MARIO TOZZI.

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5/6/2009
 
Ecobugie all'italiana
 
MARIO TOZZI
 
Ambientalisti come gli italiani ce ne sono davvero pochi al mondo, e non siamo sicuri che sia una sfortuna. Odiamo l’inquinamento atmosferico, raccogliamo correttamente i rifiuti, risparmiamo l’acqua in casa e costruiamo con giudizio. In realtà l’italiano medio si descrive molto migliore di quanto non sia e prova ne sono i dati che emergono analizzando i singoli temi in cui siamo teorici campioni del mondo dell’ambiente.

La stragrande maggioranza degli italiani pensa che l’inquinamento sottragga piaceri essenziali della vita, ma poi possediamo 35 milioni di autoveicoli e, su 1 km di strada, ne circolano 80 (contro i 42 degli Stati Uniti e i meno di 40 in Spagna). E a Napoli, per fare un esempio, ci sono 5500 auto per kmq che nemmeno a Hong Kong. In pratica, su 100 cittadini che si muovono per andare a lavoro, ben 72 usano l’automobile: chi saranno gli inquinatori, quei 5 che vanno in moto o i 13 che vanno a piedi?

Dopo l’inquinamento gli italiani sono soprattutto spaventati da un futuro senz’acqua: come mai allora 40 litri su 100 vengono dispersi dalla rete idrica potabile nazionale (con punte del 60 per cento in Sicilia)? Per quale ragione nelle nostre campagne si irriga come duemila anni fa, deviando un canale a prescindere dal tempo che fa e dalle necessità? E, soprattutto, perché piantiamo il prato all’inglese anche in Sicilia e vogliamo il campo da golf in Sardegna o siamo passati dal frumento al kiwi consumando dieci volte più acqua?

Noi italiani siamo ossessionati dal problema dei rifiuti, specialmente dopo l’emergenza campana, e addirittura i tre quarti ritengono di fare correttamente la raccolta differenziata. Non si spiega allora perché la nostra percentuale di raccolta differenziata sia ancora a circa il 25 per cento, con punte, si fa per dire, di meno del 10 per cento. Il clima, invece, ci preoccupa meno e se farà più caldo chi se ne importa, tanto c’è l’aria condizionata: forse per questo siamo così indietro nel rispetto del protocollo di Kyoto e forse per questo sprechiamo così tanta energia. Quando poi pensiamo alle energie rinnovabili pensiamo soprattutto al solare e magari osteggiamo le altre per via degli impatti paesaggistici. Ma allora perché da noi il solare incrementa alla straordinaria velocità di circa 5 MW/anno, mentre in Germania si marcia a oltre 150 MW/anno (l’Italia ha il 56 per cento di insolazione in più della Repubblica tedesca)?

Siamo attenti a non ingombrare il territorio di nuove costruzioni e, anzi, molti giudicano male i provvedimenti governativi che consentono di ampliare le abitazioni. Nei fatti, invece, in Italia si divorano ogni anno 250 mila ettari di territorio e qui è stato coniato il termine condono edilizio, che non è traducibile in nessuna lingua moderna conosciuta, e che ha contribuito a distruggere oltre 3.663.000 ettari di territorio negli ultimi quindici anni. Da noi il consumo di cemento raggiungerà il picco di 220 milioni di tonnellate per soddisfare la domanda relativa solo all’ampliamento del 20 per cento del nuovo piano casa, in un Paese che è già al primo posto in Europa nella produzione, con 47 milioni di tonnellate/anno (800 kg cemento/uomo/anno). La Germania ne produce 33 milioni, la Francia 21 e la Gran Bretagna 12, tanto per dire di paesi sottosviluppati.

E il confronto con gli altri Paesi è davvero impietoso: in Germania la soglia di consumo di territorio è 43-44 mila ettari all’anno, un sesto appena dei nostri ritmi più recenti. In Gran Bretagna l’allarme per l’erosione dei suoli liberi e/o agricoli venne fatto suonare già negli Anni 30 e si concretizzò nel 1946 col New Towns Act e l’anno seguente col Town and Countries Planning Act, con la individuazione delle «green belts», cioè delle cinture verdi a protezione delle città. In questo modo la punta di 25 mila ettari consumati in dodici mesi negli Anni 30 in Inghilterra e Galles è stata abbattuta ad appena 8 mila ettari annui nel decennio 1985-96. Molto di più di quanto consuma la sola Sicilia ogni anno.

