti né a prendere per buoni impegni generici e non formalizzati. Quello che invece il premier non ha detto e che nella stragrande maggioranza dei casi – tranne che per Sace e Grandi Stazioni, di cui va in vendita il 60% – lo Stato sta ben attento a non cedere il controllo delle aziende che mette sul mercato, conseguendo così un duplice effetto. 

Il primo è quello di rendere meno appetibile, per gli eventuali offerenti, le società messe in vendita: chi compra sa che nella gran parte dei casi si troverà accanto un azionista di controllo, o comunque con un potere di veto ingombrante, e non sempre mosso da logiche puramente economiche. Il secondo effetto riguarda invece il contributo di efficienza che le privatizzazioni – secondo chi le sostiene – dovrebbero apportare al sistema separando la gestione delle imprese dall’influenza della politica. Premesso che in alcune esperienze di parziale privatizzazione di recente tornate alla ribalta come Telecom e Alitalia, quei vantaggi sono tutti da dimostrare, anche eventuali effetti virtuosi risultano qui attenuati o inesistenti. 

Tanto più che il rimpallo delle partecipazioni con la Cassa Depositi e Prestiti (controllata all’80% dal Tesoro e per il 18% in mano alle Fondazioni, che con la politica hanno più di un aggancio), non contribuisce a fare chiarezza: in questa tornata, ad esempio, la Sace che un anno fa era stata privatizzata al 100% passando dal Tesoro alla Cdp, adesso viene «riprivatizzata», mettendone il 60% sul mercato; allo stesso tempo già si può immaginare che la quota di Stm messa in vendita finirà proprio dalle parti della Cdp. 

Questo ci porta dritti alla terza questione, ossia la filosofia che sta dietro le privatizzazioni. Anche in questo caso, come è accaduto per altre questioni nel recente passato, il governo delle larghe intese si muove – poco – negli stretti territori del possibile. Si può accettare che dietro la mossa del governo non ci sia un’ideologia del «privato è bello», bensì una filosofia minimalista come quella enunciata, ossia la rapida riduzione del debito. Ma anche questa motivazione rischia di avere il fiato corto: in termini assai semplici il debito comincerà a ridursi in modo strutturale quando le entrate del bilancio pubblico supereranno le uscite, determinando un avanzo di bilancio invece del disavanzo cui siamo abituati. 

E dato che alzare le entrate appare ormai impossibile, visto il livello raggiunto dalla pressione fiscale, l’unica strada è quella di tagliare le spese. In attesa che i 32 miliardi di tagli nei prossimi tre anni, anch’essi annunciati dal governo, si concretizzino – ma solo la spesa per interessi ci costa quest’anno oltre 80 miliardi – il rischio della tornata di privatizzazioni appena annunciate è che si rivelino nient’altro che una patrimoniale sui beni dello Stato, invece che sui conti correnti o sugli immobili dei contribuenti. Una piccola toppa mentre il buco del debito si allarga. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/22/cultura/opinioni/editoriali/privatizzare-per-necessit-non-per-scelta-uljsxwBGD4NOtKi0fkAVXN/pagina.htmlhttp://lastampa.it/2013/11/22/cultura/opinioni/editoriali/privatizzare-per-necessit-non-per-scelta-uljsxwBGD4NOtKi0fkAVXN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Marina Berlusconi: questa politica si dovrà pentire di ...
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:21:03 pm
Politica
28/11/2013 - il caso

Figli e amici fanno quadrato ma ora il partito-azienda teme la svolta movimentista

Marina Berlusconi: questa politica si dovrà pentire di esseri ancora una volta arresa alla magistratura

Francesco Manacorda
MILANO

Il cerchio magico fa quadrato. I figli e gli amici della prima ora, quei fedelissimi che da decenni regnano nelle aziende del Cavaliere, condannano con una sola voce la decadenza dal Senato. Ma dietro la solidarietà, che nessuno si sognerebbe nemmeno di mettere in discussione, il partito-azienda è assai preoccupato. 

La svolta obbligata che mette Berlusconi fuori dal Parlamento potrebbe esporre a più di un rischio le società del gruppo. E anche se ieri la Borsa ha promosso l’impero Fininvest - meglio dell’indice Mediaset a +1,38%, +0,98% Mondadori, invariata Mediolanum - c’è chi vede un futuro minaccioso. 

Sono naturalmente accorate le dichiarazione di Marina, Barbara e Pier Silvio, ieri sera riuniti ad Arcore con il padre. Per la presidente di Fininvest «mio padre decade da senatore, ma non sarà certo il voto di oggi a intaccare la sua leadership e il suo impegno. Questo Paese e questa democrazia devono vergognarsi per quello che sta subendo». Anche Barbara, la cadetta che sta conquistando le scene con la scalata al Milan, usa toni forti: «Con la violenta estromissione di mio padre dal Parlamento, avvenuta attraverso norme incostituzionali e palesi violazioni regolamentari, gli avversari politici si illudono di avere la strada spianata verso il potere. Ma è un’operazione politica che si ritorcerà contro chi l’ha messa in atto, nel momento in cui gli italiani torneranno a pronunciarsi con il loro libero voto». 

Più pacati i toni del vicepresidente Mediaset: «Come figlio, l’amarezza è profonda perché so quello che mio padre è davvero... Come cittadino, provo un forte senso di ingiustizia». E ancora, dice Pier Silvio: «Mi auguro per il futuro dell’Italia che abusi del genere non vengano mai più messi in pratica contro nessun parlamentare di qualsiasi parte politica». 

Anche dall’entourage più stretto, le parole sono gravi. Adriano Galliani, l’ad del Milan che pare pure lui avviato verso la decadenza dal suo ruolo, dice che «è stata presa una decisione ingiusta, deformando norme e regolamenti». Ed Ennio Doris, il numero uno di Mediolanum dove è socio del Cavaliere, ha la voce mesta, anche se non attacca parlamento e giudici: «Sono davvero dispiaciuto per quello che è successo a un uomo estremamente giusto e generoso, di cui sono amico da oltre 30 anni». Che farà ora? «Credo che seguirà se stesso».

 

Dietro alle dichiarazioni ci sono anche i timori per l’impero del Cavaliere, che si colgono più che altro in casa Mediaset. Non è un mistero che Fedele Confalonieri, presidente della società televisiva, assieme a Doris abbia consigliato a Berlusconi, anche negli ultimi tempi, di esercitare la virtù della prudenza. Ma mentre il patron di Mediolanum non teme leggi «contra personam» per la sua attività bancaria e assicurativa e gode inoltre di una posizione di forza perché è l’unico nel gruppo che continua a sfornare utili, a Cologno Monzese il discorso è diverso. 

Con Forza Italia fuori dalla maggioranza il rischio di una leggina sugli affollamenti pubblicitari, che potrebbe mettere in seria difficoltà Mediaset, fa più paura. E soprattutto la svolta movimentista di Silvio significa anche che quegli ambasciatori sui quali il partito-azienda poteva contare non ci sono più. Sparito per ora dai radar il gran mediatore Gianni Letta, uscite di casa figure moderate come quelle di Angelino Alfano e Gaetano Quagliarello, chi potrebbe andare adesso a rappresentare gli interessi aziendali all’Antitrust o presso altre istituzioni? Un vuoto che fa paura, tanto che alcuni colgono come un segnale preciso l’arrivo di Paolo Romani - forse l’uomo che nel partito è più vicino a Confalonieri - a capogruppo di Forza Italia al Senato.

Quel che è certo, intanto, è che il Cavaliere non tornerà alle aziende, ma nemmeno farà mosse inconsulte che le danneggino troppo. L’ipotesi che ripari all’estero, ad esempio, ha una precisa controindicazione, ossia il rischio - che ovviamente non si può correre - di un sequestro di pacchetti azionari. Una mossa cautelare, che non trova però conferme, potrebbe essere quella riferita da un’agenzia di stampa secondo cui due settimane fa avrebbe dato ai due figli maggiori la procura su tutti i conti. 

Tra partito e azienda anche il tema della successione dinastica, con Barbara in irruenta ascesa, resta in qualche misura aperto. È vero che rispetto alle ripetute chiamate - sempre respinte - a Marina perché prendesse il posto del padre la situazione appare ora più chiara: il possibile pretendente Alfano è ormai fuori dal partito e Berlusconi stesso ha fatto capire di voler restare saldamente in sella. Ma in caso di elezioni anticipate con l’ex-senatore incandidabile, o peggio ancora di catastrofi giudiziarie, nessuno può assicurare che alla Dottoressa - come la chiamano in Fininvest - non verrà chiesto ancora di trasformarsi in Cavaliera. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/italia/politica/figli-e-amici-fanno-quadrato-ma-ora-il-partitoazienda-teme-la-svolta-movimentista-EfmnQwwpEKJ0bdkOMRgoZI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La New Economy del lusso
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2013, 12:03:13 pm
Editoriali
17/12/2013

La New Economy del lusso

Francesco Manacorda

La new economy del lusso spinge alle stelle i valori - come è successo ieri in piazza Affari per Moncler - e ci fa scoprire nuovi paradigmi.

Quel produttore di piumini che ieri al suo debutto si è visto attribuire un valore «monstre» di 4 miliardi di euro è il simbolo concretissimo di una rivoluzione che unisce gusto e saper fare artigianali, competenze industriali e la nuova forza di Internet. 

Ha senso - è la domanda che tutti ci poniamo - far volare le azioni e valutare un’azienda oltre 20 volte il margine di profitto atteso per quest’anno? Nel mondo del lusso (ma qui forse bisogna parlare di «lusso accessibile» visti i prezzi non proibitivi) la scommessa è che abbia senso perché quello che si compra non è tanto il risultato attuale, quanto una proiezione sui prossimi anni, con la scommessa che i clienti in grado di spendere un migliaio di euro per un piumone crescano dappertutto, da Hong Kong alla pur calda Florida, e aumentino sempre di più. 

Se però si guarda dietro lo scintillio del brand e il fascino indiscusso della moda, si vede che la crescita industriale e adesso lo sbarco in Borsa di Moncler sono state preparate con tempi lunghi - due anni fa un’altra offerta di azioni non si era concretizzata - e riflessioni approfondite. Attenzione estrema, ad esempio, oltre che alla qualità del prodotto, anche alla catena della distribuzione perché il prodotto deve arrivare al cliente, che ormai è un cliente globalizzato e mondiale, solo nei negozi monomarca controllati dalla stessa azienda: non è solo ciò che si compra, ma dove lo si compra e addirittura come lo si fa. E’ la stessa ricetta che da anni perseguono marchi di grande successo come Prada e Luxottica. E se non è il negozio, per comunicare e per vendere ci sarà Internet. Le nuove tecnologie, ideali proprio per i brand globali perché con un semplice click raggiungono chiunque dovunque, possono aggiungere la loro forza. Non è un caso che il leader indiscusso di questo nuovo commercio elettronico per i gruppi del lusso sia anch’essa una società italiana, partorita dalla creatività di un italiano che prima di farcela si è visto chiudere parecchie porte in faccia. 

Vince il «Made in Italy», insomma, ma non è automatico che vinca tutto il «Made in Italy». Da ieri i banchieri d’affari staranno tempestando di offerte ancora più del solito, le aziende della moda non quotate perché approfittino del momento propizio per lanciarsi in Borsa. Ma non tutte avranno il metodo e le prospettive di successo di Moncler e di altri nomi che si sono quotati con ottimi risultati negli ultimi due anni. E poi bisognerà guardare anche oltre la moda, che pure è un settore importante dal punto di vista dei numeri e fortemente simbolico. Ci sono eccellenze da far crescere anche nella meccanica, nelle biotecnologie o nell’alimentare per sperare in una vera rinascita del «Made in Italy». 

Da - http://lastampa.it/2013/12/17/cultura/opinioni/editoriali/la-new-economy-del-lusso-prV0LRRhns3Xj25OuY8JSM/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La dannazione del sistema creditizio
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2013, 05:55:05 pm
Editoriali
29/12/2013

La dannazione del sistema creditizio
Francesco Manacorda

Ma che cosa deve succedere ancora a Siena perché Fondazione e potentati locali accettino il fatto che non possono più essere loro ad esercitare il controllo sulla banca? Che cosa deve accadere ancora nel mondo delle Fondazioni, dove quello senese, tutto all’ombra del Pd e delle sue faide, non è l’unico caso che mostra i limiti di un modello? 

