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I sindaci del Nord: «Facciamo un Pd "padano"»


I sindaci del Nord, da Cacciari a Chiamparino, l’avevano buttata là subito dopo la discesa in campo di Veltroni. E ora dopo il boom della Lega tornano alla carica. «Serve un Pd tagliato per il Nord», dicono. E sono in parecchi a pensare che i democratici, pur rimanendo federati a livello nazionale, dovrebbero mettere in piedi la loro costola padana autonoma.

«Un Pd del Nord? È un progetto giusto, lo dico da anni – ricorda il sindaco di Venezia Massimo Cacciari – Ed è certamente realizzabile, basta volerlo». A volerlo, è il sindaco di Bologna Sergio Cofferati: «Io penso a un Pd federale e non confederato – spiega – che guardi a una dimensione macro-regionale». Ma Cacciari mette già i paletti: «l'Emilia Romagna – dice – non c'entra nulla con il Pd del Nord, è un problema del lombardo-veneto». Chiude il cerchio Sergio Chiamparino, primo cittadino torinese: «Autonomia e decentramento servono non a chiudersi nelle ridotte valligiane ma per fare, realizzare, stare nella competizione».

Ma quella di un Pd del Nord non è solo un’idea dei sindaci. Anche chi sta a Roma sente che è arrivato il momento di una svolta. «Non c'è dubbio – spiega il vicepresidente della Camera Pierluigi Castagnetti – che ci sono delle peculiarità territoriali che non possono non condizionare l'offerta politica e la domanda di federalismo sta crescendo in termini molto forti». D’accordo anche Marina Sereni, vicecapogruppo uscente del Pd alla Camera: «Ci sono – spiega – somiglianze su tematiche economiche, sociali e infrastrutturali che giustificano una scelta di questo tipo e conseguentemente una maggiore autonomia di elaborazione e di organizzazione al Pd sul territorio».

I segretari regionali del Pd si incontreranno per la prima volta dopo le elezioni il prossimo lunedì. Non a caso, a Milano.

Pubblicato il: 18.04.08
Modificato il: 18.04.08 alle ore 16.42   
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POLITICA L'EDITORIALE

Il Nord e il Pd


NEL Paese che cambia, ci sono riforme che non costano nulla, se non un atto di coraggio. Esempio: andare da un notaio, e firmare l'atto di nascita del Partito Democratico del Nord, federato al partito nazionale, con il sindaco di una grande città come segretario. Una forza politica leale a Veltroni ma autonoma, coerente col Pd nei valori ma indipendente nelle sue priorità e nei suoi programmi, soprattutto insediata nella zona italiana del cambiamento, e capace di una sua specifica rappresentanza: in uomini, interessi, esigenze e problemi.

Tutto questo non nella convinzione che il Nord si sia consegnato alla destra per sempre. Anzi. Il voto, rovesciando il cannibalismo con cui Berlusconi si cibò della Lega nei primi anni della sua avventura, vede, al Senato, il Pdl calare di 70mila voti in Piemonte, di 254mila in Veneto, di 236mila in Lombardia, a vantaggio della rimonta bossiana. E il Pd, che cresce di 295mila consensi in Lombardia e di 72mila in Piemonte, è pari ad ognuno dei suoi avversari in tutto il Nordest, ed è addirittura primo in tutti i capoluoghi veneti, Vicenza, Verona e Treviso compresi.

Ma il nuovo partito "metropolitano" non arriva al popolo minuto del capitalismo personale che innerva di innovazione e modernità l'area della Pedemontana, né al reddito fisso nordista colpito dalla crisi nella sua rappresentatività sociale. Non è vero che questo sistema economico e sociale rifiuta la politica, perché nella presenza capillare della Lega unita al populismo berlusconiano ha cercato comunque una ipotesi politica di rappresentazione, di interpretazione e di tutela del suo mondo.

Il problema della sinistra è che è esterna prima ancora che estranea a questa trasformazione molecolare del lavoro e della produzione, perché ferma ad una concezione fordista, "evoluzionista", dove la piccola impresa è solo l'impresa da piccola e non un soggetto della modernità, che opera nei luoghi del cambiamento, produce beni immateriali come informazione, servizi, finanza, conoscenza: leve di nuove figure professionali, nuovi saperi, nuovi diritti, nuove domande.

Da questa metropoli diffusa, come anche da Milano, la sinistra non può rimanere fuori, se vuole essere credibile come soggetto del cambiamento. Non può regalarla alla destra, né può pensare che la destra sia lì per caso. Un'offerta di culture diverse può arricchire la zona più ricca d'Italia, nell'interesse del Paese. Forse il Pd del Nord non servirà per vincere, ma servirà per vivere, o almeno per capire.


