MARIO TOZZI.

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12/8/2010

Senza decisioni il paradiso sarà perduto
   
MARIO TOZZI*


Qual è il futuro dell’isola più famosa del mondo? I nuovi tagli del governo italiano, appena varati, non concedono molte alternative: o l’isola deve essere chiusa per l’impossibilità di esercitare un controllo degno di questo nome - e tanto vale allora blindarla sul serio - oppure tornerà in gioco la speculazione e la volontà di farne albergo di extra lusso per vip e ricchi che non vedono l’ora di violarne la acque trasparenti e i bastioni di granito.

Montecristo è una di quelle isole italiane degne di rilievo mondiale, non solo per il diploma europeo che le è stato conferito per i meriti nella conservazione e tutela dell’ambiente naturale, ma anche perché è l’archetipo dell’isola, l’isola per antonomasia.

Reminiscenze letterarie e la difficoltà di accesso l’hanno resa proibita, e nulla affascina di più al mondo di questa parola. Perfino i quotidiani coreani battono tempestivamente le notizie che riguardano Montecristo, quasi sempre per ribadire che è stata riaperta al pubblico. In realtà l’isola è stata chiusa per decenni e ha funzionato da riserva di caccia per la famiglia reale fino a che non è scampata a progetti di orribili speculazioni edilizie fugati definitivamente da quando è stata ricompresa nel Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Ma oggi la situazione rischia di cambiare. I fondi ordinari dei parchi nazionali sono stati ridotti del 50%, cosa che significa, grosso modo, chiudere la metà dei parchi o licenziare la metà dei dipendenti. La situazione è tanto grave che i presidenti dei 23 parchi nazionali minacciano le dimissioni in massa per non rendersi corresponsabili dello scempio che necessariamente seguirà una mutilazione delle risorse talmente pesante da non garantire più alcuna tutela.

La stoltezza di questa manovra non è solo nell’aspetto ambientale: si può pensare che i nostri uomini di governo non abbiano coscienza di cosa significhi proteggere l’ambiente, o che non gliene importi granché, oppure che qualcuno pensi a speculazioni di varia natura. Sta soprattutto nell’aspetto economico: i parchi nazionali attirano ogni anno 95 milioni di presenze (di cui 30 milioni si fermano più di un giorno), con un giro d’affari di 10 miliardi di euro e con un incremento del 15% nell’afflusso turistico rispetto all’anno precedente. I parchi sono cioè un affare d’oro, anzi l’unico che funziona veramente in questi tempi di crisi. Non si riesce a credere che economisti avveduti possano trascurare questo aspetto che ha permesso, fra l’altro, a realtà marginali di acquisire un peso economico notevole grazie alla protezione della natura, come è il caso di paesini come Villetta Barrea e Civitella Alfedena, sconosciuti ai più e oggi fra i maggiori risparmiatori dell’Italia intera. Invece di incrementare quei fondi a 100 milioni di euro l’anno (poco più di due caffè per cittadino italiano ogni dodici mesi), i nostri governanti abbattono a 25 milioni quella dotazione, con un’operazione che non si sa se più suicida o ignorante. In queste nuove condizioni le perle della natura italiana hanno di fronte un bivio: o vengono di nuovo chiuse alle visite e blindate, per non correre rischi di compromissione, o vengono vendute al migliore offerente per fare cassa.

* Presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7702&ID_sezione=&sezione=

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27/10/2010

Il fragile patto con la geologia
   
MARIO TOZZI

Indonesia, settore settentrionale di Sumatra: il vulcano Toba diede vita alla più terribile eruzione che gli uomini possano ricordare. Poco ci mancò che non fosse l'ultima, visto che, dopo l'immensa ricaduta di ceneri (2800 km3, a confronto il Monte Saint Helens, nel 1980, ne emise uno solo) su tutto il continente asiatico, ci furono cinque anni di freddo polare e dieci secoli senza estate.

Gli uomini si ridussero forse a un paio di migliaia su tutta la Terra, resistendo in enclave localmente più calde, scossi da continui terremoti e tsunami e terrorizzati dal futuro. Questo è stato il nostro ultimo «collo di bottiglia», circa 74.000 anni fa. Ma non sarà certo l'ultimo.