E che cosa deve accadere di più perché si capisca che non risponde al vero il dogma secondo cui proprio quegli enti sono stati, sono e saranno i migliori azionisti per le nostre banche? 

A Siena la Fondazione ha in mano il 33,5% della banca, ma non ha voluto che l’aumento di capitale da tre miliardi proposto dal management - il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola - per ripagare i Monti bond con cui lo Stato aveva aiutato la banca si facesse subito, decidendo invece di rimandarlo di sei mesi. Le conseguenze immediate di questa «vittoria» della Fondazione sono una probabile uscita di Profumo e Viola, un sicuro aggravio di almeno 120 milioni della spesa per interessi sui Monti bond che la banca dovrà pagare, un possibile ulteriore ribasso del titolo e infine la prospettiva di una nazionalizzazione che avverrebbe in automatico se Mps non fosse in grado di rimborsare i Monti bond.

La Fondazione non ha voluto che l’aumento si facesse subito perché non aveva le risorse per sottoscriverlo mantenendo invariata la propria quota. Avrebbe quindi dovuto diluirsi ancora. Ma proprio in nome del controllo da mantenere, possibilmente un controllo oltre il 50%, la Fondazione é riuscita in una decina d’anni a bruciare il proprio patrimonio di 6 miliardi in operazioni su Mps, trovandosi adesso con una partecipazione nella banca che vale circa 700 milioni. In questo lasso di tempo, sotto il controllo della stessa Fondazione, Mps ha fatto in tempo ad acquisire a un prezzo assurdo l’Antonveneta, a vedere nascere in banca operazioni oscurissime sui derivati che hanno portato ad azioni giudiziarie contro il passato vertice dell’istituto nonché a cospicue perdite in bilancio. 

Del resto che l’azionista controllasse davvero i manager e la banca appariva un po’ difficile viste le peculiarità della governance senese: in sintesi i vertici della Fondazione erano e sono nominati dagli enti locali a forte prevalenza Pd, Comune in testa, con il sindaco che di norma era un dipendente dello stesso Monte dei Paschi; in tanto endemico conflitto d’interessi non ha destato nemmeno scalpore negli anni passati la cavalcata di Giuseppe Mussari, passato dalla presidenza della Fondazione a quella della banca.

 

Certo, quello di Siena é un caso patologico, ma di una patologia portata a tali estremi senza che si sia attivato un qualunque anticorpo da far dubitare del sistema immunitario dell’intero sistema degli enti che controllano le banche e degli enti locali che a loro volta li controllano, perpetuando come una dannazione eterna il peso della politica - spesso della sottopolitica - nel sistema creditizio. Anche adesso il riflesso pavloviano dell’Acri, l’associazione delle Fondazioni guidata dall’indomito Giuseppe Guzzetti, che da 18 anni guida anche la Fondazione Cariplo e che di Mussari fu gran sostenitore, non é stato quello qui dissociarsi dalle mosse di chi rischia di gettare discredito sull’intero mondo delle Fondazioni, ma al contrario quello di allestire - per ora senza riuscirci - complesse operazioni «di sistema» per far entrare Cariplo e altre Fondazioni nel capitale di Mps, garantendo così ai colleghi senesi di non perdere troppo quota nell’azionariato della banca. 

Difficile adesso che i prossimi sei mesi passino tranquilli, possibile anche che si arrivi anche alla nazionalizzazione. Non sarebbe certamente un successo per gli azionisti, Fondazione in testa, e non sarebbe un successo per lo Stato. Ma comunque vada alla fine sarebbe più chiara, anche nei suoi aspetti traumatici, una vera nazionalizzazione rispetto alla nazionalizzazione strisciante e in salsa contradaiola che dura da anni e che ha reso la politica onnipotente e irresponsabile sulla terza banca italiana.

Da - http://lastampa.it/2013/12/29/cultura/opinioni/editoriali/la-dannazione-del-sistema-creditizio-yjC5gsQ7q4AwJkw9zJiPSJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Manager e sindacati insieme così riparte l’auto americana
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:14:17 pm
Economia

18/01/2014 - Reportage

Manager e sindacati insieme così riparte l’auto americana
L’economia tira e il sistema Fiat ha rivoluzionato le linee del gruppo Chrysler

Francesco Manacorda

«Prima della bancarotta del 2009 tutto questo non sarebbe mai successo». «Certo, non ci avrebbe visto in fabbrica insieme a collaborare in questo modo».

Fianco a fianco nel complesso industriale di Toledo, in Ohio, accanto alla linea di montaggio da cui escono quasi mille nuove Jeep Cherokee ogni giorno e che cercano di migliorare insieme, il direttore Chuck Padden e il delegato sindacale dello Uaw (United auto workers) Mark Epley sono l’immagine della nuova vita dell’auto americana e della scommessa che la Fiat ha fatto salendo nel giro di cinque anni dal 20 al 100% del gruppo Chrysler. Qui, nelle fabbriche americane che trainano la ripresa di Fiat-Chrysler, gli ingredienti sono un’economia che sta ripartendo, un solido patto sociale tra l’azienda e il potentissimo sindacato unico Uaw, ma anche un metodo di miglioramento continuo importato proprio dagli stabilimenti Fiat. Il Wcm, l’acronimo che significa World class management, creato dal Lingotto con i giapponesi all’inizio degli Anni 2000, «è un processo continuo - spiega Mauro Pino, vulcanico ingegnere siciliano che da Termini Imerese è approdato al quartier generale del gruppo Chrysler ad Auburn Hills come responsabile della manifattura e dello stesso Wcm per tutto il Nord America – che non finisce mai. Un sistema basato sulla riduzione sistematica di tutti i tipi di spreco con il contributo di tutti i soggetti e un rigoroso utilizzo di metodi e standard». 

Nasce e si applica in fabbrica, il Wcm, ma si studia e si impara anche alla Wcm Academy di Warren, alla periferia di Detroit, che non a caso è ospitata dallo stesso sindacato nella sua scuola tecnica, con insegnanti scelti insieme da Chrysler e Uaw. Lavagne, sale riunioni e robot. Per capire come si possano rendere più efficienti gesti e procedure operai, tecnici, ingegneri e manager giocano con il Piccolo Chirurgo; per cercare soluzioni di automazione autoprodotte e a basso costo costruiscono una linea di produzione per go-kart o per bici giocattolo; per imparare la prevenzione del rischio indossano le cuffie e gli occhiali 3D e s’immergono in un filmato. Da qualche settimana c’è anche un grande camion in giro per gli stabilimenti americani: portava le auto Dodge alle gare del Nascar, è stato trasformato in scuola itinerante. E quest’anno una Wcm Academy aprirà anche a Melfi, da dove nuove produzioni andranno sui mercati internazionali. «Siamo partiti con quattro corsi e adesso ne abbiamo quarantacinque, più tutti quelli online – spiega Scott Tolmie, il canadese che guida i formatori dell’Academy – da noi sono passate in poco più di due anni oltre 7600 persone».

Verrebbe da paragonarlo a una sorta di religione laica della produttività, questo Wcm, con tanto di citazioni dell’amministratore delegato di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne – «c’è qualcosa di immorale nello spreco» – che passano sullo schermo. Una religione applicata con rigore in tutti gli stabilimenti del gruppo, in qualsiasi parte del mondo, con punte di eccellenza in Polonia e a Pomigliano. «Ma qui all’Academy - avverte Pino - non ci sono preti che rimangono a vita. Tutti vengono dalla fabbrica per imparare o per risolvere un problema che hanno individuato, affrontandolo alla radice, e tutti tornano in fabbrica. E succede anche che qui siano gli operai a spiegare ai manager quali sono le cose da cambiare». Tanto che il metodo si sta affermando anche fuori dal mondo Fiat-Chrysler: lo usano tra gli altri la britannica Royal Mail e la Unilever, il colosso anglo-olandese dei prodotti di largo consumo.

In fabbrica, a Toledo, gli operai fanno vedere le innovazioni introdotte con i loro suggerimenti sulla linea della Wrangler: al posto dei cassoni con i componenti da montare che andavano scelti di volta in volta a seconda della versione, un kit messo direttamente all’interno della vettura sulla linea che contiene solo i componenti necessari per quell’auto; anche per strappare gli adesivi incollati sulle alette parasole o per montare il volante si è studiato come risparmiare qualche secondo alla volta e si cercano ancora nuove idee. Innovazioni continue che moltiplicate per numeri enormi su scala globale – gli stabilimenti si scambiano le soluzioni trovate – permettono risparmi nell’ordine di centinaia di milioni. «Siamo ben consapevoli di lavorare in un ambiente molto competitivo – dice Padden, che dirige i due stabilimenti di Toledo – e che la ricerca dell’efficienza deve essere continua. Questa settimana abbiamo preso 52 persone nuove. Incontrandole gli ho spiegato che i loro posti di lavoro devono essere qui per restare, sono un patrimonio per tutta la comunità». La nuova occupazione, anche se a salari ridotti rispetto a quelli dei vecchi assunti, come prevede un accordo firmato dalla Uaw con Chrysler già nel 2007, è uno degli aspetti più evidenti del rinnovato boom dell’auto. «Qui a Toledo – spiega ancora Padden – abbiamo raddoppiato i dipendenti nell’ultimo anno, superando le 4000 persone. Lavoriamo tre sabati su quattro e la domenica su base volontaria». Solo dai due impianti di Toledo nel 2014, dovrebbero uscire oltre 500 mila nuove Cherokee e Wrangler – nel 2009 erano meno di un terzo – contribuendo così a superare quella soglia di un milione di Jeep vendute entro l’anno annunciata in questi giorni da Marchionne. E sempre sotto il segno della Jeep, partirà quest’anno a Melfi la produzione della «piccola» di casa, assieme alla sua gemella Fiat 500X.

Anche dalla posizione di forza del mercato Usa ci si chiede se e quali saranno le conseguenze della completa fusione tra Fiat e Chrysler. «Non so ancora se qui ci saranno effetti», dice il sindacalista Epley a Toledo. La scommessa di Marchionne è, come ha spiegato lo stesso ad, quella di un’integrazione positiva di esperienze e mercati tra i quattro poli – Europa, Usa, America Latina e Asia – del gruppo con uno spazio di crescita per gli stabilimenti italiani, che dovranno servire il settore «premium» nel mercato globale. Più auto italiane nel mondo, insomma, ma anche più consapevolezza che si lavora in un mondo aperto.

In casa Chrysler dirigenti e operai dicono che questa consapevolezza l’hanno acquisita anche con la loro storia molto americana di uno che cade e subito prova a rialzarsi: dopo la bancarotta, l’intervento pubblico e poi l’ingresso della Fiat adesso i conti – e i dipendenti – tornano. Lo stesso sta succedendo all’intera Detroit, la capitale dell’auto americana, che proprio la crisi del settore ha costretto alla maggiore bancarotta municipale degli Usa, con debiti stimati tra i 9 e i 18 miliardi di dollari. Ora prova a ripartire proprio grazie al nuovo boom dell’industria automobilistica. Questi giorni del Naias, il Salone americano dell’auto, sono stati per la città un banco di prova abbastanza confortante. E anche i preziosi quadri europei del Detroit Institute of Art, già prezzati dal Comune per un’eventuale vendita – è la speranza degli ultimi giorni – alla fine potrebbero restare qui.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/economia/manager-e-sindacati-insieme-cos-riparte-lauto-americana-5CiNAVgmuhmZdHtN9GBLbI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La scommessa Fiat Oltre la demagogia
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2014, 10:42:41 am
Editoriali
31/01/2014 - la scommessa fiat

Oltre la demagogia

Francesco Manacorda

Ma davvero quella T che scompare nella nuova sigla di Fiat Chrysler Automobiles rappresenta un’azienda che lascia Torino e l’Italia al loro destino?

Davvero la holding che cambia pelle e prende sede sociale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna diventa nient’altro che un gruppo apolide? Scattano riflessi ideologicamente condizionati, si regolano vecchi e presunti conti, una parte della politica sceglie la via sicura della dichiarazione indignata e subito la nebbia fitta della demagogia avvolge ogni fatto.

