LEGGERE per capire... non solo la politica.
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Il presidente pd della Provincia di Milano: qui si vive l'Europa come portatrice di insicurezza
«Non serve un ufficio a Milano. Imitiamo la Lega»
Penati: creiamo come loro una classe dirigente legata al territorio.
Sì alla formula federale
MILANO — Non dice «l'avevo detto » per non sembrare presuntuoso. Ma l'aveva detto davvero e in tempi non sospetti: che «il problema è il Nord», che i leghisti «non sono soltanto zoticoni», che «le nostre Regioni hanno bisogno di sentirsi più rappresentate » e perfino «che bisogna cacciare gli ambulanti e gli abusivi». Filippo Penati, una vita nel Pci, sindaco di Sesto San Giovanni, poi segretario provinciale del Pd milanese, oggi presidente della Provincia, guarda avanti facendo notare che «oggi c'è un novità».
Che anche altri si sono accorti che la Padania esiste?
«No. La novità sta nel fatto che, come spiegano bene il sindaco Sergio Cofferati e il presidente Vasco Errani, si è esteso anche all'Emilia Romagna il tema che credevamo riguardasse i lombardi, i veneti e poco più».
Quale tema? «La Padania non è un luogo geografico, ma un luogo politico con una dimensione territoriale in cui esiste omogeneità di problemi».
Quali problemi, allora?
«Il principale è che si sente il bisogno di un partito federale che si occupi più da vicino del Nord. Cofferati ed Errani pongono giustamente la questione: bisogna riconoscere la specificità del Nord e serve una politica che dia risposte specifiche».
Perché la Lega avanza?
«La Lega è il termometro che misura una febbre. Credo che uno dei problemi sia l'essere venute a mancare le categorie classiche: una volta c'erano i salariati e i datori di lavoro».
I padroni e gli operai? «Esatto. Oggi non ci si riconosce in queste classi: soprattutto perché si sono riunificate le modalità di lavoro ed, essendo proliferate le piccole e medie imprese, sono venute meno le ragioni di contrapposizione tra gli uni e gli altri. L'altro aspetto riguarda la comune attenzione prestata ai fenomeni della globalizzazione, per quanto riguarda il sistema economico, e la preoccupazione per i flussi migratori che in queste zone provocano insicurezza più che altrove».
Qui si svela il leghista Penati.
«Non sono leghista, ma questo è il punto. La gente da noi si chiede se l'Europa, su cui tutti avevamo scommesso come momento di rilancio e grande opportunità, è quella che fissa il prezzo delle zucchine o che governa il flusso ad esempio dei romeni. Abbiamo allargato ad altre nazioni, va tutto bene, ma siamo esposti a processi che forse ci sono scappati di mano».
L'Unione e l'allargamento ad altre nazioni sono diventate un problema?
«Per certi versi, qui il sistema delle imprese vive l'Europa come fonte di ulteriori lacci e come soggetto che ha portato insicurezze, perché la presenza non controllata di alcuni cittadini oggi non più extracomunitari ha creato fattori di insicurezza. La politica non dà risposte, quindi prevale nel cittadino il suo appartenere a una regione, più che a una classe sociale».
Ed è per questo che la Lega prende piede?
«Quello alla Lega non è un voto di protesta. Ma è il riconoscimento che c'è una forza che si occupa di questo malessere, di questo malumore diffuso da tempo e per questo ancora più radicato».
Sto per chiederle se lei ha votato Lega o Pd.
«Non scherziamo. La Lega sbaglia nelle risposte, che sono quasi sempre demagogiche e non condivisibili. Ma è innegabile che loro non girino la testa dall'altra parte».
Il Pd, invece?
«Le cose dette da Veltroni in campagna elettorale e scritte nella proposta del Pd hanno fatto fare un balzo in avanti notevole alla sinistra. C'è una nuova attenzione, ma certo non si può fare tutto in pochi mesi. L'importante, ora, è continuare su questa strada radicandosi sul territorio: come sapeva fare il Pci e come ha fatto la Lega selezionando e formando nel giro di pochi anni una classe dirigente che ha un legame fortissimo con la sua zona e i suoi elettori».
