MARIO TOZZI.
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Mario Tozzi: “Non esistono catastrofi naturali, esiste l’incuria umana”
Il noto geologo, ricercatore del Cnr, denuncia: l’Italia è un paese dove si ha come unica priorità il guadagno e in cui si usa la presunta emergenza abitativa come scusa per cementificare ogni lembo del territorio. Così aumenta il rischio sismico e anche idrogeologico.
Intervista a Mario Tozzi di Mariagloria Fontana
Il nostro è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo. Che tipo di prevenzione si può fare?
È un Paese che ha costruito troppo e non ha saputo manutenere nulla. In questo senso, va ripensato il territorio. La questione del recente sisma in Emilia è molto più grave di quanto non appaia. Guardando le immagini in onda in questi giorni in televisione, si vedono molti casali distrutti in mezzo alla campagna. Erano edifici vuoti, disabitati, non li hanno manutenuti e sono caduti, ma perché qualcuno non ha pensato a eliminarli o a ristrutturarli? Continuiamo a costruire senza criterio. Così facendo esponiamo le case al rischio. Questa è la filosofia del nostro Paese.
Come potrebbe intervenire la politica?
La politica dovrebbe invertire questa tendenza. Basta con le concessione edilizie date a chiunque. Basta con il consumo di suolo e di territorio che non fanno altro che aumentare il rischio sismico e anche idrogeologico, soprattutto quando ci sono eventi come terremoti e alluvioni. Al contrario, la politica dovrebbe impiegarsi nel fare programmi di ristrutturazione e di riconversione ecologica e di sicurezza delle abitazioni e delle opere pubbliche.
Ci sono degli aspetti dei terremoti che possono essere prevedibili?
No. Ci sono segni che sono così poco evidenti che non riusciamo ancora a individuare il come e il quando avverrà il terremoto. Ricordo solo un caso in cui prevedemmo un sisma catastrofico. Era il 1975 in Cina, ma fu possibile soltanto perché i segnali erano talmente tanti e tali che a quel punto si diede l’allarme generale e si fecero evacuare tutte le zone interessate. Morirono ‘solo’ mille persone, se ne salvarono ben 150.000. Mentre nel terremoto contiguo persero la vita in 500.000. Anche la storia del gas radon che esce dal sottosuolo e che a seconda della sua diminuzione o del suo aumento sarebbe sintomatico di un prossimo terremoto ancora non permette di sistemare è soltanto ancora un’idea. Non siamo in grado di prevedere il terremoto, possiamo dire quali sono le zone pericolose. Inoltre, ritengo fuorviante ciò che si dice sulla previsione, perché se ci si occupa della previsione si diventa disattenti verso la prevenzione, che è l’unico strumento che si possiede per evitare catastrofi. Io dico sempre: cercate di costruire meglio e non fate i veggenti.
Cosa ne pensa dell’inchiesta che il procuratore capo di Modena Vito Zincani ha aperto in seguito alle morti causate dai crolli dei capannoni durante il sisma?
Credo che faccia bene ad aprire un’inchiesta, perché ci può essere sempre qualcuno che ha barato, per esempio sui capannoni costruiti dopo il 2003, vale a dire quando c’era già in vigore una legge sulle costruzioni antisismiche. Se non hanno costruito con i giusti criteri, devono pagarne le conseguenze. Però se, al contrario, si tratta di capannoni più vecchi del 2003, cioè quando non si aveva l’obbligo antisismico, si costruiva al meglio che si poteva, come se quella zona non fosse sismica. Naturalmente questo tipo di prassi si è rivelata un grosso errore. Certo, ci può essere stata qualche perizia geologica non completa nel sottosuolo perciò si potrebbe non aver tenuto conto di effetti locali di amplificazione di alcune onde, ma mi pare non più di questo. Non so a che cosa porterà questa inchiesta. Tuttavia, se servisse di monito per il resto d’Italia, un senso ce l’ha.
Zincani, parla di ‘politica industriale suicida’.
Bisogna vedere se queste parole sono giustificate dal fatto che lui sa qualche cosa. Se qualcuno ha spostato un pilone per far passare meglio le macchine, se ha alleggerito la struttura facendo qualche intervento successivo. Oppure se si tratta di progetti leggeri, nessuno era obbligato a fare progetti pesanti prima del 2003. Quindi mi sembra difficile imputare una responsabilità a qualcuno che ha costruito qualcosa secondo le regole vigenti allora. Vedremo di che cosa si tratta.
