MARIO TOZZI.

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Admin:
9/12/2008
 
Ecologia fa rima con economia (ma in italia no)
 
MARIO TOZZI
 

Non sappiamo come pensasse di sopravvivere l’indigeno dell’ultima tribù dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero dell’ultima foresta, base stessa della propria sussistenza. Ma ci sono molte possibilità che questa sia anche la condizione degli uomini moderni sul pianeta. Mentre, probabilmente, ci sarebbe una soluzione unitaria che potrebbe risolvere l’attuale crisi ambientale e economica nello stesso tempo. E mentre l’ecologia potrebbe fornire una via d’uscita, purché si prendesse atto seriamente della situazione.

I sistemi economici moderni non producono e distribuiscono beni, come avveniva nelle società primitive, ma accumulano un capitale economico che - fondandosi su quello naturale - non può crescere in maniera indefinita. Chi sostiene che l’economia viene prima dell’ambiente dovrebbe ricordare che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l’economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario.

Tutto sta a convincersi che la natura non è una produzione dell’uomo e che senza un ambiente in buona salute non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta. L’obiettivo è molto chiaro: ridurre le quantità di energia utilizzata e stabilizzare i consumi di materie prime al minimo, aumentando l’efficienza organizzativa e sociale. In alcune realtà economiche già avviene, perché risparmiare combustibili fossili è ormai più conveniente che acquistarli. Du Pont ha aumentato la sua produttività del 30% negli ultimi dieci anni riducendo del 7% il consumo di energia e del 72% (!) le emissioni di gas-serra, mentre Ibm e Bayer hanno risparmiato oltre due miliardi di dollari abbassando le emissioni del 60%.

Prima o poi si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, e forse allora si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Ma questa tendenza va agevolata, come hanno ben compreso il presidente eletto Obama e l’intera Unione Europea, che stanno per varare nuove direttive sull’efficienza energetica degli edifici. Purtroppo l’Italia si pone oggettivamente fuori del contesto internazionale, in una posizione ancora più isolata anche rispetto alle recenti prese di posizione sugli obiettivi del protocollo di Kyoto. Il nostro patrimonio edilizio, per esempio, è il più energivoro d’Europa e negli edifici residenziali utilizza il doppio dell’energia usata nei migliori paesi europei (150 kJ/m2 contro 65-75 kJ/m2). Ma non sembra un fatto positivo se il cittadino virtuoso, che avrebbe contribuito a tagliare le nostre emissioni clima-alteranti, vede aumentare il proprio carico fiscale, invece che diminuire la propria bolletta. Il provvedimento che taglia le agevolazioni è contro il buon senso, perché mantiene sommerso quel mondo, diminuendo il gettito per le casse dello Stato, ed è un freno a quella media e piccola imprenditoria che sul rinnovabile aveva già cominciato faticosamente a investire, magari riconvertendo attività pregresse più inquinanti. Invece dei bonus una tantum, il finanziamento degli interventi sul risparmio energetico consente un taglio più significativo e duraturo sui costi e sui consumi energetici. E i benefici economici sono molti: per lo 0,1% del Pil al 2020, l’adeguamento dell’Italia alle direttive comunitarie riduce l’importazione di combustibili fossili (risparmio di 12,3 milioni di euro), i costi del controllo emissioni (-1,5 milioni), le malattie e fa crescere i posti di lavoro (+0,3%).

Riduzione dell’inquinamento e economia possono andare di pari passo anche in Italia, basterebbe volerlo.
 
da lastampa.it

Admin:
12/1/2009
 
A fuoco lento
 
MARIO TOZZI
 

Facendo una gran confusione fra tempo meteorologico e clima (come a dire tra giorni e secoli), gli inguaribili ottimisti del «tutto va bene» riprendono fiato in base ai dati del Centro di Ricerca sul Clima Artico dell’Illinois, che segnalano un aumento della superficie ghiacciata marina del Polo Nord nei mesi invernali del 2008. Si badi bene, per i primi mesi dell’anno passato lo stesso Centro aveva messo in luce una consistente riduzione del complesso dei ghiacci artici e, su tutta la Terra, i ghiacciai registrano complessivamente un deficit di un milione di kmq rispetto alle medie consolidate. E una scorsa, seppure veloce, al complesso dei dati strumentali (quelli più precisi degli ultimi trent’anni, effettuati attraverso i satelliti) rivela che i minimi estivi dei volumi di ghiaccio artico sono in costante riduzione, specialmente dal 2000 in poi.

