MARIO TOZZI.
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21/5/2008
I rifiuti sotto il tappeto
MARIO TOZZI
Finalmente è arrivata la soluzione agognata per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania: dieci nuove discariche e qualche inceneritore con recupero energetico (il termine termovalorizzatore, si sa, non ha senso scientifico o tecnico, neanche nelle regolamentazioni comunitarie). Il problema è che questa nuova soluzione assomiglia parecchio alle vecchie: quando si è insediato il Commissario De Gennaro, cinque mesi fa, la questione era sgomberare le strade di Napoli, e per farlo si è cercato di aprire nuove e vecchie discariche (non riuscendovi sempre), di mettere in funzione nuovi inceneritori (non riuscendovi mai), di esportare i rifiuti in Paesi più civilizzati (riuscendovi quasi sempre), dove gli scarti sono considerati risorse. Il problema è che questa soluzione assomiglia molto a scopare la polvere sotto il tappeto per avere la casa pulita.
In nessuna parte del mondo le discariche eliminano i rifiuti, anzi, li concentrano, con problemi ambientali che è ormai anche inutile approfondire: infiltrazioni nelle falde, percolati, liquami, per non parlare del maleodore. Senza contare che aprire nuove discariche sarebbe contro la legge nazionale e anche contro le normative comunitarie. E in nessuna parte del mondo bruciare rifiuti è un sistema per eliminarli, perché, come dovrebbe essere noto, in natura nulla si può distruggere e dunque le tonnellate di rifiuti si trasformeranno in ceneri (spesso velenose) e polveri (spesso tossiche). Certo, un inceneritore con recupero di energia e di calore non è un tabù contro cui combattere guerre di religione - ci sono problemi molto più devastanti, come il traffico cittadino -, ma è un controsenso energetico, perché per fabbricare oggetti e materiali si è impiegata molta più energia di quella che se ne ricava bruciandoli. E poi in Italia ci sono già abbastanza impianti: costruirne di nuovi può significare scoraggiare l'unica vera soluzione al problema dei rifiuti, la raccolta differenziata e il riciclaggio (un folle piano regionale siciliano prevede addirittura di bruciare il 65% dei rifiuti, come a dire condannare la raccolta differenziata a non superare mai il 35%, quando in tutta Europa si punta al 70-80% e a San Francisco si va verso l'opzione rifiuti-zero).
Se si fosse cominciato - alla prima emergenza di 15 anni fa - con un piano integrato di raccolta differenziata dei rifiuti campani, non saremmo a questo punto. Se lo si fosse fatto cinque mesi fa, avremmo ora qualche prospettiva, ma continuare a pensare che la questione possa risolversi con discariche e inceneritori vuol dire non aver compreso che, così, i rifiuti si accumuleranno di nuovo, e saremo alle solite, solo avendo perso ancora del tempo. Come da gennaio a oggi. E come dimostra il fatto che aver sgomberato oltre 200.000 tonnellate di pattume non ha risolto un granché. Ma sono i numeri che parlano: a Torino - una grande città del Nord i cui cittadini non sono antropologicamente diversi dai napoletani - nel 2003 si raccoglieva in maniera differenziata solo il 20% dei rifiuti. In cinque anni si è passati a oltre il 40%, attraverso campagne di educazione ambientale fino nelle scuole promosse dall'amministrazione comunale e dalla municipalizzata. Pensiamo a Napoli: se si fosse recuperata almeno la frazione umida (residui di pasti, bucce) avremo avuto il 30% in meno di rifiuti, cioè 75.000 tonnellate di meno all'inizio dell'emergenza. Cioè più spazio nelle discariche (dunque meno discariche) e meno commercio di rifiuti, dunque più risorse da destinare al riciclaggio.