Terremoti di magnitudo superiore a 7,5 Richter, eruzioni vulcaniche esplosive che generano gigantesche nubi ardenti e tsunami che spostano grandi volumi di oceano: cosa sta accadendo in Indonesia? Non ci sono cause contingenti particolari per spiegare questi fenomeni: la quotidiana attività della Terra prevede scenari di questo tipo, anzi, questa sarebbe la normalità di un pianeta per fortuna ancora giovane e attivo. Se la Terra non avesse vulcani e terremoti assomiglierebbe alla Luna, un pianeta sostanzialmente morto. Semplicemente quello che accade in Indonesia è piuttosto la regola per il nostro mondo, anche dal punto vista degli uomini, che si ostinano a vivere nelle regioni più attive (Mediterraneo, regioni costiere in genere) e tralasciano le regioni interne più tranquille. Perché l'attività della Terra è data dall'incastro di un gigantesco mosaico di blocchi crostali (le placche) che producono fenomeni solo dove si separano o dove scorrono le une accanto alle altre oppure dove una finisce sotto l'altra (come è il caso indonesiano).

La sequenza degli eventi naturali del Sud-Est asiatico (che diventano poi catastrofi per colpa nostra) è impressionante: 1797, 1833, 1843, 1861 e 1883, queste le date degli tsunami scatenati da sismi o da eruzioni vulcaniche, l'ultima delle quali, quella della Krakatoa, si risentì con ondate anomale fino a Calais sulla Manica. Per non parlare poi dello tsunami del 2004, che ha aperto gli occhi del mondo sulla realtà di una delle regioni più attive della Terra. Addirittura lo stesso termine geologico lahar (cioè colata di fango), la maggior causa di morte al mondo legata ai vulcani, è stato coniato da queste parti. Il Merapi in eruzione dispensa sempre colate di fango, tanto che, in genere, gli abitanti si guardavano bene dal dormire in vista delle pendici del vulcano.

Terremoti e eruzioni sono la regola, ma ce ne accorgiamo solo ora perché oggi la comunicazione è globale e i fenomeni vengono visti nel loro aspetto drammaticamente spettacolare, non perché in passato non avvenissero. Solo che la memoria degli uomini è troppo corta rispetto a quella della Terra, che scandisce i suoi tempi usando i milioni di anni, mentre noi siamo già a disagio con i secoli. L'umanità è passata attraverso colli di bottiglia micidiali, ma tutti dovuti alla natura del pianeta stesso, alla sua normale attività. Non dovremmo dimenticare che l'Indonesia è un paradigma del mondo attuale, in cui le civiltà (tutte le civiltà, passate e future) esistono solo grazie a un consenso geologico temporaneo. Soggetto a essere ritirato senza preavviso.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8007&ID_sezione=&sezione=

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30/11/2010

Il vertice dimenticato di Cancun


MARIO TOZZI

C’era una volta una bella riunione di uomini di buona volontà che decisero di darsi da fare per ridurre il proprio impatto ambientale sul pianeta. Partirono dal clima, che si stava surriscaldando, e stilarono un protocollo, a Kyoto, che non sarà stato un granché, ma almeno pretendeva impegni precisi e imponeva una legislazione dove prima c’era deregulation assoluta. Quegli uomini si sono riuniti tante volte dal 1992 (anno del primo summit per la Terra a Rio de Janeiro) al 2010 (Copenaghen), ma non sono riusciti ancora a mantenere nemmeno una delle loro promesse. Quegli stessi uomini si riuniscono ora a Cancun, in Messico, nel disinteresse generale. Ma c’è da meravigliarsi se l’attenzione dei cittadini e dei media sia spostata altrove?

Quando si grida all’allarme per tanto tempo e poi non si prende nemmeno una decisione coraggiosa e, anzi, si lascia che le cose vadano come sempre o quasi, il minimo è che la credibilità si perda per strada.

Quando il problema è troppo grande noi uomini preferiamo distogliere lo sguardo, impicciati come siamo in meccanismi più concreti e immediati, come resistere alla crisi economica. Ci si mettono poi anche gli scettici, quelli che, raramente in buonafede, seminano dubbi sul fatto che il cambiamento climatico dipenda dalle attività industriali, richiamando in causa balle spaziali come le macchie solari o i raggi cosmici (che, insieme, assommano al 5%, forse, del forcing attuale sul clima). O coloro i quali aggiungono che l’1% degli scienziati che non concordano sulle responsabilità umane possa comunque avere ragione. La cosa è vera, in linea di principio, ma voi a chi dareste retta se nove dottori su dieci vi consigliassero di operare vostro figlio malato e uno no, suggerendo che sarebbe meglio risparmiare visto che siamo in crisi?