Infine, nell’estate dello stesso 2008 si era toccato il secondo valore minimo di sempre dei ghiacci, dopo quello del 2007. Ma talmente forte è la voglia di liberarsi dal pensiero della crisi climatica e di giustificare la nostra colpevole inazione, che ci basta un dato isolato - riferito peraltro solo ai ghiacci marini, temporaneamente comunque in ripresa durante l’inverno - per dimenticare l’andamento generale, che resta ancora quello di un riscaldamento inarrestabile.

Non si aspetta nemmeno l’estate 2009 per avere comparazioni significative, dimenticando che, se pure quest’inverno si è formato più ghiaccio, ciò non vuole affatto dire che resisterà più a lungo e, in ogni caso, sarà la prossima estate a dircelo.

Anche nell’arco alpino i valori di fusione dei ghiacciai sono stati contenuti, ma comunque sempre negativi (fra -0,5 e -1 metro), in un quadro che resta comunque preoccupante, con record negativi ben vicini nel tempo (-2,5 metri nel 2003). Questo per tacere dell’unico ghiacciaio appenninico, quello del Calderone (Gran Sasso d’Italia), ormai praticamente scomparso. Le ragioni di una eventuale temporanea stabilizzazione del riscaldamento globale (ancora tutta da confermare) possono essere diverse: un calo dei venti avrebbe reso più facile la formazione dei ghiacci artici grazie alla neve accumulatasi al di sopra. E la corrente fredda dell’Oceano Pacifico (La Niña) può avere contribuito significativamente, senza scomodare la scarsità di macchie solari che potrebbero avere ridotto il flusso energetico dal Sole alla Terra.

Non si è certo ancora spenta l’eco del più recente stato di avanzamento dell’Ipcc - dove si ricorda che il cambiamento climatico sarà «faster, stronger and sooner», cioè che avverrà più velocemente di quanto gli stessi scienziati avessero già previsto nel 2007 -, che, alla prima occasione, si avanzano conclusioni basate sulle sensazioni soggettive che sanno molto di ideologia. Vaglielo a dire ai cittadini della provincia veneta, piombati improvvisamente a -25°C, che quello appena passato è stato comunque il sesto anno più caldo degli ultimi decenni. E raccontalo a una pubblica opinione assuefatta a sciocchezze come la «temperatura percepita» (la temperatura resta sempre quella, a prescindere dalle nostre personali percezioni, e - semmai - varia l’umidità, ma tutto fa brodo in un Paese scientificamente ignorante come il nostro) che il cambiamento climatico è misurato nell’arco di decenni e non variabile a ogni stagione. E che non si devono confondere fenomeni mediati statisticamente su lunghi periodi con l’opzione se dover prendere l’ombrello per uscire di casa la mattina oppure no. Non fa poi così caldo, deve aver pensato la rana un momento prima che l’acqua della pentola in cui era stata gettata arrivasse a bollire.
 
da lastampa.it

Admin:
22/4/2009
 
Avvelenati tra le mura di casa
 
MARIO TOZZI
 

C’è qualche segnale positivo dal pianeta degli uomini? O anche quest’anno saremo costretti a raccontare la solita storia di deforestazioni, emissioni inquinanti, perdita di specie animali e vegetali, consumo insensato di territorio?

Da quando siamo diventati sapiens abbiamo cercato continuamente di sfuggire i pericoli del mondo naturale di cui pure eravamo e siamo figli, così ci siamo arroccati nelle città, salvo dichiararle poi inadatte per una vita sana. Il problema è che neppure nelle case, i nostri ultimi rifugi, siamo al sicuro dai mali dell’evo industriale, anzi ormai lì sembra andare anche peggio, vista la quantità di veleni e inquinanti che emanano pareti, mobili, prodotti d’uso quotidiano. E non va meglio nelle auto: si calcola che sia maggiore la quantità d’inquinanti respirati nell’abitacolo che per strada a piedi o in motorino, nonostante tutti i ricircoli forzati d’aria possibili.

L’Italia non sta meglio degli altri Paesi, anzi, ci si mettono pure le modelle a sottolineare quanto sia irrespirabile l’aria della capitale della moda. Per non parlare degli scrittori stranieri: Thomas Harris (quello della saga di Hannibal Lecter) racconta di non aver mai visto così tante automobili in vita sua come quando venne ad ambientare a Firenze una parte del suo romanzo; e Harris ha vissuto a Detroit. Le aree metropolitane diventano un inferno e nessuno dei problemi è stato risolto: molti si sono aggravati, specie nel nostro Paese. Però qualche timido passo in avanti lo possiamo registrare. Si è, per esempio, compreso che una riconversione ecologica del pianeta è improcrastinabile e che ciò comporterà alcuni cambiamenti di abitudini e una riduzione dei profitti e delle competenze degli uomini. Non è un passo da poco: finora ci siamo ritenuti padroni di un pianeta dalle risorse inesauribili e che tutti i popoli del mondo avrebbero potuto raggiungere il livello di vita dei più ricchi.

