News dal PAESE che il PD deve fare MIGLIORE.
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La parabola dei sardisti da Lussu ai berluscones
di Giorgio Melis
Sardisti, chi erano costoro?
Nella memoria che sbiadisce, è sfuggito ai più il significato del termine, il senso della lunga storia connessa. Il richiamo alla Sardegna è oscuramente orecchiato in salsa leghista. Per la verità, c’è entrato anche Bossi, con i sardisti. Li ha corteggiati ma ne è stato respinto. Voleva per la sua Lega secessionista l’avallo di una nobile ascendenza: il Partito sardo d’azione (Psd’az), formazione federalista nata 88 anni fa. Battezzata col sangue dei fantaccini della Brigata Sassari, in cui transitò la meglio e intera gioventù sarda nella prima guerra mondiale. Lasciando nelle trincee il più alto numero (in proporzione) di caduti tra le regioni italiane. Tragico alone guerresco ed eroico simbolizzati nella leggenda di Emilio Lussu: nel 1945 tra i padri fondatori della Repubblica. Il partito è ridotto a poca cosa elettorale: meno del 2%. Non è per un pugno di voti che ora Silvio Berlusconi lo vuole alleato nella sfida elettorale, ormai diretta e personale tra lui e Renato Soru, per la Regione. Infatti il punto di partenza della notizia oscura - i sardisti chi? - è la scelta del Psd’az di allearsi col Cavaliere contro Soru. Sorpresa solo per chi non viva nell’Isola dei Mori, come la chiamava Luigi Pintor.
Il Partito sardo d’azione
Il Psd’az non ha quasi più niente delle origini. Era nato nel 1921 come movimento di liberazione. Il primo dopo un sonno millenario della Sardegna. L’isola senza marinai e pescatori era fuori dalla storia e dalla geografia. Anche più isolata al suo interno: gli abitanti separati perché quasi senza collegamenti, ostili e conflittuali. Terra da colonia: spagnola, piemontese, infine italiana. La scoperta di sé avviene nelle trincee della Grande Guerra, dove la sua gioventù è in massa alle armi. Combattendo e morendo fianco a fianco, prende coscienza che esiste un popolo di varie sardità, anche linguistiche, che si scopre e si riconosce per la prima volta. La sarditudine ritrovata sfocia nel dopoguerra in un movimento di reduci, autonomista, federalista, con tratti socialisti: organizza pastori, contadini e minatori sfruttati. Il Psd’az desta l’attenzione di Gobetti ma anche di Lenin. Gramsci, in Parlamento con Lussu, lo segue con occhio lungo. Croce dirà che è «il pre-partito di tutti i sardi». È antifascista: inaccettabile per Mussolini, che vuole con sé «gli intrepidi sardi» della «Sassari». Spaccherà il partito poi sciolto, Lussu è imprigionato, evade e sarà un protagonista nel ‘45. Ma il lungo sonno del fascismo ha fiaccato i grandi fermenti. Il partito del dopoguerra è imborghesito, Lussu l’abbandona. Restano grandi dirigenti pencolanti e logorati nel governo con la Dc prima, poi col Pci. Negli anni ottanta, l’ultimo ruggito. C’è un Re Leone: Mario Melis, presidente della Regione. È lui a dire no a Bossi: il sardismo è federalista ma europeista, non etnico, mai xenofobo. Poi il declino, fino al tracollo. Il segretario si candida (quasi clandestinamente ma non è cacciato) con la Lega: trombato con doppio disonore. Si chiama Giacomo Sanna. Con un neofita ex Cl-Dc, Paolo Maninchedda, eletto e transfuga da Soru, firmerà l’accordo con Berlusconi.
Il Cavaliere
Berlusconi vuole il marchio, sempre ambito: in passato dai leader nazionali, Enrico Berlinguer in testa. Si è riparlato di Fasciomori, quelli confluiti con Mussolini nel 1924. Contrapposti ai Rossomori di Lussu: così si chiamerà una lista fuoruscita dal Psd’az «berlusconizzato».
Si ironizza sull’intesa. Berlusconi col fard, idealmente nella storica bandiera, trasforma i Quattro Mori nei Cinque Abbronzati.
Stravagante, governando Soru, il Moro del duemila. Ha proiettato i valori del sardismo nella modernità ma ha urtato interessi a largo spettro. È il primo presidente eletto dal popolo: svolta non metabolizzata. Il rifiuto del capo è nei tratti genetici dei sardi.