Riciclare raddoppia la vita dei materiali, permette di spendere meno energia e, dunque, di inquinare di meno e fa in modo che si aprano meno miniere e cave. Se poi le ditte si impegnassero a ridurre definitivamente gli imballaggi, usando, per esempio i fogli di plastica termosaldati, che, una volta sgonfiati, si riducono a una pallina di qualche centimetro; se la distribuzione permettesse di acquistare i prodotti sfusi a peso e non a confezione; se le municipalizzate non si scomponessero in migliaia di subappalti incontrollabili, allora i nostri sforzi personali sarebbero premiati e non staremmo qui a temere di finire come a Manila, nella cui discarica vivono gli 80.000 abitanti di un posto chiamato Lupang Pangako (letteralmente «terra promessa»), fra commerci di ogni tipo, contrabbando e riciclaggio su commissione. Ma anche per questa volta non è aria.
da lastampa.it
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19/8/2008
I disastri di un'estate "normale"
MARIO TOZZI
Arrivare a mezza estate senza incendi troppo gravi, senza l’incubo della siccità e con temperature sopportabili sembra una sorpresa eccezionale, dopo anni di catastrofi e difficoltà. Ma le cose stanno davvero così? E come sarebbe un’estate «normale»? Molto dipende dai punti di vista. Non è un’estate normale, questa, per i nativi delle trentatré isole Kiribati, costretti a ritirarsi sulle modeste alture più interne perché l’innalzamento del livello del mare ha prima mangiato loro i campi, poi avvelenato le falde acquifere e infine li sta costringendo alla deportazione. L’innalzamento è inarrestabile, così come lo sono la fusione dei ghiacci planetari, che ne è la causa ultima, e il surriscaldamento del clima, che rappresenta la causa prima. Profughi ambientali li chiamano, ma la ragione della loro fuga è esattamente la stessa che costringe decine di migliaia di africani a cercare le nostre coste: la perdita di territorio utile per vivere, che si tratti poi di desertificazione o di annegamento, non fa tanta differenza.
Non è un’estate «normale» neppure per le api, sterminate a milioni in tutte le regioni ad agricoltura avanzata dall’uso indiscriminato di pesticidi a base, per esempio, di Clothianidin (come in Germania), ma disorientate anche dal cambiamento climatico in atto. Nella prima parte del 2008 il 40 per cento delle api è scomparso e il problema non è solo per gli apicoltori (in Italia il 30 per cento in meno di miele), ma per tutto il pianeta, visto che, se mancano i migliori impollinatori del mondo, presto o tardi mancheranno anche i fiori, con conseguenze che non è difficile immaginare, prima di tutto per gli uomini. Ma non se la passano bene neppure gli orsi bianchi, piegati a nascite ermafrodite sempre più frequenti e a non ritrovare più i soliti punti di caccia alle foche per via della scomparsa dei ghiacci. E nemmeno le balene, che vedranno ridotte le provviste del krill (loro cibo di elezione) per via della scomparsa di gran parte della copertura glaciale antartica.
Ma se quello del clima che cambia corrispondesse solo alla realtà della riapertura del mitico passaggio a Nord-Ovest potremmo farcene una ragione, e magari sperare in più raccolti l’anno o nel trasferimento dei tropici in Svezia. Gli effetti di questo cambiamento, invece, si riflettono nel nostro Paese più che in altri e sono sotto gli occhi di tutti proprio in questi giorni, con l’Italia spaccata letteralmente in due: a Nord acquazzoni di tipo tropicale, al Sud caldo feroce, qualche incendio e siccità incombente. Non si tratta di novità assolute, ma la frequenza e il numero di episodi come quello di Torino d’inizio agosto non possono essere attribuiti al caso.
Le alluvioni-lampo (flash-flood) sono ormai una costante delle estati mediterranee, e italiane in particolare, e consistono in fenomeni particolarmente violenti, che si risolvono spesso in pochi minuti di piogge inesorabili che colmano gli alvei e provocano inondazioni difficili da prevedere, molto localizzate e straordinariamente dannose. La maggiore quantità di calore in gioco nei sistemi atmosferici provoca fenomeni sempre più violenti, anche quando il cielo è sereno. E la configurazione del suolo fa il resto: visto il rivestimento di asfalto e cemento delle nostre città, è evidente che l’eccesso di piogge non potrà essere riassorbito dal terreno e finirà nei fossi e nei corsi d’acqua inadeguati a smaltirlo.
