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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129392 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Aprile 23, 2010, 12:02:11 pm »

22/4/2010

Gelmini e la disunità dello Stivale

MICHELE AINIS

Al suo rientro nella vita pubblica dopo la maternità (auguri), il ministro Gelmini ha battezzato la prima iniziativa per celebrare i 150 anni dell’Italia unita: la disunione dei docenti. Come? Con una legge sugli insegnanti regionali, che ammetta in graduatoria soltanto chi risiede in quel determinato territorio.

L’idea già discussa ieri da Marco Rossi-Doria su queste medesime colonne porta con sé un problema però, almeno per noi che a scuola abbiamo studiato un po’ di logica. Anzi, i problemi sono almeno tre. Primo: il ministro ha dichiarato che la nuova legge introdurrà la meritocrazia nel corpo docente; e allora che ci azzecca la carta d’identità? Semmai è vero il contrario, perché le graduatorie regionali sarebbero un imbuto, un ostacolo alla selezione dei migliori. Secondo: sempre il ministro si è sgolato mille volte contro il provincialismo degli atenei italiani, contro i concorsi locali che fin qui hanno permesso d’allevare professori che non respirano se non l’aria di casa. Sicché li ha poi sostituiti con un unico concorso nazionale, e ha fatto bene. Ma allora come si spiega questa schizofrenia legislativa? Se l’obiettivo è quello (sacrosanto) d’ancorare i docenti per un certo lasso temporale ai propri studenti, basta imitare l’università, dove quando vinci un concorso non puoi schiodarti prima di tre anni. Terzo: il federalismo, la nuova divinità cui rendiamo omaggio a giorni alterni, anche con sacrifici umani. Si dà il caso però che nella più antica nazione federale al mondo - gli Stati Uniti - con un’idea del genere ti prenderebbero a sassate, non foss’altro perché ogni americano cambia Stato in media quattro volte nella vita.

E c’è poi una questione di diritto, ammesso che in Italia la legalità sia una faccenda seria. O meglio c’è una questione di diritti, e dunque di legalità costituzionale. Non per dare i numeri, ma l’art. 3 della Costituzione sta ancora lì a dettare il principio d’eguaglianza. A sua volta l’art. 51 specifica il medesimo principio circa l’accesso ai pubblici uffici. L’art. 97 impone il reclutamento dei migliori nelle prove concorsuali, senza riguardo al loro indirizzo postale. Infine l’art. 4 pone l'obiettivo della piena occupazione: ma con una riforma così sarà difficile raggiungerlo non solo per i palermitani, anche per i genovesi, dato che la Liguria ha molti meno posti d’insegnante che la Lombardia.

Non basta? E allora leggiamo insieme l’art. 120: «La Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». Per comprenderne il significato non serve conoscere il diritto, è sufficiente capire l’italiano. Ma forse varrà la pena ricordare che nel 1947 i costituenti l’approvarono quasi senza discussione, tutti d’accordo nel porre un argine agli egoismi localistici, onde impedire - dissero Condorelli e Nobile - che in futuro il Veneto potesse vietare ai calabresi d’aprire uno studio medico, e che per ritorsione la Calabria chiudesse i suoi confini agli ingegneri veneti. I nostri padri fondatori avevano la vista lunga, non c’è che dire; anche se poi i costituzionalisti hanno giudicato superflua questa norma, perché la libertà di circolazione e di soggiorno viene già protetta dall’art. 16 della Carta Costituzionale.

C’è un modo per superare i vincoli giuridici che sbarrano il passo a quest’ultima trovata? Sì che c’è, cambiando la Costituzione. Bisognerà correggerne mezza dozzina di disposizioni, ma con un po’ di pazienza l’impresa può riuscire. Peccato tuttavia che il diritto comunitario, fin dal 1957, garantisca a propria volta la libera circolazione dei lavoratori. Brutta notizia per chi vuol dividere l’Italia; magari può provarci, ma non potrà dividerla dal resto d’Europa.

da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 25, 2010, 05:57:55 pm »

25/4/2010

Il Presidente non è un re

MICHELE AINIS

L’ultimo episodio si è consumato ieri. Il prossimo accadrà domani, o magari già stasera. Dal lodo Alfano al decreto di riordino delle fondazioni liriche, non c’è provvedimento normativo del governo sul quale non s’invochi l’altolà del Capo dello Stato.
Come un baluardo estremo contro l’invasore. Sicché la Resistenza di cui celebriamo l’anniversario, oggi s’incarna - nell’immaginario collettivo - nel doppiopetto blu del Presidente, un uomo solo nel deserto abbandonato dai politici.