E, poi, costruire il partito federale?
«Non nel senso di una forma organizzativa, però. Non come quando i nostri ministri ci dicevano: "Veniamo ad aprire un ufficio a Milano". Non si chiede un decentramento del quartier generale, serve un partito che attorno alla proposta sul Nord annunciata da Veltroni costruisca una nuova classe dirigente e dia risposte alle urgenze di questi territori».
Elisabetta Soglio
19 aprile 2008
da corriere.it
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Rusconi: «Questa destra è la rivolta dei territori»
Bruno Gravagnuolo
«Siamo in bilico su una doppia possibilità. O Berlusconi e Bossi riescono a trovare un compromesso accettabile sull’interesse generale del paese, oppure, come temo, si andrà verso la catastrofe». C’è allarme nelle parole di Gian Enrico Rusconi, germanista, politologo, storico, attualmente a Berlino come «Gast-Professor» alle Freie Universität, dove riusciamo a intercettarlo tra una lezione e l’altra. La sua tesi post-elettorale sull’Italia che va a destra suona: «Il governo Prodi ha dato un’immagine pessima di sé, di là dei suoi veri pregi e difetti. La sinistra dal canto suo ha abbandonato insediamenti e territori. E la Lega è la vera vincitrice. Contro il mercatismo, il globalismo e il venir meno delle tutele identitarie ed economiche».
E allora, dopo l’analisi della sconfitta e delle sue cause da dove ricominciare? Per Rusconi occorre innanzitutto vedere come evolverà il rapporto Bossi-Berlusconi. Per nulla pacifico e anzi dirompente. Poi l’opposizione vedrà come inserirsi nella partita. Senza cedere a ricatti o a cooptazioni, ma esibendo una «sua» idea dell’interesse pubblico e nazionale. E facendola valere sul piano programmatico, parlamentare e organizzativo. A cominciare dai territori, abbandonati all’avversario. Nel frattempo però si deve registrare bene l’accaduto, fotografare i soggetti sociali in campo. E cercare di spiegare bene il tutto, a se stessi e agli altri. All’Europa, che sempre meno capisce l’anomalia italiana. E ai tedeschi, che, dice sempre il professore, «vivono l’Italia con strisciante estraneità e ci considerano tutti berlusconiani. Immagini con che gioia da parte mia!». Sentiamo Rusconi allora.
Cominciamo da una domanda vecchia ma ancora buona: la Lega è di destra oppure no? Il politologo Sartori e l’ex ministro leghista Maroni lo negano. E lei?
«Modo non giusto di porre la questione. Parlerei di protezionismo sociale a favore di tutti quelli che non ce la fanno, dal piccolo imprenditore all’operaio sottopagato. E con il territorio a fare da argine, da barriera. In questo senso vanno le sortite di Tremonti contro il mercatismo, che avevano centrato il bersaglio. Mi chiedo e le chiedo, questo protezionismo sociale e locale è di destra o di sinistra?»
Il segno prevalente è di destra: individualismo proprietario. Anche se non possiamo fermarci qui. In fondo lo stesso fascismo non era sociale e autarchico?
«Certo, ma usciamo dallo schematismo. Sono esplosi i problemi della piccola gente che ha perso fiducia nella sinistra e nel sindacato. E questa massa d’urto medio-bassa va al di là del nucleo proprietario. Il vero problema è la fine dell’universalismo democratico, di sinistra. Che teneva insieme borghesia imprenditoriale e ceti subalterni. È questo che la gente dei territori rifiuta».
Bene, ma come è successo tutto questo? Colpa del mercatismo, e delle violente politiche di rigore monetarista e di bilancio fatte proprie dalla sinistra?
«Fino a ieri il territorio era rimasto fuori dalle preoccupazioni “borghesi” o di sinistra. Il fascismo non è mai stato territorialista, ma nazionale. Oggi invece proprio la contrapposizione tra locale e globale fa saltare la distinzione destra/sinistra, le polarità che prima si confrontavano sullo stato. Inoltre, che fine hanno fatto le buone amministrazioni di sinistra e il loro mito? Anche quest’eredità s’è fatta scippare la sinistra!»
