MARIO TOZZI.

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12/3/2011

L'apocalisse come vicino di casa

MARIO TOZZI

Hanno resistito alla fine del mondo. Al vero big-one, il «terremoto cattivo», il più potente di tutti. Quello che ci si aspettava dal 1923 o da prima ancora, quando soltanto pochi edifici rimasero integri e tutti furono storditi di paura. Quello cui si resiste soltanto se c'è cultura e consapevolezza, se si è stati educati all’emergenza e si è costruito per bene.

Sono uomini come noi, i giapponesi, solo che sono riusciti a rimanere calmi sopra la terra che tremava, di fronte a uno dei sei o sette più violenti terremoti di sempre. Sono uomini come noi, solo sono usciti ordinatamente dai grattacieli, che avevano appena smesso di oscillare come pioppi al vento, e si sono recati nei punti di raccolta. Non hanno mai recriminato contro la «natura assassina» o il «terremoto killer». Tokai o chokkagata li chiamano in Giappone gli eventi catastrofici che verranno, perché lì è chiaro per tutti che quello è il futuro inevitabile, perché i sismi, come pure le eruzioni, sono parametri che fanno parte della pianificazione della vita nazionale e personale quotidiana.

Un terremoto come questo di Sendai avrebbe causato decine di migliaia di morti in Italia e centinaia di migliaia in Iran. E certo un terremoto come quello aquilano (centinaia di volte meno distruttivo) in Giappone non avrebbe fatto crollare nemmeno un cornicione.
Nel prossimo futuro gli eventi naturali a carattere catastrofico assumeranno una connotazione di classe che già oggi è più di una tendenza: i Paesi (ricchi) che si attrezzano possono evitare il collasso, quelli (poveri) che non riescono a farlo crollano (come dimostra Haiti).
E all'interno di quei Paesi, gli sventurati che si accalcano nelle favelas suburbane occupano siti già scartati perché pericolosi e rischiano più di chi si è procurato un insediamento sicuro.

Ma questo terremoto è qualcosa di più, è la dimostrazione lampante di come la prevenzione sia l'unico mezzo scientifico serio che funziona davvero, e che fa addirittura risparmiare in emergenza. Invece di inseguire la chimera di una previsione finora impossibile, sarebbe bene prendere ad esempio il popolo che fa la migliore prevenzione del mondo affidandosi alla ricerca e, in ultima analisi, alla cultura del rischio costruita nei secoli. E le esercitazioni antisismiche, che da noi indurrebbero agli scongiuri di rito, lì consentono di salvare vite, perché niente è meno scontato del panico quando la terra ti trema sotto i piedi: affidarsi a una rappresentazione già ripetuta cento volte salva più vite che non recitare un rosario a memoria.

Per un cittadino di Tokyo ci sono 40 probabilità su 100 che, nei prossimi dieci anni, un altro terremoto colpisca la sua terra con magnitudo 7 Richter. Il blocco crostale che comprende le isole nipponiche si trova proprio al contatto fra la grande placca dell'oceano Pacifico e quella dell'Asia: da quello scontro si generano eruzioni vulcaniche e terremoti. E' così da molto prima che gli uomini arrivassero sulla Terra e sarà così per molto a lungo ancora. E là tutti lo sanno, non attribuiscono colpe a un destino cinico e baro o al fato.

Ed è una fortuna che i giapponesi siano così disposti ad ascoltare la scienza e non le superstizioni, perché altrimenti lo scenario economico mondiale avrebbe potuto avere ripercussioni spaventose. Il potere industriale e commerciale di cui dispongono innerva ormai la ricchezza economica di tutto il mondo: se dovessero ritirare i propri capitali per intervenire in patria a sanare gli effetti di un terremoto devastante, la loro mancanza si risentirebbe in ogni angolo del pianeta. Il Giappone è disseminato di faglie attive, in grado di scatenare ancora terremoti, e tutti i sismologi della Terra si aspettano altri sismi distruttivi dell'ordine di 6,5-8,5 Richter nel prossimo futuro. Anche dopo il terremoto di ieri.

