PARTITO DEMOCRATICO (dopo il voto).

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Sul palco Il duello

Tremonti sfida i fischi

E Bersani: la sinistra lasciala fare a noi



FIRENZE— Non era partito affatto male. «Sono contento di stare qua», aveva esordito Giulio Tremonti, sorretto da un timido applauso. Ma poi il ministro dell'Economia si è subito complicato la vita. Prima c’è stata un’innocente allusione di stile tremontiano ai contrasti interni al Partito democratico. «Questa è una Fortezza (La Fortezza Da Basso di Firenze, dov'è la Festa del Pd, ndr) — ha detto Tremonti — ed è sempre meglio una Fortezza che un Loft (l'ex quartier generale romano di Walter Veltroni, ndr)». Poi una serie di battibecchi con il pubblico. Che non l'ha risparmiato quasi mai. «Stringi, Tremonti!» E lui: «Se questo è il dialogo per me può anche finire qui». Giù fischi. E più fischiavano, più il ministro dell'Economia raccoglieva le provocazioni. Di nuovo sulla Fortezza. «Nella Fortezza ci sono anche le prigioni, ma per fortuna sono chiuse, così non rischio di finirci dentro...». Altri inevitabili fischi. Insomma, una serata non imprevedibilmente storta. Alla quale, ironia della sorte, il superministro dell'Economia nemmeno avrebbe dovuto essere presente.

L'appuntamento con Tremonti alla festa del Partito democratico era infatti per giovedì prossimo. Ma Umberto Bossi l'ha convinto a seguirlo, tanto l'occasione era importante. Dopo che il leader del Carroccio aveva incassato il via libera del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, punta di diamante nel Pd del fronte degli amministratori locali, doveva essere la prova generale per l'alleanza con l'opposizione sul federalismo fiscale: probabilmente l'unica arma che la Lega Nord ha per forzare la mano con un Silvio Berlusconi che su questo tema non appare concentrato come forse lo stato maggiore leghista vorrebbe e portare a casa, sul serio, la riforma federale. Per questo Bossi aveva voluto al suo fianco il ministro dell'Economia, l'uomo chiave per il successo, anche politico, dell'intera operazione. A cambiare il copione, però, ci ha pensato lo stesso Tremonti, con la fattiva collaborazione dell'eterno duellante Pier Luigi Bersani. «Tremonti, se ha ragione chi dice che per attuare la riforma federale ci vorranno almeno cinque anni, nel frattempo non è che possiamo mangiare pane e federalismo». «Bersani, non possiamo nemmeno mangiare pane e balle...». E via di questo passo.

Con il ministro che attacca chi si è illuso affidandosi «al Dio mercato», pensando di risolvere tutto scacciando «dall'economia» la presenza pubblica. Spiega che il federalismo fiscale significa migliorare i servizi pubblici locali e di conseguenza la vita dei cittadini. Loda il modello Toscana, «che ha un sistema di bilancio e di sanità migliore di altre Regioni», dando così una stoccata al governatore lombardo, Formigoni. Poi cita, cosa che recentemente gli capita non di rado, Karl Marx, ma anche Pier Paolo Pasolini. Chiosando: «L'egoismo si trova bene in ogni luogo...». Frasi che qui forse potrebbero scatenare l'applauso ma che invece cadono nell'indifferenza di una platea decisamente più ben disposta nei confronti di Bossi. Pronta ad accendersi quando Bersani racconta di aver intercettato un giorno sul bagnasciuga un dentista evasore fiscale che candidamente gli aveva confessato il suo profondo sollievo per la fine del governo di Romano Prodi: prova ulteriore, secondo l'ex ministro dello Sviluppo economico, che l'evasione fiscale starebbe riprendendo vigore. E addirittura impietosa nell'applauso fragoroso che accoglie l'ultimo suggerimento indirizzato da Bersani al suo interlocutore: «Tremonti, lasciala fare a noi la sinistra...». Stavolta è uno a zero per il piacentino del Pd. Ma al ministro dell'Economia non mancherà l'occasione per rifarsi. La via del federalismo è ancora lunga e tortuosa.