Insisto: la sinistra non ha finito col soffocare i territori in nome del mercato universale e del rigore?
«Era inevitabile, ma il difetto è stato nel messaggio, nell’incapacità di comunicare. Il che è stato vissuto come abbandono, da parte dei ceti radicati sul territorio. Si è data l’impressione di voler enfatizzare i benefici del mercato universale, dall’immigrazione, all’innovazione, agli scambi, alla moneta. A detrimento del quotidiano e delle identità locali. Ovvio che il rigore fiscale e i tagli di spesa soffocano i territori! Ma allora, o si faceva una politica diversa, oppure si dovevano convincere i soggetti sociali nelle aree locali. Come? Con la capacità organizzativa e di rappresentanza solidale. E poi nessuno osa dirlo: il governo Prodi ha mandato dei segnali catastrofici. E ha avuto un’immagine peggiore di quel che è stato. Aggiungo una cosa: il vecchio socialismo riusciva a differire i bisogni sul domani radioso. A persuadere, e a dare identità. Oggi c’è una mutazione antropologica, il domani non è più un argomento, e le emergenze ci stanno tutte addosso, instantaneamente».
Ma il vecchio socialismo democratico faceva lievitare i redditi. Oggi invece da sinistra non si tutelano né i redditi, né i territori. E vince il liberismo territoriale e proprietario. Non è per questo che i ceti medio bassi vanno a destra, e finiscono in bocca alla Lega?
«Questo è un dato di fatto incontrovertibile, anche se ce ne siamo resi conto tradivamente. Lo sfondamento egemonico della cultura liberista a misura di territori, e a danno della sinistra, è stato evidente. Magari Gad Lerner non se ne rendeva conto, ma molti lo avevano capito, benché lo dicessero sottovoce. Adesso però la vera domanda è un’altra: la sinistra può ancora recuperare oppure è troppo tardi?»
E cosa si risponde?
«Dipende prima di tutto da questo governo. Ce la farà a superare la conflittualità interna con la Lega o no? Da queste prime battute di confronto con Bossi, parebbe di no. Guardi, tra il leghismo e il berlusconismo non c’è coincidenza. E Berlusconi non lo ha ancora capito. Prevedo forte tensione tra le due realtà, anche pensando alla profonda personalizzazione dell’incontro-scontro tra i due leader. Con Berlusconi che si dichiara garante in prima persona del rapporto con Bossi. E Bossi che dice: mi fido solo di lui, parlo solo con lui. Ma con entrambi che tagliano fuori gli altri alleati. Ciò corrisponde tra l’altro a una acuta degenerazione iper-personalistica della politica, che inficia l’immagine del centrodestra. Roba devastante».
Duello intestino, che potrebbe far saltare la coalizione?
«A mio avviso i due leader non capiscono affatto ciò che si sta profilando, anche perché non si aspettavano questo exploit leghista. Sono stupiti entrambi».
C’è il rischio di un’implosione italiana, magari su federalismo fiscale e secessione strisciante? Detto diversamente: andremo più verso la Baviera o verso l’ex Jugoslavia?
«Né l’uno, né l’altro esito. Intanto la destra dovrebbe aver imparato le lezioni del governo Prodi, e del precedente centro destra: non litigare e non mettere in piazza i contrasti. Per quanto riguarda la Baviera o un possibile Lombardo-Veneto, bisogna stare attenti. Non si possono fare paragoni insostenibili, e immaginare analogie tra Cristiano Sociali bavaresi e Lega che radicalmente altra cosa. Il punto è: La Lega resterà un partito rivendicativo e conflittuale, oppure metterà capo a un vero progetto regionale? I Cristiano sociali in Germania governano un Land. Uno stato storico: la Baviera. Questi invece parlano di Padania, che francamente non esiste, meno che mai nei termini della Baviera, che ha mille anni! I leghisti stanno rivalutando il sociale privato e comunitario. Ma dovrebbero riscoprire il senso del pubblico, ricrearlo, per fondare un futuribile Lombardo-Veneto. Non dico nazione, dico “pubblico”. Interesse generale, articolato sul territorio».
La vedo dura.