Altra cosa è il maremoto, che viaggia veloce come un jet di linea a 800 km/h e, in mare aperto, nessuno lo avverte. Quando però arriva vicino alla costa «sente» il pendio che risale e monta in ondate alte come palazzine, sradica ogni cosa, carica ogni tipo di oggetto e poi si abbatte a mitraglia (la ricostruzione fatta da Clint Eastwood nel suo Hereafter è perfetta). Non ci si difende da uno tsunami se non allontanandosi dalla costa e salendo più in alto possibile. Se anche si è costruito per resistere ai terremoti, questo non salverà chi sta per strada: le vite degli uomini si svolgono perlopiù nei primi due metri da terra, e contro quel rischio non c'è cemento che tenga (muri contro gli tsunami sono stati peraltro costruiti in Giappone, ma non hanno mai funzionato). Si capisce perché lo tsunami farà probabilmente più vittime del terremoto in sé: nessun sistema di allerta può funzionare quando il tempo a disposizione è così poco. L'immunità dagli eventi naturali non rientra nelle disponibilità degli uomini.

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11/4/2011 - LA STORIA

Roma, un mese al terremoto immaginario

MARIO TOZZI

C’è chi si prepara a passare almeno una notte in automobile, chi affitta un camper e chi prenota viaggi in paesi lontani. Tutto attorno a una medesima data, l’11 maggio 2011. Manca un mese esatto al catastrofico terremoto che distruggerà Roma e molti cittadini sono apparentati da un unico comune denominatore.

Vogliono mettersi presto alle spalle quella data, che viene agitata dalla voce popolare e dal web come esiziale in base alle teorie di Raffaele Bendandi, il quale avrebbe predetto quella e altre numerose sciagure (103 per la precisione).

Ma chi era Raffaele Bendandi? Un illustre sconosciuto che elaborò una curiosa teoria sull’origine dei terremoti, generati da particolari allineamenti planetari, che non ha trovato alcun riscontro scientifico. E come poteva averlo, visto che veniva da un uomo a digiuno di qualsiasi nozione geofisica avanzata, un autodidatta che aveva appena la licenza elementare e che era soltanto rimasto impressionato dal cataclisma del 1908 a Messina? Intanto per cominciare, quella dell’11 maggio a Roma è certamente solo una sciocchezza autoreferenziale tipo leggenda metropolitana, tant’è che non risulta nemmeno nelle carte dello stesso Bendandi (conservate nell’osservatorio di Faenza). Ma non risulta neppure che ne abbia mai azzeccata una. In un biglietto datato 27 ottobre 1914, mostrato dallo stesso Bendandi, egli indicava un forte sisma per il 13 gennaio 1915 in Italia centrale, nozione un po’ vaga per significare Avezzano (dove appunto ci furono 40.000 vittime).

Il biglietto autografo non era però stato consegnato a un notaio e nessun altro ne seppe alcunché prima del terremoto, così come accadde anche per gli eventi del 1924 nelle Marche o del 1976 in Friuli, spesso riportati come «previsti». Un conto è «prevedere» che fra un mese ci sarà un terremoto in Cile: la cosa è possibile, visto che si tratta di zona sismica e che, in media, subisce qualche migliaio di sismi all’anno, ma dove esattamente? E in che giorno esattamente? Sebbene in scienza sia sempre possibile che uno solo abbia ragione e tutti gli altri torto, a tutt’oggi non è possibile prevedere un terremoto, mentre molto si può fare in termini di prevenzione. Ma quello che colpisce, nella sindrome da terremoto che sta colpendo i romani (amplificata da radio e Web), è la nostra naturale inclinazione all’apocalisse, magari in scala ridotta, che riaffiora in molti aspetti della vita quotidiana. Come se ne avessimo un qualche bisogno, per esempio quando rallentiamo per vedere cosa è accaduto nella corsia opposta, dove ci sono auto incidentate, luci della polizia e lenzuoli sulle vittime. O come quando indugiamo per vedere se c’è ancora qualcuno rimasto sotto le macerie di un crollo. Non è solo la rassicurazione che l’abbiamo scampata e che è toccato a qualcun altro.

E’ qualcosa di più. Forse l’eco lontana delle catastrofi cui siamo scampati quando ci siamo fatti strada nell’evoluzione della vita sulla Terra: il boato cupo del vulcano Toba, che ridusse gli umani a un migliaio appena in tutto il pianeta, o l’apertura della grande frattura del continente africano, che divise per sempre i nostri antenati dalle scimmie antropomorfe. Quindi vai con le profezie Maya e il 21 dicembre 2012, dàgli con Nostradamus e il soprannaturale, o con i terremoti come castigo divino, tutto tranne che fare i conti con i nodi irrisolti del nostro passaggio sul pianeta: estremizzazione del clima, fine delle risorse e nubi radioattive. Forza catastrofe! Purché ridotta e, possibilmente, suggestiva.

