MARIO TOZZI.
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28/1/2012
Imparare a vivere con il rischio naturale
MARIO TOZZI
Non è facile per nessuno restare calmi mentre la terra trema sotto i piedi e i lampadari oscillano.
E a maggior ragione non lo deve essere per gli abitanti della grande conurbazione padana, da Torino a Venezia, scarsamente abituati ad avere a che fare con i terremoti e convinti, anzi, di essere esenti dal rischio sismico.
Vale la pena subito di ricordare che in Italia nessun posto è immune dal rischio sismico. E comunque la Terra non smetterà di ricordarcelo. Certo, sappiamo che ragionevolmente la Sardegna e la parte meridionale della Puglia non subiranno eventi sismici troppo gravi, ma nessuno è in grado di escludere che i risentimenti delle regioni geologicamente più attive si percepiscano a Roma e Napoli piuttosto che a Milano, Torino o Genova. È già successo in passato, soprattutto per i terremoti parmensi e reggiani che interessano l’Italia settentrionale fino dalla notte dei tempi. Sappiamo poi quali sono le energie attese in quelle zone, che difficilmente superano magnitudo 6 Richter, e sappiamo che tipo di danni potrebbero eventualmente causare.
Quello che non sappiamo è quando avverrà il prossimo terremoto o se ci sarà una seconda scossa più forte della prima. Sappiamo infine che le scosse potrebbero continuare per qualche tempo e che questo andamento è del tutto normale.
Per questa ragione, anche se riconosciamo che è difficile, bisognerebbe rimanere calmi e non precipitarsi in strada al primo ondeggiare di suppellettili. In genere, in quelle zone, si è costruito bene e i danni non dovrebbero essere così gravi. Le statistiche ci dicono poi che molte più persone restano ferite per essersi precipitate lungo le scale, o, appena all’uscita delle proprie abitazioni, a causa della caduta di comignoli o cornicioni. Per questo sarebbe più utile immaginare una mappa mentale della propria casa e individuare i punti più sicuri: le architravi dei muri portanti, un tavolo pesante, un letto.
E porsi sotto quegli scudi evitando così di restare offesi da lampadari che cadono e pezzi d’intonaco. Se riuscissimo poi ad avere sempre l’abitudine di assicurare alle pareti mobili e televisori o altri oggetti pesanti potremmo dire di aver fatto un passo avanti significativo nella sicurezza domestica. Una libreria che cade con i suoi volumi è molto più pericolosa dell’oscillazione delle scosse. Non uccide il terremoto, ma la casa mal costruita o mal posta: sarebbe bene ricordarlo sempre.
Detto questo, l’unico problema può derivare dal fatto di sentirsi troppo al sicuro: gli abitanti di New York si ritengono al sicuro da terremoti distruttivi, ma sono oltre 40 anni che nel bacino di Newark si carica energia nel sottosuolo, e non è passato poi molto tempo dal forte sisma del 1884, valutato attorno a magnitudo 5 Richter. Un terremoto simile forse non farebbe troppi danni a Los Angeles, ma cosa potrebbe accadere dove l’edilizia non ha tenuto conto di parametri antisismici?
Dovremmo infine farla finita di parlare di ipotetiche catastrofi naturali, che in realtà non esistono: esiste solo la nostra incapacità, ignoranza o malafede nel rapportarci con il rischio naturale e una delittuosa propensione a perdere la memoria degli eventi passati.
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9701
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11/2/2012
La prevenzione possibile contro le emergenze
MARIO TOZZI
Che in fatto di eventi meteorologici noi uomini contemporanei siamo vulnerabili come nel Medioevo dovrebbe essere evidente anche al più miope dei cittadini italiani
Soprattutto i romani, sommersi in questi giorni non solo dalla neve, ma anche da messaggi contraddittori e provvedimenti inefficaci o cervellotici. Anzi, le civiltà moderne metropolitane affidano il loro funzionamento a una tecnologia sofisticata ma delicata, che non riesce a difendersi dai freddi siderali o dalle acque torrenziali. Il gelo spezza i cavi dell’alta tensione e spegne la luce nel terzo millennio come nei secoli bui impediva di accendere le fiaccole. E i nostri amministratori locali sono, con le dovute eccezioni, assolutamente impreparati a fronteggiare i rischi naturali.