«Sì, non hanno gli strumenti per farlo. Al massimo sono in grado di esprimere comunitarismo. Questo però è un problema di tutti, da nord a sud. E qui apro e chiudo una parentesi: non capisco perché Bassolino non abbia avuto il buon gusto civico di dimettersi. Di là delle sue colpe o meno. Tornando alla destra però, il governo si gioca tutte le sue carte esattamente su questo: il senso pubblico. O ne esibiscono un esempio plausibile, o finirà male. Con la frantumazione generale, magari non Jugoslava, che mi parrebbe esagerata...»
Deve essere la sinistra o quel che ne resta, a farsi banditrice di un nuovo senso pubblico nazionale?
«Il vero dilemma è: dare una mano a un eventuale progetto di questo tipo o no? E qui subentra il timore di favorire l’avversario. Cosa che non varrebbe altrove, perché ad esempio la Baviera non s’è mai scontrata violentemente con lo stato, e lì non avrebbero mai detto le cose intollerabili di un Bossi sui fucili, neanche per scherzo. La Baviera si distingue, dentro un’idea comune di stato. Ma non si contrappone. E oggi anche grazie alle doti mediatrici della Merkel».
Lega dissolutiva o federalmente compatibile?
«O Berlusconi e Bossi si reinventano un senso pubblico di corresponsabilità che rilegittima lo stato, o viceversa si va al logoramento progressivo. Quanto alla sinistra, deve corresponsabilizzarsi anch’essa, a certe condizioni beninteso».
E se invece si spartiscono l’Italia frantumando interessi e territori, e all’insegna di presidenzialismo o premierato?
«Allora sarà il disastro, ma se è così lo vedremo entro quindici giorni».
Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18
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Quel che resta dei Verdi
Luigi Manconi
Quella dei Verdi italiani è una vicenda malinconica, malinconicissima. La sua penultima tappa, (l’inchiesta giudiziaria su Alfonso Pecoraro Scanio) è, in realtà, la meno significativa: se non perché un destino maligno ha voluto maramaldeggiare su una formazione politica che comunque vede esaurirsi il proprio ciclo. E perché, poi, l’inchiesta di Henry John Woodcock raggiunge Pecoraro che, tra i politici italiani (Antonio Di Pietro compreso) è il meno sensibile, per così dire, alle garanzie e alle tutele previste dal procedimento penale. Così che la presunzione di innocenza che vale nei confronti di Pecoraro mai è stata invocata dallo stesso a salvaguardia dei propri avversari politici. Ritengo, d’altra parte, che quella presunzione di innocenza verrà confermata, probabilmente, dallo sviluppo ulteriore delle indagini: e Pecoraro - credo, spero - verrà prosciolto. E infatti i comportamenti di Pecoraro, più che a fattispecie di reato, sembrano rimandare a modelli di azione politica, a uno stile di vita pubblica e a forme di relazione che richiamano la categoria di “familismo amorale” (nel suo significato originario).
Eche - con la leadership pecorariana - sono diventati metodo di gestione del partito dei Verdi.
Premesso ciò, va detto che questa vicenda giudiziaria è solo un brutto finale di una storia - quella, appunto, dei Verdi italiani - che, col rovinoso risultato elettorale del 13/14 aprile, può considerarsi, se non esaurita, assai prossima a esserlo (aldilà dei sussulti di sopravvivenza che pure potrebbe avere in futuro). Ed è un vero peccato, oltre che una sconfitta politica che considero assai grave e che riguarda non solo i Verdi: così come considero disastrosa l’esclusione dal Parlamento di Rifondazione Comunista. Quest’ultimo fatto merita un ragionamento specifico, che svilupperò nei prossimi giorni; qui tratto in primo luogo dei Verdi perché più li conosco e più mi sono stati a cuore. Ora il rischio (altissimo) è che le grandi questioni ambientali, che giocano un crescente ruolo cruciale per il destino del pianeta e di chi lo abita, una volta usciti di scena i Verdi, non vengano assunte da altri con sufficiente forza e convinzione (e capacità di imporle all’agenda politica).