Riduzione dell’inquinamento, risparmio di acqua, riciclaggio dei rifiuti, energie rinnovabili, minor consumo di territorio, questi i cardini di una Giornata dell’Ambiente come si deve. Gli italiani si ritengono ecosostenibili a tutti i livelli, dal singolo cittadino all’azienda, dall’amministratore all’industriale, ma in realtà si raccontano solo un sacco di bugie. Del resto questa pare la tendenza generale.
 
da lastampa.it

Admin:
22/6/2009
 
Chi ha paura della foca monaca
 
MARIO TOZZI
 
Un eccezionale avvistamento di foca monaca nel Tirreno centrale si sta trasformando in una ennesima querelle, tutta italica, di fazioni attestate sui lati opposti del presunto sviluppo e della conservazione dell’ambiente. All’inizio di giugno, nelle acque dell’isola del Giglio (il mare più pulito d’Italia), viene fotografato un esemplare adulto di foca monaca, forse una femmina, che fa immediatamente sperare che la specie non sia estinta, come si credeva.

Un’ottima notizia in un anno in cui è scomparso, per esempio, un altro mammifero acquatico come il delfino bianco del Fiume Giallo in Cina. Le foche monache ancora abitano il Mare Nostrum, ma sono diventate rarissime a causa dell’atteggiamento predatorio degli uomini che le hanno da sempre massacrate senza pietà e scacciate dai loro luoghi abituali di riproduzione. La loro presenza nel Mediterraneo è ridotta a pochi nuclei nell’Egeo, nello Ionio e nel Mar Nero, attorno alle coste istriane e lungo la costa nord-africana. In Italia è stata talvolta sporadicamente avvistata a Montecristo e in Sardegna, dove certamente si rifugiava stabilmente, ma è poi sparita per anni.

«Bove marino» la chiamavano i gigliesi decenni fa, quando era frequente ritrovarla in mezzo ai filari di vite intenta a rotolarsi a terra. Tanto che molti scambiavano gli egagropili (quelle pallottole fibrose di posidonia che si accumulano sulle spiagge) per «deiezioni di bove marino». Nel 1983, un subacqueo notò un enorme animale scuro, in posizione verticale, sul fondo. Spaventatissimo, risalì immediatamente in superficie rischiando un’embolia, ma si rese poi conto di essersi imbattuto in un esemplare adulto di foca, non tanto per la posizione verticale, quanto per l’unico particolare che ricordava di aver notato con certezza: un enorme paio di baffi! Nei punti più deserti dell’isola, di notte, i «bovi marini» uscivano talvolta dal mare e si arrampicavano sui liscioni di granito a godersi la luna. Ma per anni non erano state più avvistate: catturate con le spadare oppure uccise dall’ingestione delle reti di nylon casualmente ingoiate con i pesci strappati alle reti.

Mentre in qualsiasi altro posto del mondo l’intera comunità sarebbe stata contenta per il ritorno di un magnifico animale, simbolo stesso di ambienti incontaminati e possibile catalizzatore di turisti, in Italia, per qualcuno, la comparsa del pinnipede più raro del pianeta sembra aver causato un certo spavento. La nuova maggioranza (di centrodestra) che si è appena installata al Comune del Giglio sembra temere la foca come indicatore biologico dell’eccezionale qualità del mare, perché da qui all’istituzione definitiva di un’area marina protetta il passo potrebbe essere troppo breve. E un vincolo, seppure giustificato e foriero di possibilità di sviluppo prima neppure pensabili, è sempre un vincolo. Infatti al Giglio si parla il meno possibile dell’eccezionale avvistamento, laddove altri amministratori si sarebbero immediatamente vantati di quella rara garanzia di qualità ambientale (basti pensare alle isole greche che, sulla sporadica presenza della foca, hanno costruito una fortuna turistica).

Addirittura qualcuno solleva il dubbio che si tratti di una montatura giornalistico-ambientalista: insomma la foca ha destato sospetti e apprensione, ed è diventato un problema politico da tenere sottotraccia.