A Roma si obbligano le catene montate sulle auto e non si fanno circolare le moto quando non c’è neve a terra, dopo di che non si riescono a riaprire importanti arterie cittadine per giorni dopo la nevicata. E sia a Roma che a Genova (durante la scorsa alluvione) non si sanno interpretare correttamente i bollettini dell’Aeronautica militare o i dispacci della Protezione Civile che, per definizione, non possono recare la scritta rossa: catastrofe!
Nel prossimo futuro questi eventi rischiano di diventare più numerosi, più violenti e più duraturi, se è vero come è vero, che i ricercatori addossano la responsabilità delle punte di estremo freddo in Europa (già frequenti negli ultimi anni, l’ultima nell’inverno 2009-2010) al grande caldo estivo che sta fondendo i ghiacci artici. Mancano oggi all’appello 3 milioni di kmq di banchisa polare (rispetto al 1978): per questa ragione il calore del Sole non viene disperso dal riflesso di quei ghiacci ma riscalda l’Oceano e l’atmosfera, innescando situazioni anomale (ma non più eccezionali) come quella che stiamo registrando oggi. I venti occidentali indeboliti non riescono a spazzare via quelli freddi siberiani che arrivano senza più barriere a investire il Mediterraneo centrale. Come a dire che il grande freddo dipende dal grande caldo e che l’estremizzazione del clima è diventata la regola.
Ma mentre sappiamo che per difenderci dal terremoto dobbiamo costruire meglio e che per sfuggire all’alluvione o al vulcano ci dobbiamo spostare altrove, per reggere all’impatto meteorologico non sappiamo fare altro che ritirarci in casa chiudendo scuole e uffici. Come nel Medioevo. Invece qualcosa di più si può fare già ora, nonostante i cordoni della borsa statale siano più stretti e le amministrazioni locali sembrino impotenti. Per prima cosa si deve ribadire che quello in sicurezza non è un investimento a fondo perduto o un lusso, tutt’altro. Consente in realtà di risparmiare da 5 a 7 volte rispetto a quanto si spenderà in emergenza. E, siccome l’emergenza ci sarà certamente, semplicemente conviene non tagliare quei fondi e chiedere che vengano ripristinati a gran voce. In secondo luogo, grandi comuni, regioni e province dovrebbero dotarsi di almeno una unità di crisi permanente per fronteggiare i rischi naturali, coordinata da un disaster manager appositamente formato. Il costo di questa figura professionale, sconosciuta in Italia ma presente da anni all’estero, non è poi maggiore di una di quelle consulenze che gli amministratori continuano a foraggiare attualmente, anche in tempi di crisi. E una ragionevole decurtazione degli stipendi di consiglieri e assessori (almeno regionali) basterebbe e avanzerebbe. È poi ovvio che Roma non può avere gli spazzaneve di Stoccolma, né Genova l’Autorità di bacino del Po. Ma i mezzi possono essere resi disponibili da comuni vicini in cui quei rischi siano più frequenti o presi in affitto con opportune locazioni. E si può sempre imparare dalla marineria: le scialuppe di salvataggio delle grandi navi hanno equipaggi composti da figure che normalmente recitano altri ruoli, cuochi che diventano timonieri e camerieri che manovrano i comandi. Basterebbe formare chi ha altre competenze a muoversi nell’emergenza secondo compiti precisi ben assegnati: chi si occupa normalmente di cartellonistica può spalare la neve e chi sta negli uffici del servizio giardini spostarsi sulle strade quando serve.
A questo dobbiamo a aggiungere che i cittadini saranno meglio preparati se con regolarità partecipano a esercitazioni nelle scuole e negli uffici pubblici e se sanno dove andare. Inoltre una Protezione civile volontaria già assolve quasi tutte le funzioni emergenziali in tanti piccoli centri d’Italia. Con il rischio naturale dobbiamo convivere e non tutto si può prevedere, ma c’è bisogno di un atteggiamento culturale nuovo, che va costruito con pazienza da subito. Non arrangiato nell’emergenza confidando nella buona sorte.
DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9760
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21/5/2012
L'Italia del mattone va ripensata
MARIO TOZZI
Quando furono impiccati, ai patrioti risorgimentali di quella che sarebbe diventata l’EmiliaRomagna veniva anche imputata la colpa di aver scatenato i terremoti che nel 1831-1832 sconvolgevano la regione. A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci.
Erano terremoti del VII-VIII grado della scala Mercalli, ma potevano arrivare al X, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E non erano certo i primi terremoti di cui si conservasse memoria storica: molti morti avvennero nel Forlivese già nel 1279 e ancora vittime e distruzione nel 1688. Altro che inaspettati.
Oggi dovremmo essere consapevoli che quella fetta di pianura padana è a rischio sismico, anche se il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 22 terremoti di rilievo. Il Ferrarese era considerata pericoloso già da tempo, tanto che Francesco IV d’Este concesse diversi finanziamenti straordinari, ma impose che i proprietari di case dovessero cavarsela da soli. Non solo: avevano anche l'incombenza di abbattere i comignoli pericolanti e ripulire le strade dalle macerie; ai meno abbienti avrebbe pensato, invece, un fondo di beneficenza. Eppure non pensiamo a questo come un territorio sismico e magari vogliamo imparentare questo sisma con quello de L’Aquila (comunque più distruttivo in quanto a forza). In realtà è un terremoto piuttosto simile a quello umbro-marchigiano del 1997: magnitudo simili (5,9 in quel caso), scosse di replica forti, praticamente lo stesso numero di vittime, identica situazione rurale fatta di piccoli centri abitati e importante patrimonio storico-monumentale in pericolo. La geologia è diversa e qui saremmo in pianura, ma bisogna abituarsi a pensare che nel sottosuolo padano c'è sempre una dorsale montuosa (quella ferrarese) che cerca il suo assestamento in tempi lunghissimi.
È però forse ora di stabilire una differenza che in Italia si sta imponendo rispetto ai terremoti e al rischio naturale in generale. C’è un’Italia chiaramente identificata come sismica che tutti conoscono bene: la dorsale appenninica, la Sicilia, la Calabria e la Campania, vengono giustamente considerate le zone di massima allerta. Poi c’è un’Italia di seconda fascia del rischio che, siccome densamente abitata e spesso dotata di un patrimonio costruttivo di rilievo, ma spesso non manutenuto, può subire vittime e danni anche per terremoti di entità media. Questo vale anche per le alluvioni: chi ci mette in salvo da tutti quei piccoli fiumi soggetti alle bombe d’acqua? Questa Italia di seconda fascia è più pericolosa della prima, soprattutto perché non te lo aspetti e perché bastano eventi di piccola entità per fare danni rilevanti. Insomma il rischio si accresce non per colpa della natura o della geologia, ma solo ed esclusivamente per colpa nostra, che non vogliamo fare i conti con il rischio naturale quotidiano, accresciuto dal nostro moltiplicarci e dall’accrescersi delle nostre esigenze.
Ora speriamo che il parallelismo con il terremoto umbro-marchigiano del 1997 finisca qui e non ci siano scosse di replica forti come la prima (o addirittura più violente, come avvenne in quel caso). Magnitudo 6 Richter dovrebbe essere la massima possibile per quella regione. Ci aspettiamo, comunque, settimane di repliche e notti insonni prima di tornare a prendere possesso delle case e iniziare a ricostruire. Sarebbe bene però mantenere viva la memoria, e muoversi di conseguenza: perché questa è la situazione tipica di gran parte del territorio nazionale, quella che conferisce un’identità paesaggistica all’Italia. Solo tre città superano il milione di abitanti, tutto il resto è fatto di Comuni piccoli e frazioni sparse per le campagne ormai antropizzate. In questa Italia ci sono i centri storici medievali, rinascimentali e barocchi insieme con i capannoni industriali. Mettere mano ai primi con limitati interventi può bastare, mentre i secondi vanno progettati con criteri antisismici, altrimenti farli d’acciaio non basterà. Il resto è un problema di cultura del rischio naturale. Ma non sembra in cima alle preoccupazioni della politica.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10129
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30/5/2012
Quegli infiniti secondi di terrore
MARIO TOZZI
Esplode con la forza di cento ordigni nucleari, si nasconde nelle profondità della crosta terrestre spezzando le rocce più dure e frantumando case, strade e palazzi. Ci fa mancare la terra sotto i piedi e mina alla base la fiducia stessa nel pianeta che ci ha generati. A differenza degli altri eventi non si preannuncia in alcun modo, si approssima silenzioso e poi risuona con un rombo cupo che spaventa solo a ricordarlo. Dilata il tempo fino all'inverosimile: trenta secondi di scosse equivalgono a trenta minuti di terrore ancestrale. Finisce quando decide lui e poi riprende quando hai appena fatto in tempo a calmarti. E' contrario al senso comune, che ti spinge a precipitarti fuori casa, quando dovresti, invece, restare lì, e accoccolarti sotto un tavolo o un'architrave. Massacra le consuetudini quotidiane, sconcia i ricordi e di notte fa perfino tremare i sogni. Avevano ragione gli antichi, il terremoto è la catastrofe per antonomasia nel senso etimologico del termine, cioè l'evento che stravolge, che rovescia l'ordine costituito, che rovina per sempre.
