MARIO TOZZI.
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4/10/2011
Crolli ripetuti disastri annunciati
MARIO TOZZI
Chi avrà il coraggio di guardare negli occhi i sopravvissuti al crollo di Barletta e i parenti delle vittime?
Con quale faccia qualcuno si permetterà ancora di parlare di fatalità o di destino? Mentre si sta ancora scavando a mano, e le cause non sono state messe in luce, una cosa è certa, crolli e cedimenti degli edifici sono una tragica regola sul territorio italiano e non si fa nulla per prevenirli. Ma questo è proprio il momento di insistere, tanto per cominciare perché si vada fino in fondo a quanto testimoniato in quel ventre molle e fatiscente della città della disfida. Cioè che il crollo era annunciato da segnali premonitori pesanti come scricchiolii e allargamento di crepe e fratture.
Ma questi crolli sono sempre annunciati, perché spesso causati da interventi mal congegnati o in malafede, figli della bulimia costruttiva del nostro Paese e della speculazione, quando non da piogge torrenziali o frane. Anche qui, dove una parte della comunità cittadina teneva faticosamente in piedi la memoria di quel tragico crollo del 1959, quando 58 persone furono uccise da quella che allora già si tentava di chiamare la mala-edilizia. E il tutto è figlio dei soliti difetti, quelli sì strutturali: nessuna pianificazione nei centri storici, pochi piani regolatori e soprattutto deroghe e mancato rispetto delle regole. Nel 1959 furono le sopraelevazioni su un’autorimessa non adatta a sostenerne il peso a causare il crollo.
In questo caso vedremo, ma, come a Villa Jacobini a Roma o nel 1999 a Foggia, è la mancanza di controlli e manutenzione a fare il resto. Il raffronto tra prima e dopo il crollo a Barletta è impressionante: la facciata dell’immobile mostra i segni di un restauro recente, ma c’è stato un rilievo statico-strutturale? Sono state messe in campo competenze ingegneristiche, o tutto è stato lasciato nelle mani di tecnici impreparati? Da un lato poi ci sono le transenne dei lavori sulla casa vicina: sono stati fatti a regola? Si è provveduto a sostenere le strutture eventualmente interessate? Il tutto su quinte di case che mostrano i segni di interventi ripetuti a diversi livelli: mattoni e pietre a vista, malte intaccate da intarsi di tetti e muri, fori e l’idea di un caos costruttivo e abitativo che al sud è la regola. Qui non si aprono voragini come a Napoli e a Roma, non ci si mettono il terremoto come a L’Aquila o le frane come in Veneto. Qui tutto riporta alle colpe degli uomini. Interventi senza misura e fuori controllo sono la regola in Italia e l’abusivismo edilizio mette in condizioni di rischio centinaia di migliaia di persone.
All’alba del terzo millennio le abitazioni degli italiani non sono sicure, tutt’altro: tra frane, alluvioni, terremoti, voragini e cedimenti strutturali ogni cittadino ha, in un raggio molto corto attorno a casa propria, motivi per non fidarsi. Già è difficile vivere sotto la spada di Damocle di un grave rischio naturale, ma subire le conseguenze di mancanze di altra natura è francamente inaccettabile. E che fine ha fatto quel libretto dei fabbricati che avrebbe dovuto accompagnare la vita dei nostri immobili fornendone una carta d’identità veritiera? In questo contesto disastrato, speriamo che qualche regione si renda conto che non è di piani casa e aumento di volumetrie abitative che il Paese ha bisogno, ma della più grande delle opere: la ristrutturazione dei centri storici fatiscenti di una parte delle città italiane, specie del Meridione. Ritardare questa grande opera è ben più grave che averne realizzate poche delle altre.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9278
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26/10/2011
Prevenzione dimenticata
MARIO TOZZI
Buoni ultimi in Europa, gli italiani sembrano scoprire, nell’autunno 2011, che il regime delle piogge è cambiato.
Non ci sono più le pioggerelline invernali, né le rugiade primaverili. No, qui deflagrano vere e proprie bombe d’acqua.