Insomma per quanto paradossale possa apparire, la scomparsa dei Verdi italiani lascia un vuoto incolmabile. Sia chiaro: questo vuoto non si apre oggi. Chi scrive si dimise da Portavoce nazionale dei Verdi quasi un decennio fa, a seguito del deludente risultato ottenuto alle Europee del 1999: ma quello sconfortante 1,8% venne ridotto da chi mi seguì (Grazia Francescato, e poi fino a oggi, Pecoraro) a dimensioni ancora più modeste (intorno all’1%, o giù di lì, nelle successive elezioni politiche, dove il simbolo dei Verdi si appaiava ad altri simboli: quello dei socialisti e, addirittura, quello del Pdci). Evidentemente, già quel 1,8% era risibile: ma quando, nel 2001 e nel 2006, i risultati delle liste unitarie con socialisti e comunisti italiani furono ancora più esigui, il destino del partito ambientalista appariva definitivamente segnato. E a spiegarlo non vale, certo, la responsabilità peraltro assai rilevante, dell’attuale gruppo dirigente. Già in precedenza, altri leader, di notevole solidità culturale e politica (da Alex Langer a Francesco Rutelli, da Gianni Mattioli a Massimo Scalia a Edo Ronchi) non erano riusciti a proiettare i Verdi fino alla soglia del 4% e a dar loro un ruolo politico nazionale simile a quello giocato in altri paesi europei. Sembra difficile dire, quindi, che la colpa sia tutta, e nemmeno prevalentemente, di gruppi dirigenti inadeguati.
Si deve tornare, allora, all’interpretazione elaborata da alcuni dei Verdi che si dimisero dal partito tra la fine degli anni ‘90 e i primi del 2000. Quell’interpretazione era così riassumibile: l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2%. Detto in altri termini, in Italia non ha senso culturale, né spazio politico né autonomia di programma e di iniziativa, né - infine - possibilità di ottenere estesi consensi un partito monotematico concentrato interamente sulla questione ambientale. La prova provata risale a molti anni fa e ai primi passi dei Verdi italiani.
Nel 1985, alle elezioni amministrative, pur presenti solo in otto regioni, i Verdi ottengono il 2,5%. A distanza di pochi mesi, nell’aprile del 1986, si verifica uno dei massimi disastri ambientali della modernità (l’esplosione nella centrale nucleare di Chernobyl). Questo evento, così drammaticamente evocativo dei temi “verdi”, incrementa di appena lo 0,1 la percentuale elettorale conseguita dai Verdi alle elezioni politiche del giugno del 1987: ma nel novembre dello stesso anno, l’80,6% degli italiani approva il referendum abrogativo del nucleare. Si manifesta allora, per la prima volta, quello scarto profondissimo tra sentimento e opinione, da una parte, e scelta di voto, dall’altra; scarto che, nel ventennio successivo, non verrà mai colmato e nemmeno ridotto. Nel 2000, appena prima delle elezioni regionali, dove i Verdi conseguono poco più del 2% dei voti, oltre il 78% degli italiani dichiara di apprezzare l’iniziativa delle “domeniche a piedi”, voluta dal ministro verde dell’Ambiente. E, infine, alle elezioni politiche del 2001 - a ridosso delle vicende della “mucca pazza” e dell’elettrosmog - mentre una parte significativa degli italiani percepiva, con particolare intensità, quelle minacce alla salute, una quota rilevante di elettori verdi sceglieva - serenamente, suppongo - altri simboli. Si confermava, dunque, quella duplice e convergente difficoltà a tradurre in partecipazione politico-organizzativa l’apprezzamento per le battaglie condotte e a trasferire nell’urna elettorale l’adesione emotivo-culturale al messaggio condiviso (la sicurezza alimentare, per esempio).