Nelle fabbriche americane del gruppo Chrysler, da Toledo in Ohio a Jefferson North in Michigan, là dove si guarda alla nuova società dall’altra parte dell’Atlantico, restano «proud to be American», come recitano i manifesti sui muri, e non si turbano – anzi – del fatto che l’italiana Fiat sia passata da una maggioranza relativa al 100% del gruppo, se questo significa il salvataggio da un passato impossibile e la promessa di un futuro migliore. Negli interminabili corridoi della sede Chrysler ad Auburn Hills – solo 7000 dipendenti nel 2009 quando il fallimento incombeva e più del doppio adesso – restano ovviamente la bandiera a stelle e strisce e il memoriale «per i nostri soldati», con l’elmetto e un paio di anfibi a simboleggiare il milite ignoto Usa. Sulle linee di produzione il pragmatismo ha la meglio sull’ideologia e lo si vede nella collaborazione quotidiana tra i manager e gli operai iscritti al sindacato Uaw. Del resto quanto può pesare il passaporto della proprietà se – come è successo a Toledo, nella casa della Jeep – i posti di lavoro passano da duemila a oltre quattromila nel giro di un anno?

Non diverse dalle voci dall’America sono quelle che si sentono anche negli stabilimenti italiani del gruppo dove già vedono i primi effetti di un’integrazione che significa anche migliore e maggiore accesso a nuovi mercati. La Maserati di Grugliasco, di cui abbiamo raccontato anche ieri sul giornale, quando fu rilevata da Fiat nel 2009 era uno stabilimento abbandonato che sfornava solo – e non è un modo di dire – topi; adesso da qui escono berline di lusso che vanno soprattutto in Cina e negli Stati Uniti e chi ci lavora non pare temere un futuro comune con il resto del nuovo gruppo. Come è ovvio la scommessa – quella di azionisti e management prima di tutto – è che lo stesso effetto virtuoso si abbia anche con la rinascita del marchio Alfa Romeo destinato a occupare la fascia «premium» del mercato, con l’arricchimento della famiglia della 500, con la piccola Jeep che arriverà presto da Melfi, con il Suv della Maserati per il quale a Mirafiori sono già partiti investimenti per circa un miliardo. Ma pare davvero difficile vedere dietro questo progetto di una Fiat più forte, anche se policentrica, un’Italia e una Torino più deboli. E soprattutto si stenta a capire quale alternativa possa proporre chi, di fronte a una fusione internazionale che aspira a garantire il futuro del gruppo, grida alla «fuga» dell’azienda dall’Italia. 

Certo, anche in America qualcuno – lo ha fatto il blog di una celebre rivista di settore come Automotive News – si chiede se si possa ancora parlare di una Chrysler americana e se Detroit avrà ancora tutte quante le sue «Big Three» dell’auto ora che una di esse sposta il suo baricentro sociale verso l’Europa. Ma proprio questi dubbi, speculari a certi timori italiani che si sentono oggi, rivelano quel che è ovvio: ossia che in una grande fusione, progettata ed eseguita per essere competitivi su scala globale, ci sarà sempre chi si sente abbandonato e preferirà guardare indietro invece che avanti; si attaccherà a ciò che teme di perdere invece che a quello che spera di guadagnare. Non esattamente una ricetta per il successo in una fase storica in cui non solo le aziende, ma anche i Paesi, competono tra di loro in cerca di capitali – quelli sì – sempre più mobili.

Da - http://lastampa.it/2014/01/31/cultura/opinioni/editoriali/oltre-la-demagogia-W8rxAasUoNL07aUIt0ey3O/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il frutto della lentezza (CHE NON CI POTEVAMO PERMETTERE).
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:30:33 am
Editoriali
15/02/2014

Il frutto della lentezza
Francesco Manacorda

Bocciato dalla politica, promosso dal mercato. Nel giorno in cui deve abbandonare Palazzo Chigi, Enrico Letta incassa un riconoscimento ai suoi sforzi che suona come un premio di consolazione. 

Il giudizio sullo stato di salute dell’economia pubblica italiana, arrivato a tarda sera dall’agenzia di rating Moody’s, migliora: le nostre prospettive non sono più considerate negative ma stabili.

Certo, il voto assegnato al nostro Paese da Moody’s non cambia e resta a un livello tutt’altro che eccelso. Vista la mole del debito pubblico non potrebbe che essere così. Ma per la prima volta in dodici anni non accade né che il voto scenda, né che resti stabile con un peggioramento delle prospettive dell’Italia. Questa volta, invece rimane stabile il giudizio mentre migliora l’orientamento su come cambierà la situazione. Nella stessa direzione va un altro dato reso noto ieri dall’Istat, proprio mentre Letta si chiudeva dietro le spalle il portone di Palazzo Chigi, ossia il (micro) aumento del Pil dello 0,1% nell’ultimo trimestre del 2013. Anche in questo caso il segnale arriva dopo un lungo periodo - due anni e mezzo - di Pil con segno negativo o al massimo con crescita zero. E se vogliamo, al bilancio in attivo si può aggiungere uno spread da mesi lungamente lontano dai massimi del 2011 che ieri - proprio sull’onda delle aspettative dei mercati per il governo di Matteo Renzi - è sceso sotto quota 200. 

Si tratta, come è ovvio, di dati che non hanno più alcuna utilità politica per il governo uscente e che rischiano quasi di suonare come una beffa, ma che ci impongono di riflettere sull’impazienza con cui si giudicano i risultati delle politiche di governo. 

Ma quello che ci indicano è che il Paese che Letta consegna - contro la sua volontà - a Renzi, ha probabilmente arrestato la caduta libera e va stabilizzandosi. Certo, non siamo ancora di fronte a una ripresa che pure qualcuno nel governo aveva evocato - uno 0,1% del Pil non autorizza a parlarne, mentre un tasso di disoccupazione che resta al massimo storico del 12,7% spegne qualsiasi ottimismo velleitario - ma quantomeno ritroviamo una base stabile sulla quale una ripresa si potrebbe innestare. Se Renzi riuscirà a farlo ne coglierà i frutti, in termini economici e forse anche politici. E se così sarà dovrebbe, anche se non è detto che lo farà, riconoscere che la sua esperienza avrà goduto di un «dividendo» derivante proprio dal risanamento portato avanti da chi lo ha preceduto. 

I dati con cui si congeda il governo uscente spingono anche a riflettere sulla velocità del cambiamento. Renzi, come è noto, gioca proprio sulla velocità la scommessa per affermare la sua offerta politica, mentre non ha chiarito finora (tantomeno alla direzione Pd che si è scrollata di dosso Letta) in che cosa la sostanza di questa offerta si differenzi da quella del governo uscente. E quella di velocità è una delle richieste più pressanti che gli arrivano dalle parti sociali. Le imprese piemontesi che sono scese in piazza ieri davanti a Montecitorio, così come i commercianti e gli artigiani che martedì prevedono di ritrovarsi in almeno 30 mila a manifestare a Roma, hanno slogan che chiedono cambiamenti radicali e immediati e non a caso accusano il governo uscente non di politiche sbagliate, ma di immobilismo. 

I dati di ieri ci dicono anche che la pianta delle riforme ha bisogno di tempi non brevi per mostrare i primi germogli e per consolidarsi. C’è da augurarsi che quella specie a fioritura istantanea che Renzi è pronto a piantare sia anche in grado di dare frutti. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/15/cultura/opinioni/editoriali/il-frutto-della-lentezza-d7O0FVsbzD0J9lTmDqWprL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Condannati a cambiare
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2014, 09:08:17 am
Editoriali
05/03/2014

Condannati a cambiare
Francesco Manacorda

Che cosa succederà se oggi - come pare probabile - arriverà l’annuncio che Bruxelles è pronta a mettere sotto osservazione l’Italia per le riforme che latitano? L’eterno dibattito su quello che andrebbe fatto e non si riesce mai a fare per riaccendere la crescita e liberare le forze del Paese uscirà forse da una dimensione finora compresa tra l’accademia e i dibattiti politici da talk show per entrare nella concretezza, e nei vincoli, delle procedure europee. È uno scenario realistico, come racconta all’interno del giornale Marco Zatterin. Fino alla scorsa notte, infatti, l’Italia era in fondo alla lista delle riforme attuate, assieme a due partner come la Slovenia e la Croazia, fra i «bocciati» dalla Commissione europea. E oggi, a meno di ribaltoni dell’ultimo minuto, potrebbe vedere sancita la sua grave insufficienza su questo fronte con tutto quello che ne consegue: un periodo da «sorvegliata speciale», il monitoraggio della Commissione sulle azioni intraprese per rispettare le sue richieste, fino all’ipotesi estrema di vedere l’Italia sottoposta a una procedura d’infrazione simile a quella per deficit eccessivo, dalla quale per inciso è uscita appena lo scorso maggio. 

Condannati alle riforme, insomma. Se accadrà non è detto che sia necessariamente un male. Per Matteo Renzi l’esistenza di un «vincolo esterno» europeo potrebbe perfino trasformarsi in un mezzo per accelerare ancora di più quella spinta riformatrice che finora ha ampiamente evocato. Per la Commissione e per i partner comunitari, però, non è certo la riforma elettorale che il premier si prepara ad incassare quella che può rendere competitiva la nostra economia. La lista dei compiti a casa che Bruxelles ci darà è più lunga e approfondita e forse più scontata, visto che se ne parla da anni senza risultati apprezzabili: un sistema di ammortizzatori sociali che privilegi la protezione del lavoratore rispetto a quella del posto di lavoro, misure mirate contro la disoccupazione giovanile, un carico fiscale che non penalizzi il lavoro dipendente e l’attività d’impresa, un contesto economico che attiri gli investimenti stranieri, maggiore competizione nelle professioni e nei servizi... L’elenco potrebbe continuare, guardando anche a cosa ci chiedono il Fondo monetario internazionale o quell’Ocse da cui arriva il nuovo ministro dell’Economia. Del resto, come ha detto nei giorni scorsi il presidente della Bce Mario Draghi, «il problema non è cosa fare, ma farlo»; non ci sono insomma formule magiche da scoprire, ma serve la volontà di applicare ricette già conosciute. 

Se un problema esiste, nella condanna alle riforme per mano europea, è però quello che finora si è evidenziato nel campo della finanza pubblica. L’ortodossia comunitaria ha visto l’austerità di bilancio come condizione imprescindibile, anche a costo di mancare azioni di ripresa nelle economie del Sud Europa. Allo stesso modo un’agenda riformatrice dettata da Bruxelles rischia di puntare molto sulla competitività e di non prendere in considerazione azioni straordinarie di cui pure l’Italia ha gran bisogno come il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. È un rischio che nei limiti del possibile andrà evitato.

Da - http://lastampa.it/2014/03/05/cultura/opinioni/editoriali/condannati-a-cambiare-ItDtxcT8Zc4AYeuRFDQxuK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Parti sociali, i perché di una crisi
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:11:27 am
Editoriali
29/03/2014

Parti sociali, i perché di una crisi

Francesco Manacorda

La reazione dei principali sindacati italiani alle parole pronunciate ieri dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è sintomo di un alto grado di nervosismo o più probabilmente della netta percezione di come stia mutando - in negativo - l’orientamento della politica e dell’opinione pubblica nei loro confronti. 

Commemorando il suo predecessore Guido Carli e ricordando un altro periodo difficile come l’inizio degli Anni 70, Visco ha detto che «lacci e lacciuoli, intesi come rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali, sono sempre la remora principale allo sviluppo nel nostro Paese». Non si sono registrate repliche accese delle imprese, dei corpi burocratici o delle pur numerose corporazioni. Dai sindacati, invece - specie dalla Cgil e da una Cisl che tenta sempre più di distanziarsi dalla stessa Cgil - è arrivato un coro di proteste e di rimbrotti alle parole del Governatore. 

Perché il sindacato s’indigna per quello che non è certo un colpo diretto e specifico? Perché avverte che l’attacco portato con insistenza nelle ultime settimane da Matteo Renzi alla sua funzione di rappresentanza - e a quella speculare delle associazioni imprenditoriali - parla oggi agli umori profondi del Paese e si trova in sintonia con essi. E dunque il mondo sindacale reagisce con sensibilità esasperata a ogni commento, anche incidentale, che metta in dubbio la sua ragion d’essere e ne sottolinei invece le rigidità che ostacolano le riforme. 

Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso - oggi il più diretto avversario di Renzi nella battaglia sulla rappresentanza delle parti sociali, ma di fatto anche nel dibattito interno al Pd sulla nuova legislazione del lavoro - sostiene che di crisi del suo sindacato non si può parlare perché gli iscritti aumentano. È vero che nel 2012, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sul suo sito, gli iscritti alla Cgil sono saliti dello 0,49% arrivando a 5 milioni e 712 mila persone. Ma è vero anche che di quei 5,7 milioni 2,7 sono lavoratori attivi e ben 3 milioni pensionati. Tra i lavoratori attivi, poi, i lavoratori «atipici», ossia quelli con le forme di lavoro più diffuse tra i giovani al primo impiego, sono 71 mila e i disoccupati 13.500, ossia rispettivamente circa l’1,2% e poco più dello 0,2% del totale degli iscritti. Percentuali che danno con precisione la misura di quanto (poco) siano rappresentate in una grande organizzazione le nuove categorie del lavoro o quella dei senza lavoro. 

In passato il sindacato, con la sua difesa dei diritti - e qualche volta dei privilegi - di chi un posto fisso lo aveva, era visto da chi stava ai margini del mondo del lavoro garantito come un soggetto forse estraneo ma non ostile; la prospettiva e la speranza dei disoccupati e dei lavoratori precari era appunto quella di entrare nel mondo dei «garantiti» difesi da quello stesso sindacato. Negli ultimi anni, invece, la situazione è cambiata radicalmente: chi non ha un lavoro non riesce a sperare che nel suo futuro ce ne sia uno; chi non ha un contratto a tempo indeterminato sa che difficilmente potrà approdarvi. In molte aziende e luoghi di lavoro dipendenti divisi dall’età e dunque da diverse forme contrattuali svolgono mansioni sostanzialmente identiche, ma con sensibili disparità di retribuzione e di diritti. Lavorano fianco a fianco divisi da barriere invisibili eppure altissime. E il sindacato oggi sembra stare da un lato solo di quelle barriere. 

Il gioco al ribasso sui diritti e sulle tutele dei lavoratori è un rischio certamente da evitare, ma da evitare sono anche rigidità che non consentono alcun cambiamento. La sindrome del no - alle riforme del mercato del lavoro così come alla spending review - rischia di bloccare una spinta innovativa senza peraltro garantire un dividendo in termini di consensi a chi pronuncia sempre quel no. 

DA - http://lastampa.it/2014/03/29/cultura/opinioni/editoriali/parti-sociali-i-perch-di-una-crisi-9FAlU8Df6HJOGWhLw7pxQO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. La partita globale di Fca in cui vince anche l’Italia
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2014, 08:36:28 am
Economia
07/05/2014 - il caso

La partita globale di Fca in cui vince anche l’Italia
Marchionne: non un nuovo capitolo ma un nuovo libro

Francesco Manacorda inviato a Detroit

Sarà un gruppo globale, che guarda al mondo intero come mercato. Un produttore che conta su un’integrazione «culturale, prima ancora che industriale» - ci tiene a dire subito Sergio Marchionne - tra la vecchia Europa e la sempre nuova America. 

La rivoluzione cominciata cinque anni fa dalla Fiat a trazione Marchionne, con un presidente come John Elkann che ha traghettato gli azionisti di un produttore locale in continua sofferenza fino alle sponde assai più sicure di un gruppo che vede il mondo come fabbrica e mercato, prende corpo - e anche anima, oggi non sembra enfatico dirlo - in una mattinata di fredda primavera americana. Ad Auburn Hills, quello che era il quartier generale della Chrysler e diventa adesso uno dei centri nevralgici della nuova Fca, Fiat Chrysler Automobiles, i numeri e i progetti che l’amministratore delegato e la sua prima linea di manager («gente che in questi anni ne ha viste di tutti i colori») sfornano per tutta la giornata di ieri davanti agli analisti e ai giornalisti sono al tempo stesso una promessa di un futuro assai diverso da un passato di grandi difficoltà e il bilancio di un enorme cambiamento riuscito ma tutt’altro che terminato: «Non apriamo un nuovo capitolo, cominciamo a scrivere un nuovo libro».

Alcune premesse, in questo nuovo libro che si va a scrivere, sono già chiare. La prima è che nel «mondo piatto - ricorda Marchionne - non sei al sicuro in casa tua se non sei in grado di competere con le altre realtà»; niente più zone franche al riparo dalla concorrenza. La seconda premessa, speculare alla prima, è che nel nuovo mondo senza barriere le fabbriche e le automobili che producono possono avere - a patto che siano competitive - opportunità fino a ieri insperate, senza essere più legate al ciclo di un singolo mercato. 

Proprio grazie a questa nuova geografia della competizione dagli stabilimenti di un’Italia, non certo spumeggiante per domanda interna e ciclo economico, arriveranno nei prossimi anni gli otto modelli che segneranno la rinascita dell’Alfa Romeo, spinta da una robustissima iniezione di alta qualità, investimenti per 5 miliardi di euro e una produzione che a regime arriverà a 400 mila vetture l’anno. Proprio per questo da Melfi, Basilicata, le nuove Jeep Renegade prenderanno - incredibile solo pensarlo fino all’altroieri - anche la strada delle highways americane. Proprio per questo il lusso Maserati, che oggi si fabbrica a Grugliasco - periferia di Torino - e domani sarà sempre italiano ma non solo «Made in Torino», prevede di quintuplicare le vendite da 15 mila a 75 mila vetture. 

Sarà un gruppo dove girano le fabbriche, ma anche le bisarche e le grandi navi, questa Fca. Il mercato Nafta, quello nordamericano che cresce a ritmi sostenuti, lo scorso anno ha importato 32 mila auto dei marchi comuni fabbricate altrove, ne ha prodotte e vendute localmente 2 milioni e centomila, ne ha

esportate 253 mila. Tra cinque anni - raccontano le slides - le importazioni saranno più che decuplicate a 360 mila, la produzione dedicata al mercato interno sfiorerà i 2,6 milioni, l’export sarà a quota 380 mila. Nell’Emea, il mercato che comprende anche l’intera Europa dalla congiuntura ancora poco forte, le vendite saranno meno entusiasmanti e dagli 1,1 milioni del 2013 si arriverà a fine piano a 1,5 milioni. Ma la produzione totale nel continente sarà superiore, visto che il 40% delle auto che usciranno dalle fabbriche saranno destinate alle esportazioni. 

E quel che prevede il piano - spiega il capo dell’area Alfredo Altavilla - è comunque la piena utilizzazione di tutti gli impianti europei del gruppo. In Italia nel 2013 gli stabilimenti hanno girato al 53% delle loro capacità produttive. Nel 2018 quella percentuale passa al 100%. Di fronte a questo obiettivo, con la promessa di stabilimenti pieni anche se la sede sociale non è più a Torino, con la realtà di un gruppo che si rafforza grazie a una proiezione fuori dai suoi confini tradizionali, diventa difficile - se non impossibile - raccontare una Fiat che abbandona l’Italia. Non a caso le prime reazioni dei sindacalisti di casa nostra arrivati anche loro ad Auburn Hills sono molto positive. Certo, c’è anche chi ricorda il precedente di «Fabbrica Italia», il programma di massicci investimenti annunciato nel 2010 e poi non realizzato di fronte al crollo dell’economia. Ma questa volta, anche grazie al grande rilancio dell’Alfa Romeo, con il cambio di paradigma che sposta molti impianti italiani dalla produzione di auto di massa a quel segmento «premium» a maggior valore aggiunto, non si attendono sorprese: il primo modello del nuovo corso Alfa dovrà arrivare il prossimo anno, gli investimenti partiranno a brevissimo.

A completare la geografia globale del gruppo, in America Latina le vendite passeranno da 900 mila a 1,3 milioni nel 2018; in Asia si passerà dalle 235 mila vetture attuali vendute in Cina ad 850 mila per fine piano, anche grazie all’apporto di Alfa Romeo e Jeep, mentre in India - anche qui arriverà nel 2015 la Jeep - è prevista una crescita da 25 mila a 130 mila auto. 

È una scacchiera globale - quella su cui gioca la nuova Fca - dove i prodotti, le economie delle piattaforme su cui si basano modelli diversi, la logistica e le strategie di marketing giocano tutte la loro parte. La scommessa, moltiplicata per i tanti marchi - da Jeep a Fiat, da Alfa Romeo a Chrysler, da Dodge e Ram a Ferrari e Maserati - è quella di trovare per ogni auto il suo posto e la sua clientela in un mercato sempre più grande e sempre più segmentato. Il nuovo gruppo che da Torino e Detroit adesso punta a nuovi mercati, è la promessa di Marchionne, ha le carte in regola per riuscirci. 

Da - http://lastampa.it/2014/05/07/economia/la-partita-globale-di-fca-in-cui-vince-anche-litalia-1jQ1gM6LRjAjAE6s3JLzRN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Marchionne: la finanza internazionale ha assunto un ruolo..
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 05:14:28 pm
2/6/2008 (7:46) - L'AD DELLA FIAT AL FESTIVAL DELL'ECONOMIA DI TRENTO ACCUSA CHI FRENA LE IMPRESE

"In Italia troppi ostacoli all'industria"
 
«Se non fossi diventato manager avrei studiato fisica teorica» 
 
Marchionne: la finanza internazionale ha assunto un ruolo totalmente sproporzionato

FRANCESCO MANACORDA
INVIATO A TRENTO


«Quattro settimane fa abbiamo concluso un accordo con il presidente serbo. Le discussioni erano cominciate ad aprile e inizieremo a lavorare nello stabilimento in Serbia nel terzo trimestre di quest’anno. Invece un accordo simile per portare lo stabilimento siciliano di Termini Imerese da 90 a 200 mila vetture non siamo riusciti a farlo. Quando il sistema istituzionale comincia a creare ostacoli per ragioni di potere una multinazionale come la Fiat si sposta perché il mercato non può aspettare che qualcuno prenda il tempo per condividere degli obiettivi. In Italia non si creano le condizioni per lo sviluppo dell’industria: e se non ci riesce la più grande azienda italiana, figuriamoci se può farcela una società straniera».

Sergio Marchionne affronta di petto i nodi del sistema Italia. Sul palco del Teatro sociale di Trento l’amministratore delegato del gruppo Fiat - che proprio ieri ha compiuto i suoi quattro anni alla guida del gruppo - risponde alle domande del direttore del Sole 24 Ore Ferruccio de Bortoli di fronte al grande pubblico del Festival dell’Economia.

«È molto difficile fare qualcosa in Italia, dai permessi agli accordi sindacali», afferma Marchionne. Una stasi che dipende dal sindacato? Ha un ruolo positivo o negativo? «Il ruolo del sindacato - è la risposta - è utile, ma il problema è che la dialettica tra azienda e sindacato non è quello che ci vuole. Io parlo di un’azienda che deve diventare la più competitiva al mondo, dall’altra parte si parla di un accordo del ’93 quando il mercato dell’auto era completamente protetto».

Sul quadro internazionale, Marchionne vede "possibile" il petrolio a 200 dollari e non esclude nemmeno un ulteriore ribasso del dollaro: «Stiamo arrivando ai limiti del possibile. Questo non significa che il dollaro non possa raggiungere valori più bassi perché quella americana negli ultimi sette-otto anni è stata una politica non da testo di economia pura, ma criminale».

Nel mirino del Marchionne uomo d’industria c’è però soprattutto una finanza internazionale che «ha assunto un ruolo nella società totalmente sproporzionato». «Il sistema finanziario - dice, parlando della crisi dei subprime - ha creato pezzi di carta e costruito un’iper-realtà cercando di distribuire il rischio». Ora che la gran parte dei subprime «è stata smaltita attraverso le svalutazioni delle grandi istituzioni finanziarie», Marchionne condivide «con il professor Guido Rossi l’opinione che la realtà americana è molto più complessa dei subprime». «C’è un’attività globale - dice ancora l’ad del gruppo Fiat - e un sistema di vigilanza e di amministrazione delle leggi che è del tutto locale. Finché esiste questa situazione il rischio è enorme per tutti, può venir contagiato tutto il sistema finanziario».

Scenario apocalittico? «Non voglio terrorizzare nessuno. Penso solo che ci servano delle regole ben chiare sui livelli di rischio che si possono prendere nei bilanci delle banche e ci voglia un livello di trasparenza ben maggiore».