Sergio Rizzo
25 agosto 2008

da corriere.it

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Bossi, mano tesa ai democratici: federalismo, si deve collaborare

«Dialogo serio, ringrazio il Pd».

Insulti alle bandiere padane, poi applausi al Senatùr

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


FIRENZE — «Iccheccifà qui il Bossi?». Lo stupore dura un attimo, perché al Senatùr seguono in fila indiana Roberto Calderoli, camicia verde choc e pantaloni arancioni, e Giulio Tremonti, in un tripudio di fazzolettini verde padano. Roba da non crederci, visto che siamo alla festa dell'Unità, anzi del Pd. Lo straniamento aumenta quando attacca a parlare Sergio Chiamparino e in platea applaude compunto un ragazzetto tutto ricci: è Renzo Bossi, il figlio del Capo. Non tutto va liscio nella giornata del dialogo, perché è vero che Bossi viene applaudito, ma i momenti di tensione non mancano. Come quando, un leghista, uno del centinaio venuto a sostenere il Capo, in un eccesso di entusiasmo sventola un bandierone del Carroccio. Giù urla e insulti, «viva l'Italia» e «razzisti». Ma dura poco, perché il Senatùr fa un cenno ai suoi e le bandiere scompaiono come d'incanto.

La strategia distensiva viene concordata con un consulto in Direzione, prima dell'incontro. Bossi chiede la complicità di Chiamparino e Bersani: «Mi raccomando, non litighiamo, non ci conviene, teniamo i toni bassi». Seguono «risate omeriche» e scherzi bossiani sulla «montagna che è per vecchi, meglio il mare». Non se lo ricorda più nessuno, neanche lui, ma Bossi a una festa dell'Unità c'era già stato. Era il 6 settembre del '94 e si era a metà strada tra il primo governo Berlusconi e il ribaltone. Allora si era a Modena e, guarda il caso, era venuto a parlare di federalismo con Bassanini e Bersani. A quei tempi venne presa come una strizzatina d'occhio al Pds e ora qualcuno spera che la storia si ripeta. Il Bossi fiorentino ora spiega che occorre «unità d'azione politica»: «Dobbiamo collaborare». Chiamparino raccoglie. Sorrisi d'intesa con Calderoli e applausi. Poi tocca a Bersani, che rispetta a metà il patto di non ostilità: «Se il federalismo si fa bene, è utilissimo al Paese, altrimenti è la sciocchezza finale con la quale chiudiamo il libro». La bozza Calderoli? «Un maiale tutto di prosciutti». Nel senso del libro dei sogni.

Tremonti comincia a infastidirsi, ma Bossi si intromette: «Non fare arrabbiare il mio amico». Poi si alza e dà il cinque a Bersani, che ride e allarga le braccia divertito. Poi continua, aprendo la porta — «Siamo interessati» — e subito socchiudendo: «Non possiamo andare avanti ad armi di distrazione di massa». All'uscita, il contatto tra i leghisti e il popolo del Pd produce qualche scintilla. Battibecchi e battutacce: «Hai rosso anche il culo»; «A Bossi gliele paghiamo noi le spese d'ospedale». Il Senatùr minimizza. La sua strategia è frutto di un dubbio crescente e cioè che Berlusconi abbia ricominciato a pensare ad altro. Tanto che Bossi ironizza sul premier: «L'Ici? Voleva abolirla Veltroni, poi è arrivato Berlusconi a gridare anch'io anch'io». Se il federalismo arranca da una parte, non c'è di meglio che puntellarlo dall'altra. Solo che, dall'altra, c'è il Pd spaccato. Calderoli alla fine, è molto deluso: «Dialoghiamo bene con Chiamparino, con i sindaci, ma non con i dirigenti. Che delusione Bersani, ancora un po' e tirava fuori la falce e martello.
E Veltroni è peggio di lui, era meglio Prodi». Bossi si attarda sul palco e saluta: «Ringrazio il Pd, abbiamo cominciato a dialogare sul serio, è un bel risultato». Daniele Marantelli, deputato del Pd e artefice dell'incursione del Senatùr a Firenze, parlotta con Renzo Bossi: «Mi raccomando, tieni calmi i tuoi». Ma non ce n'è bisogno. E il Capo se ne torna a casa soddisfatto.

