LEGGERE per capire... non solo la politica.

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Piero Ignazi

L'inganno populista


L'attacco di Berlusconi a Napolitano e ai magistrati frutto di una cultura che rifiuta l'esistenza di autorità terze e autonome.

Quando verrà eletto il nuovo presidente americano, come sempre, non ci sarà nessuna proclamazione solenne. I 'grandi elettori', coloro ai quali spetta formalmente di sigillare il voto popolare, non si riuniscono mai a Washington per la cerimonia ufficiale; rimangono ciascuno nei loro Stati ed effettuano la proclamazione riunendosi nella capitale dello Stato.

Perché questa separazione fisica tra l'eletto e gli elettori? Perché, come avevano prescritto i padri fondatori della Costituzione americana nella loro ammirevole saggezza, un uomo investito di tanto potere qual è il presidente, è meglio non senta troppo dappresso il calore e l'entusiasmo degli elettori: può essere inebriato dal sostegno della folla e indotto a travalicare i limiti posti al proprio potere. Del resto già gli antichi romani facevano sfilare i condottieri vittoriosi lungo i fori imperiali accompagnati da uno scudiero che, reggendogli l'alloro, gli sussurrava "memento te esse hominem": ricordati che sei un uomo, non un dio immortale. I costruttori della democrazia americana conoscevano bene i rischi dell'entusiasmo popolare: temevano lo stordimento procurato da una folla osannante, la debordante pulsione ad assecondare i suoi desideri, l'identificazione del proprio volere con la volontà generale. Per questo hanno tenuto lontano il loro presidente dall'assemblea degli elettori.

Separare, dividere, controbilanciare i poteri: questa la triade costituzionale americana. Dagli Stati Uniti ci separa un oceano di tradizioni e di cultura politica, ma alcuni insegnamenti hanno valore universale. L'importanza dei checks and balances e dell'austerità del potere, connessa con la diffidenza per l'adulazione del (e dal) popolo, sono tra questi. Insegnamenti purtroppo trascurati nel nostro Paese. Da circa un ventennio, in Italia la separatezza tra i poteri e il rispetto per le rispettive sfere di intervento si sono attenuate. La magistratura, ad esempio, si è investita del ruolo salvifico di
 'fare giustizia' della criminalità organizzata, lasciata prosperare dal potere politico, e poi dei partiti stessi. Ma questi interventi, spesso debordanti e troppo esposti ai sentimenti del pubblico, almeno si ispiravano all'imperio della legge e perseguivano interessi generali e collettivi. Il peggio è venuto dal crollo dei partiti storici della cosiddetta prima Repubblica. Per quanto fossero corretti e autoreferenziali avevano però tutti un impianto cultuale solido e avevano assimilato, volenti o nolenti i principi fondamentali della democrazia parlamentare. La loro scomparsa e l'irruzione degli Hyksos leghisti e forzitalioti hanno messo in tensione il sistema istituzionale.

I nuovi arrivati erano estranei alla cultura politica liberal-democratica per quanto ne vantassero l'appartenenza. Erano, tecnicamente, populisti. Valorizzavano la sovranità popolare al di sopra - e quindi contro - la divisione dei poteri. L'appello al popolo doveva sormontare le resistenze degli organi costituzionali qualora questi si opponessero al volere della folla medianicamente e mediaticamente interpretata dal leader, dal capo.

Le convulsioni successive alla caduta del primo governo Berlusconi nel dicembre 1994 rappresentarono la prova generale del sorgere di questa visione stringentemente populista del sistema politico italiano. In questa visione il potere giudiziario diventava illegittimo perché privo di una unzione popolare. Come si permettono dei magistrati 'indipendenti' dal volere del popolo, di giudicare gli eletti del popolo? Il cortocircuito populista era innescato.

Nel suo furore iconoclasta il populismo tracima su ogni istituzione e ogni contropotere. Non può esistere una autorità terza, autonoma, indipendente, che controbilanci le altre. Tutti i poteri devono promanare da una sola fonte - il popolo - e ad essa adeguarsi. Di conseguenza, la Corte costituzionale è un'arma impropria del conflitto politico, non un organo di garanzia. E laPresidenza della Repubblica un covo di nemici del popolo, non un'istituzione di equilibrio, di unità e di raccordo. In fondo, l'attacco ad alzo zero di Silvio Berlusconi al Quirinale e agli altri organi dello Stato è perfettamente coerente con la sua cultura politica e con quella di buona parte del suo schieramento. Per loro il voto assume il valore di un'ordalia terrena, di uno scontro assoluto e totale; non è uno strumento per la scelta dei rappresentanti ed, eventualmente, del governo che, comunque, devono essere controllati e limitati da altri poteri.