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6/6/2011

Chi ci guadagna dai referendum

MARIO TOZZI


Sappiamo veramente su cosa andiamo a votare fra sette giorni?

Al di là dello specifico giuridico dei quesiti referendari, e prima di dividerci in favorevoli e contrari, la questione è se sappiamo valutarne esattamente contenuti e conseguenze. Cominciamo dall’acqua.

Andiamo davvero a votare per stabilire se l’acqua italica perderà il suo carattere pubblico e potrà essere mercificata come altri beni? La risposta è no, quello che invece succederà è che la gestione dei servizi idrici avrà una corsia preferenziale per i privati. Ma è invece giusto domandarsi se questo porterà vantaggi per i cittadini, per l’ambiente e, infine, per la risorsa acqua in sé.

Oggi l’acqua in Italia costa circa un euro ogni mille litri, una cifra davvero irrisoria, e viene garantita alla stragrande maggioranza della popolazione pulita e abbondante, tanto che, se lasciassimo aperti tutti i rubinetti di casa 24 ore su 24, l’acqua continuerebbe a esserci servita per tutto il tempo. Per questa ragione sembra difficile migliorare il servizio idrico: escluso che si possa fornire acqua colorata o profumata o gassata al rubinetto, per l’utente non ci può essere alcun vantaggio. I fautori del no sostengono che così si riparerà la rete degli acquedotti italiani, ridotta a perdere circa 40 litri ogni 100, ma sembrano ignorare tre fatti: che quell’acqua in gran parte ritorna in falda (e dunque agli acquedotti), che il vero spreco dell’acqua è nell’agricoltura (circa il 60% dell’uso, contro meno del 20% di quello potabile) e che nessun privato si sobbarcherà una spesa che viene valutata cautelativamente attorno a 60-80 miliardi di euro. Sostanzialmente il servizio idrico domestico non può essere migliorato ed è difficile individuare altri motivi a questa privatizzazione forzata che non quelli del mero profitto per le imprese, non del vantaggio per i cittadini: un piccolo guadagno, però costante per decenni, come la rendita di un affitto. La controprova sta nel fatto che, dovunque in Italia, la gestione privata ha sollevato le critiche dei cittadini e ha, di contro, sempre portato un aumento delle tariffe (basta confrontare Agrigento o Lucca, private, con Milano o Roma, pubbliche; mentre Parigi torna al pubblico dopo anni di privatizzazione).

Il referendum sull’energia nucleare può essere letto in questa stessa chiave: il ritorno all’atomo porterà un vantaggio per i cittadini, per l’ambiente o per il fabbisogno energetico nazionale? L’incidente di Fukushima dimostra che l’energia nucleare non è sicura intrinsecamente: dopo tre mesi le perdite radioattive non sono state ancora fermate e sarà difficile tornare ad abitare in quei luoghi per almeno mezzo secolo. È vero che anche gli altri impianti di produzione di energia sono dannosi per la salute e per l’ambiente, ma quando avviene un incidente in una centrale nucleare sono guai per tutto il pianeta per generazioni (le mutazioni indotte dall’incidente di Cernobil si trasmettono geneticamente, cosa che non accadde nemmeno per le bombe atomiche sganciate sul Giappone).

Ma anche il vantaggio per i cittadini sembra dubbio: già oggi l’energia nucleare è la più cara di tutte, come dimostrano i dati del dipartimento dell’Energia degli Usa (Doe, 11,15 cent/kWh contro i 9,61 dell’eolico e gli 8,03 del gas, con previsioni di divaricazione di quelle forbici al 2020: 14,37 contro 11,32 e 8,05 rispettivamente). Inoltre un impianto nucleare Epr 1600 III plus costa fra 8 e 10 miliardi di euro (stima Areva) e non si considerano qui tutti quei costi che, chissà perché, ci ostiniamo a chiamare «esterni» e che, invece, sono intrinsecamente connessi ai combustibili geologici (anche il nucleare lo è): eventuali incidenti, smantellamento (decommissioning) e inertizzazione delle scorie verranno necessariamente addossati alla collettività (come dimostra il caso giapponese). In queste condizioni la bolletta costerà di più, non di meno, soprattutto in un Paese che dovrebbe impiantare ex novo le centrali. Inoltre l’Italia dovrà importare l’uranio, che prima o poi finirà, esattamente come il petrolio. E anche per l’ambiente non si vedono vantaggi, perché è vero che si riducono le emissioni clima alteranti, ma non esiste ancora al mondo nemmeno un sito per lo stoccaggio definitivo delle scorie. Anche in questo caso il vantaggio è tutto dei gruppi che costruiranno e gestiranno le centrali, che, non a caso, si oppongono fieramente al referendum, perché perdono l’occasione di contrarre un mutuo molto vantaggioso: introiti privatizzati e «perdite» a carico dello Stato. Al di là dei distinguo ideologici, le questioni acqua e energia su cui si voterà si riducono a logiche molto più semplici ed è su quella base che i cittadini possono riappropriarsi di una consapevolezza troppe volte lasciata in altre mani.