Ma, chissà perché, quella del 2008 sembra un’estate «normale», con meno problemi ambientali del solito. Se non fosse per quelle meduse, unico grattacapo temporaneo dei bagnanti del Mediterraneo, e che, si dice, possano addirittura uccidere. Strani animali (ma sono animali?) queste meduse, che proliferano più del solito: che dipenda dall’inquinamento crescente, e dalla pesca eccessiva ai danni dei loro competitori più agguerriti (tonni) o dei loro predatori (tartarughe) come si permettono di venire a disturbare il nostro divertimento proprio nel momento in cui avevamo dimenticato tutto il resto?
da lastampa.it
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13/9/2008
Pazza idea perforare l'Alaska
MARIO TOZZI
La convention repubblicana ha messo in evidenza una fondamentale differenza con i democratici in un campo cruciale come la politica ambientale. Pure se è vero che il democratico Clinton non era convinto del protocollo di Kyoto, né fece cessare i tagli dei boschi secolari dell’Ovest, è anche vero che non diede risposta positiva a chi chiedeva di riprendere le perforazioni petrolifere nell’Arctic National Wildlife Refugee dell’Alaska, sui cui territori la candidata vice presidente Palin vorrebbe invece rimettere mano. Il 17% del greggio estratto negli Stati Uniti proviene dall’Alaska, la regione più incontaminata del grande Nord, ma è pur sempre solo la metà di quanto si estraeva alla fine degli Anni 80. Per questo le corporation del petrolio vogliono un presidente che consenta loro di riprendere a perforare lassù, incuranti che ciò incrementerebbe il surriscaldamento climatico i cui effetti peggiori si avvertiranno proprio sui ghiacci artici dell’Alaska, dove le temperature dell’atmosfera sono salite di quasi
5°C e i ghiacciai si sono assottigliati del 40% nell’ultimo secolo.
In cambio delle nuove perforazioni, il cartello degli industriali del greggio dell’Alaska (Arctic Power) promette posti di lavoro, non ponendo alcuna attenzione al fatto che il permafrost - il durissimo terreno perennemente ghiacciato fondamentale per un sano equilibrio climatico - non si sta riformando ormai per il sesto anno consecutivo. Aprendo l’Artico alle perforazioni, come la signora Palin e i repubblicani vorrebbero, l’unico risultato sarebbe di dipendere dall’estero, in quanto a idrocarburi, per il 62% e non più per il 64% nei prossimi vent’anni. Poco per giustificare la battaglia che si sta scatenando fra ambientalisti-democratici e petrolieri-repubblicani.
Però il target reale dei repubblicani potrebbe non essere tanto l’ambientalismo o il partito democratico, tradizionali «indebolitori» della potenza energetica Usa, bensì quello di spostare artificiosamente l’attenzione sull’Alaska per stornarla dal vero obiettivo, i nuovi standard, promessi da sempre e mai mantenuti, sui consumi delle auto americane. Tutti sanno che inasprire quegli standard aprirebbe finalmente la strada al risparmio energetico e all’efficienza anche nella maggiore potenza mondiale. Ma contrasterebbe in maniera insopportabile con gli interessi delle case automobilistiche e dei sindacati dei lavoratori, due lobbies senza le quali, negli Usa, non è neppure pensabile di vincere le elezioni. Ma siccome i «verdi» sembrano avere più a cuore le sorti dell’Artico che le norme antinquinamento, la partita dell’Arctic Refugee viene usata come merce occulta di scambio per non toccare quegli standard. Probabilmente gli statunitensi sono il popolo meno attento agli sprechi energetici, ma molto dipende dai suoi governanti, espressione diretta delle corporation petrolifere. A meno che Obama...