È quest'incomprensione di fondo dei principi del costituzionalismo da parte di buona parte della classe politica italiana che rende instabile il nostro sistema; e, purtroppo, ancora diverso da tutti quelli delle democrazie consolidate.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it

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POLITICA

L'ex pm conferma l'allenza ma "chiarire linea del Pd su giustizia, informazione e conflitto di interessi.

Altrimenti gruppi parlamentari autonomi"

Di Pietro affonda il gruppo unico "Chiediamo incontro con Veltroni"

Il leader dell'Idv seccato per l'incontro con Casini. "Poteva incontrare me..."

In ballo anche un milione di euro di rimborsi per il funzionamento dei gruppi

di CLAUDIA FUSANI

 

ROMA - "Cerchiamo un matrimonio di affetto e non di puro interesse. C'è una parte del Pd che ci vuole e una che non ci vuole. Quale prevale?". A tre giorni dallo scrutinio elettorale, forte di un buon successo personale di fronte a un Pd in cerca di assestamento, Antonio Di Pietro convoca una conferenza stampa per mettere in chiaro alcune questioni, "confermare l'alleanza" ma anche alzare paletti. Primo fra tutti: "Chiediamo di incontrare il segretario Veltroni - dice Di Pietro - per avere chiarimenti". Ad esempio: "Il loft ha parlato di governo-ombra. Noi dell'Italia dei valori non ne sapevamo nulla. Quale incarico è previsto per noi? Oppure intende farlo con l'Udc per mettere Cuffaro alla giustizia".

Da qui, da questo incontro, passa il destino dell'alleanza Pd-Idv e la promessa, sottoscritta prima del voto, di dare vita a un gruppo parlamentare unico. Un patto che Di Pietro conferma e caldeggia parlando di "alleanza programmatica" e di obiettivi condivisi come "un modello politico riformatore". E però, si scalda il leader dell'Idv, "visto che Veltroni ha già incontrato Casini vorrei che incontrasse anche noi per parlare, appunto, di governo ombra. E per sapere quale linea su giustizia, informazione e conflitto di interessi.... Se poi la linea del Pd non sarà compatibile con la nostra, noi faremo il nostro gruppo autonomo". Insomma, il gruppo unitario si vede "prima nei contenuti che nel contenitore". La posta in palio è molto di più di quello che sembra. Non è solo Di Pietro che se ne va per conto suo e lascia il Pd, tanto perso per perso... Riguarda, ad esempio, la progettualità politica futura del partito democratico.

Prima della conferenza stampa Di Pietro aveva riunito l'esecutivo del partito. L'ex pm ha illustrato due ipotesi: quella di dar vita ad un gruppo unico insieme al Pd e quella di costruire un gruppo autonomo. L'idea di andare da soli è sembrata prevalere anche per motivi tecnici: l'opposizione ha più gruppi e quindi più forza durante le riunioni della capigruppo delle due camere.

L'ex pm ne ha fatto, con i suoi, anche una questione di visibilità: "A che ci serve questo gruppo unico? Io
voglio parlare e se mi nascondo non mi vedono neppure. Voglio sapere chi sarà nominato alla Commissione giustizia e chi alla Commissione di vigilanza Rai". Insomma, Di Pietro - e chi è stato eletto con lui, da Beppe Giulietti a Evangelisti, da Pancho Pardi a Silvana Mura - ci vogliono essere e vogliono contare.

Opportunità politiche e visibilità a parte, nella scelta potrebbe pesare anche la questione puramente economica. "Non siamo certo qui a fare una questione per tre segretarie e quattro cadreghine (seggiole ndr)" precisa Beppe Giulietti. A prescindere dal gruppo unico, Idv incasserà circa 20 milioni di rimborsi elettorali ogni anno per tutta la legislatura (a cui si aggiungono, per i prossimi tre anni, gli altri rimborsi della legislatura appena conclusa).

