MARIO TOZZI.

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Editoriali

15/10/2012

Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo

L’allerta meteo di Roma ci scopre indifesi e senza alcuna cultura del rischio naturale

Mario Tozzi

Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. 

 

Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile.

 

Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane. 

 

E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve. 

 

E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore. 

 

Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta.

da - http://lastampa.it/2012/10/15/cultura/opinioni/editoriali/nell-attesa-del-diluvio-come-nel-medioevo-LIQyOThdWkkjuNlMkaN44M/pagina.html

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Editoriali
23/10/2012

Terremoti, sarà sempre allarme

Mario Tozzi

Una sentenza assolutamente incomprensibile da un punto di vista scientifico, e profondamente diseducativa. 

Una sentenza con la quale finalmente l’Italia si allinea con gli altri paesi del mondo dove gli scienziati vengono condannati dai tribunali teocratici e il terremoto considerato un castigo divino. Lo stesso atteggiamento usato, quasi due secoli fa, verso gli insorti risorgimentali emiliani cui si imputavano i danni dei sismi insieme allo sconvolgimento sociale. Nell’attesa di conoscere le motivazioni della sentenza possiamo forse puntare l’indice contro qualche parola eccessivamente rassicurante degli esperti, ma solo per invitare comunque a un maggiore riserbo. 

Quello che resta è però un punto di svolta gravido di conseguenze potenzialmente devastanti. Da oggi in poi nella sola Italia, si badi bene, perché una sentenza simile non è neppure immaginabile in altri paesi moderni, a ogni registrazione di uno sciame sismico persistente (diversi all’anno) i ricercatori dovranno allertare la Protezione Civile e obbligare allo sgombero di province e intere regioni. Nel caso specifico de L’Aquila nessuna previsione puntuale era stata fatta e qualcosa si era detto solo a proposito di Sulmona che, peraltro, non subì alcun sisma. La ragione è presto detta: i terremoti non sono ancora prevedibili, nonostante tutti gli sforzi dei ricercatori, e solo se dovessero concorrere fenomeni eclatanti si potrebbe, a ragione, allertare o evacuare. Per intenderci, tremori continui per giorni, rilascio di gas dal sottosuolo, gonfiori o avvallamenti del terreno, frane, sorgenti che si intorbidano e pozzi che si seccano. Questo quadro non era presente nell’Abruzzo del marzo 2009. Che si doveva fare: sgomberare l’intera regione? E quante volte l’anno lo si dovrebbe fare lungo la dorsale appenninica? E, se ci è consentito, chi è il consulente tecnico d’ufficio del Tribunale (il perito super partes), visto che i massimi esperti sismologi italiani sono alla sbarra?

Questa sentenza ci dice che sì, i terremoti italiani sono prevedibili e che si farebbe bene a evacuare intere regioni anche per minimi allarmi. E un domani non fossero disponibili quei testoni di scienziati ci si potrebbe affidare a santoni e divinatori, ché tanto nel paese abbondano. Ci dice altresì che i giudici italiani non hanno un’idea neppure pallida e lontana di cosa sia un terremoto da un punto di vista fisico e credono che si tratti di un fenomeno gestibile come il tempo di domani. Ci dice infine che è inutile fare prevenzione, costruire meglio e rinforzare quanto già esiste: non sfiora la mente dei nostri che un terremoto di magnitudo 6,3 Richter in un paese moderno non dovrebbe far crollare neppure un cornicione e che dunque è tutto l’anno che ci si dovrebbe dare da fare, non solo nel corso di uno sciame sismico perché comunque in quel momento è troppo tardi. Ci dice, infine, che da domani il territorio italiano, che è a rischio sismico al 50% (con punte del 100% in Calabria per esempio), va immediatamente militarizzato perché la popolazione deve essere pronta a evacuazioni ogni volta che si presentino condizioni simili a quelle aquilane. E che nessun esperto si prenderà mai più la responsabilità di guardare con obiettività i dati: sarà comunque obbligato a un allarme che almeno tenga lontano il carcere. 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/23/cultura/opinioni/editoriali/sara-sempre-allarme-Jllnv2e8M5g2C4EJo2MTqM/pagina.html

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13/11/2012 - L’analisi

Il prezzo dei condoni

Rischio idrogeologico troppo alto. Intere zone andrebbero evacuate

Mario Tozzi


Che cosa si può fare in un Paese in cui si verifica uno smottamento ogni 45 minuti e dove, per frane a e alluvioni, muoiono otto persone al mese? In un Paese in cui oltre il 50% per cento del territorio è a rischio idrogeologico e in cui sono avvenuti, nell’ultimo mezzo secolo, circa 15.000 eventi gravi? 