da lastampa.it
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27/10/2008
Ritorno alla madre terra
MARIO TOZZI
Quando arrivò in India nel 1905, Sir Albert Howard (agronomo della Real Casa) era convinto di obbligare i sudditi orientali di Sua Maestà a obbedire alla legge dell’aratro e dei fertilizzanti chimici per portarli sulla via maestra dell’agricoltura industriale. Ci mise poco a scoprire che i veri selvaggi erano i suoi concittadini britannici e che, invece, le pratiche agricole orientali avevano superato a pieni voti l’esame della natura: le fattorie cinesi o indiane erano permanenti almeno quanto la foresta primaria o la prateria originaria. E il tutto senza aratro e senza alcun tipo di ammendante. Allora riconsiderò gli apparenti successi dell’agricoltura occidentale, che era stata in realtà un fallimento perché non aveva saputo mantenere la fertilità del suolo, principio fondamentale cui le pratiche orientali si attenevano scrupolosamente: raccolti misti, promiscuità delle messi, mescolanze di cereali e legumi, nessuna monocoltura, recupero delle deiezioni animali, nessun fertilizzante, niente aratro e grande equilibrio fra bestiame e prodotti agricoli.
La «madre terra - scrive Howard -, privata dei suoi diritti di concimazione, è in rivolta: la terra scende in sciopero; la fertilità del suolo decresce e aumentano le malattie»; inoltre l’erosione del suolo minaccia campi e colture. A un secolo di distanza è difficile dargli torto anche da un punto di vista del gusto: con i concimi artificiali si ottengono grandi rese quantitative, ma la qualità è peggiorata in fatto di sapore, qualità e capacità di conservarsi. Le verdure coltivate con NPK (azoto, fosforo e potassio) sono dure, coriacee e fibrose, e solo i congelatori ne permettono una resistenza oltre le regole naturali.
La ricchezza della vita vegetale è andata perduta negli ultimi decenni: un tempo esistevano decine di specie di pesche o di frumento e i frutti di un albero erano diversi da quelli di un altro. Erano spesso «brutti», ma nessuno ne metterebbe in discussione il sapore, di gran lunga superiore a quello delle stagioni scialbe di oggi: non più di cinque qualità di mele, due di uva, forse sei di pere caratterizzano le nostre tavole ed è diventato difficile perfino distinguerle. Le esigenze di globalizzazione industriale hanno imposto una standardizzazione del prodotto che non risponde ad alcuna logica naturale, che riduce il gusto e impoverisce lo spirito, mentre, ovviamente, arricchisce i soliti portafogli.
Il recupero dei prodotti locali e l’opposizione di molte comunità agricole alla globalizzazione hanno effettivamente segnato un’inversione di tendenza di cui «Terra Madre» è un segno robusto: recupero della biodiversità attraverso pratiche biologiche, opposizione agli Ogm, valorizzazione del prodotto locale. Uomini e donne legati al mondo industriale hanno cominciato a ritornare alle campagne riconvertendo proprietà e denari: producono vini di qualità, fanno formaggi o semplicemente ritornano agli orti per poter mangiare quello che coltivano con le proprie mani. Un’intera comunità (i damanhuriani) è tornata alla Terra nel Piemonte industriale del terzo millennio. Al di là della moda, di cui pure si cominciano a risentire gli effetti, sembra un necessità genuina di ritorno alle origini, a un mondo meno sofisticato: di più, sembra l’ultima forma di resistenza all’omologazione più subdola, quella per cui puoi trovare lo stesso hamburger da New York a Sydney.
Sperando, però, che anche qui non si annidi l’inganno: Colonnata è un paesino di 250 anime in Toscana, con un piccolo territorio e un numero limitato di maiali: come è possibile che il lardo di Colonnata si ritrovi in tutta la penisola? Per non parlare del Brunello di Montalcino: quel vitigno, quel clima e soprattutto quel territorio sono circoscritti: non si possono produrre altre bottiglie oltre a quelle già in commercio, non ci può essere espansione quantitativa per quel mercato. Altrimenti si arriva al paradosso del prodotto locale che torna a essere globale, fatto che non è semplicemente possibile per definizione: bisogna andarselo a cercare nel posto d’origine e nella stagione giusta, come un tempo, abbandonando l’idea che sia più intelligente un Natale con ciliegie cilene o manghi sudafricani. Ma questo è più difficile da comprendere.