Dando vita ai propri gruppi parlamentari alla Camera e al Senato rimborsi e benefici sono destinati ad aumentare. L'ex pm ha 29 deputati e 14 senatori e servono soldi per metterli in condizione di lavorare: segreterie, portaborse, consulenti, auto, uffici. Così, nel caso desse vita ai propri gruppi, tra Camera e Senato Italia dei valori riceverà complessivamente più di 1.000.000 di euro l'anno nonché i fondi necessari ad assumere una ventina di persone, addetti alle segreterie, uno ogni tre eletti (9-10 alla Camera;4-5 al Senato).

Avere i gruppi garantisce anche un segretario di presidenza sia a Montecitorio che a palazzo Madama: per ognuno oltre 4.000 euro al mese di indennità, la possibilità di assumere almeno 5 persone, l'utilizzo dell'auto di servizio e altri benefit. Politicamente la costituzione del gruppo consente di avere un rappresentante negli uffici di presidenza di tutte le
commissioni e giunte. Insomma, tra un rimborso e l'altro, si tratta di un milione di euro che altrimenti sarebbero andati al Pd e al funzionamento dei 335 deputati democrat. Dal punto di vista dei tesorieri, fa la sua differenza.

(17 aprile 2008)

da repubblica.it

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Il sindaco di Genova: "Perso il nord perché il Pd non è un partito federale"

Marta Vincenzi, primo cittadino del capoluogo ligure, analizza il risultato dell week end elettorale.

«Non abbiamo avuto il tracollo, ma la situazione politica è seria e abbiamo perso il Senato».

Tuttavia la Liguria può essere il punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia rileggere i bisogni della gente»

di Donatello Alfonso


 Genova dove il centrosinistra regge «perché la gente sente di essere governata, e riconosce con il voto qualcosa che trova tutti i giorni, pur con i limiti che sicuramente ci sono». Genova che può essere, ancora una volta, un punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia definire sinistra la capacità di rileggere i bisogni della gente; e per farlo abbiamo bisogno di tutti, anche di quelle forze della sinistra che non sono più rappresentate in parlamento, ma negli enti locali sì, e dove devono restare, a partire dalla mia giunta», dice la sindaco di Genova Marta Vincenzi.

La prossima visita del presidente Giorgio Napolitano, il prossimo 25 aprile, può essere il momento di coesione di tutte le forze politiche intorno alla Costituzione che, sia chiaro, può essere migliorata, ma deve restare come elemento chiave del paese. Però stiamo attenti, aggiunge la sindaco: «Non abbiamo avuto il tracollo, però la situazione politica è seria. E il Pd non è riuscito a sfondare, in Liguria in particolare dove si è perso il Senato. Bisogna quindi ridefinire una leadership regionale; che non significa dire chi deve fare una cosa piuttosto che l'altra, ma che i vertici non devono essere costituiti da replicanti. Se no, significa non aver capito»

Sindaco Vincenzi, lunedì ha detto «venite tutti a Genova che è la città più democratica d'Italia». In effetti il Pd ha avuto quasi il 44% al Senato, sfiorando il 50% insieme con i dipietristi, e lasciando l'Arcobaleno al 4...
«E' vero che a Genova il dato non è omogeneo rispetto al resto del nord, fatta eccezione per Torino. Anche se anche qui c'è stato un crollo della sinistra, forse abnorme anche di fronte alla delusione per la presenza conflittuale nel governo Prodi. Genova, peraltro, ha retto: di fronte all boom dell'appartenenza territoriale, penso che abbia pagato la sensazione che questa città, pur con alcuni problemi, sia governata, e da forze politiche ben precise. E quindi sia stata premiata questa sensazione di appartenenza, nel momento in cui si dice basta ad un paese instabile».

Una soddisfazione ma anche un bel problema, per voi del Pd.
«Sì, perché dietro al crollo della sinistra radicale c'è da interrogarsi molto, e il Pd per primo. Io già nella mia campagna da sindaco, un anno fa, vedevo il malessere di una politica che non riusciva a entrare in sintonia con le parole e i concetti della gente. Un cambiamento culturale che fa piazza pulita dello spirito pubblico. E nemmeno il Pd è stato all'altezza».

Veltroni non ha capito?
«Penso che Veltroni abbia fatto la miglior campagna possibile, ma non è bastato. Il Pd comincia bene ma non sfonda. Forse per mancanza di tempo è mancata la costruzione di un partito federale, che nello statuto c'era, era uno degli elementi più forti. Io ero stata tra i firmatari della necessità di creare un Pd del Nord, non certo per fare la secessione; ma per stare sul territorio. Questo non lo abbiamo fatto».