(18 aprile 2008)

da repubblica.it

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L'ITALIA DOPO LE ELEZIONI

La comunità e il mercato


di Dario Di Vico


Il successo del centrodestra per le sue dimensioni si presta a riflessioni di lungo periodo sui rapporti tra politica e società civile. E vale la pena iniziare addirittura dal compito di mediare le relazioni tra individuo e mercato che il sindacato e la sinistra sociale si sono assunti nel Novecento. Quando hanno caricato su di sé, in maniera pressoché istituzionale, l'onere di rallentare la velocità del cambiamento ed evitare l'impatto violento tra le leggi dell'economia e la condizione del singolo. Per una lunga fase questa dialettica degli opposti è riuscita a generare un valore aggiunto e il nostro compromesso sociale che esaltava funzione e ruolo dei corpi intermedi è stato persino lodato dall'Europa come pratica d'eccellenza. La storia degli accordi di moderazione salariale degli anni Novanta e l'appoggio convinto della sinistra politica all'ingresso nell'euro (in precedenza il Pci si era opposto allo Sme) segna forse il punto più alto di questa esperienza.

Il compromesso sociale all'italiana non ha retto però alla prova della nuova modernità. Innanzitutto il filtro gauchista e sindacale si è ispessito fino a trasformarsi in ostruzione e potere di veto. In termini economici tutto ciò ha reso prima elevato e poi insostenibile il costo della non modernizzazione e il differenziale di competitività con i sistemi fratelli. Sull'altro versante le dinamiche di globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia hanno inasprito la percezione del mercato. Il padrone è diventato invisibile e l'economia si è fatta canaglia. Sono fioriti neologismi come ipercapitalismo, turboliberismo e via di questo passo a segnalare la distanza siderale tra il potere del denaro e la sua utenza di massa. Agli occhi di consistenti quote di popolazione il mercato, che per almeno 20 anni era cresciuto nella considerazione dell'opinione pubblica fino a diventare valore in sé, ha cominciato a perdere appeal. La richiesta di allargamento degli spazi di libertà economica ha cominciato a risuonare alle orecchie dei vinti della globalizzazione non più come elogio dello spontaneismo economico, inclusione, allargamento delle chance, riduzione del potere statale ma al contrario come dittatura dell'economico, supremazia della ragion globale sulla condizione del singolo. Esemplare di questo cambio di percezione è il titolo, «La solitudine del cittadino globale », che venne messo qualche anno fa alla traduzione italiana di uno dei primi volumi di Zygmunt Bauman.

Ma il cittadino globale — sia il metalmeccanico di Mirafiori o l'artigiano di Schio che con il loro voto hanno reso possibile il successo della Lega Nord — non vuole vivere da solo e chiede perentoriamente nuovi filtri, nuovi strumenti di intermediazione tra lui e il dio mercato. La competizione globale lo terrorizza, la strumentazione politica e sindacale del secolo scorso gli pare obsoleta, i modernisti non riescono a scaldargli il cuore e così riscopre i valori del territorio e della comunità. E ricrea le condizioni, dopo la morte della Dc, di un nuovo interclassismo, stavolta su base dell'identità locale. Comunità è già di per sé una parola che suona calda e le prime analisi dei flussi elettorali ci dicono che riesce addirittura a sostituire nel cuore degli operai rossi la mitica Classe perché evoca una solidarietà collettiva che promette di accompagnarlo dalla culla alla tomba, come si vantava di saper fare la socialdemocrazia dei tempi d'oro.

Il rischio che la comunità sostituisca la vecchia sinistra e le confederazioni del lavoro, che il verde subentri al rosso ma che i costi della non modernizzazione invece di scendere salgano, c'è tutto. E del resto mentre sindacati e imprenditori del '900 avevano nel fordismo almeno una grammatica comune, oggi è difficile rintracciare un alfabeto della globalizzazione nel quale si possano riconoscere le parti in causa, i ceti medi padani impauriti e le élite cosmopolite che dormono in Italia una notte su tre. La forza di coesione rappresentata dall'identità di territorio se giocata contro l'integrazione e l'apertura del sistema Paese può rivelarsi un gigantesco autogol, la moltiplicazione di tante piccole società chiuse capaci tutt'al più di rallentare i tempi del proprio inevitabile declino. Ma non è detto che sia così. Il senso di appartenenza a una comunità può anche rappresentare un fattore competitivo e la straordinaria storia dei distretti industriali sta lì a dimostrarlo. Perché non resti un'esperienza isolata forse tocca a quelli che polemicamente vengono chiamati i mercatisti un sovrappiù di elaborazione culturale. La capacità di prospettare al cittadino impaurito un mercato capace di fornire comunque una seconda chance.


18 aprile 2008

da corriere.it

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19/4/2008
 
La crisi che verrà
 
PIETRO GARIBALDI

 
In questi anni ai sindacati e ai rappresentanti dei datori di lavoro spettava il compito di riformare il modello contrattuale.

Questa importante riforma non è invece ancora stata portata a termine. E' un'occasione mancata. Non è semplice dire quanto del mancato accordo sul modello contrattuale sia addebitabile ai sindacati e quanto ai rappresentanti dei datori di lavoro. E' però indubbio che le divisioni all'interno dei sindacati confederali hanno pesato molto.