Con Soru è stata consentita un’eccezione contestata: alle urne si vedrà se transitoria. Il rinnegamento del Psd’az («mai a destra»: era il patto fondante) peserà niente. È solo il segnale di una memoria non sbiadita, solo tradita.
09 gennaio 2009
da unita.it
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«Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione»
di Andrea Carugati
Angelo Guglielmi, 79 anni fino al prossimo 2 aprile, risponde al telefono dal suo ufficio di palazzo d’Accursio, la sede del Comune di Bologna. La voce è pimpante, si capisce che, dopo cinque anni a Bologna, da assessore alla Cultura di Cofferati, aveva voglia di tornare a Roma in prima linea. Ci tornerà a giugno, nella Capitale, alla scadenza del mandato. Ma avrebbe voluto e potuto rientrare in anticipo, per approdare alla guida della sua amata Rai.
Fu lui l’inventore e il direttore della Rai Tre degli anni d’oro, tra il 1987 e il 1994, che partorì programmi come Quelli che il calcio, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura. Ma il premier ha messo il veto sul suo nome. «Quando ho ricevuto la telefonata di Franceschini, lo scorso fine settimana, gliel’ho detto subito: “Io presidente della Rai? Sono lusingato, ma vedrai che non si farà...”. Poi ho cominciato a ragionarci sopra, e non sono riuscito a trovare nessun motivo ragionevole per cui il Berlusca avrebbe dovuto dire di no. Proprio nessuna. E allora ho iniziato cautamente a pensarci. Ma dentro di me restava una certezza: diranno di no».
Berlusconi avrebbe detto che lei è troppo avanti con gli anni...
«Franceschini gli ha risposto con prontezza: ha pochi anni in meno di Guglielmi, dunque non ha alcuna legittimità per tirare in ballo questo argomento. Io ne ho ancora 79, lui va per i 74. E poi non capisco: mi ha fatto la corte per anni perché passassi a dirigere una rete Mediaset...».
Racconti tutta la storia.
«Era il ‘92-’93. Mi ricordo una sera a casa di Costanzo, c’erano Confalonieri, Galliani, Dell’Utri. Scoprii che in realtà avrei avuto meno soldi a disposizione rispetto al budget della Rai, circa 50 miliardi contro 100. E allora dissi di no. Ma loro erano stati molto disponibili: avevo chiesto che con me si trasferisse praticamente l’intera Rete 3, e loro non fecero obiezioni. Loro volevano che guidassi Rete 4, che era in difficoltà, e noi rilanciammo con Italia 1. Anche lì non ci furono problemi. Mi ricordo che tra i più accesi sostenitori del mio passaggio a Mediaset c’erano Giorgio Gori e Mentana, che è stato appena cacciato...».
E allora perché non l’hanno voluta alla guida della Rai?
«Sto ancora cercando di capirlo, chissà, forse il no arriva da Tremonti. Ma un’idea ce l’ho: sarei stato l’unico, tra i nuovi vertici, ad avere una certa esperienza di televisione. Compreso il nuovo direttore generale in pectore, Mauro Masi, che finora si è occupato di tv solo come spettatore. Il centrodestra ha comunque una maggioranza bulgara: 5 consiglieri contro 3, di cui uno dell’Udc, che si muove secondo logiche proprie. Ecco, credo che abbiano avuto paura di un mio giudizio di merito, competente, sulle proposte al vaglio del Cda. Con quella maggioranza sono in grado di far passare anche la monnezza, ma io ho un naso in grado di fiutare certi odori...».
Forse l’hanno considerata bravo abbastanza per Mediaset, troppo per la Rai, che in fondo è il principale concorrente...
«Io avrei svolto un ruolo di minoranza, ma avrei potuto tirare fuori qualche argomento difficilmente contestabile. Altre motivazioni non ne trovo: se qualcuno me ne volesse suggerire, ne sarei felice».
Berlusconi ripete sempre di sentirsi 35 anni. Ecco che allora i suoi 79 appaiono tantissimi di più...
«È solo una battuta. Ma se la mettiamo su questo piano, allora io ne ho 40, sempre cinque di più. E poi scusi: si è parlato di spostare Zavoli dalla Vigilanza alla Rai, dunque l’età è una motivazione del tutto pretestuosa...».