E' molto probabile che la stessa grande struttura geologica sepolta sotto la Pianura Padana che ha scatenato il terremoto del 20 maggio, sia ancora la responsabile ultima di queste scosse micidiali. Si tratta di un frammento di Appennino nascosto che rimane intrappolato nella spinta del continente europeo contro quello africano. E che per questo si spacca lungo una faglia lunga almeno quaranta chilometri. Solo che non si frattura tutto insieme (e forse non è un male), ma a strattoni, e ogni volta che si aggiusta fa tremare come una gelatina i sedimenti sabbiosi poco compatti della Pianura Padana. Sono sismi superficiali e per questo più dannosi, che possono risentirsi fino a Milano e in tutto il Nord.
E sono destinati a presentare scosse di replica per settimane se non per mesi.
E' vero che nessuna spiegazione può bastare a chi ha perduto parenti o amici o ha visto sbriciolarsi sotto gli occhi la propria casa, ma forse è venuto il momento di renderci conto che il nostro è un territorio a elevato rischio naturale. E non importa se si tratta di eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane o terremoti: comunque non riusciamo a trovare una via di convivenza che altre nazioni hanno intrapreso con successo. Certo, il nostro patrimonio costruttivo è antichissimo e non abbiamo uno skyline di grattacieli, ma di palazzi e chiese. Preoccuparsi dell'infragilimento di questo patrimonio non è solo questione di sicurezza, ma anche occasione di rilancio e di sviluppo ragionato. Invece in nessun programma politico locale o nazionale compaiono questi temi, nemmeno quando si ricorda che la nazione più grande del mondo ripartì proprio dalla messa in sicurezza del proprio territorio dopo la crisi del 1929, attraverso un New Deal incentrato sulla mitigazione del rischio idrogeologico (anche se fatto a colpi di acciaio e cemento).
E' vero, il terremoto mette addosso una paura atavica, primordiale che sa di polvere e di battaglia, quella ancestrale degli uomini contro la terra che diventa inospitale. E invece il terremoto è solo una testimonianza sfacciata della forza dinamica di un pianeta che è vivo e che muta costantemente i suoi equilibri. E l'Italia è uno dei paesi più giovani e geologicamente attivi del Mediterraneo: sarebbe bene adattarsi a questa condizione che non dipende in alcun modo da noi. Mentre da noi dipende la possibilità di convivere armonicamente con la natura di questo paese, se non trascuriamo la memoria e se a ricordarcelo non fossero sempre e solo le vittime.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10163
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Cronache
01/06/2012 - IL CASO
Se il cane abbaia prima della scossa
Le leggende (da sfatare) sul sisma
Le «verità» rivelate sul sisma e amplificate soprattutto dal web
Tutte, o quasi, false: eccole
MARIO TOZZI
Animali
Si sente spesso dire che c'è aria di terremoto, come una cappa afosa, anche in inverno, che preluderebbe al sisma. Come l'agitazione di cani, gatti, galline e maiali. A parte il fatto che i poveri maiali restano sotto le macerie come gli uomini, il boato del terremoto si risente anche nel campo degli ultrasuoni non percepiti dagli umani, ma dagli animali. Solo però qualche decimo di secondo prima della scossa. E i fenomeni meteorologici avvengono migliaia di metri sopra le nostre teste, quelli sismici decine di migliaia sotto i nostri piedi: nessuna relazione è possibile.