Ma a Trento non è solo tempo di scenari, c’è anche spazio per qualche divertissment. L’auto dei sogni? «Una Jaguar XKE. Da studente spesi tutto per comprarne una. Era un catorcio di dieci anni, non partì mai». Se non fosse stato un supermanager? «Avrei studiato fisica teorica. In Inghilterra. Mi piace la pioggia».

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Liberarsi dall’abbraccio del passato
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:14:03 am
Editoriali
05/06/2014

Liberarsi dall’abbraccio del passato

Francesco Manacorda

A volte, troppo spesso, ritornano. Ritornano dalle cronache degli Anni 90, come è accaduto per la coppia bipartisan Greganti-Frigerio indagata per le tangenti legate all’Expo 2015, e come è successo anche ieri per alcune figure coinvolte nella nuova inchiesta per corruzione sul Mose, il sistema che dovrebbe difendere Venezia dall’acqua alta, ma che pare averla esposta anche alle correnti tangentizie. Ritornano per affermare un insopportabile teorema - ossia che in Italia i grandi eventi facciano spesso rima con grandi tangenti - per incrinare la nostra immagine all’estero, che di certo uscirà ancora più ammaccata da questa vicenda che coinvolge una città unica al mondo, ma anche per ricordarci che c’è un abbraccio mortale della Prima Repubblica dal quale bisogna liberarsi al più presto. 

Si può discutere a lungo di quanto l’ambiente che scopriamo di nuovo in questi mesi - purtroppo solo grazie alle inchieste della magistratura e non alla presenza di anticorpi nel sistema dei controlli interni - sia simile o diverso da quello della Tangentopoli degli Anni 90. 

È vero, come sottolineano in molti, che vent’anni fa ci trovavamo più spesso in presenza di collettori di tangenti da convogliare poi ai partiti, mentre adesso il quadro è quello di un sistema tangentizio in «franchising» nel quale i vecchi ufficiali pagatori di partito si sono trasformati in indefiniti, ma evidentemente funzionali intermediari d’affari per imprese pronte a utilizzare i loro servizi. 

Ma al di là di queste differenze evidenti resta il fatto che il fallimento della Seconda Repubblica, quella che si sarebbe dovuta sviluppare proprio dalle ceneri del sistema dei partiti crollato nel ’92, si può attribuire anche ad alcune caratteristiche sostanziali e negative della Prima Repubblica che sono andate via via peggiorando nei decenni trascorsi dalla Liberazione e che portavano verso il declino di Tangentopoli. Un’eredità fatta di pratiche clientelari e spesso corruttive, di incapacità di un’azione riformatrice e al contrario di sottomissione a un sistema paralizzante di veti incrociati che nasceva da rapporti in buona parte consociativi ha segnato - sotto il peso della crisi finanziaria ed economica - la fine di un sistema incapace appunto di cambiare. 

Se una Terza Repubblica caratterizzata dall’affermazione personale di Renzi, ma anche da forti sentimenti di antipolitica - che anche ieri hanno trovato nutrimento nella rappresentazione del connubio tra affari e politica in Veneto - vuole avere la speranza di farcela, deve liberarsi da questo lungo abbraccio del passato. Il premier, che gioca la sua partita in conflitto e al tempo stesso sospinto proprio dai sentimenti diffusi di sfiducia nella classe politica tradizionale, ha già annunciato di voler scardinare alcuni elementi fondanti di questa eredità indesiderata, a partire appunto dal sistema di veti incrociati che ha bloccato molte riforme possibili negli ultimi anni. 


Perché la politica possa riformarsi e riguadagnare consensi deve andare a fondo anche nel rapporto con il mondo degli affari. Non si tratta solo di condannare, come è ovvio, comportamenti illeciti sanzionabili dalla magistratura. Né di reintrodurre, come pure sarebbe assai auspicabile, una disciplina sul falso in bilancio più severa di quell’unicum planetario passato in epoca Berlusconi. E non basteranno nemmeno figure come quelle del Commissario anticorruzione previsto proprio per l’Expo. La battaglia contro la burocrazia che il premier considera uno dei punti fondamentali del suo programma può servire a snellire i processi decisionali, ma anche a non offrire troppo potere discrezionale a chi concede permessi e licenze, ad evitare che nella giungla di norme e regolamenti ci sia chi si offre a pagamento per trovare il percorso migliore e chi accetti quell’offerta. Lo chiedono quasi in contemporanea, ed è significativo, il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi - che prende atto della gravità della situazione annunciando che nella sua associazione non c’è spazio per i corruttori - e il Procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. Processi decisionali trasparenti, pubblicità di tutti gli atti, procedure il più possibile standard sono anch’essi un modo per sfuggire all’abbraccio mortale del passato. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/05/cultura/opinioni/editoriali/liberarsi-dallabbraccio-del-passato-vzIKAIqs9FkSfqxG8GTqgK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. L’ultima chiamata
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 11:03:57 pm
Editoriali
30/07/2014

L’ultima chiamata

Francesco Manacorda

Questa è davvero l’ultima chiamata per Alitalia. La mail inviata ieri pomeriggio dall’amministratore delegato di Etihad James Hogan al «Dear Gabriele» Del Torchio - che guida la compagnia di bandiera - è ultimativa nei contenuti, se non negli stessi toni. Senza una soluzione chiara sui punti ancora aperti nella trattativa - e in parte scompaginati dalla decisione dell’azionista Poste di non partecipare all’aumento di capitale della «vecchia» Alitalia-Cai, ma di versare invece i suoi soldi in una società intermedia tra la vecchia e la nuova Alitalia - gli arabi avvertono che la chiusura dell’accordo prevista al massimo per domani, non ci potrà essere. 

Elenco lungo, quello delle questioni aperte, e tempi cortissimi. Non è una combinazione ideale. Mentre le banche azioniste paiono aver appena trovato un faticoso accordo con le Poste per la sua partecipazione all’operazione, Etihad vuole garanzie che la vecchia Alitalia sia comunque capitalizzata a sufficienza - 250 milioni era l’impegno originario dei soci italiani - per evitare di trovarsi invischiata in contenziosi del passato. Ribadisce che dagli Emirati arriveranno 560 milioni, ma che questa cifra servirà al rilancio della compagnia e non certo a tamponare vecchie emergenze. Dunque, senza l’impegno esplicito dei soci italiani a mettere i soldi stabiliti - o forse anche più di quei 250 milioni - l’accordo non si farà. Ma tra le richieste di Etihad ci sono anche questioni che giacciono da lunghissimo tempo sulle scrivanie dei manager Alitalia e dei loro azionisti e che in parte chiamano in causa anche il governo: dalla decisione sul contenzioso con la Air One di Toto a quell’accordo con i sindacati che - incredibilmente - ancora non è condiviso da tutti, viste le resistenze dei piloti rappresentati dalla Uil. 

Anni e anni di incrostazioni sindacali e partitiche, di compromessi della finanza e delle banche con la politica, di improbabili impegni di imprenditori «patrioti», adesso devono insomma trovare soluzione. E non entro i prossimi quarantotto mesi o in quarantotto giorni, ma nel giro di sole 48 ore. Sarà possibile che questo avvenga? L’aria di grande preoccupazione che si respirava ieri sera nei palazzi delle banche e del governo non era certo un indizio confortante. A molti pare impossibile dare una riposta alle richieste della compagnia degli Emirati entro domani. 

È possibile che la missiva di Hogan rappresenti anche la classica «stretta» negoziale. E che nella migliore tradizione italiana dell’accordo all’ultimo minuto, della trattativa notturna con il sindacato, del rito dell’ultimatum, alla mezzanotte di giovedì si arrivi al termine di questo estenuante negoziato. Ma se così non fosse ci sarebbero davvero poche alternative al fallimento dell’Alitalia. Sarà meglio che molti lo tengano a mente in queste brevissime 48 ore.

Da - http://lastampa.it/2014/07/30/cultura/opinioni/editoriali/lultima-chiamata-BBXeYipYN34NGSjxQ1iOWN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Casaleggio parla troppo, Trichet chiude il microfono
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:30:03 pm
Casaleggio parla troppo, Trichet chiude il microfono
A Cernobbio l’intervento sulla scuola del guru del M5S

07/09/2014

Francesco Manacorda
Inviato a Cernobbio (Co)

Era attesissimo a Cernobbio come l’AntiRenzi, il politico che pur stando contro i poteri forti non rifiuta di mostrare il suo volto dialogante. Ma l’intervento di Gianroberto Casaleggio al Forum Ambrosetti si trasforma ieri sera in una scena un po’ incresciosa, con il guru del movimento Cinque Stelle - qui però solo in veste di imprenditore della new economy - palesemente in difficoltà di fronte a un pubblico non generosissimo che rumoreggia. Casaleggio entra nei saloni di Villa d’Este da un ingresso secondario, schivando giornalisti e fotografi; abito chiaro e un cappello che terrà sempre sulla testa. 

In sala lo attende un panel sull’istruzione, l’ultimo della giornata, al quale partecipa anche il ministro Stefania Giannini. In aprile, secondo notizie di stampa, è stato operato per un edema al cervello e da allora nelle sue apparizioni pubbliche è apparso provato. 

Quando arriva il suo turno offre al pubblico una corposa spiegazione sulle prospettive di internet e dell’economia digitale, condita da slides con le immagini del gioco del Monopoli. Chi lo ha già visto qui lo scorso anno lo trova decisamente meno brillante, come è del resto comprensibile per chi ha avuto problemi di salute.

Peccato però che le regole dei dibattiti al Forum siano ferree: un tot di minuti per oratore e poi un allarmante lampeggiatore rosso si accende a placare qualsiasi residua velleità di parola. Casaleggio, che non ha finito nel quarto d’ora regolamentare, incorre nelle ire dell’ex presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, inflessibile nella conduzione degli oratori così come lo è stato - non sempre con esiti felici - nella politica monetaria di austerità degli ultimi anni. Il banchiere lo interrompe in inglese, richiamandolo ai tempi, ma Casaleggio non pare darsene per inteso. Impossibile però per lui continuare a parlare, anche perché al primo accenno di voler dare ulteriori spiegazioni dalla platea parte un coro non proprio entusiasta: «No! Basta!». E Trichet, rigido controllore dei tempi del dibattito, gli chiude il microfono. 

Non andrà molto meglio al momento delle repliche: Casaleggio sfora di nuovo, i banchiere francese s’inquieta, il ministro Giannini media cedendo il suo tempo all’imprenditore, ma anche questo non basta. Chiusura, anche in questo caso, con qualche contestazione del pubblico. Lui, prima di riprendere l’uscita secondaria e imbarcarsi sulla sua auto dribblando di nuovo i cronisti, la prende con filosofia: «Vi ringrazio per l’attenzione a questo mio non voluto intervento sincopato».

In serata, l’intervento viene pubblicato sul blog di Beppe Grillo. Ma nell’audio, evidentemente registrato in un’altra occasione, non c’è traccia delle contestazioni in sala. E se la presenza di Casaleggio non è un successo c’è anche un’assenza da spiegare. È quella del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, in mattinata con Renzi nel bresciano e nel pomeriggio atteso qui. Assenza polemica sulla scia della fatwa contro il Forum lanciata dal premier? In collegamento telefonico il ministro assicura di no: un acciacco improvviso lo ha bloccato sulla strada verso Cernobbio

Da - http://lastampa.it/2014/09/07/economia/casaleggio-parla-troppo-trichet-chiude-il-microfono-RrcAwoqohbkzTh9Qshcb8J/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Vincere in pista, un passo necessario per la corsa agli Usa
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2014, 06:23:43 pm
Vincere in pista, un passo necessario per la corsa agli Usa
La mossa del Ceo non muta la strategia di Fca in vista dello sbarco a Wall Street di metà ottobre

11/09/2014
Francesco Manacorda

Ha appena vinto il Gran Premio più importante della sua carriera, quello che ha visto Fiat-Chrysler tagliare il traguardo di una fusione che completa dieci anni di lavoro.