Come si è innescato questo clima? C’è indubbiamente una responsabilità generale dei partiti, incapaci di rinnovarsi e di rinnovare la faccia rugosa del Paese, refrattari alla legalità, abitati per lo più da carrieristi senz’anima e senza ideali. Da qui il divorzio fra eletti ed elettori, da qui la crisi di legittimazione e di fiducia che investe la politica. Le prove? Basta contare il popolo del non voto alle scorse elezioni regionali: quattro italiani su dieci.
C’è poi, in secondo luogo, una specifica responsabilità della maggioranza di governo. Non perché in questo biennio l’esecutivo non abbia saputo cogliere successi concreti, liberando il Paese dai veti incrociati che paralizzarono l’azione di Prodi, risolvendo alcune emergenze nazionali, procedendo con passo spedito alla realizzazione del programma di governo. Il guaio è che troppo spesso i suoi ministri marciano con un elmetto in testa, trattano il Parlamento come un accidente fastidioso, scambiano la Repubblica per un sultanato. Da qui la deriva plebiscitaria e populistica che percorre ormai le stesse istituzioni; da qui l’insofferenza per le regole, nonché per i custodi delle regole. Da qui, in breve, la sovraesposizione del nostro Presidente, costretto ad arbitrare una rissa quotidiana fra i poteri dello Stato.

Ma c’è anche, in terzo luogo, una precisa responsabilità della minoranza parlamentare, e dunque soprattutto del Pd. Sta di fatto che dopo lo scontro pubblico fra Berlusconi e Fini, il Popolo della libertà occupa ormai tutti gli spazi della scena politica italiana, è maggioranza e opposizione insieme, tanto l’opposizione di sinistra ha già lasciato libera da tempo la poltrona su cui stava seduta. Per impotenza? Per mediocrità politica? Perché l’unico sport che appassiona i signori del Pd è la caccia al segretario? Non è qui importante ragionare sulle cause.

Ma gli effetti sul suo elettorato sì, quelli possiamo misurarli senza bisogno d’inforcare un paio di occhiali. Se il partito non sa più difendere i valori per cui a suo tempo l’ho votato, allora non mi resta che confidare nei garanti, nelle istituzioni super partes. Può trattarsi del presidente della Camera, o dei giudici costituzionali, o per l’appunto del Capo dello Stato.
Ma non è affatto questo il loro mestiere, e non è questo l’abito che la Costituzione cuce addosso al Capo dello Stato. Lui ha il potere di convalidare gli atti legislativi, può dunque negare la sua firma a un decreto legge oppure rifiutare la promulgazione d’una legge approvata dalle Camere. Però non è un re repubblicano, non è una terza Camera cui spetti valutare il merito della decisione politica confezionata in una legge. Non è neppure una Corte Costituzionale di primo grado, con un semaforo rosso sempre acceso sui vizi di legittimità. Il Presidente - afferma l’articolo 87 della nostra Carta - rappresenta l’unità nazionale. Tirarlo per la giacca in nome della disunione è un pessimo servizio alle nostre istituzioni.

michele.ainis@uniroma3.it

da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Maggio 10, 2010, 11:24:57 am »

10/5/2010

Ghino di Tacco dà scacco alla Regina

MICHELE AINIS

Il maggioritario inglese? Sembrava che per loro fosse come la regina, una bandiera nazionale. E ai nostri occhi era il sistema perfetto, quello che ti consegna il governo chiavi in mano un minuto dopo le elezioni. First past the post: un partito vince, l’altro perde. Invece passano i giorni, ma neanche i bookmakers scommettono su quale sarà la maggioranza in Parlamento. Di più: fra i leader politici del regno è in corso un balletto d’incontri e trattative, roba da oscurare i riti postelettorali della Prima Repubblica italiana.

Ricordate? A quel tempo c’era il proporzionale puro, c’erano due grandi partiti (la Dc e il Pci), e c’era infine un terzo incomodo (il Psi) ago della bilancia per ogni esecutivo, e perciò dotato d’un potere di veto e di ricatto. Tanto che il suo segretario - Bettino Craxi - firmava i propri editoriali sull’Avanti! con lo pseudonimo Ghino di Tacco, il celebre bandito medievale. Rieccolo sotto nuove spoglie, quelle del liberaldemocratico Nick Clegg. Tutti lo cercano, lui accetta la corte dei Tory di Cameron, intanto strizza l’occhio ai laburisti di Brown. Ma per concedere all’uno o all’altro i suoi favori, vuole in dote una nuova legge elettorale. Quale? Un proporzionale all’italiana, o meglio dell’Italia che fu.