I dati attuali sono preoccupanti. L’anidride carbonica in atmosfera è aumentata del 38% rispetto all’epoca pre-industriale (387 ppm), mentre il metano del 158% e il protossido d'azoto del 19%. Tutti questi gas hanno il potere di riscaldare dal basso l'atmosfera e cambiare il clima e dipendono quasi esclusivamente dalle nostre attività. I ricercatori indicano da tempo cosa fare: ridurre subito le emissioni clima-alteranti (che significa ridurre anche quelle inquinanti in generale, particolare non trascurabile) del 60% per sperare in qualche effetto nei prossimi cinquant'anni (se azzerassimo all'istante tutte le emissioni, la temperatura dell'atmosfera continuerebbe ad aumentare per altri 50 anni a causa della grande inerzia del sistema). A Copenaghen, dove si sono solo posti i fondamenti politici, si era deciso, implicitamente, che le emissioni clima-alteranti dovessero essere ridotte di almeno 12 miliardi entro il 2012. Non facendo nulla, infatti, le emissioni globali al 2020 salirebbero a circa 56 miliardi di tonnellate per anno. Ma per mantenere il surriscaldamento globale al di sotto di 2°C (il livello invalicabile deciso a Copenaghen) le emissioni globali non dovrebbero superare i 44 miliardi di tonnellate al 2020, cioè 12 miliardi di tonnellate al 2012. Questo se si vuole stare sicuri.

Ma che cosa sta accadendo in realtà? Che la riduzione massima a livello globale, entro il 2020, sarà attorno a tre miliardi di tonnellate rispetto alla crescita tendenziale esistente. Questo significa che le emissioni globali al 2020 saranno probabilmente di circa 53 miliardi di tonnellate, un valore totalmente incompatibile con l'obiettivo dei 2°C. Anche in questo caso si saprebbe cosa fare: abbassare le emissioni in casa propria e incentivare su quella stessa via, con denaro e tecnologie, i Paesi non sviluppati. Vi pare stia accadendo? E ci vogliamo meravigliare se nessuno si fila il vertice di Cancun?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8149&ID_sezione=&sezione=

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6/12/2010

Ma fanno più vittime le noci di cocco

MARIO TOZZI

Ci si meraviglia che qualcuno possa essere ancora vittima di un animale supposto feroce all’inizio del terzo millennio, ma poi non si perde occasione per gridare allo squalo assassino.

Con tutto il rispetto per chi ha perduto la vita in un modo orribile, bisogna però ribadire che non esiste alcuna perversione omicida in natura.

E che nessuna categoria morale umana può essere chiamata in causa quando si parla di animali non umani. Gli squali degli oceani di tutto il mondo vengono oggi decimati da una guerra senza quartiere, condotta da uomini che non esitano a mutilarli delle pinne e ributtarli in mare ancora vivi, ma destinati a una morte atroce, solo per soddisfare la voglia di pietanze esotiche remunerative come l’oro.

Sono animali antichissimi e predatori perfetti ormai però in via di estinzione anche a causa di una cattivissima fama non giustificata dai fatti. Ne «Lo squalo» (1975) il predatore è una specie di serial killer dotato di volontà omicida, quando sappiamo benissimo che nessuno squalo attaccherebbe un uomo adulto senza motivo. Nel Mar Rosso gli squali restano spesso imprigionati all’interno della barriera corallina con la bassa marea e lì possono ancora cercare di predare, lasciandosi attirare dalle gambe dei bagnanti di cui non percepiscono il resto del corpo. Il tutto è spesso aggravato da un fatto nuovo: le quantità di rifiuti, spesso residui di cibo, che finiscono in certi tratti di mare e che fanno da pastura per pesci carnivori.

Non esistono certo gli squali vegetariani del cartoon «Alla ricerca di Nemo», ma al mondo si registrano più vittime, ogni anno, a causa della caduta di noci di cocco che non per morso di pescecane (su un centinaio di presunti attacchi, solo una vittima, nel 2007, in tutto il Nordamerica, secondo International Shark Attack File). Eppure non risulta che si stia preparando un film dal titolo «La vendetta della noce di cocco», né che la gente si guardi bene dal prendersi un riposino sotto le palme.