Nonostante la rilevanza scientifica e ambientale dell’avvistamento, non risulta che dal ministero dell’Ambiente sia stata intrapresa alcuna azione di indagine per predisporre le necessarie azioni di prevenzione e tutela. Eppure si tratta di un segnale oggettivamente positivo, che conferma la necessità di una protezione marina più stretta intorno alle isole minori dell’Arcipelago Toscano, come peraltro richiedono ben tre leggi dello Stato, e come l’Unione Europea ci invita a realizzare (al più tardi entro il 2012), oltretutto in linea con gli impegni internazionali presi dell’Italia per la protezione della biodiversità marina al recente G8 di Siracusa con l’approvazione della «Carta di Siracusa» proposta dallo stesso ministero dell’Ambiente. Ma chi ha paura della foca monaca?

da lastampa.it

Admin:
18/8/2009
 
Costi amari di un'estate in fiamme
 
MARIO TOZZI
 
Cosa perdiamo quando un ettaro di bosco viene bruciato? Di cosa ci priviamo ogni volta che una foresta va perduta? E, soprattutto, che danni permanenti provoca il fuoco e, in ultima analisi, a chi conviene? Oltre un milione di ettari di aree verdi è andato bruciato in Italia negli ultimi nove anni, mentre l’estate in corso rischia di diventare la peggiore, anche se, per fortuna, nessuno più invoca ipotesi fantascientifiche come l’autocombustione per spiegarne la ragione.

Il fuoco viene appiccato da criminali (che non è giusto chiamare piromani, come fossero individui un po’ pazzi) per ragioni ben precise di interesse: dove passa il fuoco non crescono più foreste, ma nuove case, palazzi, edifici. E sappiamo anche come si dovrebbe agire: quando un criminale del fuoco viene colto in flagrante e punito allora in quel territorio il fenomeno cessa o si riduce drasticamente, parallelamente allo stesso scomparire dell’impunità. L’isola d'Elba è oggi sostanzialmente libera dal fuoco dopo i gravissimi incendi degli anni precedenti (che fecero anche alcune vittime), grazie in primo luogo all’opera di intelligence del Corpo Forestale e del Parco Nazionale, che hanno indagato e colto sul fatto almeno uno dei criminali che appiccavano il fuoco. Tanto è bastato perché il numero dei focolai scendesse da oltre 200 a meno di venti all’anno. Tremilacinquecento persone arrestate dal 2000 a oggi e pene più severe (fino a oltre dieci anni di carcere) non sono però ancora bastate di fronte agli enormi interessi in gioco nei territori di pregio.

Ma ci sono altre ragioni, come la mancanza di manutenzione del territorio stesso, in particolare del sottobosco, specie dopo primavere così piovose come quella appena passata, che ha aumentato la massa verde a disposizione delle fiamme. E il surriscaldamento climatico in atto, con il conseguente rinsecchimento di quella stessa massa così copiosamente generata, incrementa il pericolo. In questo caso cura e manutenzione nel periodo primaverile sarebbero già sufficienti per abbassare il rischio. In Italia sarebbe anche obbligatorio il catasto degli incendi: ciascun comune deve censire le aree incendiate e impedire lì ogni costruzione di qualsiasi tipo, ma se non c’è catasto è poi difficile dimostrare il pregio precedente di un’area divenuta poi irriconoscibile.

Non è un caso che i comuni maggiormente inadempienti siano quelli delle regioni costiere, quelli più appetiti dalla speculazione: Sardegna, Toscana e Lazio. E’ bene ricordare, a chi sembra fare finta di niente, che, dal 2000, non è possibile intervenire in alcun modo sui terreni bruciati per almeno 15 anni. Ed è bene ricordare a tutti che non sono i Canadair a scongiurare gli incendi: quando intervengono i mezzi aerei il fuoco ha già vinto, perché la prevenzione la si mette in pratica a terra prima che il peggio accada. Affidarsi al soccorso dal cielo implica già un severo errore di prospettiva e delega un compito che non può essere solo della Protezione Civile.