Lei sta affermando che nessuno di noi è al sicuro dentro le proprie abitazioni se sono state edificate prima del 2003?
Nessuno può essere al sicuro nel caso di un sisma, perché molto dipende da come è stato costruito l’edificio. Persino di fronte a terremoti non particolarmente energetici, se non si controlla l’edificio, se non sono stati fatti dei piccoli interventi, non si è sicuri. Questo lo dobbiamo sempre tenere presente. Anche quando dicono che Roma è sicura perché è vuota, non è del tutto vero. Nella capitale ci sono edifici vetusti che appoggiano su una struttura geologica che amplifica le onde. Roma non ha terremoti suoi, ma quando ne arriva uno forte dagli Appennini ne risente. Ripeto: è un paese che va ripensato da un punto di vista delle costruzioni.
Quanto entra in gioco la responsabilità umana durante avvenimenti come il sisma che ha colpito l’Emilia o l’alluvione a Genova nell’ottobre scorso?
Le catastrofi naturali non esistono. Ci sono eventi naturali che diventano catastrofici per colpa dell’incuria umana.
In Giappone e in California si è fatto molto in relazione alla prevenzioni antisismica. L’Italia può prendere esempio da questi Paesi?
Il nostro patrimonio costruttivo è molto diverso. Il patrimonio della California non è più vecchio di duecento anni. Il Giappone è più antico, ma sono abituati da sempre a convivere con il sisma. Infatti il loro modello deriva dalla pagoda birmana che oscilla, è costruita attorno a un asse, che è un palo centrale, ed è sferica. Però loro non possiedono il patrimonio medioevale, rinascimentale, barocco che invece caratterizza noi. Sulle costruzioni moderne, i giapponesi sono stati bravi, efficienti, noi invece abbiamo costruito approssimativamente pensando solo al guadagno.
Sovente si parla di materiali antisismici. L’acciaio è molto utilizzato. Lei cosa può dirci a riguardo?
L’acciaio è un materiale ottimo per i terremoti perché è molto elastico. Però se non c’è un progetto antisismico alla base della costruzione anche l’acciaio, come il cemento armato, non funziona, perché non li hai assemblati in maniera da poter resistere al terremoto. Il problema non è il materiale, ma il fatto che accanto ai materiali non si sia affiancato un progetto antisismico.
La tutela e l’etica del paesaggio che ruolo giocano?
Rilevantissimo. La tutela è di tre gradi. Il primo livello è la tutela dei cittadini. Oltre il 50% del territorio italiano è a rischio sismico, poi ci sono alluvioni e vulcani. In alcuni luoghi non si può costruire, ci si deve spostare. Il secondo grado riguarda il fatto che si debba costruire in maniera più efficiente e con tutti i parametri, perché sprechiamo moltissima energia nelle case e abbiamo solo un terzo dei consumi. Infine, si deve edificare rispettando il paesaggio naturale, il contesto e l’ambiente circostante.
Quali sono i parametri per poter rispettare il paesaggio?
Il primo precetto è che non si deve consentire l’abuso edilizio. Mai. Non solo, non si deve consentire di consumare più suolo. Alcune provincie stanno provando a metterlo in atto, ad esempio Torino. Nei nuovi piani regolatori non ci deve essere più il consumo di suolo, perché è già consumato. Negli ultimi 40-50 anni, oltre tre milioni di ettari, stiamo parlando di un pezzo grosso di nazione, sono diventati: case, strade e cemento, senza alcuna necessità, visto che la popolazione italiana è cresciuta molto poco. Dunque, la priorità sarebbe ristrutturare il patrimonio esistente, cambiare completamente i piani e le cubature che invece prevedono ancora consumo di suolo. Ogni anno in Italia si consumano 150 mila ettari di suolo, non ce lo possiamo permettere. In Inghilterra ne consumano 30.000, in Francia e Germania 40.000. Se si pensa al piano casa della Regione Lazio: è assurdo, una sciagura. Addirittura vogliono costruire nelle aree protette. I politici promotori del piano casa del Lazio lo giustificano secondo criteri di sviluppo, come se in un paese moderno lo sviluppo dovesse essere ancora legato all’edilizia! Non siamo in tempi di guerra. Nessuno gliel’ha detto? È una politica propria di un paese del Terzo Mondo.