Ha visto che il Pd non intende fare nuovi nomi dopo il suo?
«Ho visto. E allora delle due l’una: o il centrodestra si inventa un nuovo Villari, e temo che non sarebbe difficile trovarlo, oppure basta che Tremonti indichi il suo consigliere Petroni. A quel punto il Cda è in grado di funzionare, con la guida del consigliere più anziano. Che è uno di An».
Guglielmo Rositani.
«Esatto. L’altra volta, nel 2005, andò proprio così. Non si trovò l’accordo su nessun nome, e allora il Cda fu guidato per tre mesi da Sandro Curzi, il più anziano. Sandro mi disse che in quei mesi ogni tanto Berlusconi gli telefonava: “Perché sollecitate la nomina? Sei tu il presidente, approfittane...”».
Pensa che abbia pesato il suo essere stato sempre schierato a sinistra?
«Mi pare che la legge preveda che il presidente della Rai sia indicato dall’opposizione. Ma rispondo volentieri a Gasparri che mi ha accusato di essere un lottizzato. Ci fu una riunione tra Craxi, De Mita e Veltroni in cui decisero di includere il Pci nella gestione della Rai. Veltroni scelse me, che pure non ero mai stato iscritto al partito, né mai lo sono stato. Ho sempre votato per il Pci, ma con distanza. Ai tempi del “Gruppo 63” eravamo molto polemici, lontani dai realismi dei Guttuso e dei Pratolini. Pensavamo che il partito non fosse attrezzato per discutere di letteratura e creatività, escludevamo che la politica avesse l’ultima parola».
Veltroni l’ha sentito in questi giorni?
«No, assolutamente. Lui ha davvero passato la mano, ma Franceschini mi ha assicurato che la proposta aveva il consenso di tutto il partito».
Torniamo a quando Veltroni la scelse per la guida di Raitre.
«Lui era il responsabile Stampa e propaganda, quindi della tv. Aveva voglia di nominare un esterno, non pensava che gestire una rete volesse dire assumere segretarie e attrici e fare posto ai produttori amici, come andava di moda allora, soprattutto a Rai2. Non mi ha mai chiesto cose del genere. Ha capito che doveva puntare sulla qualità dell’offerta, perché ne avrebbe ricavato maggiori vantaggi. E infatti il riconoscimento fu unanime. E disturbò molto le altre reti, soprattutto Rai2: ricordo che Craxi pretese che Giuliano Ferrara passasse da Rai3 a Rai2».
Che giudizio dà della Rai di oggi?
«Non spetta a me dirlo, è sotto gli occhi di tutti: totalmente schiacciata su Mediaset, commerciale».
Ma lei cosa avrebbe fatto?
«Avrei cominciato a pensarci solo dopo la nomina. Non mi piace sognare anzitempo. Avrei avuto le carte per dare alla minoranza un ruolo critico, di controllo e di qualità. Le minoranze fanno questo: contenimento, denuncia, e talvolta, qualche correzione».
Come finirà la partita Rai?
«Come nel 2005, con il consigliere anziano».
E un’intesa Pd-Berlusconi su un nuovo nome?
«Mi sembra complicato, a questo punto».
Nel 2005 Petruccioli incontrò Berlusconi prima della nomina. Lei gli avrebbe fatto visita?
«Non avrei avuto problemi. Come capo della maggioranza, sarebbe stato suo diritto e suo dovere parlare con il presidente della Rai e fare le sue raccomandazioni».
Dai primi anni Novanta vi siete più incontrati?
«No, non più».
Lei cosa farà dopo l’esperienza a Bologna?
«Tornerò a Roma, per occuparmi più intensamente del mio secondo mestiere, la letteratura e la critica. E se mai dovesse arrivare una proposta all’improvviso...».
acarugati@unita.it
19 marzo 2009
da unita.it
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Se un discorso ti cambia la vita: tutti pazzi nel Pd per Debora Serracchiani
di Francesco Costa
Il suo è stato l'intervento più applaudito all'assemblea dei circoli del Pd. Il video con le sue parole è stato visto migliaia di volte su internet e su Youdem è dopo soli due giorni il video più visto di tutto il mese di marzo. Non parliamo di Dario Franceschini o di un altro dirigente nazionale del partito bensì di Debora Serracchiani, avvocato 38enne, consigliere provinciale del Pd a Udine e dirigente locale del partito. Ha preso la parola poco prima delle conclusioni del segretario e sicuramente nessuno si aspettava che il suo intervento potesse trascinare in questo modo la platea, riuscendo a dare una rappresentazione appassionata e fedele delll'umore della base del partito dopo le polemiche e la crisi di consensi che hanno portato alle dimissioni di Walter Veltroni.