 

In un Paese in cui, infine, le piogge sono cambiate drammaticamente negli ultimi quindici anni (nella provincia di Genova, nel dicembre 2009, caddero 450 mm di pioggia in un giorno, cioè la stessa quantità che cadeva normalmente in sei mesi)? In Italia ci sono circa 6600 comuni ad elevato rischio idrogeologico: il 100% in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria e Valle d’Aosta, il 99% di Marche, Lazio, Toscana e Liguria, oltre il 90% in Emilia Romagna, Campagna e Abruzzo. Secondo il CNR, quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1.600 in 75 anni), dove 230 comuni (da Ricigliano a Sorrento) su 551 sono a rischio di smottamento; le vittime per questi due eventi, negli ultimi 50 anni, sono state quasi 400 sulle 4.000 nazionali. Nella sola Genova 100.000 abitanti vivono in zone a rischio, cioè a dire che un genovese su sei rischia di essere coinvolto in piene e frane. 

 

Sono numeri da primato europeo del dissesto per una ragione ben precisa, l’Italia è il paese in cui più si costruisce e l’unico in cui si condona. Ogni anno circa 500 kmq di territorio nazionale vengono ricoperti di cemento e di asfalto. Cosa che lo rende complessivamente impermeabile alle piogge che, a quel punto, restano in superficie, invece di infiltrarsi naturalmente in profondità, e esondano inevitabilmente. Già le catastrofi naturali non esistono, nel caso italiano sono quasi interamente provocate dall’uomo che il rischio lo crea anche dove in passato non c’era. Rettificazione e cementificazione dei fiumi, insediamenti in aree pericolose, disboscamenti e incendi fanno il resto. Tutto questo in una nazione geologicamente giovane e instabile, nel bel mezzo del cambiamento climatico più grave che si conosca da quando l’uomo organizza attività produttive. 

 

Se però torniamo al che fare, allora non si può non registrare che la prevenzione rischia di non bastare più, perché ormai quello che si doveva fare è stato fatto. L’intervento ingegneristico per bloccare frane e alluvioni potrà funzionare solo in limitati casi: non sono infatti note soluzioni di questo tipo che possano arrestare definitivamente questi fenomeni. Costruire meglio, nel caso del rischio idrogeologico, non serve. Molto spesso, anzi, le opere che si vedono in giro per le nostre montagne producono svantaggi peggiori dei benefici che volevano ottenere. Quei muri bassi di cemento o in pietra che vengono posti di traverso ai corsi d’acqua per limitarne l’azione erosiva, le cosiddette «briglie», non sono solo (quelle «statiche» soprattutto) perlopiù inutili, ma spesso risultano dannose, visto che l’acqua, da cui ci si voleva difendere, poi si scava comunque una strada aggirando la briglia e rendendola instabile. E ancora si parla di messa in sicurezza, come se fosse possibile imbrigliare un’intera catena montuosa come l’Appennino. Come se questa operazione avesse un senso geologico ed ecologico, come se, infine, servisse almeno a qualche cosa.

 

Insomma, si deve dolorosamente capire che da alcune zone a maggior rischio bisogna spostarsi senza se e senza ma. Non lo si farà in un mese e nemmeno in un anno, ma lo si deve mettere in progetto nella pianificazione territoriale. Spontaneamente, seppure dopo secoli di dissesti, lo si è già fatto in tutta Italia: basti pensare al paese di Craco, in Lucania, spostato per frana, o a Pentedattilo, in Calabria, o, ancora, Frattura, in Abruzzo. La delocalizzazione delle costruzioni e delle popolazioni a maggior rischio non può più essere procrastinata, ma deve essere messa nel conto delle scelte politiche future: non farlo significa ignorare colpevolmente la realtà dei fatti. E si deve capire anche che nessun territorio del mondo può reggere il ritmo di cementificazione impresso a quello italiano, dove, ogni secondo che passa, un metro quadrato di superficie viene asfaltata, cementata o disboscata e incendiata. Il consumo di suolo non è solo un emergenza estetica e paesaggistica, è prima di tutto la causa fondamentale delle nostre rovine geologiche.

da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/rischio-idrogeologico-troppo-alto-intere-zone-andrebbero-evacuate-TJvz2c4cepceqilasjIeBM/pagina.html

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16/09/2013

Costa Concordia, una tecnica antica per salvare l’Hi-Tech

MARIO TOZZI

Mentre ancora non sappiamo se anche il più piccolo rischio ambientale sia stato effettivamente scongiurato, né se la struttura dello scafo reggerà alle tensioni, una cosa la sappiamo per certa: sarà la tecnologia più semplice e antica del mondo eventualmente a vincere su quella sofisticata dei moderni supertransatlantici.
 