Quello che costa un incendio non è sempre chiaro a tutti. Un incendio devastante costa al cittadino 5.500 euro per ogni ettaro bruciato, se non contiamo, perché difficile farlo, gli altri danni permanenti e le specie viventi sterminate (centinaia di mammiferi e uccelli, milioni di insetti, migliaia di rettili per ogni ettaro). Ma quello economico è solo un aspetto che viene peraltro amplificato in seguito: il fuoco non ha solo un percorso superficiale, ma anche uno sotterraneo, che corre qualche decimetro sotto terra, che intacca anche le radici. Così il territorio bruciato resta preda delle piogge invernali e privo di protezione contro il dissesto idrogeologico: in pratica è come se il fuoco avesse colpito due volte. Per ricostituire una foresta di pregio (come quelle di faggio del nostro Appennino) ci vogliono cento anni, almeno trenta per riavere una pineta. Ma mentre gli speculatori ne conoscono bene il prezzo, quasi nessuno sembra avere chiaro in testa il valore intrinseco di un albero.

da lastampa.it

Admin:
30/8/2009

Il capitale perduto del turismo mondiale
   
MARIO TOZZI


Le spiagge di paesi esotici, come la Thailandia o le Maldive, appaiono come veri e propri paradisi terrestri, che però vale forse la pena di guardare sotto la superficie patinata e apparentemente felice. Mete ambitissime, e ormai facilmente raggiungibili, da schiere sempre maggiori di turisti, italiani soprattutto. Quella che vediamo, però, è solo una fotografia di maniera, ancora vera, ma vecchia: una volta era così, ma oggi le cose sono cambiate e cambiamo rapidamente, con una sequenza che è facile prevedere e che ha già investito i paesi di turismo tradizionale come il nostro.

Quando l’Italia era povera ma bella
Anche l’Italia degli Anni Sessanta era un paradiso, sebbene non tropicale. Faceva comunque caldo, specialmente quando ci si spingeva in Sicilia nelle interminabili giornate di scirocco estivo, e gli stranieri trovavano da noi un clima più che mite, mare trasparente, cibo genuino e una sterminata quantità di tesori storici artistici e monumentali. Se facciamo eccezione per questi ultimi, le mete esotiche degli Anni Novanta e l’Italia degli Anni Sessanta si assomigliano molto, perché obbediscono alla stessa legge del turismo mondiale, quella che prima lancia i paesi emergenti nell’orbita dello sviluppo, poi li precipita nell’abisso del cemento e della disgregazione sociale.

Questa legge parla chiaro: a una prima fase pionieristica - in cui pochi avventurosi esploratori si concentrano solo su mare e eventuali monumenti - segue la fase dell’infrastrutturazione, che consente a numeri ancora contenuti di turisti, comunque volenterosi, di sobbarcarsi lunghissimi viaggi in sistemazioni ancora approssimative, ma di trovare cortesia senza fine, ospitalità e una natura ancora praticamente intatta.

La Sardegna prima della Costa Smeralda o l’isola d’Elba quando ancora erano attive le miniere: la ricchezza si diffonde fra gli abitanti che sono ancora principalmente contadini o minatori e solo in seguito affittano una camera o due e preparano da mangiare in ambienti comuni. In una fase ulteriore l’infrastruturazione incrementa: raggiungere il posto è sempre più facile e i charter cominciano a vomitare migliaia di turisti. Gli alberghi crescono di qualità, ma soprattutto di numero, fino a negare la vista della costa e la qualità ambientale decresce vistosamente. Ma ancora si trovano luoghi intatti, e basta fare pochi passi per scegliere angoli incantevoli: la costa appena a sud della Costa Smeralda, in Sardegna, o le spiagge orientali della Thailandia, dove grappoli di bungalow costituiscono resort ancora compatibili e che magari fanno vanto di alcuni comportamenti ecologicamente corretti.

Alla riconquista di ciò che non ha prezzo
Questi paesi si trovano oggi però allo stesso bivio in cui si è trovata l’Italia: o incrementare l’infrastrutturazione a scapito della qualità del soggiorno o fermarsi a riflettere e cambiare modello di sviluppo, come si è fatto a Palma di Mallorca dopo la fase orgasmica di costruzioni di grandi alberghi degli Anni Ottanta, oggi in parte ridimensionati per riconquistare l’unica cosa che non ha prezzo, lo spazio di pregio. O come non ha fatto l’isola di Capri, che regge ancora economicamente solo per via del blasone e delle attività fuori stagione, ma deve chiudere la Grotta Azzurra per inquinamento, o l’isola d’Ischia, che è diventata un inferno impossibile da vivere, con centinaia di migliaia di turisti, costruzioni anche abusive dovunque e un ambiente naturale semplicemente irrintracciabile, se non nelle ville patrizie.