Bombe d’acqua che scaricano in poche ore la stessa quantità di pioggia che un tempo cadeva in qualche mese. Quasi 130 mm di pioggia a Roma (con due vittime) in un paio d’ore, una vittima nel Salernitano, 140 mm in una sola ora alle Cinque Terre e ancora dispersi. Peccato che le alluvioni istantanee (flash-flood) siano ormai da tempo diventate la regola nel nostro Paese e investano anche bacini fluviali minori. Questo non è più il tempo delle grandi piene del Polesine o dell’Arno: nell’Italia del terzo millennio tocca e toccherà sempre più all’Ofanto, piuttosto che al Brachiglione. Le bombe d’acqua sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza: più energia termica a disposizione dei sistemi atmosferici significa maggiore possibilità di eventi fuori scala rispetto al passato. Ma tutto peggiora quando, anziché guardare in terra, si continua a osservare il cielo nella speranza che il fato non sia avverso. L’esempio della Liguria è eclatante: le alluvioni in quella sottile striscia di terra sono e saranno la regola a ogni pioggia un po’ più grave del solito. Per forza: quando si costruisce fino dentro gli impluvi fluviali, il terreno viene reso impermeabile e non assorbe più la pioggia che, invece, si precipita nei corsi d’acqua, ormai non più commisurati a quelle precipitazioni. Così arrivano le alluvioni, dovute alla nostra scarsa conoscenza della dinamica naturale e al mancato rispetto delle regole: se si leva spazio al fiume, il fiume prima o poi se lo riprende. E hai voglia a sturare i tombini a Roma o a decretare lo stato di calamità (che non andrebbe assolutamente favorito, perché si deve operare in prevenzione, non in emergenza) a La Spezia: sono solo palliativi che rimandano alla prossima occasione. Se non si liberano i fiumi dell’aggressione cementizia, se non si rispettano le regole di un territorio così fragile e giovane come quello italiano e se, peggio, si favorisce l’abusivismo anche attraverso sciagurati piani casa e ancor più sciagurati condoni, il problema non si risolverà mai. Ma proprio questo è il punto: nessun decisore politico si impegna nella manutenzione del territorio attraverso piccole opere diffuse. Tutti sperano di lucrare consenso con l’ennesimo ponte inutile o l’ennesimo raddoppio di strada. Così non si opera nell’interesse della popolazione e si degrada il territorio al rango dei Paesi del Terzo mondo, mentre si hanno ambizioni da sesta potenza industriale del pianeta. Le perturbazioni investiranno le solite zone ad alto rischio: l’Alto Lazio, la Campania, la Calabria e Messina. E ascolteremo le solite litanie e giustificazioni, magari appellandosi all’eccezionalità dell’evento che, però, non è ormai più tale. Non si può vivere a rischio zero, è vero, ma, non avendo fatto nulla, non ci si dovrebbe nemmeno lamentare.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9364
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15/1/2012
Dopo la tragedia, il disastro ambientale
MARIO TOZZI
Dobbiamo constatare con dolore che nell’Italia del terzo millennio non si muore solo per frana o alluvione, ma anche annegati nel mare più frequentato del mondo. Mentre scriviamo sono ancora decine le persone che mancano all’appello, ma le immagini teletrasmesse non mostrano corpi in mare, né ne sono stati raccolti sulla vicinissima riva. Si spera siano stati già tratti in salvo o comunque siano stati già trasferiti, perché sarebbe davvero insopportabile pensare che siano rimasti ancora intrappolati nella nave tragicamente basculata. E non vorremmo scoprire che lo spaventoso incidente della più grande nave da crociera italiana sia dovuto alla volontà di «portare un saluto» agli abitanti dell’isola del Giglio che, siamo sicuri, ne avrebbero fatto volentieri a meno.
Dalla nave non hanno veduto le vicinissime luci di ingresso al porto? E nemmeno quelle del paese? Questa sarebbe già una colpevole mancanza di controlli, anche in caso di guasti, non ci vengano però a raccontare che lo scoglio, parzialmente asportato (a testimonianza di una velocità d'impatto elevata), non fosse segnalato nelle carte nautiche. Primo perché lo è forse dal secolo scorso, e secondo perché è praticamente attaccato alla costa e la rotta di navi come quelle mantiene distanze di almeno tre miglia dall’isola. Non per caso. E ci dicano, per favore, che le esercitazioni a bordo vengono tenute regolarmente e che l’equipaggio sa esattamente cosa fare in caso di pericolo, anche se le prime voci dei turisti scampati fanno sorgere qualche dubbio.