La Costa Concordia era un gioiello tecnologico che si guidava con un semplice joystick, così come accade ai più moderni jet di linea. 
 
Un paese galleggiante con 5000 abitanti, centinaia di appartamenti, decine di ristoranti, sale da gioco, discoteche, palestre e piscine che viaggia di giorno e di notte a 20 nodi all’ora guidato da radar sofisticati e sala di controllo da stazione spaziale. Un paese intero che si schianta contro scogli ben visibili a causa della bravata tribale di un comandante sbruffone. Questa la triste realtà di un meccanismo che ci può sfuggire di mano da un momento all’altro. E che sembra una legge generale: a un livello tecnologico elevato corrisponde un livello di attenzione sempre più scarso, come a dire che più ci si affida e meno si controlla. E ora siamo tutti lì davanti agli schermi a vedere come centinaia di uomini cerchino di rimettere diritta una nave sì adagiata su un fianco, ma praticamente a terra, non in fondo al mare. Un’operazione mai tentata prima d’ora al mondo che ci descrivono come tra le più complicate. E a cui ci si è preparati per oltre un anno per poi, in fondo, affidarci ai principi più semplici della meccanica, quelli che l’umanità adopera da secoli: gru, martinetti idraulici, leve, funi d’acciaio e cassoni pieni d’acqua. E cinquecento uomini di 26 Paesi, come al tempo dei faraoni. Non una levitazione elettromagnetica, nemmeno una sollecitazione nucleare. Tutto apparentemente semplice. Tutto un po’ paradossale. Una volta completata la rotazione e scongiurate rotture e lacerazioni, che sarebbero esiziali per il delicato ecosistema dell’arcipelago toscano, la nave dovrà essere trainata verso un porto dove rottamarla. Un porto che non c’era: con tutte le navi che circolano nel Mediterraneo non siamo ancora sicuri che un porto italiano sia abilitato alle operazioni. E forse i coreani hanno appena varato un vascello in grado di trasportare sul suo dorso navi di quella stazza: nel 2013, dopo millenni di navigazione, al massimo della tecnologia costruttiva del XXI secolo, cominciamo a sospettare che le navi incidentate devono essere recuperate. Lo stesso accadde giusto 101 anni fa per l’oggetto meccanico più grande costruito fino allora dagli uomini, l’inaffondabile Titanic che, infatti, affondò al suo primo viaggio. 
 
Si dirà che in tutti e due i casi la colpa è dell’uomo e non della tecnologia, semmai di un suo uso non corretto. In fondo, Edward J. Smith viaggiava a tutta velocità nelle nebbie oceaniche e furono comunque i suoi uomini di vedetta a non scorgere l’iceberg, forse per via del freddo, e non i rivetti d’acciaio a cedere perché mal congegnati o mal costruiti. Così come fu Schettino a decidere di fare «l’inchino» sopravvalutando le possibilità di manovra della Concordia e forse ignorando i segnali di pericolo. Ma queste sono scuse parziali, la realtà è che cercando di mettere sotto controllo il mare abbiamo contingentato i tempi e ingigantito le navi, suggerendo vacanze sul mare in cui il mare non è più protagonista. E non lo è nemmeno il comandante, che non guarda più il timone ma solo uno schermo graduato in cui le altre navi sono numeri tutti uguali. Funi, martinetti e contrappesi che fanno ruotare un bestione di 114.000 tonnellate, in cui nessuno dei sofisticati sistemi di navigazione funziona più, ormai ridotto a massa inerte di ferro inutilizzabile: la vittoria della tecnica semplice sulla tecnologia barocca, inutile e ridondante, di cui non abbiamo alcun bisogno.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/16/cultura/opinioni/editoriali/costa-concordia-una-tecnica-antica-per-salvare-lhitech-Y25jwfhBmHi0xckw3S19dK/pagina.html

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Editoriali
01/02/2014

Stessa pioggia, città cambiate
Mario Tozzi

Scrivo con l’ultimo residuo di batteria del mio pc, mentre, a pochi passi da San Pietro, nella capitale d’Italia, molti isolati ed edifici sono senza corrente elettrica da ore. Roma è rimasta quasi isolata: strade consolari allagate, il Gra interrotto, voragini che si aprono dovunque. L’Italia tirrenica è sotto la tormenta e piove in poche ore la stessa acqua che un tempo cadeva in mesi. 