La Terra ci dice che ciò non è assolutamente possibile e che il benessere dei più ricchi è possibile solo e soltanto sulle sofferenze dei più poveri. Ci è consentito possedere una o due automobili solo perché milioni di altri uomini vanno a piedi o in bicicletta: se volessero essi stessi muoversi con un’auto, non ci sarebbe già oggi più carburante o territorio da asfaltare per tutti. In secondo luogo la nazione più potente e sprecona del mondo - quella in cui metà dell’energia elettrica si fa ancora col carbone come un secolo fa - ha cambiato decisamente strada, costituendo già un punto di riferimento per il resto del mondo. Il presidente Obama incarna la speranza sulla via di un mondo imprenditoriale, industriale e produttivo «verde» che prenderà il posto delle vecchie fuliggini petrocarbonifere che ci hanno appestato per secoli. Non sarà domani, ma sembra difficile tornare indietro, almeno per i prossimi quattro anni.

Il cambiamento climatico è salito in cima alle preoccupazioni del mondo occidentale, nonostante alcuni scettici (e l’incredibile mozione che lo nega, approvata dal Senato della Repubblica italiana), perché, per fortuna, «è finita l’epoca del negare l’esistenza del problema», esattamente quanto hanno fatto i passati amministratori statunitensi per otto anni. In questo quadro Obama dovrebbe aderire al protocollo di Kyoto e renderlo finalmente efficace, senza rinegoziarlo e senza aspettare che a fare il primo passo siano Cina e India, anzi: saranno gli Stati Unti a farlo. Ritenendo che la colpa del surriscaldamento atmosferico sia delle attività industriali, Obama intende ridurre le emissioni di gas clima-alteranti dell’80% entro il 2050 e, per cominciare, indica nelle energie rinnovabili (da noi ritenute ancora poco più che un gioco) la strada maestra. Gli Stati Uniti produrranno il 10% del fabbisogno energetico per questa via entro il 2012, creando 5 milioni di nuovi posti di lavoro e investendo 150 miliardi di dollari. Un sterzata di 180°. E per fare tutto questo Obama - che pensa globalmente e agisce localmente - parte da fatti minori, come quello di una piccola factory dell’Ohio (Cardinal Fastener & Speciality Co.) che produce, fra l’altro, turbine eoliche e ha incrementato i posti di lavoro da quando si è riconvertita dalla produzione di piattaforme di perforazione.

Nonostante la crisi economica che devasta l’ambiente peggio di prima, la sensibilità ambientale, in teoria, aumenta e, anche se la deforestazione non si arresta, diventa sempre più difficile, le aree protette aumentano e qualche specie si riesce a salvare, nonostante le aggressioni e le speculazioni. È ancora presto per dire se è l’alba di un nuovo mondo, ma qualcosa sta cambiando, come quando nell’aria dell’inverno si coglie il primo sentore di primavera. Buona giornata della Terra.
 
da lastampa.it

Admin:
7/5/2009

L'ambiente a lingue alternate
   
MARIO TOZZI


Quanto valgono le foreste della Sila, i ghiacciai dello Stelvio, le isole toscane, gli orsi marsicani o i borghi delle Cinque Terre? Per il nostro governo quanto un chilometro di autostrada. E contro il cambiamento climatico sarà il caso di adoperarsi o tutto dipende dagli astri e quindi è bene continuare a inquinare, tanto non cambia niente? C’è grande confusione sotto il cielo delle politiche ambientali del nostro Paese, confusione che si accresce quando ci si confronta a livello internazionale. È come se il governo italiano parlasse due lingue, una nelle riunioni ufficiali, per allinearsi con il resto del mondo avanzato, l’altra sul fronte interno, magari per non scontentare i settori più conservatori di un sistema industriale che mostra scarsa capacità innovativa. Il Senato della Repubblica (a maggioranza, su ispirazione del senatore Dell’Utri) approva un documento in cui si afferma che la responsabilità del cambiamento climatico non è delle attività umane, ma di cambiamenti nel Sole (prendendo per buone le bizzarre dichiarazioni di un fisico italiano che non è climatologo: come chiedere a un ingegnere informatico di costruire ponti).