Ma il problema è quello delle grandi navi da crociera, che si sono trasformate in veicolo di turismo di massa (da elitarie che erano), e il cui solo equipaggio supera la popolazione residente dell’isola del Giglio stessa. Il problema è quello di un turismo mordi e fuggi che si accontenta di «toccare» più porti in una settimana, come se avvicinarsi a un’isola significhi averla non dico compresa, ma almeno assaggiata. E senza alcun vantaggio economico per le isole, che spesso non hanno nemmeno i porti adatti per ospitare navi di quel genere.
Speriamo poi che le conseguenze negative, dal punto di vista ambientale, siano limitate all’impatto dell’enorme scafo sul fondale. Impatto violentissimo, e reiterato per centinaia di metri, che certamente avrà compromesso a lungo quel breve tratto di fondale. Speriamo cioè che non ci sia sversamento in mare delle oltre 2000 tonnellate di gasolio marino che la nave portava nei suoi serbatoi. In quel caso l’isola del Giglio sarebbe condannata per alcuni anni a non ospitare quasi più nessun ecosistema marino sano.
È bene non dimenticare che un centimetro cubo di petrolio è in grado di ammazzare il 90% della vita di un metro cubo d’acqua. E sarebbe meglio ricordarlo prima di intraprendere rotte di crociera così vicine ai gioielli del nostro Tirreno: Montecristo, Capraia e Pianosa ospitano equilibri delicatissimi che morirebbero per impatti ambientali così devastanti. Naturalmente ciò vale a maggior ragione per le petroliere che incrociano proprio in quei mari ogni giorno dell’anno e il cui traffico dovrebbe essere bandito da quello che resta pur sempre il santuario europeo dei cetacei.
Il recente naufragio della nave Rena in Nuova Zelanda e questo della Costa Concordia ci rammentano che non è necessario essere petroliere per recare morte e distruzione, basta non avere il combustibile abbastanza protetto da reggere a urti simili. L’obbligo di impenetrabilità dei serbatoi dovrebbe essere un requisito indispensabile alla navigazione in certe acque.
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9649
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Ambiente
19/01/2012 - IL PARADISO DEI SUB
L'isola del Giglio, ultima oasi del "bove marino"
I fondali rocciosi sono pieni di Gorgonie rosse, che ospitano lo squalo gattuccio, spugne, anemoni, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi e muggini
Gorgonie, cavallucci e cetacei: è uno dei litorali più incontaminati del Mediterraneo
MARIO TOZZI
Isola del giglio
Ma cosa c'è di così prezioso nei fondali dell'isola del Giglio che preoccupa i turisti e gli ambientalisti di tutta Italia? In realtà è tutto l'arcipelago toscano a essere importantissimo dal punto di vista ambientale. E il paventato sversamento di combustibili dalla Costa Concordia un'apocalisse da evitare a tutti i costi. L'isola è un grande scoglio di granito emerso in mezzo al Tirreno dopo una storia geologica antica e tormentata. Il contrasto magnifico fra il colore chiaro dei graniti e il verde del mare le conferisce un valore paesaggistico elevatissimo, che le ha permesso di essere premiata da anni con il massimo delle vele e delle bandiere blu.
A causa del ritardato arrivo sulla ribalta turistica internazionale e della cura dei suoi abitanti, quel mare si è conservato in buona salute ed è una delle poche mete significative, liberamente accessibili, del turismo subacqueo del Tirreno. Nelle zone sabbiose, come quelle davanti al porto (dove si è arenata la nave), la prateria a Posidonia, una pianta marina che testimonia acque pulitissime, è ampia e sostanzialmente integra e ospita ancora le grandi nacchere (Pinna nobilis) e una quantità di pesci come dentici, saraghi e pesci luna. Chi si bagna nelle baie del Giglio può ancora incontrare i cavallucci marini, sicuri indicatori di qualità delle acque che, in Italia, sono diventati rarissimi nell'ultimo mezzo secolo. Nelle tane una moltitudine di murene multicolori e di aragoste, astici e le caratteristiche «margherite» (le granceole) gigliesi.
Il fondale in roccia (già pesantemente intaccato dalla nave per circa 1 km) è ricchissimo a coralligeno con praterie estese di Gorgonie rosse, piuttosto rare nel Mediterraneo, che fanno da nursery allo squalo gattuccio, altro indicatore di qualità dell'ecosistema. E poi anemoni, spugne, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi, muggini in quantità.