Alessandro Trocino

25 agosto 2008

da corriere.it

Admin:
Domenici: «Con noi si fa la nuova classe dirigente Pd»

Simone Collini


«Gli amministratori locali sono uno strumento fondamentale per ricostruire una classe dirigente capace di dare risposte al Paese», dice Leonardo Domenici. «Il Pd deve stare attento a non acquisire i difetti mostrati in questi anni dalla politica nazionale». Che, spiega il sindaco di Firenze, sono «la debolezza e la tendenza a vedere antagonismo e rivalità, anziché collaborazione, in quanti governano i territori».

Chiamparino accusato dagli esponenti del Pd torinese di avere modi autoritari, Cofferati tacciato di avere un brutto carattere: sono problemi personali quelli emersi quest'estate oppure, come dice lo stesso sindaco di Bologna, si tratta di problemi politici che vanno affrontati?
«Per una riflessione che vada un po' in profondità bisogna partire da un po' più lontano e ricordare che nel nostro Paese il primo grande elemento di novità politica e istituzionale fu rappresentata nel '93 dalla legge per l'elezione diretta dei sindaci. I cittadini hanno mostrato di gradire molto quella riforma elettorale e credo che nessuno abbia nostalgia dei sindaci o dei consigli comunali che duravano tre o quattro mesi. Quindi è chiaro che oggi i sindaci hanno maggiori responsabilità e maggiori poteri. Contemporaneamente, nel corso di questi ultimi anni c'è stata una sorta di ricentralizzazione della vita politica nazionale».

Che cosa intende?
«C'è stato un tale indebolimento della politica a livello nazionale che in alcuni momenti si è teso a scaricare sui livelli locali e sui territori la propria crisi e le proprie difficoltà. Pensiamo alla campagna fatta sui costi della politica, sulle amministrazioni sprecone, dissipatrici delle risorse pubbliche. È stato uno dei momenti più infelici e più bassi nel rapporto tra livello nazionale e realtà locali».

Pure falsità?
«Basta guardare i dati Istat per vedere che l'ultima performance dei conti pubblici del 2007 vede i comuni a + 325 milioni di euro».

E lei come se la spiega allora quella campagna?
«C’è una sorta di meccanismo unico che mette insieme politica, poteri economici e finanziari, mondo dei media, altri apparati dello Stato, che si autoalimenta e autoconserva e che tende ad escludere o a fare entrare solo parzialmente altre realtà, come possono essere i livelli di governo locale.

Il Pd, in tutto questo?
«Il Pd deve decidere se la politica deve vivere soltanto in una logica verticistica e centralizzata oppure se deve tornare a basarsi su un rapporto forte con i territori».

Il caso di Torino come lo giudica?
«Emblematico. In fin dei conti tutto è partito da una polemica sulla città metropolitana, sul fatto che Sergio Chiamparino sostiene un certo punto di vista, che io condivido, e c'è stato un parlamentare del Pd che si è invece detto pronto a presentare una proposta di legge perché Torino non stia più nel novero delle città metropolitane. Il punto è: i parlamentari, con una legge elettorale per cui bastava occupare un posto in lista per essere eletti, in che rapporto stanno col territorio? Diventa più importante il rapporto con i sindaci del territorio o con il segretario politico, o peggio ancora con il capo componente che ha garantito quel posto in lista? Questo è un problema che esiste in generale per la politica nazionale e che va posto anche per il Pd».

Come va affrontato, secondo lei?
«Io sono assolutamente contrario sia al partito dei sindaci sia a esasperare il conflitto tra territorio e centro. La scelta giusta non è quella di creare una rivalità o una alterità. Bisogna assorbire nella direzione politica nazionale esperienze di governo locale che sono state e sono importanti. Quindi prima di tutto il problema è aprire».