E l’emergenza abitativa?
Non esiste l’emergenza abitativa, ci sono 30 milioni di vani sfitti. L’Italia è un paese che si duplica continuamente con seconde e terze case. Mettiamo un freno a questo nonsense edilizio. Nel nostro Paese quasi l’80% delle persone è proprietaria dell’immobile. Per non parlare della tutela del bello, del valore estetico delle costruzioni. C’è uno schifo generale. L’unica esigenza a cui si risponde è quella di fare mattoni e cemento, perché si pensava e si pensa ancora che quella sia l’unica fonte di guadagno. Soltanto per questo scopo si continua a costruire. Investiamo tutto nelle case. Siamo un paese arretrato che vive nell’approssimazione, non sopporta le regole e gestisce male le emergenze. In più, riusciamo a muoverci male persino nell’ordinario.
(1 giugno 2012)
da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/mario-tozzi-non-esistono-catastrofi-naturali-esiste-l%E2%80%99incuria-umana/
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9/6/2012
Cosa c'è sotto l'Italia
MARIO TOZZI
Sotto la Pianura Padana, il luogo anche simbolicamente più tranquillo e produttivo del paese, non c’è un mostro e nemmeno un killer silenzioso e infido. Però là sotto si annida una realtà geologica che non rassicura e che, anzi, allarma cittadini e istituzioni. Successioni di rocce stratificate che giacciono piegate e spezzate al di sotto dei sedimenti sabbiosi del Po, un frammento avanzato del continente africano che si scontra con quello europeo da milioni di anni.
Da questa collisione sono nati Alpi e Appennini, e da questa collisione derivano i fenomeni vulcanici del Sud Italia e, più o meno direttamente, i sismi dell’intero Paese. Conosciamo bene questa grande piega sotterranea allungata per decine di km in direzione Est-Ovest da Modena a Ravenna. È ben rappresentata nelle mappe e nelle sezioni geologiche e sappiamo che si trova attualmente in uno stato di stress attivo che ha già generato almeno tre rotture di rocce in punti diversi: Finale Emilia, Mirandola e Ravenna per semplificare. Purtroppo l’osservazione diretta di queste strutture geologiche non è possibile: non basterebbe un solo pozzo e il più profondo che gli uomini abbiano mai scavato arriva appena a 14 km, contro una fascia sismica terrestre che può toccare i 700 km di profondità.
Per questo è possibile fare una previsione del tempo e non una del terremoto: non riusciamo a guardare in faccia gli elementi che si scontrano in profondità e possiamo solo condurre deduzioni indirette, fondate su pochi dati del sottosuolo e sulla geologia di superficie. Non sappiamo perciò, e non possiamo sapere, quando la struttura accumulerà abbastanza tensione per rompersi ancora, ma sappiamo che lo farà prima o poi, perché quella tensione è in accumulo ed è quell’accumulo che ha generato la struttura stessa.
Sono i dati geologici a dircelo più che quelli sismologici: non si sono riscontrati, per intenderci, fenomeni eclatanti che potrebbero portare a una previsione o a un allarme: non si intorbidano le acque, non si sprigionano gas dal sottosuolo. Un dato che abbiamo (del Cnr) è che, dopo la scossa del 29 maggio, il suolo nell’area si è sollevato di 12 cm, anche se questo non vuol dire che si approssimi un sisma.
Non possiamo prevedere i terremoti, ripetono gli esperti come in un mantra, ed è vero; ma possiamo prestare attenzione al quadro geologico complessivo quando questo si è improvvisamente attivato dopo cinquecento anni, come è accaduto nel Ferrarese. Sappiamo che le scosse di replica si susseguiranno per settimane, che ce ne possono essere di magnitudo comparabile a quella iniziale e non possiamo escludere che un altro segmento di quella struttura sepolta si possa riattivare.
Quello che però meglio sappiamo è che una scossa che dovesse colpire ancora le zone in cui le strutture sono state così indebolite sarebbe estremamente più distruttiva della magnitudo che potrebbe sviluppare. E sappiamo che scosse che dovessero colpire il settore orientale dell’Emilia troverebbero quegli abitanti e quelle case impreparati come i cittadini di Finale o di Mirandola. Molte volte l’energia del sottosuolo si è accumulata per mesi e poi si è liberata asismicamente oppure si è cristallizzata: questa è la speranza.