L'isola è comunemente visitata dai cetacei marini che si vedono comodamente dai traghetti all'arrivo, ma l'ospite più pregiato è tornato a farsi vedere due anni fa, quando le acque del Giglio sono state sede di un clamoroso quanto inaspettato avvistamento, quello di due rarissimi esemplari di foca monaca che amoreggiavano a largo del Campese. Le foche monache ancora abitano il Mare Nostrum, ma per anni non erano state più avvistate nell'arcipelago toscano: catturate con le spadare oppure uccise dall'ingestione delle reti di nylon casualmente ingoiate con i pesci strappati alle reti. «Bove marino» la chiamavano i gigliesi decenni fa, quando era frequente ritrovarla in mezzo ai filari di vite intenta a rotolarsi a terra. Nei punti più deserti dell'isola, di notte, i «bovi marini» uscivano talvolta dal mare e si arrampicavano sui liscioni di granito a godersi la luna. La loro presenza nel Mediterraneo è ridotta a pochi nuclei in Egeo, Ionio e Mar Nero, attorno alle coste istriane e lungo la costa nord africana. In Italia è stata talvolta sporadicamente avvistata a Montecristo e in Sardegna, dove certamente si rifugiava stabilmente, ma è poi sparita per anni. Speriamo che tornino presto a salutare la salvezza di uno dei mari più puliti d'Italia.
Admin:
26/1/2012
Fuggire non serve a nulla
MARIO TOZZI
Scossi dall’incredibile incidente del Giglio, provati dalle alluvioni di fine 2011, mentre non si è ancora rimarginata la ferita de L’Aquila, gli italiani si trovano ad affrontare lo stress inevitabile di una sequenza sismica dove apparentemente non te lo aspetti. Prima nelle Prealpi venete e successivamente in Emilia Romagna. I due eventi non sono in alcun modo collegabili, ma si comprende la paura di chi, al massimo, vede oscillare i pioppi della pianura padana, non i campanili. Poi però si deve fare un piccolo esercizio di memoria e ritornare a una lontana notte di primavera nei ducati di Parma e Reggio Emilia, proprio negli anni in cui Ciro Menotti guidava i moti insurrezionali e la repressione delle istanze liberali era durissima. Quella notte la terra trema con un’intensità attorno al VII-VIII° grado della scala Mercalli, con gravi danni a Parma e Reggio. E anche quel terremoto viene risentito in gran parte dell’Italia settentrionale.
Francesco IV d’Este concede finanziamenti straordinari e Maria Luigia d'Austria promulga un decreto a favore di Parma e dei comuni limitrofi. Ma di chi o di cosa la colpa del terremoto? Il vescovo di Reggio Filippo Cattani attribuisce la colpa ai rivoluzionari risorgimentali, i quali non avevano alcun timore di Dio, né di nessun altro potere costituito. E anche il duca d’Este ribadisce che il terremoto era un segno divino di condanna delle ribellioni in atto in quella che ancora era solo un’espressione geografica.
A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci. Quel terremoto fu del VII-VIII° grado della scala Mercalli, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E nel 1834, l’Appennino parmense sarebbe stato di nuovo colpito da terremoti del VII-VIII grado che si abbatterono soprattutto sulla zona di Parma.
Oggi sappiamo che quella fetta di Pianura Padana è a rischio sismico, ma che il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 21 terremoti di rilievo. L’ultimo nel 1996, quando alla Ipercoop di Reggio Emilia caddero al suolo decine di apparecchi televisivi nuovi di zecca frantumandosi in mille pezzi. Quella volta la terra tremò per 55 secondi proprio nella stessa zona dei «terremoti carbonari» del 1831 e 1832. Anche in questo caso gli abitanti avvertirono un boato tremendo e il contemporaneo dilagare della paura.
A secoli di distanza dovremmo aver imparato che lì la terra ha sempre tremato e che la responsabilità è delle strutture geologiche profonde che risentono della spinta del blocco crostale adriatico incuneatosi fra Europa e Africa. E che non c'è bisogno di agitarsi troppo: basta costruire bene e premunirsi dentro casa assicurando alle pareti gli oggetti pesanti. E non fuggire per strada in tutta fretta: fanno più feriti i comignoli o i cornicioni eventualmente in bilico che le scosse sismiche.
da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9694
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