E quindi?
«E quindi non possiamo dire che sia stata una vittoria. C'è bisogno di ridefinire una leadership regionale, il che non significa dire chio dovrà fare una cosa piuttosto che un'altra, ma...».

Quindi non è un sollecito a chi gestisce il Pd ligure ad andarsene?
«Io dico che la nuova leadership regionale non deve essere costituita da replicanti. Se no, significa non aver capito cosa è successo».

Sindaco, lei cos'ha capito? Degli operai dell'Ilva che votano Lega, ad esempio?
«Non c'è più una lettura tradizionale. Si difende il lavoro ma in una situazione in cui manca la sensazione di sicurezza, anche quella di essere governati, ci si arrabbia per i soldi che se ne vanno in tasse e quindi vanno a Roma. Una poltiglia sociale, come si è detto, che porta a questi risultati».

Ma la sinistra che è sparita dalle camere volete recuperarla?
«Prima di tutto chiediamoci cos'è oggi la sinistra. nella capacità di rileggere i bisogni della gente, prima di tutto; di sicuro abbiamo bisogno di tutti, di forze rappresentate in Parlamento e altre no».

Sindaco, il 25 aprile qui ci sarà il presidente Napolitano. La sinistra può ripartire da Genova, in questa occasione?
«Sarà un buon inizio se si accentuerà nel 25 aprile l'esigenza di fare riferimento alla forza della Costituzione nel momento in cui si parla dell'inizio di una nuova repubblica. La Costituzione può essere migliorata, certo, ma è un qualcosa di imprescindibile, un patrimonio nazionale, la carta con cui presentarci in Europa. Vorrei che il 25 aprile ci fossero, insieme a Napolitano, tutti gli eletti di ogni schieramento, che si sentano rappresentati nel presidente».

(17 aprile 2008)

da genova.repubblica.it

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POLITICA

Le tute blu lombarde contro i flussi di extracomunitari

E i camalli di Genova accusano il governo Prodi: "Ha messo fuori i delinquenti"

Gli operai Fiom che votano a destra "Così protetti da tasse e criminalità"

"Votiamo Cgil in azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?

La prima ci dà il contratto, la seconda la garanzia che i soldi restino al Nord"

dal nostro inviato PAOLO GRISERI



 BRESCIA - L'importante è saper rispondere alla domanda: "Mi conviene?". Paolo, ad esempio, ha capito che gli conviene votare Bossi perché la Lega lo protegge. Ha 22 anni, sta appoggiato al muro insieme ai coetanei durante la pausa mensa alla Innse Berardi, 250 metalmeccanici specializzati alla periferia di Brescia. Da chi ti protegge la Lega? "Dagli extracomunitari". Ne hai bisogno alla tua età? "Non è bello doversi difendere quando vai alla stazione". Che cosa vuol dire che la Lega ti difende? "Che, bloccherà i flussi, non li lascerà più entrare in Italia".

Il capannello aumenta, la discussione si anima, Enrico contesta: "Tutte balle, ti lasci riempire la testa dalla tv. Non siamo a Chicago, dov'è tutta 'sta criminalità? E poi i criminali non ci sono in Italia? Prova ad andare in Sicilia". "Quelli almeno sono nostri e ce li curiamo noi. Ma dobbiamo preoccuparci anche di quelli che esportano gli altri?". E' facile sfottere Paolo. Christian scioglie la tensione con la battuta vincente: "Vuoi bloccare l'ingresso in Italia agli extracomunitari proprio tu che sei dell'Inter?".

Paolo sembra soccombere. Ma l'aiuto vero gli arriva da Gianni, un ragazzo di 32 anni che a queste elezioni non ha votato. Un grillino adirato con la Casta? "No, non ho votato perché non posso ancora. Sono albanese, sono arrivato nel '99. Il mio vero nome è Hashim ma siccome è troppo complicato, tutti mi chiamano Gianni". Quando potrai votare per chi voterai? "Per il partito che sceglieranno la maggioranza degli italiani". In questo momento è la destra. Ti andrebbe bene la destra? "Perché no?". Forse perché potrebbe bloccare l'ingresso degli stranieri alle frontiere. "E allora? Io sono entrato, in autunno sono arrivati anche mia moglie e i miei figli. Se non arrivano tanti altri a farci concorrenza è meglio".