Ma questo ormai lo sanno anche i sassi: bombe d’acqua le abbiamo chiamate un po’ impropriamente, e sono figlie di un tempo meteorologico che si è fatto estremamente variabile e di un clima complessivamente molto più caldo rispetto agli ultimi decenni. E’ gennaio ma non fa freddo: abbiamo avuto temperature atmosferiche fino a 15°C. E, non a caso, piogge torrenziali. E siamo andati vicini al disastro: se oggi piovesse in Arno l’acqua che è piovuta nel novembre del 1966, avremmo danni molto più gravi e vittime a Pisa e a Firenze. 

Se piovesse con continuità lungo tutta l’asta fluviale del Tevere, nemmeno la città eterna sarebbe immune da una dolorosa alluvione che invaderebbe pure il Vaticano, Trastevere e Piazza Venezia. 

Sembra quasi che a ogni pioggia abbondante (per fortuna nessuno le chiama più eccezionali) le cose vadano addirittura peggio. Ma come, non abbiamo ormai tecnologia e strumenti sofisticati per regolarci meglio? Effettivamente le previsioni del tempo sono oggi davvero molto attendibili e gli scenari ipotizzabili con precisione: possiamo seguire l’andamento delle tempeste e individuare i punti di atterraggio dei cicloni.

Ma l’unico vantaggio rispetto al Medioevo è questo, per il resto siamo indifesi rispetto agli eventi meteorologici come secoli fa: uomini in mezzo alla tormenta. Anzi, in un certo senso, siamo più indifesi di allora, perché il nostro territorio è complessivamente più fragile: non sono cambiate solo le piogge, sono cambiate anche le città. 

I corsi d’acqua sono stati fatti sparire sotto la terra e i palazzi, oppure precipitati in fondo ad argini di pietra in cui sono stati dimenticati. E tutto attorno le aree di naturale esondazione dei fiumi, quelle che, da sole, difendono le aree inurbate, sono ormai invase dalle costruzioni. In questo paese si è costruito troppo: ogni anno si asfaltano e cementificano forse duecentomila ettari di suolo, con il risultato di un rischio idrogeologico in progressivo aumento, invece che in diminuzione. 

Perciò non è un problema di tecnologia: di quella ne abbiamo fin troppa e, anzi, l’affidarcisi troppo rende meno pronti al momento in cui, comunque, toccherà affrontare la natura, questo mostro che tentiamo di tenere fuori dalla nostre mura domestiche per undici mesi all’anno, illudendoci invano di recuperarlo solo durante le ferie. E’ una questione culturale: con gli eventi naturali bisogna farci i conti prima di tutto accettandoli. Non saremmo mai immuni, rassegniamoci.

Soprattutto rispetto al clima. E hai voglia a tenere pulite le caditoie, i greti dei fiumi, e i tombini dalle foglie morte e dalla immondizia (tutte cose comunque da fare), qui il problema è che riduciamo queste operazioni a un fatto puramente tecnico, mentre meriterebbero ben altra cura, comprensione e ragionamenti. I romani antichi non si scomponevano poi troppo ad attraversare il Velabro in barca, qualche volta all’anno, e uno dei monumenti più vistati di Roma è la Bocca della Verità (dove non si deve infilare una mano se si è bugiardi), che altro non è che un inghiottitoio per l’acqua di pioggia, cioè un tombino, cui i nostri antenati dedicavano marmi pregiati e sculture dell’oceano con i delfini. Si chiamava rispetto per la natura. E consapevolezza che essere invulnerabili non è prerogativa dei viventi su questo pianeta.

Da - http://lastampa.it/2014/02/01/cultura/opinioni/editoriali/stessa-pioggia-citt-cambiate-LS2AnD5SGAivPE4aLdbqRI/pagina.html

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