La ragione principale di tale limite va individuata nella struttura del sistema politico italiano: in particolare, nel sovraffollamento di quello spazio tra centro democratico e sinistra tradizionale dove i Verdi inevitabilmente si collocavano; e nella sovrapposizione dei temi trattati e di quanti si candidavano a trattarli. Basti pensare a come le questioni di diritto e di libertà, affrontate in Germania e in Francia principalmente dai Verdi, nel nostro Paese risultavano “contese” tra questi ultimi, Rifondazione e i radicali. Insomma, in Italia, nel corso degli ultimi due decenni, i cittadini, anche quelli che condividono gli obiettivi dei Verdi, hanno ritenuto che le offerte elettorali di altre formazioni fossero - proprio sul piano elettorale - più meritevoli di consenso: forse perché ritenute maggiormente efficaci. Cinque, sei anni fa, fummo in molti, sulla base di tale ragionamento - e dell’assunto per il quale l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2% - a immaginare che potesse essere il Partito democratico la casa al cui interno alloggiare comodamente (e se necessario scomodamente e conflittualmente) la questione ambientale, come una delle grandi tematiche intorno alle quali aggregare il nuovo partito riformatore. Un luogo dove la cultura ecologista avrebbe potuto incontrare altre culture della trasformazione e dell’innovazione sociale ed economica e dei diritti di cittadinanza.
E per questo si è lavorato. Oggi, il bilancio che si deve trarre è decisamente negativo: i Verdi come partito autonomo monotematico rischiano di esaurirsi definitivamente. (A Roma non avranno alcun consigliere comunale). Già la precedente alleanza con i Comunisti autoritari del Pdci alle elezioni del 2006 ne aveva gravemente compromesso l’identità: quest’ultima, nel corso della più recente campagna elettorale, è letteralmente evaporata. Certo, questo non significa ancora la sparizione dei Verdi: il “paradigma Giorgio La Malfa” insegna che - con il controllo del simbolo, del nome e della tesoreria - si può andare avanti per decenni. Ma i Verdi non sono paragonabili a un detrito del Partito repubblicano e, dunque, la loro sorte non dovrà essere la medesima. Centinaia di militanti che si dichiarano Verdi continuano e continueranno a operare, spesso positivamente. Tuttavia, è vero che un partito che aveva corruscamente proclamato la propria autonomia e che risulta l’appendice più marginale e inerte di un cartello elettorale sconfitto, è difficile che possa ritrovare una identità e un ruolo significativi. E si è trattato, palesemente ed esclusivamente, di un mero cartello elettorale, dal momento che non si è stati capaci o non c’è stato il tempo - sempre che fosse possibile - di combinare virtuosamente le rispettive culture di origine e di trarne un soggetto nuovo.
Ma il bilancio negativo non si ferma qui. All’interno del Partito democratico, la componente ambientalista, pur presente, non sembra ancora in grado di orientarne né il programma politico né il discorso pubblico. La presenza, all’interno del gruppo dirigente, di ambientalisti di notevole qualità (come Ermete Realacci e Roberto Della Seta) non sembra oggi in grado di connotare la fisionomia del Pd. Per lo meno, non lo è stato fin’ora: ma - guai a dimenticare questo dato - siamo appena agli inizi di un percorso inevitabilmente lungo e, pertanto, non solo è lecito ma è anche doveroso avere fiducia. Ma questo impone un salto di qualità a tutti coloro che hanno a cuore la questione ecologica/economica/energetica come non uno dei temi, ma il tema cruciale del presente e del futuro. Si pensi all’emergenza-cereali, e alle sue esplosive implicazioni a livello planetario ma anche locale (ne ha scritto su questo quotidiano Vittorio Emiliani): su essa non una parola - e come poteva essere altrimenti? - nel corso della campagna elettorale; ma certo non si potrà continuare a tacere. In ogni caso, sarà innanzitutto il Partito democratico il luogo nel quale necessariamente queste tematiche dovranno essere trattate, tradotte in obiettivi programmatici, fatte oggetto di vertenze e di conflitti. Questo richiede che il Partito democratico si ponga anche il problema dei Verdi. E che i Verdi di buona volontà e di rette intenzioni si pongano il problema del Partito democratico.
Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18
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Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi
di Dino Pesole
Riparte il cantiere del federalismo fiscale, sulla spinta del successo ottenuto dalla Lega nord.
Ed emerge subito una prima, rilevante questione da risolvere: la consistenza del fondo perequativo che dovrà garantire le Regioni del Sud, soprattutto nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Lo stesso premier in pectore, Silvio Berlusconi, ha parlato di «federalismo solidale» e di «fiscalità compensativa».