Cratere
Si continua a utilizzare la similitudine nata in Irpinia con il terremoto del 1980 che interessò una vallata simile a un cratere. Il paragone deriva anche dal fatto che i paesi distrutti si presentavano con quella forma. Ma i crateri sulla Terra li fanno solo i vulcani e le bombe.
Perforazioni & estrazioni
I terremoti emiliani dipendono dall'estrazione di gas dal sottosuolo padano? Trivellazioni e pozzi, indagini di prospezione, o la tecnica dell'allargamento delle fratture nel terreno per sfruttare i giacimenti (fraking) provocherebbero crolli sotterranei e dunque voragini e sismi. In questo caso dovremmo registrare molti terremoti in Arabia Saudita, Texas e Mare del Nord. E, al contrario, basterebbe fermare quei progetti per ottenere una nuova calma tettonica. Non ci sono cavità sotterranee che contengono idrocarburi o acqua, ma la roccia funziona come una spugna imbibita. L'estrazione provoca un locale costipamento dei serbatoi rocciosi che possono portare a un lento sprofondamento del suolo che si chiama subsidenza e che è ben noto in Pianura Padana. Ma che è proprio il contrario di un terremoto, che avviene molto rapidamente e più in profondità. Nessun pozzo scavato dagli uomini supera i 14 km di profondità, mentre i terremoti arrivano fino a 700 km.
Previsione
Sarebbe la scoperta scientifica del secolo, se fosse vera. Andrebbe però verificata in un contesto internazionale permettendo di riprodurla in altri laboratori, cosa che, curiosamente, non mai stata fatta. Sostenere che «tra marzo e novembre ci sarà un terremoto di magnitudo superiore a 5 fra Modena e Ferrara» non è nemmeno una previsione, visto che la distanza è di 59 km e 270 giorni sono tanti. E poi, cosa si dovrebbe fare, evacuare le due province per nove mesi? Anche a L'Aquila si fece una «previsione», che, in realtà, riguardava Sulmona e un lasso di tempo di mesi. Purtroppo i terremoti non si possono prevedere e solo una volta, in Cina nel 1975, è stato possibile farlo, ma in quell'occasione succedeva qualsiasi cosa: il terreno si alzava e si abbassava, c'erano continue scosse sensibili, si seccavano sorgenti, si liberava gas. Il regime cinese evacuò la regione di Haicheng e il terremoto fece «solo» mille vittime. Ma l'anno successivo il Tangshan fu scosso dal più disastroso terremoto di sempre, con oltre mezzo milione di morti. Liberazioni di gas radon dal sottosuolo possono essere utilizzate a questo scopo, ma è ancora presto per trarne schemi scientifici oggettivi.
Armi micidiali
Terremoti indotti dagli uomini e programma Haarp (High Frequency Active Auroral Research Program). In Alaska si sta sperimentando un sistema (Haarp) per provocare onde radio di debole intensità nella ionosfera per motivi civili e militari. E', invece, un tentativo di creare un'arma micidiale, una specie di cannone elettromagnetico che possa indurre terremoti? Nessuna forza controllata dall'uomo è in grado di generare terremoti di magnitudo elevata a distanza: la crosta terrestre ne modifica talmente il tracciato da non poter assolutamente indirizzare le onde sismiche eventualmente generate. Negli Anni 60 e 70 gli esperimenti atomici sotterranei di russi, cinesi e statunitensi hanno creato terremoti, ma deboli e ben riconoscibili su un sismogramma. L'aspetto assurdo è che i test cinesi avrebbero scatenato terremoti in Alaska e quelli statunitensi in Iran, scatenandosi due o tre giorni dopo l'esplosione. Un terremoto come quello emiliano sprigiona l'energia di decine di ordigni atomici che esplodono tutti insieme lungo una faglia in profondità.
da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/456527/
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