Nello stesso tempo gli Stati Uniti seguono le indicazioni della stragrande maggioranza degli scienziati e intendono abbattere le emissioni di gas clima-alteranti dell’80 per cento entro i prossimi 40 anni, puntando tutto sulle energie rinnovabili (da noi ritenute poco più che uno scherzo). La nazione più potente del mondo produrrà il 10 per cento del suo fabbisogno energetico per questa via entro il 2012, creando contemporaneamente cinque milioni di nuovi posti di lavoro e investendo 150 miliardi di dollari. Per metterci una pezza, al G8 ambientale il nostro ministero dell’Ambiente porta un documento sul clima che sarebbe sottoscritto volentieri da qualsiasi organizzazione ambientalista, generando così più di un dubbio su quale sia la vera posizione del governo sul clima.

Il G8 a Siracusa approva un documento italiano in cui si mette in luce come la biodiversità sia la vera ricchezza della vita, e come fornisca servizi gratuiti a tutti gli uomini e come vada perciò conservata e tutelata. Nello stesso tempo il Parlamento italiano sta per riservare ai Parchi e alle Riserve dello Stato (e alle attività previste dalle Convenzioni internazionali per la tutela della natura) poco più di 52 milioni di euro, 7 milioni in meno del 2008. Come a dire che alle 23 «perle» naturalistiche del Bel Paese va meno di quanto occorre per costruire 1000 metri della variante di valico Bologna - Firenze, un’autostrada «tecnica», ma pur sempre un’autostrada (tutto si potrà dire dei Parchi Nazionali, ma non che siano una spesa rilevante per lo Stato). A livello internazionale, in teoria, si conviene con la tutela; a livello italiano, in pratica, si riducono i fondi.

Visto che siamo a Siracusa, la Sicilia - con 5,5 kW/mq/giorno - avrebbe un potenziale solare fotovoltaico notevole, ma il ministro siciliano non sembra essersene accorto, visto che è nella provincia di Bolzano (3,5 kW/mq/giorno) che si installano più pannelli che altrove. Il potenziale solare italiano sarebbe enorme (47.000 miliardi di kW/anno), ma in Germania il fotovoltaico cresce di 140 MW ogni dodici mesi, in Italia solo di 4 (quattro), nonostante l’Italia abbia il 56 per cento di insolazione in più rispetto alla Germania. In Italia il consumo medio di una famiglia è di circa 3.000 kWh/anno, con il fotovoltaico si potrebbe arrivare facilmente a coprirne fra 1.100 (Italia settentrionale) e 1.600 (Italia meridionale), altro che giochi. L’88 per cento del solare europeo è - invece - in Germania, ma noi siamo il Paese del Sole, che punta, però, al nucleare (neppure citato da Obama), che vuole difendere la natura, ma riduce i fondi per farlo, e che approva mozioni che vanno contro l’azione internazionale sul clima. Qualcuno ci aiuta a fare chiarezza?

da lastampa.it

Admin:
24/5/2009
 
Michelangelo non c'entra l'ecomafia sì
 
 
 
 
 
MARIO TOZZI
 
L’Italia è uno dei Paesi europei più sforacchiato dalle cave, primo strumento della devastazione ambientale. Non solo è molto facile aprirne di nuove, ma nessuno si preoccupa di ripristinarle una volta finita la coltivazione. In altri Paesi si usa obbligare chi vuole aprire una cava a lasciare in fideiussione il denaro sufficiente per poterla ripristinare, qui spesso prima della fine della concessione le cave vengono abbandonate: lo scempio ambientale resta e nessuno può porre riparo.

Si cava soprattutto per il cemento ma anche per la polvere del marmo. È il caso delle Alpi Apuane, uno dei luoghi più incontaminati e straordinari d’Italia, sforacchiato da quasi 300 cave che non servono più a produrre i marmi monumentali della Pietà di Michelangelo o dei romani antichi, ma solo polvere di marmo usata come sbiancante o additivo, dunque non più per un uso monumentale.

Una nuova cava significa strade, camion, inquinamento atmosferico, polveri sottili, rumore. Inoltre spesso la cava è il primo passo dell’ecomafia dei rifiuti: se ne apre una abusiva, ci si fa cemento. Nel buco si interrano i rifiuti tossici speciali. Sopra, una volta ricoperto con la terra, ci si fanno i pomodori.

La legislazione è carente e non comporta obblighi ambientali. Servirebbero nuove norme uguali per tutto il territorio, ricordando che i giacimenti minerari e le rocce sono patrimonio della nazione.
 
 
da lastampa.it

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