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10210
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23/6/2012
Rio+20, è finito il tempo dei summit
MARIO TOZZI
Davvero non vale la pena interrogarsi su quale straordinaria occasione si sia sprecata a Rio, vent’anni dopo il primo summit sulla Terra.
Già in quell’occasione abbiamo sentito gli stessi allarmi e le stesse identiche lamentele. Oggi c’è un solo punto di novità: la crisi economica gravissima che ci attanaglia. E che relega ancora di più l’ambiente in fondo alle preoccupazioni degli uomini del pianeta Terra. Poteva essere il momento giusto per comprendere la connessione fra la crisi economico finanziaria e il deficit ecologico che abbiamo scatenato in quegli ecosistemi che sono alla base del nostro benessere. Si sarebbe potuto discutere in modo meno ridicolo sugli aggiustamenti sintattici di protocolli sempre meno impegnativi e un po’ di più di cose concrete da fare. Si poteva proporre un modello nuovo di sviluppo che non fosse basato solo sulla crescita quantitativa, ma su efficienza e equilibrio, anche a favore di chi verrà dopo di noi. La riconversione ecologica del pianeta è inevitabile e non si può produrre una crescita infinta da sistemi naturali che sono, per definizione, finiti.
Ma quello che a Rio nel 1992 era un dubbio oggi è diventato una certezza: sono pochissimi gli uomini e i governi che si impegnano a cambiare rotta se gli eventi non diventano davvero drammatici. Si può opporre al cambiamento climatico l’abitante degli atolli oceanici minacciati direttamente dall’innalzamento del livello dei mari, non il cittadino statunitense del Midwest o il cinese di Shanghai che non si avvedono di alcun problema. I danni ambientali non vengono scaricati tutti insieme su una nazione progredita come un’alluvione, ma si distribuiscono giorno per giorno accumulandosi in maniera per ora impercettibile. Come si può pensare a una reazione significativa se il danno non è percepibile immediatamente?
Per questo forse il tempo dei grandi summit sulla Terra è finito: non solo non bastano più, ma rischiano anche di produrre un effetto indesiderato, quello di un rumore di fondo da cui è difficile estrapolare le emergenze reali. Se tutto è emergenza come si fa ad allarmarci ancora? Ciò non significa che le emergenze ambientali non siano gravi, tutt’altro, ma gli uomini quasi non vogliono più sentire che la temperatura media dell’atmosfera si innalzerà di 4°-5°C, perché fino a che lo sconvolgimento climatico non precipita sembra quasi inutile agitarsi. Ormai lo sappiamo benissimo: la sovrappopolazione e la crisi ecologica porteranno alla fine delle risorse e delle fonti energetiche tradizionali, all’inquinamento generalizzato e alla perdita di benessere del genere umano. Ma, siccome ancora non succede, possiamo sempre sperare che avvenga il più tardi possibile.
Se non se ne può più di conferenze sulla Terra, però non sarebbe giusto gettare l’acqua con tutto il bambino e si potrebbe recuperare una delle parole d’ordine del movimento ecologista mondiale: pensa globalmente e agisci localmente. Forse così si potrebbe avere una qualche possibilità di successo: è difficile difendere l’integrità della foresta amazzonica, anche se vale la pena farlo, se si abita a New York o a Milano. Lo dovrebbero fare in prima persona coloro che da quella foresta traggono ragione di vita sostenibile, cioè le popolazioni locali verso cui dovrebbero essere indirizzati, direttamente sul posto, gli aiuti internazionali. Soldi e energie agli autoctoni, non ai governi. Insomma, impedire che il bosco sotto casa venga ingoiato dal cemento è più facile che non difendere astrattamente la foresta globale della Terra.
Se si agisce localmente senza dimenticare la dinamica globale terrestre, ecco che anche la traduzione politica di quanto viene detto a Rio può diventare efficace. E in più si supererebbe l’effetto frustrante di agitarsi per grandi battaglie che non arrivano quasi mai al successo pieno. Difendiamo l’albero per difendere la foresta, l’individuo per la specie, il fiume per il mare e allora forse avremmo fatto un passo in avanti. A meno di non sperare nella risposta ultraliberista: niente più protocolli vincolanti ma solo la libera iniziativa degli stati. Ma se il libero mercato fosse in grado di risolvere quella che è la più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata di fronte lo avrebbe già fatto, senza attardarsi così pericolosamente vicino al punto di non ritorno.