Un intervento concreto che è riuscito a riscaldare il pubblico senza cedere alle facili tentazioni della demagogia e della retorica anti-dirigenza: un elenco puntuale di critiche e osservazioni che ha toccato in modo semplice ed efficace tutti i tasti dolenti del partito – dalle indecisioni sul testamento biologico alla ricerca sfrenata di visibilità mediatica, dalla linea politica ondivaga al rapporto col partito di Di Pietro – per arrivare poi al passaggio centrale e più applaudito. «La verità è che in questi pochi mesi di vita del Partito Democratico ho avuto la netta impressione che l'appartenenza al nuovo partito fosse sentita molto di più dalla base che dai dirigenti».
Applausi a spellarsi le mani, ampi sorrisi da parte del segretario, urla di incoraggiamento di un pubblico formato esclusivamente da dirigenti locali come lei: coordinatori cittadini e di circolo, membri degli esecutivi regionali, provinciali e comunali. Persone che durante questi mesi hanno faticato per tenere in piedi il partito e che oggi guardano rinfrancate alla gestione del nuovo segretario: «Franceschini ha il compito di dare una credibilità nuova a questo partito e ci sta riuscendo alla grande».
La storia della politica recente ha visto diversi personaggi emergere dall'anonimato e lanciarsi verso brillanti carriere politiche grazie a discorsi particolarmente riusciti.
L'esempio più noto è quello di Barack Obama, poco più che sconosciuto quando nel 2004 prese la parola durante la convention democratica e impressionò i presenti con la sua storia e la sua abilità retorica. Un simile percorso è stato seguito da David Cameron, giovane leader dei conservatori inglesi e probabile prossimo primo ministro britannico, e da Maurizio Martina, 30enne segretario del Pd lombardo e membro dell'esecutivo di Dario Franceschini.
E' troppo presto per dire se il discorso di Debora Serracchiani rappresenterà il suo primo passo verso una carriera politica di livello nazionale. Quello che sappiamo già è che su internet il suo discorso sta girando parecchio, incontrando un gradimento praticamente unanime: decine di link e citazioni da parte di blog e gruppi di discussione, diversi gruppi su Facebook la vogliono segretaria del Pd se non addirittura presidente del consiglio. I più numerosi oggi sono «quelli che avrebbero detto proprio le stesse cose di Debora Serracchiani». Sono tanti, e sabato nelle parole di un dirigente locale del partito si sono uniti rivolgendo alla dirigenza del partito speranze e richieste.
Che si sappia: quando si parla di «radicamento sul territorio», si parla di loro.
23 marzo 2009
da unita.it
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Civati: «Il Pd si salva ma deve fare autocritica»
di ma.ge.
«Il Pd è come il giocatore che arriva in tempo a toccare la base», commenta a caldo Giuseppe Civati, impegnato, da vero blogger Pd, ad aggiornare minuto per minuto il suo blog durante la lunga maratona elettorale. Usa una metafora sportiva Civati, consigliere regionale del Pd in Lombardia e uno dei più attivi nel gruppo di Piombino, per dire che «questi dati salvano un Pd che era crollato», ma non c'è da stare allegri. Anzi. «Il Pd dovrà fare una autocritica molto seria e riconsiderare il suo lavoro di opposizione», spiega Civati, che invita a il Pd a guardare con molta attenzione tanto al risultato dell'Idv quanto a quello dei radicali e delle due liste di sinistra. «La sinistra torna ad avere un 7% complessivamente, i radicali ottengono comunque un buon risultato», ragiona Civati, invitando il Pd a considerare il terreno perso sui temi laici. E d'altra parte: «Noi dobbiamo dare una risposta agli elettori che votavano il Pd e che ora votano l'Idv», spiega Civati.
È il dato generale di queste elezioni. «I due blocchi restano sostanzialmente invariati ma cambiano molto al loro interno».