Secondo lei andare a congresso in tempi rapidi, magari prima delle europee, può contribuire a risolvere il problema di cui parlava?
«La necessità che io vedo è quella di offrire sia a livello nazionale che locale delle sedi vere di confronto e di dibattito, per prendere delle decisioni e poi portarle avanti con coerenza. Siamo a settembre, non so se sia conveniente montare adesso un congresso in fretta e furia, tenendo conto che nel 2009 non abbiamo solo le europee ma andranno al voto 4400 comuni. Insomma, mi sembra che abbiamo già parecchio da fare».

Il voto amministrativo presuppone una discussione sulle alleanze. Come deve muoversi il Pd secondo lei? «Io nel '99 e nel 2004 ho fatto una scelta precisa, quella cioè di costruire una coalizione in cui non fosse presente Rifondazione comunista. E per questo ho accettato di pagare dei prezzi, perché sono dovuto andare al ballottaggio. Si possono avere anche coalizioni articolate, certo. Però l'importante è che i cittadini sappiano che su determinate questioni non si fanno compromessi lessicali ma scelte chiare, precise. L'altro presupposto fondamentale è che siano le realtà locali a decidere, perché non può esistere un orientamento unico che poi viene calato dall'alto sulle singole realtà. Il problema è cercare di avere buoni candidati, fare le primarie, scegliere bene anche dove non si fanno le primarie e poi soprattutto correre per vincere ma anche per garantire un governo delle città stabile».

Parlava di primarie e candidature. A Firenze la discussione è piuttosto accesa…
«Quel che è certo è che in una città in cui alle politiche il Pd ha preso quasi il 49% è difficile pensare che non sia questo partito a esprimere il candidato di una coalizione di centrosinistra. Sì, fare le primarie, ma spetta al Pd l'onere e l'onore di indicare un candidato».

Visto quello che dicevamo prima: al Pd nazionale o a quello locale?
«Penso che prima di tutto sia a livello locale che bisogna avanzare delle proposte. Poi, è chiaro che questo è un discorso che non va fatto in contrapposizione tra i diversi livelli. E poi ci sono precise regole di cui tener conto. Diventa essenziale stabilire il processo, i percorsi, attraverso cui il Pd arriva all'individuazione dei propri candidati».

Alcuni amministratori locali del Pd non firmeranno la petizione Salva l'Italia: lei che farà?
«La firmo, perché un conto è quello che si fa con il nostro ruolo istituzionale, io di sindaco e anche di presidente dell'Anci, e un conto sono le proprie convinzioni e i propri punti di vista politici».

Come presidente dell'Anci, condivide il timore della Cgia di Mestre, secondo la quale con il federalismo fiscale prospettato nella bozza Calderoli i comuni del sud rischiano il collasso?
«Intanto, i comuni italiani sono a rischio collasso se non ci mettiamo d'accordo sulla quantità del rimborso per il mancato gettito Ici sulla prima casa che dobbiamo avere entro la fine di quest'anno. Il collasso dei comuni rischia cioè di essere una cosa molto più attuale».

E del federalismo fiscale che dice? Non è che i comuni chiederanno di reintrodurla, l'Ici?
«Non vogliamo reintrodurre l'Ici, però abbiamo avviato un confronto per superare l'attuale situazione e prevedere un nuovo tributo».

Del tipo?
«Un tributo federale sugli immobili, che possa portare sotto la responsabilità dei comuni pressoché l'intera imposizione immobiliare che oggi c'è nel nostro Paese, che non riguarda soltanto l'Ici. Ci sono molte imposte che vanno direttamente allo Stato e quindi è fondamentale una riforma di questo tipo che individui un nuovo tributo che dia autonomia e responsabilità ai comuni.

Dai primi contatti con Calderoli cosa emerge?
«Su questo punto c'è stata un'apertura da parte del ministro. A settembre bisogna entrare nel merito».

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.33   
© l'Unità.

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29/8/2008
 
Torino, il dito e la luna
 
 
 
 
 
SERGIO CHIAMPARINO
 
Il dibattito che ho sollevato ed anche le polemiche che ne sono nate avevano come obiettivo, esplicitamente dichiarato nella mia lettera al segretario Gianfranco Morgando, di evitare esattamente ciò che, con il solito acume, Luigi La Spina paventa.