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10257
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2/8/2012
Quanto costa l'indipendenza energetica
MARIO TOZZI
Mario Tozzi risponde al commento di Joseph S. Nye pubblicato martedì che sosteneva che la strada dell’indipendenza energetica sarà decisiva per la ripresa Usa.
Il fatto che in pochi anni gli Stati Uniti diventeranno pressoché autonomi da un punto di vista energetico è senz’altro un’ottima notizia per quel Paese. Ma lo è altrettanto per il resto del mondo e per l’ambiente del pianeta Terra? La risposta è no, per una serie di motivi. L’autonomia energetica si realizzerà attraverso coltivazioni petrolifere più spinte e un miglioramento tecnologico nello sfruttamento dei serbatoi di gas naturale che terrà anche conto dei problemi ambientali prodotti. Se ne terrà conto, però, solo da un punto di vista economico, cioè dell’incremento di spesa da calcolare perché lo sfruttamento sia ancora conveniente. E le conseguenze ambientali e sulla salute degli uomini che bruciare idrocarburi inevitabilmente provoca, quando vengono calcolate? Considerare questi solo costi esterni, come si è fatto finora, produce un danno gravissimo e induce a considerare le fonti energetiche tradizionali come competitive quando in realtà non lo sono affatto. Un chilovattora prodotto attraverso gli idrocarburi, il carbone o l’uranio, non ha un costo che è possibile fissare a priori, come invece si fa per le energie rinnovabili, perché dipende da quanti morti e inquinamenti produrrà, parametro difficile da considerare in anticipo. Un costo sociale che verrà comunque addossato alla comunità e non accollato a chi lo ha prodotto.
Insomma, si tratta di un scelta dannosa dal punto di vista ambientale e sociale che, oltretutto, rimanda di pochi anni il problema più grave di tutti, quello dell’esaurimento inevitabile delle riserve. In ogni caso oltre il 40 per cento degli idrocarburi resta nelle rocce, anche utilizzando le tecnologie più spinte che, comunque, danneggiano l’ambiente e sono dispendiose dal punto di vista energetico. Si arriva al paradosso degli scisti bituminosi, che abbisognano di più energia per estrarli di quella che se ne ricava bruciandoli, provocando, nel contempo, disastri ecologici senza fine. Ci si illude di tirare a campare per qualche altro anno e nel contempo si spingono anche le altre nazioni potenti o emergenti a comportarsi nello stesso modo: se riduco i costi dei combustibili fossili, allora perché cercare altre vie ancora incerte e ancora più care (solo in apparenza, per le ragioni sopra citate a proposito di esternalità)? Di più: perché allora non riaprire le esplorazioni nelle regioni ancora interdette? Si può trivellare in Artico, con buona pace degli orsi bianchi in estinzione, anche se da qui non si ricaverà un incremento maggiore del 2-4 per cento sulla produzione nazionale degli Usa. E in Antartide, dove un trattato internazionale del 1959 impedisce le perforazioni - ancora non si sa per quanto tempo.
La cosa può avere un riflesso anche da noi: concessioni per esplorazioni petrolifere vengono richieste e promulgate in regioni sensibili da un punto di vista ambientale come le coste tirreniche campane o siciliane. Non si tratta di siti particolarmente prospettivi da un punto di vista geologico, ma se un domani si potessero inseguire gli idrocarburi a profondità oggi impensabili (non si superano i 7000-8000 metri) si scatenerebbe una guerra per i target profondi dalle conseguenze ambientali inimmaginabili. Pensiamo per un attimo a quanto accaduto solo due anni fa nel Golfo del Messico con l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizons. Per non parlare dell’impatto paesaggistico, come viene giustamente fatto notare a gran voce dalle associazioni ambientaliste che chiedono la cessazione delle attività prospettive off-shore.