Così, in dieci minuti di chiacchiere da bar, Paolo e Gianni fanno a pezzi quel che resta del concetto di solidarietà, caro alla Dc di Martinazzoli, che ha governato queste terre durante la prima repubblica, come alla Fiom di Giorgio Cremaschi, che continua a governare il sindacato di fabbrica con il 70% dei voti alle elezioni delle rsu.

Votano Fiom in azienda e Bossi nell'urna? "Dov'è il problema? Si vede che la Fiom e Bossi gli servono". Angelo, delegato a un passo dalla pensione, sa che la sua è una risposta provocatoria. Ma anche profondamente vera. "Da queste parti - spiega - le aziende hanno fame di operai specializzati. Qui i contratti integrativi sono ricchi, arriviamo a strappare aumenti di 2-3 mila euro all'anno".

Tute blu quasi benestanti, ben diverse da quelle che, sull'altro lato della strada, costruiscono i camion all'Iveco, la vecchia e gloriosa Om, e portano a casa i salari degli operai Fiat. "Alla Innse - aggiunge Angelo - molti abitano nei paesi delle valli bresciane. Con il passare del tempo si sono fatti la villetta a schiera. Una conquista che adesso hanno paura di perdere con l'aumento del costo della vita". Qui si chiede ai comunisti di contrattare l'aumento con il padrone, perché loro sono ancora i più bravi nel settore ("tremila euro all'anno, sputaci sopra"), e si chiede a Bossi di realizzare il federalismo fiscale. Il comunista ti porta i soldi ma è la Lega che li difende.

La sirena del federalismo, ad esempio, è quella che ha attirato Giovanni, contadino cuneese prestato all'industria della gomma. Arriva davanti al bar "Sporting", il ritrovo degli operai sul piazzale della Michelin di Cuneo, e spiega la sua soddisfazione: "Finalmente abbiamo vinto, adesso si può fare il federalismo fiscale". Che cosa vuol dire? "Che siamo padroni a casa nostra, che le tasse restano qui e non vanno a Roma. Con tutte quelle che paghiamo io e mia moglie per l'azienda agricola".

Giovanni ha 49 anni e, come molti da queste parti, ha iniziato a compiere le sue scelte politiche nel ventre della Balena bianca: "Qui - ricorda - votavano tutti Dc, anzi votavano tutti Coldiretti", la potente associazione dei contadini democristiani. Rotto quel contenitore, Giovanni è diventato un leghista moderato. Uno che dice: "All'inizio votavo Lega per protesta. Poi mi sono un po' allontanato quando dicevano che volevano la secessione".

Ma anche lui, quando si tratta di scegliere il sindacato, finisce per affidarsi a Cgil, Cisl e Uil. Gaspare e Luigi, delegati di fabbrica, raccontano del flop del SinPa, il sindacato dei leghisti: "Nel 2000 aveva fatto il pieno alle elezioni del consiglio di fabbrica, avevano il 33% dei voti. Poi sono rapidamente spariti. Quello del sindacalista non è un ruolo che si improvvisa. Non basta dire "Roma ladrona" per chiudere un contratto". Per il momento, comunque, sono i partiti del centrodestra più dei sindacati del Carroccio a mettere in crisi i sindacati confederali. A Brescia, dove lo straordinario è la regola, la detassazione promessa da Berlusconi ha fatto breccia. Aldo, delegato della Fim dell'Innse, ammette sconsolato: "Quello è stato un colpo da maestro".

La Lega è forte, i messaggi del centrodestra bucano il video, ma la sinistra delle fabbriche dov'è finita? Sam, 35 anni, lavora alla Michelin di Cuneo insieme a un gruppo di altri ragazzi di colore. "Arriviamo tutti dal Benin, siamo in Italia da molti anni, abbiamo preso la cittadinanza. Abbiamo sempre votato Rifondazione". Ma? "Questa volta non lo abbiamo più fatto. Ci siamo riuniti per parlarne. Una parte ha scelto il Pd perché sperava di bloccare Berlusconi. Ma alcuni hanno proprio deciso di smetterla con la sinistra. Votano Berlusconi perché la sinistra litiga troppo, non si trova mai d'accordo su nulla".