Non c’è niente da fare, il nostro bisogno del mostro da sconfiggere, dal drago o alla belva marina, è sempre in agguato, pronto a riproporsi a ogni occasione, pure se creata da noi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8171&ID_sezione=&sezione=

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12/1/2011

Le false promesse del nucleare

MARIO TOZZI

Un’intensa campagna pubblicitaria, fintamente imparziale, cerca di indurre da qualche settimana nelle teste dei cittadini l’idea che sia ora di tornare all’energia nucleare. Gli italiani si erano peraltro espressi, in assoluta maggioranza, contro già nel 1987, e hanno sempre ribadito, nei sondaggi, la loro generale contrarietà all’atomo. Oggi si cerca di far pensare che il contesto sia cambiato, che è giusto cambiare idea e che Cernobil è ormai lontana. All’interno di un auspicato dibattito di idee il cui risultato, però, sembra già scritto: i tempi sono maturi perché l’Italia abbracci questa forma di energia. Nessuno di questi presupposti è, però, purtroppo vero. Purtroppo, perché chi non vorrebbe una forma di energia potentissima (un kg di uranio arricchito fornisce tutta l’energia di cui un italiano ha bisogno nella sua intera vita), sicura, priva di inquinanti o di emissioni clima-alteranti e magari inesauribile e a buon mercato?

Il contesto non è cambiato rispetto a 25 anni fa, anzi, semmai è peggiorato rispetto alla scelta atomica. La tecnologia è ancora sostanzialmente quella, figlia del lavoro di Fermi negli Anni Quaranta: non esistono impianti nucleari di quarta generazione. È come se, entrando in un negozio di elettrodomestici, chiedeste una radio a valvole. I miglioramenti non hanno impedito incidenti come quello di Tokaimura (Giappone 1999), né che i reattori francesi siano spesso arrestati per problemi. L’Italia dipende forse di più oggi dall’estero per i combustibili fossili, ma l’uranio non evita questa dipendenza, semmai l’accentua, visto che non ne abbiamo nel sottosuolo patrio e che le riserve mondiali sono valutate in 5 miliardi di tonnellate, che basteranno, forse, per ancora mezzo secolo (se non si costruiscono nuovi impianti, altrimenti le scorte si riducono di conseguenza, tanto che si rischia di costruire impianti che non avranno più combustibile, vista la vita media di oltre 40 anni).

I costi sono addirittura, in proporzione, aumentati: una centrale necessita di 8-9 miliardi di euro (stima Areva, che costruisce i reattori Epr) che non si capisce bene quale investitore privato possa mettere in campo. Secondo il Mit il costo medio del capitale nucleare è superiore (10%) a quello delle altre fonti energetiche (7,8%). E secondo Moody’s il prezzo medio dell’energia nucleare è più elevato del gas (+26%), ma anche dell’eolico (+21%), arrivando alla media, per MWh, di 151 dollari. In realtà noi sapremmo quanto costa esattamente 1 kWh prodotto per via atomica solo quando il primo kg di uranio della prima centrale nucleare al mondo sarà reso innocuo. Cioè più o meno fra 30.000 anni. Sono le spese di smantellamento e di inertizzazione delle centrali e delle scorie, le «esternalità» nucleari, del tutto comparabili a quelle del petrolio o del carbone: costi sociali che pagano sempre i cittadini in termini di sanità e benessere.

Il problema delle scorie è irrisolto: non esiste al mondo nemmeno un sito definitivo per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Pensare che un giorno sarà disponibile una tecnologia adatta significa addossare alle prossime generazioni un fardello che nessuno ha il diritto di affibbiare. Non si sa poi bene dove costruire la prossima centrale in un Paese che è sismico, soggetto a rischio idrogeologico e vulcanico, densamente popolato e quasi privo di pianure e di grandi corsi d’acqua. Una nuova centrale Epr necessita di oltre 65 metri cubi al secondo di acqua e non si sa nemmeno se il Po possa sostentarla in eventuali periodi di secca. Resta il mare, con tutti i problemi di inurbamento residenziale che si possono immaginare.

Il ricorso al nucleare è una scelta di grossi gruppi industriali supportati dalle banche d’affari, che non tiene in nessun conto l’ambiente e le esigenze dei cittadini (in Italia la gran parte dei comuni si è dichiarata denuclearizzata). Certo, è lecito fare i soldi sul nucleare, ma li si fanno anche sulle mine antiuomo o sulle armi senza che ciò susciti cori d’entusiasmo. Efficienza energetica nella produzione e negli usi finali dell’energia, migliore coibentazione di case e palazzi (1/3 dei consumi totali, che può essere ridotto del 50-70% senza perdite di benessere, ma solo costruendo meglio e isolando termicamente), eliminazione degli sprechi, risparmio energetico, decentramento: questi sono i comandamenti da seguire oggi. Aspettando magari un nucleare senza scorie o l’idrogeno che verrà.

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