Il gas naturale è senza meno l’affare commerciale del XXI secolo: conviene economicamente rispetto al petrolio e al carbone, e ci sono riserve ancora sufficienti per oltre 50 anni. Possiede anche qualche vantaggio ambientale: non produce ceneri o particolato, rilascia meno anidride carbonica nell’atmosfera e brucia in modo più efficiente rispetto a carbone e petrolio. L’anidride carbonica che si produce dalla combustione del gas è fino al 30% inferiore rispetto a quella prodotta con il petrolio, e fino al 50% in meno di quella che emette il carbone. Questo vale anche per gli altri inquinanti: in un Paese come l’Italia - usando il gas invece di altre fonti - in un anno si emettono in meno 84 milioni di tonnellate di CO2, 660.000 tonnellate di ossidi di zolfo e 114.000 di ossidi di azoto e, non meno importante, 47.000 tonnellate in meno di polveri. Dunque non si producono ceneri, né particolato e molta meno anidride carbonica rispetto alle altre fonti tradizionali. Ma, come gli altri, il gas inquina e incrementa il surriscaldamento atmosferico e, come gli altri, costa e non è inesauribile, anche se durerà un po’ più a lungo. Siamo sicuri che occorrerà aspettare la fine di tutti gli idrocarburi per dichiarare conclusa la nefasta età del petrolio?
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10396
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9/8/2012
Berremo vino norvegese?
MARIO TOZZI
Iniziare la vendemmia nostrana nel giorno più caldo dell’anno, ancora all’inizio di agosto, colpisce il nostro immaginario più del calo della produzione che pure giustamente preoccupa gli agricoltori. Ma già da qualche anno non è più settembre il mese dedicato alla raccolta dei grappoli e la fascia climatica della vite si sta spostando con rapidità verso nord in tutta Europa.
Fra qualche anno anche gli ulivi potrebbero iniziare a migrare più a settentrione e stessa sorte potrebbe toccare a molte coltivazioni tipiche del Mediterraneo meridionale come le palme. Spostamenti del genere non ci dovrebbero sorprendere, basti pensare che, tra l’XI e il XIII secolo, si vendemmiava allegramente perfino in Cornovaglia e lungo il Tamigi, mentre, ai tempi di Erik il Rosso, l’orzo veniva mietuto in Islanda e perfino in Groenlandia.
Fino al 1500 a.C. la temperatura media dell’emisfero boreale era più elevata di circa 3°C (in media) rispetto a quella attuale. Oscillazioni caldo-freddo si susseguirono poi fino alla fine dell’epoca romana (V secolo), quando iniziò un brusco raffreddamento fino all’800 e poi un riscaldamento fino al 1250. Ma già nel 1315 freddo, ghiaccio e carestie diedero un segno di come il clima influiva sulla vita degli uomini: precipitazioni intense riducevano tutto a pantani fangosi, il grano non maturava più e, nel ciclo più freddo (fra il 1680 e il 1730), non si riusciva neppure a riscaldare le abitazioni delle isole britanniche, al cui interno si arrivava a malapena ai 3°C. Dal 1300 al 1850 circa l’Europa e l’emisfero settentrionale furono investiti da un peggioramento climatico senza precedenti. Il Tamigi ghiacciò diverse volte in quei secoli, tanto che poteva esser ridisceso in slitta; nel 1440 la viticoltura scomparve dalla Gran Bretagna. E tutto questo in ragione di solo mezzo grado centigrado in meno nelle temperature medie invernali rispetto al XX secolo: sono sufficienti centesimi di grado per mettere in pericolo intere popolazioni e cambiare la storia, figuriamoci per stravolgere l’agricoltura.
Il clima cambia da sempre, anche se il mutamento attuale ha qualcosa di diverso. Intanto è molto veloce e molto robusto, tanto da risentirsi in poche stagioni su coltivazioni tradizionalmente stabili. Poi è a scala globale, cioè riguarda tutto il pianeta. Infine porta come corollario uno sconvolgimento meteorologico che è ancora più pesante: tempeste fuori stagione e fuori dalle regioni tradizionalmente interessate, bombe d’acqua vere e proprie, trombe d’aria e dissesti generalizzati. Siccome insieme alle fasce climatiche si sposta il mondo vegetale nel suo complesso, tutto ciò ha un impatto micidiale per l’agricoltura, che ancora più ne risentirà nei prossimi anni. Oltretutto le piante, per definizione, non si spostano velocemente, dunque potrebbe accadere che si traslino le tradizionali zone di produzione di vini per portarle più a nord; ma si sa che, oltre al clima, contano il vitigno e soprattutto il suolo: si potrà produrre il Nero d’Avola in Friuli? O l’Aglianico in Piemonte? Per non parlare della possibilità che i vini italiani si ritrovino domani a competere con rinomati rossi magari della penisola scandinava.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10416
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