L'altro dato – osserva il blogger politico – è che il Pd non va affatto male se confrontato con il quadro dei socialisti europei. «Alla fine – dice Civati con una battuta – sarà il Pse a chiedere al Pd di entrare nel suo gruppo». Una battuta, ovviamente, che fotografa la debacle socialista, in Germania e in Francia soprattutto «dove i socialisti hanno preso una legnata incredibile». Questo – conclude Civati - significa che «una soluzione socialdemocratica alla Bersani dal risultato di queste europee ne esce ridimensionata». E «di certo» i dati europei dicono che «chiudersi nelle rispettive casematte non paga».
Un dato lo entusiasma: il risultato di Cohn Bendit. «Noi abbiamo Pecoraro Scanio, ma se avessimo qualcuno di più “scrocco” chissà che risultati anche da noi».
08 giugno 2009
da unita.it
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L'unica corrente che vince è quella del coraggio
di Cristiana Alicata
Non è Berlusconi il problema. Non è lui a vincere. Il problema siamo noi, siamo noi che perdiamo, siamo noi che non “tocchiamo” le viscere del Paese.
L’Italia è come Roma. E’ stato Rutelli a perdere. Non Alemanno a vincere.
Tempo fa, durante una tappa della Carovana Democratica, coniai, nell’ indignazione generale, una definizione per la politica del Pd: una politica con il preservativo. Una politica che in qualche modo mantiene una certa distanza dalla “carne” del problema e finisce per avere una dose, ahimé, di sterilità. Fare politica con il preservativo significa affermare, per esempio, di volere essere laici, ma non avere, poi, il coraggio di firmare, come partito, la piattaforma dell’Ilga (International lesbian and gay association) firmata dai maggiori partiti europei a cui facciamo noi stessi riferimento. Significa vedere le adesioni dei singoli dirigenti di partito alla stagione dei Gay Pride, ma non avere mai sentito, dalla bocca dei candidati più quotati (se si escludono Scalfarotto, Serracchiani e pochi altri le cui firme trovate sul sito dell’Ilga) parole per una minoranza così tanto discriminata nel mese dell’anniversario di Stonewall. Nel mese in cui Obama, di là dall’oceano, dichiara giugno mese dell’orgoglio omosessuale.
Obama nominò la comunità omosessuale più volte durante la sua campagna elettorale. Lui nero. Accusato di essere filo-mussulmano. Se ne è fregato dell’opportunità. Non si è chiesto se fosse opportuno dire o non dire. E ne ha parlato, tra le nostre lacrime di cittadini discriminati in patria, nel suo commovente discorso di insediamento. Lo ha fatto su questo tema e su moltissimi altri. Il successo del discorso di Debora Serracchiani all’assemblea dei circoli, ci aveva cominciato ad insegnare qualcosa. Ci aveva insegnato che la gente vuole che la politica non parli per opportunità. Non pensi al proprio capo-corrente. Alla propria poltrona. La nostra gente vuole che diciamo cose inopportune. Cose coraggiose. Il coraggio è inopportuno. E noi vogliamo un PD inopportuno. Il coraggio coinvolge. E’ virale. Il coraggio porta la gente a votare. Porta la gente nei circoli.
Il coraggio non si chiede quanti voti perde. Si chiede che Paese vuole.
Il coraggio non attacca soltanto. Il coraggio propone. Come fa Mercedes Bresso che promette in 100 giorni una legge per le coppie di fatto in Piemonte. E lo fa sotto elezioni. Se ne frega dell’opportunità perché sa che è una cosa giusta. Il coraggio è Chiamparino che ospita la bandiera rainbow in municipio. Quando il PD si accorgerà del modello Piemonte, per esempio, e lo dico da romana che ha visto sgretolarsi il modello Roma, e ne farà buon uso?
E attenzione a chi dice che occupandosi dei gay non ci si occupa dei problemi del paese. Allora anche quando ci occupiamo di migranti. Di legge 40. Ogni problema può essere considerato NON importante rispetto agli altri. Un partito democratico NON può, non deve, fare la cernita della democrazia. Altrimenti non è davvero democratico. La questione omosessuale è solo la cartina di tornasole più evidente della nostra troppa codardia.
D’ora in poi, in questo partito, sosterrò soltanto la corrente del coraggio e mai più quella dell’opportunità.
07 giugno 2009
da unita.it
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