L’esperienza torinese di questi ultimi quindici anni può andare dispersa sia per il Centro Sinistra, che non ha certo un diritto ereditario a governare Torino (e questo è importante per me, per molti, ma non per tutti, anzi!) sia, soprattutto, per la Città che in questi anni ha saputo non solo centrare il grande obiettivo olimpico, ma anche misurarsi adeguatamente con la crisi Fiat, realizzare la metropolitana, coniugare in modo significativo e riconosciuto innovazione, attrattività della città e coesione sociale.

Ora tutto ciò può essere messo a repentaglio se invece di proseguire su questa strada, misurandosi con l’importante scadenza del 2011, con le nuove difficoltà della situazione economica ed industriale di cui ha parlato su questo giornale Gianfranco Carbonato, con i vincoli imposti da un bilancio complesso ma tutt’altro che fuori controllo come qualcuno vuol far credere, prevarranno le inevitabili ripercussioni sulle cose da fare degli scontri di potere finalizzati al rinnovo dei vertici istituzionali ed in particolare alla mia successione.

Uccidere il padre, psicoanaliticamente parlando può andar bene, mangiarsi tutta l’eredità no.

Da parte mia, affronterò i temi che ho accennato per questa seconda metà di legislatura in un documento che presenterò al più presto, come mi ero impegnato a fare, in Consiglio Comunale.

Ho poi aperto questa discussione ferragostana, assumendomene anche i rischi, compreso quello di apparire permaloso o debole o distante dai problemi reali della gente, che peraltro credo di non avere dimenticato - come, se si vuole, dimostrano anche le recenti ordinanze sulla sicurezza - anche per un’altra ragione, esattamente opposta a quella che mi viene addebitata. Vale a dire perché sono convinto dell’importanza decisiva dei partiti, a condizione però che siano veicoli di reale rappresentanza di interessi e di valori e non macchine (o macchinette!) distributrici di potere e nemmeno caricature di quelli che sono stati seri e nobili partiti ma che non ritorneranno più. E perché sono convinto che vi siano ancora tutte le condizioni perché ciò non avvenga. Rivolgendomi ai vertici locali del partito, per il rispetto che porto loro ed a tutti coloro che guardano, elettori e militanti, al Pd.

E perché infine sono convinto che, se si vuole che l’esperienza politica torinese possa essere o diventare anche un riferimento nazionale, come l’eco del dibattito suscitata in questi giorni lascerebbe pensare, e non solo per la cronica carenza estiva di notizie, questo passa prima di tutto per il prendere sul serio gli interlocutori locali. C’è chi in questi giorni mi dice: «Tu indichi la luna e loro guardano il dito, lasciali perdere». Può essere. Ma se anche una sola persona a cui si indica la luna (ammesso che sia così!) vede solo il dito, sento la necessità di dirglielo, magari litigando, anche per capire se per caso non sto sbagliando io.

 
da lastampa.it

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Chiamparino: «Pd attento, così perderai Torino»

Ninni Andriolo


«Scontri di potere - aggiunge - che rischiano di pregiudicare l´andamento dell´amministrazione negli anni che restano». A Torino le comunali sono fissate per il 2011, l´anno prossimo si voterà per la Provincia, nel 2010 per la Regione... «Credo che cisia la possibilità di dare continuità alle esperienze positive di questi anni. Ma, voglio sottolinearlo, non c´è un diritto ereditario del centrosinistra a governare. Torino non è Bologna o Firenze, città con forte insediamento della sinistra. Noi raccogliamo mediamente un terzo dei voti e qui tutto dipende dalle alleanze, dal sistema di relazioni e dalle cose che si fanno».

"Continuità" o "ereditarietà"? Chiamparino non rieleggibile che vuole decidere d´imperio il suo successore?
«Sono il primo a comprendere che la continuità con l´esperienza amministrativa non deve significare ereditarietà. Nel cambio delle persone bisogna ricercare soluzioni guardando in avanti, ma senza distruggere ciò che di buono è stato fatto. La continuità va preservata, a meno che non si abbia un giudizio sostanzialmente negativo sull´esperienza di governo locale. L´opinione pubblica cittadina a me pare che quel giudizio negativo non ce l´abbia».