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13/9/2011

I tagli poco chirurgici ai bilanci dei parchi

MARIO TOZZI*

Per consolidata tradizione, ambiente e cultura ci rimettono sempre quando la congiuntura economica stringe alla gola. Ma quanto sta accadendo da alcuni mesi ai parchi nazionali italiani rasenterebbe il ridicolo, se non implicasse rischi molto seri per la tutela del patrimonio naturale, e insieme culturale, del nostro Paese. Sono anni che i fondi ordinari riservati ai Parchi e alle Riserve dello Stato diminuiscono (circa 50 milioni di euro nel 2009), ma, dal contesto della scorsa finanziaria, anche quei pochi denari sono spariti, obbligando il Ministero per l’Ambiente ai miracoli per garantirne comunque la sopravvivenza. Si trattava già di pochissimi soldi: alle 23 «perle» naturalistiche del Belpaese andava meno di quanto occorre per costruire 1 km della variante di valico Bologna-Firenze, un’autostrada «tecnica», ma pur sempre un’autostrada. Il risultato è che oggi i parchi possono garantire solo il funzionamento ordinario, cioè il pagamento degli stipendi, o poco più, e vedono pesantemente indebolite le funzioni di tutela e salvaguardia che sono il loro primo obiettivo.

Ma il taglio più cervellotico (e vagamente tafazziano) è quello appena operato ai danni delle indennità dei presidenti, che sono sospese in quanto si tratterebbe di «cariche onorifiche». Nessun compenso percepito nel 2011 e, addirittura, l’ingiunzione di restituire parte di quelli del 2010. Come a dire che avere la responsabilità legale del Parco dello Stelvio equivale alla presidenza di un circolo amatoriale di dama. Come se i parchi fossero centri di spreco che inghiottono denari pubblici senza portare in cambio alcunché, e come se le indennità attualmente a disposizione fossero tanto ingenti da giustificare uno sfrondamento. Quanto sarebbe la cifra risparmiata? Circa 1500 euro per presidente al mese, che, moltiplicato per i 23 parchi nazionali, potrebbe rischiare di avvicinarsi, più o meno, al compenso percepito mensilmente dal Ragioniere Centrale dello Stato firmatario della disposizione (che meriterà senz’altro il suo stipendio, ma almeno quanto se lo meritano i presidenti).

I 23 parchi nazionali italiani sono un esempio di buon funzionamento della pubblica amministrazione e pur avendo budget inferiori a quelli del servizio giardini di una qualsiasi grande città italiana, personale sottodimensionato e sottopagato, scarse possibilità di controllo reale del territorio e, spesso, strutture e mezzi non adeguati favoriscono uno sviluppo economico importante a livello locale e nazionale. Nel 2010 l’unico settore turistico non in crisi è stato quello dei parchi (+16%, con un giro di affari di alcuni miliardi di euro per circa 35 milioni di visitatori). Il 33% dei comuni italiani ha il proprio territorio ricompreso in un parco, percentuale che sale al 68% se si considerano i comuni sotto i 5000 abitanti. Per non dire del fatto che sarebbe bene considerare i parchi prima di tutto come valori e non come prezzi.

E gestire un parco può mettere a rischio anche la propria incolumità personale, come dimostra il recente attacco incendiario contro il presidente del Parco Nazionale del Circeo, reo di aver detto no all’applicazione dell’elefantiaco piano casa della Regione Lazio all’interno dell’area protetta. Per non parlare degli oltre 10.000 ettari di territorio protetto bruciati negli anni scorsi e degli episodi di bracconaggio contro specie simbolo come l’orso marsicano.