da lastampa.it
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26/11/2008
La paura del vento come nel medioevo
MARIO TOZZI
Raffiche di un vento primordiale hanno spazzato la Penisola da Nord a Sud, uccidendo, provocando gravi danni e risvegliando in noi un timore profondo, quasi atavico. Veloce, freddo e incostante - che sembra scemare e poi riprende invece più impetuoso di prima -, il vento è uno dei pochi legami che abbiamo ancora con quel mondo primordiale in cui non c’era difesa dagli agenti naturali. Come per il terremoto e i vulcani, è meglio non trovarsi lungo la sua strada, ma - a differenza di questi - il vento non può essere fronteggiato solo costruendo meglio o allontanandosi dalle zone di pericolo, anche perché oggi la geografia dei fenomeni meteorologici a carattere violento cambia continuamente. E noi ne siamo in qualche modo corresponsabili, fosse solo per l’energia supplementare che abbiamo fornito all’atmosfera, diventata ormai un’arma caricata a cicloni e uragani. Non basta essere ricchi per difendersi dalle avversità del maltempo, come dimostra il caso di Katrina, e anche in Italia i venti costruiscono il rischio idrogeologico, insieme ai flash flood (le «bombe d’acqua») e alle frane: non è un caso che le aree di crisi nel Paese siano in aumento.
Un vento così forte non è comunque estraneo al territorio italiano. Un «turbine spaventoso», che spazza la catena appenninica da Ancona fino in Toscana, con alberi secolari sradicati, i tetti delle chiese sconnessi e scagliati in pezzi a centinaia di metri di distanza, le case rovinate e quel «rombo assordante», cupo, che precede la devastazione. È il 24 agosto 1456 e questa è la descrizione che Niccolò Machiavelli ci rende di uno spaventoso vento nell’Italia centrale di oltre cinque secoli fa, forse un tornado a vortici multipli con una direzione inconsueta e con dimensioni assolutamente fuori dal comune alle nostre latitudini. Più spesso, però, in Italia i tornado vengono chiamati semplicemente trombe d’aria: vortici sottili e sinuosi, eleganti e leggeri, così diversi da quelli originati dai «supertemporali» tipici del famigerato «corridoio» dell’Oklahoma, dove si registrano più fenomeni meteorologici violenti che in qualsiasi altra parte del mondo. Ma non mancano le raffiche fuori misura legate ai fronti di perturbazione, peraltro non inaspettati in novembre. Anche i venti italiani divellono alberi secolari e cartelloni stradali, inquietano gli animi e fanno pensare al soprannaturale.
Paragonati ai mille tornado che ogni anno investono gli Stati Uniti, quelli italiani sono davvero poca cosa: circa 25 ogni 12 mesi, numero probabilmente sottostimato ma comunque sempre molto piccolo. Eppure si tratta di un fenomeno significativo che investe soprattutto la Pianura Padana, le coste del versante tirrenico, l’Appennino centrale, la Puglia e la Sicilia. Ma anche quello tremendo dell’Oltrepò Pavese del 1957, di cui si racconta lo straordinario spostamento di un asino, ritrovato vivo a 80 metri dal luogo in cui era stato lasciato, ancora attaccato a un palo. E poi in Brianza, dove il fenomeno è ricorrente, visto che la tromba d’aria eccezionale del luglio 2001 - che spostò un grosso camion - ha investito proprio la stessa area già flagellata nel 1910. E Udine, nel 1930, con 23 vittime, e Catania, nel 1968, e poi ancora Venezia nel 1970. Forse però il più violento di cui si abbia una testimonianza storica precisa è quello del 1851 in Sicilia, che sembra aver ucciso più di 500 persone: una catastrofe inimmaginabile. Eppure la realtà è che oggi, con tutto il patrimonio tecnologico e con tutti i denari e i mezzi del terzo millennio, siamo indifesi di fronte ai venti violenti più o meno come lo eravamo nel Medioevo. Ma guai a dirlo: è un pensiero che va scacciato subito, almeno fino alla prossima volta.
da lastampa.it
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