Una divaricazione tra il giudizio della città sul sindaco e quello che circola nel Pd, quindi?
«Io temo di sì. Ma il problema è più generale. Lo stesso che solleva Leonardo Domenici. Non vorrei che si desse una lettura retrodatata del ruolo pure importante delle forze politiche. Alla fine del secolo scorso si è registrato un passaggio fondamentale per la nostra democrazia che oggi, non a caso, non è più sotto la tutela dei partiti».

Per Domenici l´elezione diretta dei sindaci rappresenta il momento della svolta...
«La grande crisi del sistema politico degli inizi degli anni ‘90 può essere interpretata, oltre che per gli effetti della caduta del muro di Berlino o di Tangentopoli, con il fatto che nel nostro sistema democratico - che si reggeva prima sui partiti - si è creato un rapporto più diretto tra istituzioni e cittadini. L´elezione diretta dei sindaci è l´unica innovazione istituzionale di cui la gente si è accorta». Inevitabilmente residuale il ruolo dei partiti, e quindi del Pd, a livello locale?
«La realtà che ho descritto sopra richiederebbe, da parte di chi ha responsabilità di partito, una riflessione attenta per riposizionare il ruolo delle forze politiche in un contesto nuovo. Nella direzione, cioè, della rappresentanza di interessi e di valori e non della sostituzione dei partiti alle istituzioni»

Le cose dell´amministrazione "decise dai consigli comunali e dalle giunte e non già dalle forze politiche", per dirla con Cofferati?
«Esatto. E non si tratta, come potrebbe apparire, di una banale distinzione di responsabilità o di funzioni, ma di un processo di maturazione democratica. C´è stato un lungo periodo in cui i partiti hanno svolto ruoli al tempo stesso di rappresentanza della società e di supplenza, di numi tutelari delle istituzioni. I partiti, cioè, surrogavano i processi decisionali, e non è un caso che si siano trasformati in luoghi di mera redistribuzione del potere. In una certa fase questo è stato utile. Dopo quel meccanismo non ha retto di fronte alla maturazione dell´opinione pubblica».

Non sarà che la realtà è meno complessa e si riduca ai sindaci e ai governatori tentati dall´autosufficienza? Fa un certo effetto leggere di amministratori Pd accusati di autoritarismo...
«I dati caratteriali non possono spiegare i problemi politici di fondo, questi vanno discussi e non celati. Se di fronte ai temi che ho cercato di mettere in evidenza prima le risposte che vengono date sono "sei un oligarca" - così mi sono sentito ripetere pochi giorni fa - o "sei affetto da berlusconismo", allora vuol dire che c´è un problema di analisi politica da mettere a fuoco»

Inevitabile, quindi, che sindaci e governatori catalizzino consensi che annebbiano il ruolo del partito e dei suoi gruppi dirigenti?
«Qui diventa ancora una volta essenziale la distinzione riassunta da Cofferati. Il limite che avverto è esattamente quello di un partito che non è in grado di calarsi sufficientemente nei cambiamenti della società, in modo da riuscire a interpretarli. I partiti devono ricominciare da lì e attraverso l´immersione tra la gente devono saper produrre differenza di opinioni, di orientamenti, di progettualità. A quel punto lo stesso confronto, o lo stesso scontro, per indicare le leadership istituzionali costituirebbero un arricchimento».

Insomma, a Torino c´è un partito che non sta tra la gente e un sindaco Pd che fa l´esatto contrario?
«Se tutto nasce dall´idea di una sorta di ereditarietà del centrosinistra a governare, e se l´unico problema è quello di chi controlla più e meglio il partito, a quel punto rischiano assieme sia Torino che il centrosinistra. E corriamo anche il pericolo di perdere le occasioni per costruire il Pd. O il partito vive di più dentro la città o rischia di rimanere al palo»

Lei ha inviato una lettera molto critica ai vertici del Pd piemontese...
«Ho indicato due temi: un giudizio sull´esperienza della mia amministrazione e l´accenno critico sulle correnti come mera aggregazione di potere. Ci si misuri in modo esplicito. Mi si dica dove non va l´esperienza amministrativa torinese. Ho solo sentito, al contrario, polemiche sulla presunta subalternità ai poteri forti. A questo punto voglio un confronto alla luce del sole. Non chiedo che si dica che sono bravo. Mi interessa, invece, un´analisi critica e una discussione esplicite».