Per guardare in faccia la delusione della sinistra radicale basta andare a Genova, nel cuore del Porto, roccaforte dei camalli della Compagnia unica dove su sette delegati di area Cgil quattro sono di Rifondazione due dei Ds e due di Lotta Comunista. Mauro spiega la sconfitta dell'Arcobaleno: "A Genova si dice: "Ci hanno presi nella lassa", ci hanno fregati. Molti hanno votato Pd credendo che tanto il 4 per cento alla Camera si faceva e che Veltroni fosse vicino a Berlusconi nei sondaggi. Invece non era vero niente".

Basta l'ingenuità a spiegare tutto? "No che non basta. Ne abbiamo parlato martedì tra di noi. Rifondazione ha sbagliato". Dove ha sbagliato? "Ad esempio con l'indulto". Ma l'indulto, una volta non era una legge di sinistra? "Lo dici tu. Ma quale sinistra? Ha messo fuori i delinquenti altro che sinistra". Forse non sarà solo per questo che nei seggi di Crevari, storico quartiere partigiano di Genova, la Lega batte la Sinistra arcobaleno 486 a 358. Sarà anche perché "un partito come Rifondazione non può votare a favore della guerra", come dice Matteo, operaio all'Iveco di Brescia. O perché "non si raccolgono i voti nelle fabbriche promettendo di cambiare la legge 30 sul precariato per poi non fare nulla", come rimpiange Luca che scarica container al porto.

Così finisce che la delusione ti lascia a casa (a Genova l'astensione coincide con i 40 mila voti persi dall'Arcobaleno) o ti getta nelle braccia di Ferrando e Turigliatto: "Almeno loro la guerra non l'hanno votata", si consola Matteo all'Iveco. Il risultato è che la Lega avrà quattro ministri e l'Arcobaleno non c'è più. "Adesso tocca a Bossi mantenere le promesse", dice Alberto, della Fiom di Brescia. Ma anche lui sa che è una magra consolazione: "Sai come andrà a finire? Che quando la gente che ha votato Lega si incazzerà verrà da noi a chiederci di fare gli estremisti, la lotta dura e i blocchi stradali".

(18 aprile 2008)

da repubblica.it

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Incontro alla scuola Livatino

Saviano agli studenti: «Io, deluso dall'inerzia della politica, non farò mai il sindaco»

L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per i ragazzi dell'istituto vandalizzato: quando vedono Roberto scatta la caccia all'autografo 

 
 
NAPOLI - Sapete una cosa? I boss del clan Mazzarella, quello che comanda qui a San Giovanni, allevavano squali e piranha nei loro garage». Lo scrittore cita il loro quartiere, e il nome della famiglia malavitosa che lo inquina, e tra gli studenti si diffonde un sonoro mormorio: è una platea sensibile, attenta, quella di una scuola di frontiera che ai ripetuti atti di vandalismo subiti ha risposto a suon di seminari e ore speciali di dibattito sulla legalità. «I camorristi vogliono ostentare il loro potere, impressionare la gente. Capisco che possiate subire il loro fascino anche a me è successo, lo ammetto: oggi però, piuttosto che negare il loro ascendente, preferisco lavorare, e scrivere, per smontarlo».
 
Quando l'auto della scorta parcheggia e fa scendere Roberto Saviano nel cortile dell'istituto professionale «Livatino », nessuno degli studenti raccolti nell'aula magna sa qual è il nome del relatore invitato a parlare di camorra. L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per tutti: per motivi di sicurezza solo il preside Aristide Ricci e il gruppo di insegnanti impegnate nel progetto «I giovani e le periferie» sono al corrente della notizia. Quando gli studenti vedono Saviano, l'applauso scatta fragoroso, lungo e spontaneo: tutti in piedi, la sorpresa sul volto, per salutare quello che, a giudicare dall'entusiamo, per loro è un eroe.

Quasi due ore di intenso dibattito, in cui lo scrittore, sollecitato dalle domande dei ragazzi, descrive le dinamiche della criminalità organizzata, i loro affari, i loro interessi, anche internazionali: «Pensate che un'intercettazione ha rivelato che dopo l'11 settembre un clan di Nola sperava di poter fare affari sfruttando la ricostruzione dei luoghi devastati dall'attentato terroristico». Saviano non si sottrae quando gli studenti parlano di «politica corrotta» e «responsabilità dello Stato»: «Gli ultimi anni sono stati dolorosi.

Chiara Marasca

18 aprile 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it

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