Ma adesso, invece di festeggiare ai box, Sergio Marchionne prende la guida della Ferrari e si rimette in gioco con un messaggio chiaro: «Vincere in pista fa parte del Dna della casa; lavoreremo come dannati per questo». Dunque la vittoria «in pista» è ciò che il Ceo del gruppo vuole ottenere dalla Ferrari. Perché, se non è un caso che il Cavallino sia oggi il brand più forte del mondo, l’oggetto del desiderio per il quale tycoon, principi e miliardari si mettono disciplinati in fila dal concessionario, questo avviene in buona parte per la sua reputazione sportiva. E se un Gran Premio perso o vinto non fa certo la differenza in termini di vendite, sei anni di fila senza strappare un titolo, rischiano alla lunga di appannare il marchio che si nutre anche di una lunga serie di successi. Purtroppo passati. È questo il ragionamento che sta dietro le dichiarazioni di ieri di Marchionne; è questo il principale motivo - condito da qualche frizione personale di cui anche nella conferenza stampa congiunta, seppure tra i sorrisi, si è avuta conferma e che pare adesso superata - che porta al cambio della guardia a Maranello, i cui risultati finanziari vengono invece considerati soddisfacenti. 

Ma l’arrivo del Ceo di Fiat-Chrysler ha come obiettivo una rivoluzione in Ferrari anche fuori dai circuiti di gara? I primi segnali non paiono indicarlo. Ieri Marchionne ha confermato la fiducia nella prima linea dell’azienda - in testa l’amministratore delegato Amedeo Felisa. Ed ha indicato anche che nulla cambia nella strategia industriale di Fca illustrata ai mercati finanziari lo scorso maggio ad Auburn Hills - un grande gruppo globale da 7 milioni di auto entro il 2018 - sottolineando più volte la specificità del Cavallino e mandando in archivio i rumors più o meno fantasiosi su possibili novità che spaziavano dalla quotazione separata a una Ferrari «made in Usa». 

 Che la Rossa sotto la nuova gestione possa diventare «americana» non è proprio un tema all’ordine del giorno; diciamo che lo spettro di un Cavallino a stelle strisce è un argomento polemico usato nelle ore passate, quando la tensione sull’asse Maranello-Torino era più alta e i colpi più bassi. Ma come è ovvio in casa Fiat-Chrysler tutti, a partire dal presidente John Elkann e dallo stesso Marchionne, hanno ben chiaro il valore aggiunto della Ferrari sta anche e soprattutto nel suo essere un marchio unico e preziosissimo, che esprime il meglio dell’italianità. Sarebbe «osceno» - Marchionne dixit - solo pensare di produrne una negli Stati Uniti, sebbene proprio gli Usa siano il primo mercato di Maranello. Dunque la questione di un ipotetico sfregio all’identità nazionale di Ferrari, anche se all’interno di un gruppo che è ormai pienamente globale come Fca, si chiude prima ancora di essere aperta. Né il gioiello più prezioso del gruppo automobilistico verrà fagocitato in qualche modo dagli altri marchi. 

«Ferrari - ha ribadito ieri Marchionne - non può appoggiarsi al sistema Fiat-Chrylser nè per le tecnologie nè per l’accesso ai mercati». Se un travaso di competenze e tecnologie avverrà, sarà sempre mettendo Maranello a monte e il resto del gruppo sotto, in modo da raccogliere competenze e innovazione anche nei modelli che dal lusso purissimo della Rossa entrano in quel territorio - su cui il piano industriale di Fca scommette molto - del «lusso accessibile». Accade già con i motori Maserati, che sono «made in Ferrari», non è detto che non possa accadere in futuro per la stessa Maserati o magari per i nuovi modelli Alfa Romeo ai quali dall’anno prossimo spetta uno dei compiti più difficili nella strategia di Marchionne: rompere il predominio dei concorrenti tedeschi nella fascia alta del mercato. Del resto, anche in questo caso il Ceo lo ha ricordato ieri, qualche figura di Maranello è già stata precettata proprio per aiutare i marchi appena citati nell’evoluzione verso fasce sempre più alte di mercato. 

Insomma, il Marchionne che aggiunge alla lista dei suoi uffici a Torino, Londra ed Auburn Hills anche quello a Maranello, porterà qualche rivoluzione in Ferrari e - almeno la sua speranza è questa - sui circuiti di tutto il mondo, ma non sarà certo il nuovo passaggio a rivoluzionare l’intero assetto del piano di Fca per i prossimi cinque anni. Ma certo la chiarezza nella nuova scelta è stata premiata anche ieri dalla Borsa - il titolo va su dell’1,8% - ed è probabile che agli azionisti e al Ceo non dispiaccia presentarsi sul mercato di Wall Street dove Fca sarà quotata da metà ottobre, con tutte le stanze delle grande casa automobilistica messe in ordine. Anche con una governance che attribuisca direttamente a Marchionne onori ed oneri nella gestione del gioiello Ferrari.

Da - http://lastampa.it/2014/09/11/cultura/opinioni/editoriali/vincere-in-pista-un-passo-necessario-per-la-corsa-agli-usa-FPP0SFLwa0gdiIj7EGlUYN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il colpo (quasi) a vuoto della Bce
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2014, 03:45:27 pm
Il colpo (quasi) a vuoto della Bce
19/09/2014

Francesco Manacorda

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira - fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese - rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. 

 In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro - così si chiama in gergo - di Francoforte. 

 Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe. 

 Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria - dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia - ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi. 

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce - seppur praticamente gratuiti - per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. 

Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce. 

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta. 

Da - http://lastampa.it/2014/09/19/cultura/opinioni/editoriali/il-colpo-quasi-a-vuoto-della-bce-Z06iGPp6jA53TN97wx9jPI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Ora sotto esame ci sono le banche
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:30:57 am
Ora sotto esame ci sono le banche

24/10/2014
Francesco Manacorda

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone - analisti di Borsa e uomini delle banche - che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità - e non più delle singole autorità nazionali - su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti - quelli delle banche - si apprestano così a un esame europeo. 

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. 

Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio. 

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. 

Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 - un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose - ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale - per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali - da noi la Banca d’Italia - dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

 

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo - tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo - ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori - chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni - avranno dei parametri per orientarsi meglio. 

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iperprudenziale dei regolatori - dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme - rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/24/cultura/opinioni/editoriali/ora-sotto-esame-ci-sono-le-banche-QegmKH0ufByWqyhaHazvlJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Le incognite ancora da sciogliere
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:36:20 pm
Le incognite ancora da sciogliere

04/12/2014
Francesco Manacorda

Il Paese con un tasso di disoccupazione del 13,2% da ieri ha una nuova legge sul lavoro. Certo, è una legge delega i cui contenuti di dettaglio sono in buona parte ancora da scrivere. E certo, per farla passare in ultima lettura al Senato si è deciso di imporre il voto di fiducia, mentre fuori da Palazzo Madama andavano in scena ancora una volta gli scontri di piazza di una stagione inquieta. Ma è un dato di fatto che da ieri il dibattito politico può superare la diatriba infinita sull’Art. 18 – un totem sia per chi lo ha difeso fino all’ultimo, sia per chi ha visto nella sua caduta la condizione necessaria e sufficiente per un cambio di passo – e concentrarsi non solo sul tema del contratto di lavoro a tutele crescenti che sarà la forma prevalente da applicare ai nuovi assunti, ma anche sul modo per aggredire quel tasso di disoccupazione che segna l’Italia in generale e le sue generazioni più giovani in particolare. 

Pensare che con il testo approvato ieri il lavoro sia concluso è sbagliato. Sono i decreti delegati, che il governo vorrebbe varare già a metà mese per poter avere le nuove regole in funzione dall’inizio del prossimo anno, quelli che daranno il segno vero delle novità. 

E con i decreti delegati andranno risolti vari interrogativi che la riforma ancora si porta dietro. Ad esempio bisognerà vedere come il governo graduerà le «tutele crescenti» del nuovo contratto e come identificherà i casi in cui non ci può essere il licenziamento con indennizzo economico, ma scatta comunque il diritto al lavoratore ad essere reintegrato: dovrà definire quindi quali siano i «licenziamenti nulli e discriminatori» e quali le «fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati». 

È innegabile, poi, che il nuovo sistema si porti dietro alcune incognite. Il Jobs Act è destinato a creare un nuovo «dualismo» rispetto a quello attuale, che vede chi è dentro il mondo del lavoro e in aziende sopra i 15 dipendenti tutelato dall’Art. 18 e chi è fuori privo di tutele. D’ora in poi, invece, come ha sottolineato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, nelle aziende si vedranno fianco a fianco «vecchi» lavoratori tutelati dall’articolo 18 e «nuovi» senza quella protezione. Il possibile effetto sarà quello di inceppare la mobilità della prima categoria di dipendenti, che prima di cambiare posto di lavoro e vedersi applicare le nuove regole ci penseranno mille volte. 

E poi c’è un «dualismo» meno evidente, ma che rischia di perpetuare disparità antiche. I contratti del pubblico impiego saranno anch’essi a tutele crescenti o si manterrà per questa categoria di lavoratori il classico contratto a tempo indeterminato? Se così fosse ecco una differenza difficilmente accettabile. E sempre nei decreti delegati bisognerà affrontare contraddizioni che oggi balzano agli occhi: è pensabile mantenere la possibilità di prorogare i contratti a termine per cinque volte in tre anni con il contratto a tutele crescenti? O invece tutti i datori di lavoro preferiranno affidarsi alla prima soluzione, creando di fatto una lunga anticamera per i lavoratori ancor prima di entrare nel mondo dei contratti a tempo indeterminato?

E in ogni caso è sempre a quel 13,2% di disoccupazione che bisogna tornare. Con il lavoro che è la prima emergenza per l’Italia, aumentare la flessibilità in uscita dei lavoratori è un passo che serve, ma che da solo non basta. Pietro Ichino, tra i padri di questa riforma, ha sottolineato anche martedì in Senato la necessità di coniugare alla flessibilità anche la sicurezza per chi si muove nel mercato del lavoro, con assicurazione contro la disoccupazione e servizi efficaci per chi cerca nuova occupazione. Proprio su questo secondo pilastro della sicurezza – con risorse adeguate e un sistema di agenzie per l’impiego decisamente più funzionante di quello attuale – si gioca una parte tutt’altro che secondaria della partita.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/04/cultura/opinioni/editoriali/le-incognite-ancora-da-sciogliere-t0VhTSQxLeF0tlH42u5FtJ/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Flessibilità contro precarietà
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2014, 11:37:37 am
Flessibilità contro precarietà

22/12/2014
Francesco Manacorda

Il 2014 dell’economia se ne andrà - lo sappiamo - senza rimpianti. Il Pil italiano ha perso ancora terreno, la disoccupazione è ai massimi storici, anche l’iniezione di liquidità per i redditi più bassi con gli 80 euro in busta paga non pare aver dato per ora effetti sensibili sulla domanda interna. Il prossimo anno, invece, è quello in cui si prevede una minima ripresa del Pil, un primo spiraglio di luce. Ma per l’occupazione, dicono le stesse previsioni, non ci saranno miglioramenti. E una ripresa senza lavoro per molte famiglie italiane, specie quelle dove c’è chi il lavoro lo ha perso o quelle dove ci sono dei giovani in cerca di prima occupazione, non sarà davvero una ripresa. 

Quando e come potrà incidere la politica del governo su questa situazione? Lo studio della Cisl, di cui scrive oggi sul giornale Paolo Baroni, afferma che grazie al bonus previsto assumere a tempo indeterminato quattro nuovi lavoratori potrà costare quanto assumerne tre a tempo indeterminato.

Se è così c’è da sperare che già nei prossimi mesi l’effetto del Jobs Act si faccia sentire non solo sulla quantità, ma anche sulla qualità dell’occupazione. 

Uscire dalla giungla dei contratti parasubordinati e dalle forme di collaborazione più o meno fittizie usate da molte aziende in modo improprio, per avviarsi sulla strada del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può significare per molti giovani anche l’abbandono di una precarietà che prima che economica è esistenziale e limita i progetti, impedisce scelte di autonomia. Essere soggetti deboli, come spesso sono i giovani, in un mercato del lavoro rigido come quello che abbiamo avuto finora significa venire sottoposti alle tensioni maggiori, rischiare di trovarsi là dove quelle rigidità finiscono per creare una rottura che espelle o mette ai margini. Essere giovani in un mercato del lavoro più flessibile - in entrata come in uscita - può invece dare prospettive diverse. Per un venticinquenne di oggi è più importante essere inserito in un percorso che mano a mano aumenti le sue tutele o venire subito garantito contro i rischi di perdere un lavoro - che peraltro oggi non ha - dall’Articolo 18? La risposta non pare difficile.