In tutto questo si stanno rimettendo le mani su un’ottima legge come la 394 (istitutiva dei parchi nazionali), con qualche dubbio che lo si faccia per migliorarla. A novembre, infine, scadranno molte presidenze di parchi nazionali e non si capisce con quale spirito qualcuno potrebbe aspirare alla riconferma, viste le responsabilità e i rischi contro zero riconoscimento economico. A meno che il reale obiettivo sia quello di ridurre i parchi all’impotenza: cancellarli non si può, renderli non operativi e invisi alla popolazione, quello sì, riaprendo l’assalto speculativo ai territori più incantevoli del Belpaese.

*Presidente del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9189

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25/9/2011

I terremoti non si leggono negli oroscopi

MARIO TOZZI

Proprio mentre il sangue di San Gennaro si liquefaceva nel Duomo di Napoli, la magistratura decideva che la scienza avrebbe dovuto, se non prevedere, almeno dare indicazioni più precise relativamente al terremoto che ha distrutto l’Aquila nell’aprile del 2009.
È vero che negli Stati Uniti una disputa legale fra scienza e Genesi ha avuto una durata trentennale e che qualcuno vorrebbe elevare il creazionismo a disciplina scolastica attraverso i tribunali.

Ma non si era mai visto in nessuna parte del mondo un processo a scienziati colpevoli di non aver preso le giuste misure precauzionali prima dell’unico evento catastrofico, per definizione, imprevedibile. Il tutto mentre la riforma del sistema universitario del ministro Gelmini rischia di maturare uno dei frutti più avvelenati: la sparizione di 25 dipartimenti di scienze della Terra (gli stessi dove si formano coloro che si occupano di sismi) su 31 perché non dotati di una massa critica sufficiente, dunque riassorbiti in altre strutture.

Era possibile prevedere il terremoto de L’Aquila? La risposta è decisamente no, in nessuna parte del mondo si sono mai previsti i terremoti, se si esclude il caso molto particolare del 1975 in Cina, nella lontana provincia di Haicheng. Lì, però, i segnali erano formidabili: sorgenti che si inaridivano, tremori diffusi, crolli e frane, tanto che le autorità cinesi sgombrarono l’intera provincia. Il terremoto effettivamente arrivò e fece «solo» un migliaio di vittime a fronte di centinaia di migliaia possibili. Il regime rese possibile un’operazione che in nessun altro Paese libero sarebbe stata nemmeno ipotizzabile. Tanto meno nel caso aquilano, in cui non c’erano segnali seri o univoci e anche chi preconizzava un sisma lo faceva per un’area generica, centrata peraltro su Sulmona, senza specificare né l’ora né il giorno: cosa si doveva fare, evacuare l’Abruzzo intero? E per quanto tempo? Prevenire certo si poteva, ma questa mancanza è da attribuire interamente agli amministratori che non hanno provveduto a risanare e rinforzare gli edifici o a chi ha operato malaccortamente o in malafede, sicuramente non ai ricercatori del comitato grandi rischi. E certo le cose non miglioreranno se non si rafforzano, invece che indebolire, le prerogative degli scienziati della Terra e dei geofisici, come invece si sta facendo con la riduzione dei dipartimenti.

Del resto questo è il Paese in cui centinaia di romani, nel maggio scorso, si sono allontanati dalla capitale per paura di un terremoto «previsto» da un orologiaio di Faenza, peraltro deceduto trent’anni prima. Ma non dovremmo stupirci più di tanto: alcuni magistrati ci inducono a pensare che si possano prevedere i terremoti (e non che sia basilare, invece, prevenirli costruendo per bene), magari come dovremmo prevedere le mosse della nostra giornata in base all’oroscopo quotidiano, considerato come scienza da milioni di connazionali. E milioni di fedeli in tutto il mondo credono nei miracoli di ogni religione, anche quando quei fenomeni possono essere spiegati scientificamente: nel caso del sangue di San Gennaro basta aggiungere sale da cucina a una soluzione di cloruro ferrico e polvere di marmo (tutti elementi già reperibili nel medioevo) per ottenere una gelatina rossastra che, se viene scossa, diventa liquida. Coltiviamo qualche dubbio sul fatto che questo sia il secolo del progresso scientifico: forse altrove, non in Italia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9240

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