E si fa strada l'ipotesi di affiancare al modello di perequazione nazionale disciplinato dallo Stato, modelli di perequazione finanziati dalle Regioni, per assicurare agli enti locali le risorse per esercitare le funzioni loro conferite. L'ipotesi di base prevede l'istituzione di un fondo perequativo, per il solo fabbisogno sanitario, di 13 miliardi, cui andrebbe ad aggiungersi un costo di circa 1-2 miliardi per l'Irpef.
Si parte dal corposo dossier messo a punto alla fine del 2005 dall'Alta Commissione sul federalismo fiscale, presieduta da Giuseppe Vitaletti. Obiettivo principale è colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni «hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», stabiliscono e applicano «tributi ed entrate proprie» e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali «riferibili al loro territorio».
Il lavoro della commissione Vitaletti può costituire una base di partenza, soprattutto laddove prevede una stretta correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate. I tributi propri non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale, «che dovrà essere costituita in gran parte da compartecipazioni». Il tutto in ossequio alla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n.37 del 2004). La disciplina transitoria dovrà consentire «l'ordinato passaggio dall'attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in piccola parte derivata, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi».
I tributi propri regionali (l'Irap rientra nella competenza statale) dovranno essere istituiti con legge regionale, mentre il fondo perequativo, in ossequio all'articolo 119 della Costituzione (terzo comma), dovrà essere fissato con legge dello Stato «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Nella scorsa legislatura, su questo fronte non si son fatti passi in avanti. Gli elettori hanno respinto la "devolution" varata dal centro destra, e il disegno di legge approvato dal governo Prodi il 1° agosto 2007 è rimasto impantanato alla Camera fino allo scioglimento anticipato del Parlamento.
Ora con il cambio di maggioranza e il nuovo governo Berlusconi pronto a insediarsi, si comincerà da capo. Al quartier generale della Lega il punto fermo è il progetto deliberato dal Consiglio della Lombardia il 19 giugno 2007, in cui si dispone che una parte cospicua della ricchezza prodotta resti sul territorio. Parola d'ordine, evocata del resto a più riprese nei giorni scorsi da Umberto Bossi. Il sistema delle compartecipazioni regionali vede l'Iva al primo posto, con una quota non inferiore all'80%, ma alle Regioni dovrebbe affluire anche il gettito delle accise, dell'imposta sui tabacchi e di quella sui giochi.
ATTUAZIONE TITOLO V
Il Senato delle Regioni
L'Alta Commissione sul federalismo fiscale Istituita nel 2003, la Commissione presieduta da Giuseppe Vitaletti lavorò per due anni e e produsse un dossier di 118 pagine con le indicazioni per adeguare il modello di federalismo fiscale all'articolo 119 della Costituzione.
Autonomia tributaria
La Commissione riconobbe che gli enti territoriali e locali godono di un livello significativo di autonomia tributaria (pari al 47% nelle Regioni, al 44% nelle Province e al 46% nei Comuni). Per rendere funzionante il nuovo Titolo V della Costituzione veniva indicata la necessità di istituire un Senato federale
Patto di stabilità
Secondo la Commissione il finanziamento degli enti territoriali mediante entrate tributarie proprie potrà favorire un uso più efficiente delle risorse, ma per rispettare il patto di stabilità interno «appare essenziale il riconoscimento agli amministratori locali di un effettivo potere fiscale». Dunque, oltre alle compartecipazioni, maggiori tributi propri che tuttavia non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale
da ilsole24ore.com
18/04/2008
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INtervista all'ex pm
Di Pietro: Silvio? Mai dialogo
La sua è una «dittatura dolce»
«L'Idv non è la Lega del Pd: loro solo una lista civica»
ROMA — Antonio Di Pietro, è di nuovo scontro sulla sicurezza: a Roma in un giorno un'anziana uccisa e una giovane violentata. «Dicevano che bisognava allontanare dalle istituzioni i cosiddetti giustizialisti e ora invece Berlusconi rilancia strumentalmente il tema della sicurezza. Con la complicità del sistema dell'informazione, che non fa sapere ai cittadini la verità...».