Anche dal mondo dei giovani professionisti giungono segnali di grande difficoltà, come raccontiamo nelle nostre pagine. Per loro, che guadagnano in media la metà degli «over 40» che fanno la stessa professione, il problema non è solo l’oggi, ma anche il domani. Si avviano, infatti, a una carriera dove sarà difficile aumentare i redditi e dove risulterà complicato anche assicurarsi una pensione dignitosa. E anche in questo caso ci sono rigidità da abbattere: i vincoli degli ordini, le tariffe minime, le caste parentali, ostacolano un mercato dei servizi davvero libero. 

Con i decreti delegati attesi prima di Natale e molte aziende che già aspettano di capire se da gennaio potranno trasformare i contratti in scadenza nella nuova formula a tempo indeterminato, siamo davvero di fronte a una svolta cruciale. Se la flessibilità sarà prevalente sulla precarietà allora tutti - aziende, lavoratori e soprattutto quei giovani che nel mondo del lavoro vogliono e devono entrare - avranno fatto un buon affare. Se invece dovesse avvenire il contrario anche la politica ne pagherebbe il prezzo: un esercito di giovani sempre meno garantiti ma anche sempre più precari sarebbe sempre più tentato di non scegliere le urne per farsi sentire.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/22/cultura/opinioni/editoriali/flessibilit-contro-precariet-Nz2UK5yhQKGgHkmhJjOitO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. I rischi per Atene e per gli altri
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 05:26:21 pm
I rischi per Atene e per gli altri
06/01/2015

Francesco Manacorda
Quella che i mercati internazionali hanno battezzato «Grexit» – unendo il nome della Grecia all’exit, l’uscita, dall’euro – è per ora solo un fantasma, destinato con ogni probabilità a restare tale. Non a caso lo evocano soprattutto le formazioni politiche greche che si oppongono al rampante movimento di sinistra Syriza: se la formazione di Alexis Tsipras dovesse vincere le elezioni del prossimo 25 gennaio – è la profezia interessata che viene fatta – la sua richiesta di ristrutturare il debito greco porterà appunto all’uscita dall’euro. 

Ma certi fantasmi sono rischiosi anche se vengono semplicemente evocati. Lo hanno dimostrato anche ieri le convulsioni delle Borse europee, la caduta della valuta unica e qualche segnale – per la verità timido – di rialzo dei tassi sui titoli di Stato nella periferia della zona euro, Italia compresa. Sulla giornata non ha pesato solo la «Grexit» – i mercati azionari sono scesi anche perché ci si aspetta che la Bce agisca in fretta con l’acquisto di obbligazioni – ma la «Grexit» ha comunque avuto un suo ruolo.

La Germania smentisce, ed è credibile, di voler spingere la Grecia fuori dall’euro, nonostante alcune indiscrezioni riportate negli ultimi giorni da un settimanale.

A Bruxelles la Commissione ripete che dall’euro non è prevista alcuna exit per nessun Paese aderente, o per meglio dire che il caso non è contemplato dai trattati che hanno dato vita alla moneta unica, visto che poi se alla fine Atene dovesse scegliere – o fosse costretta – ad uscire, un modo si troverebbe. 

Ma se per ipotesi la Grecia dovesse uscire davvero dall’euro che cosa potrebbe accadere? Il rischio non sarebbe solo e tanto quello per Atene di trovarsi all’improvviso con una valuta deprezzata che potrebbe trasformarla in una meta turistica ancora più attraente, ma renderebbe insostenibili le importazioni; né quello per il resto dei Paesi della moneta unica di avere un debitore che non farebbe più fronte ai suoi impegni. Il rischio maggiore sarebbe di aver creato un precedente per quello che fino a qualche anno fa appariva addirittura impensabile, che ora appare invece ipotizzabile e che in futuro potrebbe diventare addirittura concreto. Se mai la Grecia dovesse uscire dall’euro che cosa impedirebbe agli operatori finanziari di pensare che altri Paesi – non solo periferici – la possano seguire? E che cosa potrebbe bloccare a questo punto il gioco della speculazione contro chi venisse identificato come il successivo anello debole della catena? L’Italia è certo oggi in condizioni migliori, in quanto a percezione dei mercati e quindi ad andamento dei tassi d’interesse, di quanto non fosse appena un paio di anni fa. 

Ma non va sottovalutato il peso del nostro enorme debito, che rappresenta un punto sempre vulnerabile. E anche la Spagna, che pure negli ultimi mesi sembra aver guadagnato ancora più fiducia di noi da parte degli investitori, potrebbe trovarsi in difficoltà. Qui, come in Portogallo, si vota nel 2015 e gli arrabbiati del movimento Podemos – che al pari dei greci di Syriza chiedono un radicale cambio di marcia nelle politiche di austerità imposte dall’Europa – veleggiano nei sondaggi. Perfino la Francia, in uno scenario simile e con le difficoltà di finanza pubblica che sta sperimentando, non avrebbe garanzie di evitare gli attacchi della speculazione.

Creare un precedente per l’uscita di un Paese – anche se piccolo e in grande difficoltà come la Grecia – dall’euro, rischia insomma di essere pericoloso per l’euro stesso. Dopo le elezioni di gennaio capiremo fino in fondo quali sono le posizioni degli schieramenti politici greci sul debito pubblico – oggi al 175% del Pil – e quanto i partner europei, Germania in testa, sono pronti a cedere sul fronte di una sua eventuale ristrutturazione. Il rischio da evitare – per il bene di tutti – è appunto quello che nei negoziati che paiono destinati ad aprirsi la «Grexit» diventi un’opzione praticabile. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/06/cultura/opinioni/editoriali/i-rischi-per-atene-e-per-gli-altri-xkoc7gCgP0GSsOLTNXIEEI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Gutgeld: “Meno spesa improduttiva. Più risorse a scuola...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 11:55:55 am
“I tedeschi devono capirlo Solo con più crescita si abbatte il debito”
Gutgeld: “Meno spesa improduttiva. Più risorse a scuola e sanità”


17/02/2016
Francesco Manacorda
Roma

«Fare la spending review è come rimettersi in forma. Prima di tutto bisogna seguire una dieta, ma poi si deve anche cambiare stile di vita. Ecco, noi stiamo passando alla fase due della revisione della spesa in cui si va dai semplici tagli a una revisione strutturale, che punta a cambiare la qualità della spesa». Incurante dell’effetto delle sue metafore sui 120 chili abbondanti di cronista che ha di fronte, stretto in una stanzetta provvisoria di Palazzo Chigi mentre stanno ridipingendo il suo studio, Yoram Gutgeld fa il bilancio del suo primo anno da consigliere economico del premier e da commissario alla spending review. Ma guarda più che altro avanti. Alla «fase due», per l’appunto, e allo scontro tra il governo italiano e Bruxelles sulla flessibilità di bilancio. Uno scontro che non ha ragione di esistere, dice: «Tutte le persone di buon senso capiscono che il debito si abbatte solo se aumenta la crescita».

Dopo un biennio di governo Renzi come si sostanzia questa fase due? E che cosa replica a chi dice che la revisione della spesa va a rilento?  
«Che stiamo facendo tanto, anzi tantissimo. Basta pensare che la spesa corrente dal 2013 al 2016, come percentuale del Pil, è scesa dell’1,6%. In Germania quando Gerhard Schroeder fece le riforme a inizio anni 2000 in un triennio le spese scesero solo dello 0,6% del Pil».  

Questa è la replica alle critiche. E la revisione strutturale?  
«Le faccio qualche esempio. Stiamo passando alla centralizzazione degli acquisti, da 35 mila a 33 centrali di acquisto: significa non solo spendere meno per i beni acquistati, ma anche razionalizzare e snellire i processi, con altri risparmi. Da una settimana 15 miliardi di acquisti, soprattutto nella sanità, sono passati a centrali su base regionale o pluriregionale. Per i Comuni stiamo passando ai costi standard come parametro di spesa: nel 2015 riguardavano il 20% della spesa, quest’anno passiamo al 40% e nel 2019 arriveremo al 100%».  

In concreto che cosa significa cambiare il mix di spesa e come influenza i servizi pubblici?  
«I dati finali li daremo in marzo, ma intanto posso anticipare che nel 2016 la spesa nominale per i cosiddetti servizi generali, quella meno produttiva, è scesa di circa 4,5 miliardi rispetto al 2014. Sono soldi che si sono potuti dirottare su altre voci, con l’obiettivo di non ridurre il livello di servizi per i cittadini, ad esempio aumentando di oltre 3 miliardi la spesa per la scuola e di un miliardo quella per la Sanità, con effetti molto concreti: l’anno scorso 32 mila ammalati di Epatite C hanno potuto usufruire di un farmaco salvavita molto costoso e passato dal Servizio sanitario nazionale».  

Domani Matteo Renzi sarà al vertice europeo di Bruxelles. Il primo dopo settimane di polemiche sulla flessibilità dei conti pubblici. Come andate al vertice e quali risultati vi aspettate?  
«Arriviamo là con una conferma della linea che abbiamo adottato fin dall’inizio, spiegando che siamo ligi a tutte le regole di bilancio europee, più di altri Paesi».  

Anche perché abbiamo sulle spalle un debito pubblico del 133% del Pil che non ci concede stravaganze...  
«Non c’è dubbio. Proprio per questo ancora prima di Bruxelles ci giudicano i mercati finanziari. E proprio per questo dobbiamo essere particolarmente seri e affidabili, come l’Italia non sempre è stata in passato. Del resto nel 2016, dopo nove anni il rapporto debito/Pil comincerà a scendere».  

Per ora, più che altro, non sale il Pil.
Lo 0,7% nel 2015 rispetto allo 0,9% previsto dal governo...  

«L’Italia è il Paese che in un anno ha fatto il balzo maggiore: da un -0,4% siamo passati a un +0,7%. Ma è vero che la crescita europea è insoddisfacente e l’unico modo per mettere il debito sotto controllo - per l’Italia e per tutta l’Europa - è garantire una crescita robusta. Anche chi si preoccupa per la sostenibilità del nostro debito, come i tedeschi, deve capire che la crescita oggi è la priorità».  

Di crescita ha appena parlato anche Mario Draghi.  
«Ho ascoltato con molto interesse le sue parole lunedì. Il presidente della Bce dice che da un lato bisogna ridurre le tasse e dall’altro aumentare gli investimenti. È proprio quello che stiamo cercando di fare, con una riduzione delle tasse di 29 miliardi nel 2015».

Draghi però dice che questo lo può fare chi in regola con i conti pubblici. L’Italia invece sembra chiedere più deficit adesso per fare meno debito in futuro. Non è così?  
«No, noi stiamo assolutamente dentro le regole europee. Regole che prevedono che chi fa le riforme e chi sta migliorando i conti ha la possibilità di avere un percorso di riduzione del deficit bilanciato, consentendogli di fare investimenti. Se si riduce il deficit troppo rapidamente si rischia la recessione. Lo abbiamo visto con il governo Monti».  

Ma Bruxelles vi invita a non spingere troppo sulla flessibilità. Oltre che per investimenti e riforme la volete anche per i migranti, peraltro includendo anche il «bonus» cultura...  
«Si tratterà anche su questo. Ma sui migranti chiediamo di fatto quello che hanno chiesto altri Paesi per un problema che affrontiamo già da 2012. Abbiamo appena dato 3 miliardi alla Turchia. Quel che chiediamo è in linea con quanto chiesto, e ottenuto, da altri».  

Chi vi seguirà in questa battaglia se non Spagna e Portogallo? E così non si rischia di ricreare un Club Med rispetto al quale mezza Europa - quella del Nord - avrebbe tutte le occasioni per chiedere uno sganciamento?  
«Penso che ci seguiranno tutte le persone di buon senso. Ho visto appoggio per alcune nostre istanze dalla Gran Bretagna e dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz».  

Capitolo banche. La «bad bank» trattata con Bruxelles pare solo un pannicello caldo che non risolverà certo i problemi delle sofferenze. Concorda?  

«No. È un aiuto, specie per le banche piccole che così potranno cedere meglio i loro crediti. È vero che non possiamo fare quello che hanno fatto altri in passato, con regole diverse, ossia mettere soldi pubblici nelle banche. Ma questo elemento aiuterà, assieme ad altri tasselli importanti come la norma che accorcia i tempi di rimborso dei creditori».  