A quel bivio l’incremento delle infrastrutture non porta più ricchezza diffusa, ma solo concentrazione di denari in capitali stranieri e infiltrazioni malavitose. Quei paesi, oggi, possono ancora scegliere, magari imparando dai nostri errori. A noi toccherebbe di fare un passo indietro.

da lastampa.it

Admin:
6/9/2009
 
La lunga estate calda
 

MARIO TOZZI
 
A guardare bene, in tempi recenti, solo quella del 2003 è stata più calda - e ce le ricordiamo le centinaia di morti a causa delle famigerate ondate di calore nella civilissima Europa -, poi bisogna almanaccare nelle statistiche degli ultimi 200 anni per trovarne altre due a questi livelli: l’estate attuale è da record e non è ancora finita. Ma questa potrebbe essere peggiore delle altre per almeno due motivi.

Il primo è che il calore torrido «annulla» tutta la gran massa d’acqua caduta in inverno e in primavera, quando gli scettici del cambiamento climatico si permettevano illazioni a proposito del fatto che non ci sarebbe stato davvero da preoccuparsi per la siccità, visto che pioveva come Dio la mandava. Neanche era finito agosto che le piogge torrenziali sono state virtualmente annullate dal caldo e dai nostri sprechi (occorre sempre rimarcarlo), ma in più anche dall’idea che, almeno per quest’anno, la siccità ci avrebbe lasciato in pace.

La seconda ragione è che, per quanto riguarda i ghiacciai (i veri moderatori del clima della Terra) va anche peggio: il Comitato Glaciologico Italiano esprime il ragionato parere che i ghiacciai alpini hanno già perso tutto il manto gelato che era stato accumulato in un inverno-primavera copioso di precipitazioni nevose. Significa che anche prima di arrivare a fine settembre, momento in cui si fanno i conti, la situazione si è addirittura aggravata rispetto agli anni scorsi. Non è solo un problema italiano. I nuovi dati di Arctic Climatic Feedbacks dicono che oltre un miliardo e mezzo di persone soffrirà le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi, se le cose procedono in questo modo. Le emissioni di gas-serra si stanno per accrescere esponenzialmente a causa della liberazione delle riserve di carbonio finora conservate nei ghiacci artici. Come a dire che, se non si riesce a mantenere l’Artico freddo, il problema si riverbererà in tutto il mondo. La perdita del ghiaccio artico, dovuta al fatto che il Polo Nord si riscalda a velocità doppia rispetto al resto del pianeta, influenzerà negativamente la gran parte delle attività economiche del mondo ricco, compromettendo in particolare le riserve di acqua. A parte il caldo che percepiamo, insomma, sono i dati scientifici a far apparire ottimistiche le previsioni dell’IPCC di solo un anno fa, quando si sosteneva che il cambiamento climatico sarebbe stato «faster, stronger and sooner», cioè che sarebbe avvenuto più velocemente di quanto gli stessi scienziati avessero già previsto nel 2007.

Di soluzioni si discuterà a Copenaghen a dicembre, ma la prossima settimana sul clima delle Nazioni Unite vede già i climatologi di tutto il mondo indicare la strada della riduzione cospicua e immediata delle emissioni clima alteranti dal 25 al 40% entro il 2020, mentre obiezioni non argomentate da un punto di vista scientifico, ma forti del potere economico, si traducono in una sostanziale perdita di tempo prezioso. Non fare nulla per opporsi al deterioramento climatico ha costi già oggi insostenibili: i danni derivati ammonteranno presto al valore totale di tutto ciò che l’umanità produce in un anno. Quando diventerà conveniente, si dice, e si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, allora il libero mercato sistemerà le cose e si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Ma quando? Se le corporation che governano di fatto i Paesi ricchi non si sono ancora fatte convincere dai dati degli scienziati, cosa le convincerà mai? Purtroppo siamo sempre lì: si sostiene che l’economia viene prima dell'ambiente, dimenticando che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l'economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario. Insomma, se continuerà a fare così caldo non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta.

da lastampa.it

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