Che cosa le rimproverano e come replica?
«Abbiamo fatto male a intervenire e investire per dare una mano alla Fiat a riportare la produzione a Mirafiori? Abbiamo fatto male a fare le Olimpiadi in quel modo? Se si ritenevano le scelte subalterne bisognava dirlo allora: quando c´erano gli operai in cassa integrazione che manifestavano. Si vuole discutere ora? Benissimo, lo si faccia. Ma lo si faccia apertamente».

L´accusa è: il Pd discute nelle sedi proprie, mente il sindaco interviene a mezzo stampa...
«Se uno ha un ruolo pubblico è fatale che abbia il diritto, ma soprattutto il dovere, di corrispondere con l´opinione pubblica. Nessuno, in ogni caso, può dire che i temi che ho sollevato con una lettera al segretario regionale non li abbia sviluppati anche nelle sedi di partito. Ricordo l´assemblea regionale di sei mesi fa o la direzione del dopo voto nelle quali dissi esplicitamente in positivo quello che ho detto in negativo a Morgando...» E cioè?
«Hai vinto le primarie, anche se di poco, e sei il segretario. Si azzerino le divisioni del 14 ottobre, porta avanti tu un percorso che rimescoli le carte e consenta a tutti di sentirsi protagonisti. Non ho fatto mancare il mio contributo al partito. Recentemente, poi, ho condito questi temi con un messaggio forte: se con me non si vuole discutere apertamente non vado alla festa del Pd».

Alla fine andrà, però...
«Si, è stato fissato un dibattito sui temi che ho posto e raccolgo volentieri l´occasione che mi viene offerta».

Torino, intanto, deve fare i conti con le casse vuote del Comune... «Non ci siamo certo indebitati per andare al Casinò. Non si può dire che Torino ha fatto cose buone e poi puntare il dito contro i debiti del Comune. L´operazione Fiat è costata al sistema degli enti locali 70 milioni, quella olimpica qualcosa che si avvicina ai 350-400 milioni. La metropolitana il 40% di un miliardo e duecento milioni di euro. E queste sono solo le cose grosse. Insomma, non è che i soldi li abbiamo buttati via. Su questi problemi, poi, si innesca una politica che, diciamo la verità, anche prima di Berlusconi non è stata mai molto mite nei confronti dei comuni. Nasce anche da qui il fatto che il federalismo fiscale possa essere un elemento di modernizzazione del Paese».

Lei è un sostenitore convinto del federalismo fiscale...
«Il processo più innovativo di un percorso di riforma fiscale è quello di dare più risorse e più funzioni ai grandi centri urbani, perché è lì che può pulsare lo sviluppo. Se non si definisce un ruolo preciso dei grandi sistemi urbani manchiamo uno degli appuntamenti più importanti».
Lei fa parte del governo ombra Pd. C´è chi chiede il congresso anticipato del partito, è d´accordo?
«Se il congresso avviene nelle attuali condizioni non vedo cosa possa cambiare, il rischio anzi è che si peggiori la situazione. Diverso è se si aprisse un confronto politico su alcuni nodi di fondo. In genere prima si fanno emergere i nodi politici e poi, semmai, li si affronta in un congresso. In modo tale che questo non si traduca semplicemente in una nuova conta, in una ridefinizione di gruppi e gruppetti che continuano a non fare uno sforzo per misurarsi con la realtà. Io, ad esempio, non ho ancora capito dove andranno a sedersi in Europa i nostri parlamentari, o il profilo del Pd sui temi cruciali della laicità, della bioetica, ecc. Siamo ancora un partito che ha difficoltà a dire che cosa fa sulle coppie di fatto...Il congresso? Se serve a dipanare questi nodi facciamolo. Altrimenti non serve a nulla la semplice risistemazione delle vecchie figurine in un album nuovo».

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 31.08.08 alle ore 10.54   
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