E qual è la verità?
«Che è stato proprio il Cavaliere dal 2001 al 2006 ad aver creato insicurezza. Agli italiani non importa nulla della separazione delle carriere, chiedono più poliziotti nelle strade, rimpatrio immediato dei clandestini, inasprimento dei reati contro i bambini e le donne...».
Mentre lei sciorina il suo programma, il Pdl accusa l'ex sindaco di Roma.
«Veltroni non troverà in me un esponente critico, è stato un buon sindaco per la sua città e un riformista coraggioso per la coalizione. Noi siamo il partito del fare, il Pdl è quello delle parole. Bisogna ridurre da tre a due i gradi di giudizio e varare una legge di una riga per l'esecuzione anticipata della pena, dopo il primo grado di giudizio, per i reati più gravi...».
Consigli a Berlusconi, visto che siete all'opposizione.
«Non per questo rinuncio alle mie battaglie. Col suo conflitto di interessi, il controllo globale dell'informazione e la sua idea di giustizia Berlusconi è un pericolo. Il suo ritorno è l'avvento della dittatura dolce, vuol riformare la legge sulla par condicio e andare alla resa dei conti con la magistratura. La sua politica si basa sul libero arbitrio, dando dell'eroe a Mangano ha rivalutato la classe mafiosa. Tocca a noi aprire gli occhi ai cittadini».
Anche se Veltroni decidesse di dialogare con Berlusconi sulle riforme?
«Noi non potremmo mai offrire fiducia al governo Berlusconi. Già due volte ha detto che dialogava sulle riforme e si è sporcato le mani. Se la magistratura non si adegua lui la porta dallo psichiatra? Bene, per me il dialogo si è fermato lì».
Si dice che non voglia fare il gruppo unico col Pd perché da sola l'Idv ottiene cinque milioni di rimborsi in più.
«È squalificante e riduttivo, i soldi non vanno a noi ma all'attività del gruppo. Io ho detto che siamo pronti a unirci in Parlamento sulla base del programma, però una annessione non giova a Veltroni. La verità è che c'è una parte del Pd che vede come una liberazione la possibilità che il gruppo unico non si faccia».
Marini? D'Alema? Parisi?
«Vedo due anime, una isolazionista e l'altra aperta a una nuova alleanza. Noi siamo disposti a costruirla da subito con un percorso costituente che può arrivare fino al partito unico, però non devono chiuderci le porte. Se il gruppo non si fa subito perché hanno bisogno di chiarirsi le idee noi gli diamo il tempo ma loro devono darci i ruoli che ci spettano, nel governo ombra e in Parlamento ».
Quali e quanti posti, ministro?
«Se Veltroni intende riservarci un angolino in un cassetto, tipo usa e getta, fa un dispetto a tutti quegli italiani che hanno visto nell'Idv una possibilità di riscatto. Isolarci sarebbe un grave errore, come lo è stato l'ostracismo in campagna elettorale ».
Veltroni disse che non vedeva bene per lei il ministero della Giustizia. Aspira a farlo almeno nel governo ombra?
«Dagli incarichi che ci verranno affidati capiremo quale dialogo Veltroni vuole aprire con noi. Ci sono ruoli che spettano all'opposizione, a cominciare dalla presidenza degli istituti di vigilanza».
È disposto ad allearsi con l'Udc, come piacerebbe a D'Alema?
«Se Casini sottoscrive un impegno formale a non candidare persone condannate allora sì. L'alleanza bisogna allargarla ai moderati e ai cattolici o abbiamo perso in partenza».
L'Idv è la Lega del Pd?
«Con tutto il rispetto per gli elettori della Lega, il partito di Bossi è una lista civica che porta avanti i meri interessi di un territorio, noi invece siamo radicati da Mondovì a Canicattì». E l'attacco di Montezemolo al sindacato? «La diagnosi è condivisibile, l'operaio non si sente rappresentato da questa classe dirigente sindacale. Ma una cosa è portare in ospedale un malato e un'altra è affidarlo per le cure a Dracula».
Monica Guerzoni
20 aprile 2008
da corriere.it
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