Certamente non è un buon momento per i sindacati italiani. La trattativa per la vendita di Alitalia a Air France, al di là dei sussulti della politica, ha subito un'interruzione cruciale quando la compagnia francese si è ritirata improvvisamente davanti alle richieste dei sindacati di Alitalia. Questa settimana, con il sorprendente risultato delle elezioni e la sonora sconfitta della Sinistra Arcobaleno, il sindacato ha poi visto sparire dal prossimo Parlamento italiano un suo storico alleato.

In un'importante parte della società vi è un diffuso malessere per il ruolo dei sindacati. Universalmente riconosciuti come organizzazioni con formidabili capacità di mobilitazione delle masse, i sindacati sono spesso visti dall'opinione pubblica come una forza conservatrice. L'immagine diffusa è quella di un potere che protegge gli interessi di una minoranza di lavoratori super tutelati e impiegati nella grande industria e nel settore pubblico, ma troppo poco riformista quando si tratta di difendere i lavoratori più giovani, spesso occupati in condizioni precarie e bloccati in una trappola di contratti a tempo determinato. Questo sentimento di sfiducia verso i rappresentanti dei lavoratori ha recentemente spinto Stefano Livadiotti a intitolare un libro sul sindacato «l'altra casta», da affiancare alla prima casta, quella politica di cui tanto si è parlato in questi ultimi anni.

Dei sindacati non si può certamente fare a meno e una società senza sindacati non sarebbe una società migliore. In molti momenti della storia repubblicana, e negli anni bui del terrorismo in particolare, i sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale. Oggi però devono diventare più rappresentativi.

Un problema di rappresentanza esiste però anche tra i datori di lavoro. Così come molti sindacati finiscono per identificarsi soltanto con una piccola parte di lavoratori e pensionati, anche le associazioni dei datori di lavoro danno voce solo a una piccola parte del mondo delle imprese.

Uno dei problemi italiani è l'ossessione della concertazione. Quei lunghi tavoli di discussione a Palazzo Chigi sono un'abitudine tutta nostra e spesso poco utile. Sarebbe importante che sindacati e datori di lavoro si concentrassero esclusivamente sui problemi legati al mondo delle aziende e dei lavoratori e al sistema di relazioni industriali, lasciando al Parlamento e alle forze politiche il compito di comporre gli interessi complessi delle società moderne.


Pietro.garibaldi@carloalberto.org

da lastampa.it

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POLITICA

Dure repliche di Cgil, Cisl e Uil all'attacco del presidente di Confindustria

Bonanni: "Sterile populismo", la Fiom: "Risponderemo sciopero per sciopero"

I sindacati a Montezemolo "Estremista, soffia sul fuoco"

 

ROMA - L'attacco di Montezemolo ha suscitato la pronta reazione dei sindacati. Tra sarcasmo e dichiarazioni battagliere, i "professionisti del veto e del no", come li ha definiti il presidente uscente degli industriali, accettano la sfida e rilanciano. Molto dura la replica del leader della Cgil, Gugliemo Epifani. "Con le sue dichiarazioni il presidente di Confindustria sta soffiando sul fuoco di una condizione sociale molto pesante con un linguaggio estremista e, come spesso gli capita in quest'ultima fase, senza alcun rispetto per il ruolo degli altri soggetti sociali: atteggiamento, questo sì, di casta".

"La Cgil - prosegue il segretario - lo lascia solo in questo esercizio di estremismo e non si fa trascinare sul terreno della rissa ma lavorerà, come sempre, per migliorare le condizioni retributive e i diritti dei lavoratori, a partire dai temi della sicurezza sul lavoro. Lo lasceremo solo anche nella scelta di campo politica che ha prontamente assunto". Montezemolo però, conclude Epifani, "dovrebbe spiegare cosa significa confondere il voto dei lavoratori, la loro adesione al sindacato, che non è stata messa in discussione, e gli interessi dell'impresa".

Attacca anche Giorgio Cremaschi, della segreteria nazionale della Fiom (i metalmeccanici Cgil): "La sfida di Montezemolo è totalmente accettata, fabbrica per fabbrica, sciopero per sciopero". Sarcastico il commento del leader della Uil, Luigi Angeletti. "Lavoratori più vicini agli industriali che ai sindacati? Se fosse così - dice - saremmo tutti contenti. Gli industriali trattassero meglio i lavoratori, così questi saranno ancora più vicini...". Poi aggiunge: "Gli dessero più soldi, visto che li pagano molto poco". No comment invece per quanto riguarda le affermazioni di Montezemolo sui sindacati "professionisti del veto": "Montezemolo è a fine mandato - ha chiuso Angeletti - vediamo cosa dice il prossimo presidente".

Dura replica anche da parte del segretario della Cisl Raffaele Bonanni. "Si tratta di un attacco ingeneroso e generico - ha detto - chi è senza colpa scagli la prima pietra. Così facendo - ha aggiunto il leader della Cisl - si bloccano solo i necessari processi di riforma e si fa il gioco di chi non vuole cambiare nulla. Non è con il populismo o peggio cavalcando le campagne strumentali contro il sindacato che si risolvono i problemi del Paese e delle imprese".

(19 aprile 2008)

da repubblica.it

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