La riforma delle Popolari che mette in moto a fatica le aggregazioni. Quella delle banche di credito cooperativo che scatena polemica sulle norme che «salvano» dalla holding unica alcuni istituti toscani. E sullo sfondo il caso Mps - banca toscana e legata al Pd - che nessuno vuole sposare. Non è abbastanza per dire che per il governo c’è un problema bancario?  

«Di nuovo no. Quello che il governo sta cercando di fare è di creare le condizioni per mettere assieme le banche più piccole e meno solide. Stabilire che, come nel caso delle Bcc, qualcuna di quelle più grandi possa restare autonoma mi pare buon senso. Mps sta pagando scelte del passato mentre la nuova gestione ha portato risultati migliori. Mi auguro che per questa banca si trovi una soluzione di mercato».  

Torniamo al vertice di domani. Renzi ha battuto i pugni su tavolo. Ma ora non è il momento di mettere da parte i toni polemici?  

«Il presidente del Consiglio ha fatto diventare pubblico un dibattito che non doveva restare nelle segrete stanze europee, anche perché riguarda tutti noi. Ma confido che riusciremo a spiegare in Europa l’entità delle riforme che stiamo facendo, anche sul fronte del bilancio. Proprio la quantità e la qualità della spesa pubblica è un modo per affermare che siamo non seri, ma serissimi, sui nostri conti».

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/17/italia/politica/i-tedeschi-devono-capirlo-solo-con-pi-crescita-si-abbatte-il-debito-C67agmBoxDP9grCBaMQJdK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Il via libera del premier ai francesi: ormai Silvio non...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2016, 08:53:23 pm
Il via libera del premier ai francesi: ormai Silvio non mi preoccupa più
La partita doppia di Bolloré: ottiene luce verde sul polo televisivo ma la sua Telecom adesso è messa nell’angolo dal governo


07/04/2016
Francesco Manacorda
Milano

Una coincidenza? Difficile crederlo. Lo stesso giorno in cui Telecom Italia, con Vincent Bolloré azionista di maggioranza, si vede chiudere in faccia la porta dal governo sullo sviluppo della banda larga, Vivendi - sempre con Bolloré azionista di maggioranza - compie l’abbraccio azionario con Mediaset. 

Una partita doppia, allora? Per il finanziere bretone che da decenni ha scelto l’Italia come destinazione favorita, senza dubbio. Nella colonna del dare c’è oggi una perdita di peso strategico della «sua» Telecom, dove nel giro di qualche mese ha messo quattro uomini in consiglio e ha appena cambiato l’amministratore delegato. In quella dell’avere, invece, Bolloré può segnare lo sbarco sul mercato televisivo italiano, ma soprattutto l’embrione di quello che ambisce ad essere il concorrente europeo di Sky e forse quello globale di Netflix. 

Uno scambio, addirittura? E perché no. Sotto la regia del governo, naturalmente, visto che il bon-ton di politica&finanza impone a qualsiasi latitudine di chiedere permesso se si entra in casa altrui occhieggiando oggetti di valore - non solo economico - come le telecomunicazioni e le televisioni. Anche per questo - raccontano fonti attendibili - nelle scorse settimane Bolloré è andato ancora una volta a trovare Renzi; in questo caso per chiedergli un informale via libera sull’operazione Vivendi-Mediaset. Via libera concesso dal premier anche sulla base della constatazione che ormai Silvio Berlusconi non rappresenta più per lui un pericolo politico e che quindi non c’è rischio ad alimentarne le attività nei media con nuovi soci.

A voler essere maliziosi si potrebbe addirittura pensare che con il suo sigillo sull’operazione Vivendi-Mediaset il premier offra all’avversario di un tempo un’onorevolissima via d’uscita, prospettando magari alla nuova generazione dei Berlusconi un ruolo non più come azionisti di maggioranza di un’azienda televisiva che nel passato ha avuto un ruolo essenziale anche nelle vicende politiche del capofamiglia, ma come soci di minoranza di un soggetto assai più grande che per la sua stessa natura paneuropea (Francia, Italia, un po’ di Germania e quella Spagna da sempre cara a Mediaset) e un profilo ben tagliato su sport e intrattenimento non troverebbe convenienza a impegnarsi in battaglie informative nazionali. 

 
Resta il fatto che quella che sembrava essere la missione principale di Bolloré - insediarsi al comando di Telecom mantenendo intatto il vantaggioso ruolo di ex monopolista dell’operatore telefonico sul mercato italiano - per ora non pare andata del tutto in porto. Certo, attraverso Vivendi il finanziere ha ormai una saldissima maggioranza relativa, appena sotto il 30%, nella società telefonica E certo, nel cda di Telecom Italia soffia ormai il vento di Bretagna. Ma la banda larga è adesso più un affare dell’Enel che non della società di telecomunicazioni che sarebbe stata il candidato naturale per l’operazione. 

Un classico colpo alla Renzi - sostiene una scuola di pensiero - per scuotere una Telecom troppo ferma e costringerla a confrontarsi su un’infrastruttura essenziale per lo sviluppo del Paese. Una dimostrazione di dirigismo alle vongole - è la tesi opposta - in cui si prende una società partecipata dallo Stato come Enel e la si indirizza su una missione non sua, escludendo nel contempo un soggetto privato e competente come Telecom. Presto, probabilmente, per giudicare gli effetti di questa mossa sul sistema italiano. E presto, prestissimo, anche per archiviare con un semplice pareggio la partita italiana di Bolloré. Se consolidamento, nelle tv come nelle telecomunicazioni, è comunque la parola d’ordine di questi tempi, c’è da giurare che il finanziere non perderà troppo tempo alla guida di una Telecom immobile, ma si muoverà attivamente. Magari evitando di replicare certe sortite come quella del 2010 nella Premafin dei Ligresti che portarono la futura stella francese della finanza italiana a guadagnarsi - era il gennaio 2014, non il secolo scorso - una multa Consob da 3 milioni di euro e diciotto mesi di interdizione da qualsiasi carica sociale per manipolazione del mercato.

Da - http://www.lastampa.it/2016/04/07/economia/il-via-libera-del-premier-ai-francesi-ormai-silvio-non-mi-preoccupa-pi-U2ulWpF1vC0qCyEd3PnC4O/pagina.html


Titolo: FRANCESCO MANACORDA. Quella fiducia spezzata
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2017, 12:09:56 pm
Quella fiducia spezzata

Di FRANCESCO MANACORDA
19 Ottobre 2017

La bomba sotto forma di mozione parlamentare sganciata martedì dal Pd di Matteo Renzi sulla Banca d’Italia ha un effetto immediato nettissimo e una conseguenza a breve altrettanto netta. L’effetto è che il solitamente mite presidente del Consiglio Paolo Gentiloni — spiega chi lo ha sentito ieri — è a dir poco infuriato per il metodo e per il merito del blitz portato avanti dai fedelissimi di Renzi. La conseguenza in arrivo è che lo stesso Gentiloni è intenzionato a riconfermare il governatore Ignazio Visco. Questo nonostante la mozione presentata martedì dal Pd alla Camera che chiede una «figura più idonea» per via Nazionale.
 
A scrivere il testo della mozione Pd che attaccava il vertice di Bankitalia e chiedeva i presupposti per «una nuova fiducia nell’istituzione» – è infatti la ricostruzione che si fa a Palazzo Chigi – è stato il capogruppo del Pd alla camera Ettore Rosato con la fattiva collaborazione della sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi; proprio lei avrebbe aggiunto alcuni punti di suo pugno a una mozione che suonava come uno schiaffo a Visco e a Bankitalia. Peccato che Rosato abbia assicurato – prosegue la ricostruzione – alla presidenza del gruppo Pd che il testo fosse ovviamente noto anche al governo mentre così non era. E davvero peccato che la Boschi si sia ben guardata dall’informare i suoi compagni di governo come lo stesso Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, per non parlare del Presidente della Repubblica.
 
Martedì alla Camera si è spezzato, insomma, il filo di fiducia che ancora teneva legato il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, suo azionista di maggioranza. Una rottura acuita dal comportamento della Boschi e dal fatto che nessun altro dei ministri, anche quelli più vicini a Renzi come Maurizio Martina, era stato avvertito della mossa in preparazione. Alla profonda irritazione di Gentiloni si aggiunge quella del Presidente Sergio Mattarella, che già martedì pomeriggio dopo la mozione Pd con 213 voti a favore era dovuto intervenire con parole nette per sottolineare la necessità di preservare una Banca d’Italia autonoma e indipendente. E poi ci sono le telefonate preoccupate arrivate nelle stesse ore a Roma dalla Banca centrale europea e il fuoco di sbarramento che Renzi ha incontrato e incontra anche da esponenti di primissimo piano del suo partito. Ecco così che tutto sembra allinearsi per la riconferma di Visco.

Questa, del resto, era già l’accordo informale raggiunto tra Palazzo Chigi e il Colle. E questo è stato forse l’innesco che ha spinto Renzi a dare fuoco alle micce.
 
Tutto come prima, dunque? Non proprio. Perché oltre allo strappo tra Gentiloni e Renzi, anche in Banca d’Italia si respira un’aria di estremo nervosismo. Paradossalmente, mentre nei palazzi del potere politico l’accordo su Visco pare tenere, proprio in via Nazionale si nutrono i timori maggiori. E’ vero, il processo di nomina dei vertici di Bankitalia è per legge fuori dalla dinamica parlamentare proprio perché si tratta di un’istituzione di garanzia. Ma è inutile negare che quei 213 voti della maggioranza contro la Banca hanno fatto una certa impressione. Il Governatore avrebbe preferito una soluzione rapida per al sua riconferma; magari già al Consiglio dei ministri che lunedì scorso ha varato la legge di Bilancio. Ma così non è stato - anche perché Gentiloni non voleva interferire con le mozioni su Bankitalia annunciate dalle opposizioni (ma non dal Pd) in arrivo alla Camera - e così non sarà nemmeno oggi, quando il Consiglio è sì convocato, ma senza un punto Bankitalia all’ordine del giorno e soprattutto senza la presenza del premier, che è fuori Italia. Si andrà allora, a meno di convocazioni straordinarie, a venerdì 27; appena una manciata di giorni prima della fine di ottobre, quando il mandato del numero uno di Bankitalia scade e il nome per la successione dovrà essere inevitabilmente pronto. Per gli uomini più vicini al Governatore la settimana abbondante che deve passare è una iattura: più si allungano i tempi – è il ragionamento – più aumentano i rischi di una polarizzazione tra i sostenitori e gli oppositori di Visco e quindi la possibilità che si vada a un candidato di mediazione. Alla luce del “metodo Gentiloni”, invece, quello stesso tempo che passa è un toccasana: serve per provare ad appianare i dissidi, per cercare un’intesa che oggi appare impossibile.
 
Nei prossimi giorni, dunque, non sono da escludersi altri attacchi da parte di Renzi e nuove dimostrazioni di resistenza da parte di Palazzo Chigi. Visco, mentre anche ieri si addensavano voci interessate su un suo possibile passo indietro o sulla scelta volontaria di un mandato “a tempo” inferiore ai sei anni della legge, non ha alcuna intenzione di fare mosse di questo genere. Sa che probabilmente il suo prossimo mandato è a rischio di polemiche fortissime; è conscio che qualsiasi nuova crisi bancaria porterebbe nuovi attacchi politici contro via Nazionale - con il Pd in testa - ma non pensa che questo possa essere un ostacolo.

Se poi ci dovessero essere scossoni dell’ultimo minuto e la strada per la riconferma del Governatore dovesse essere davvero impercorribile, il suo successore non sarà un outsider - come ha spesso ventilato Renzi - ma uno dei componenti del Direttorio che in questi anni ha diviso scelte e responsabilità con lo stesso Visco. Al Presidente della Repubblica, che da statuto della Banca deve firmare il decreto di nomina del Governatore su proposta del presidente del Consiglio, potrebbe arrivare in quel caso non il solo nome di Visco, ma una terna che comprenderebbe anche il direttore generale di Bankitalia Salvatore Rossi e il vicedirettore Fabio Panetta.

© Riproduzione riservata19 Ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/10/19/news/quella_fiducia_spezzata-178712357/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L