Dal suo punto di vista, ha tutte le ragioni. I liberaldemocratici hanno rastrellato quasi un quarto dei consensi, ma incassano solo un ottavo dei rappresentanti alla Camera dei comuni. I laburisti, con appena 5 punti percentuali in più, guadagnano 258 seggi, il quintuplo dei lib-dem. Dunque la riforma elettorale è l’unica stampella che possa garantire un futuro politico a Nick Clegg. Per appoggiarvi il braccio, dovrà convincere gli altri a sbarazzarsi d’un maggioritario che alla prova dei fatti si è rivelato troppo rude, troppo impietoso con i piccoli. E che oltretutto distorce l’esito del voto, come peraltro è già successo a lettere maiuscole in vari casi nel passato. Per esempio nel 2005, quando Blair con il 35% dei voti ottenne il 55% dei seggi. O nel 1974, quando il responso elettorale venne addirittura rovesciato: ai conservatori la maggioranza dei suffragi, ai laburisti la maggioranza in Parlamento.

Nei sistemi maggioritari può accadere, e infatti la stessa giravolta si verificò in Nuova Zelanda nel 1981. Ecco perché secondo Kelsen il proporzionale è garanzia di libertà, mentre il maggioritario alleva la dittatura dei più forti. Tuttavia la novità di queste ultime elezioni inglesi è che il maggioritario ha mancato proprio il traguardo che dovrebbe sempre assicurare: la governabilità. Tanto da regalare munizioni all’Independent e a quella parte (crescente) d’opinione pubblica che se ne dichiara stufa. E allora possiamo trarne una doppia lezione, noi italiani impiccati da vent’anni a discutere l’ennesima riforma della legge di riforma elettorale.

Primo: non esiste un congegno perfetto. In teoria un buon sistema dovrebbe coniugare rappresentanza e governabilità; facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Anche perché in queste faccende contano i dettagli, più che i principi luminosi. Nel Regno Unito la tecnica del gerrymandering, ossia il ritaglio dei collegi elettorali per favorire questo o quel partito in base alla distribuzione geografica dei voti, determina il rendimento dell’uninominale. Di questo, però, i politici inglesi non amano parlare. E quelli italiani? Uguale.

Secondo: la legge elettorale è un po’ come il motore, ma poi conta il pilota, ovvero il sistema dei partiti. I quali a loro volta - quando cucinano una nuova legge elettorale - non puntano ai massimi sistemi, ma più prosaicamente al massimo vantaggio. In altre parole, ogni partito cerca di buggerare gli elettori altrui per favorire i propri. Gli elettori, però, sono quelli che mettono benzina nel motore. Se li prendi troppo per il naso, poi non meravigliarti se l’automobile ti rimane a secco.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7328&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #63 inserito:: Maggio 12, 2010, 10:04:04 am »

12/5/2010

Quale unità custodire

MICHELE AINIS

L’unità nazionale è figlia della storia, di processi culturali, fatti linguistici, intraprese politiche, fenomeni sociali. Ma è anche frutto del diritto: senza coesione giuridica non c’è unità politica, senza un tessuto di regole comuni e condivise è impossibile la stessa convivenza. Dunque il diritto non può creare l’unità nazionale, però deve alimentarla, e in conclusione deve conservarla.

A questa vocazione risponde innanzitutto la legge più alta, quella scolpita nelle tavole costituzionali. Nei 150 anni dell’Italia unita ne incontriamo due, diverse nella propria genesi, nella concezione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini, nell’architettura della cittadella pubblica. Eppure c’è almeno un filo di continuità fra lo Statuto Albertino e la Carta repubblicana: l’uno e l’altra sono stati concepiti con lo sguardo rivolto al futuro, alle generazioni che verranno. Nel più autorevole commento allo Statuto, firmato da Racioppi e Brunelli, quest’ultimo era raffigurato come una sorgente di «principii in attesa della loro sostanza vitale». Un secolo più tardi Piero Calamandrei illustrò il medesimo concetto sui banchi dell’Assemblea Costituente; e rivolgendosi agli altri deputati li esortò a operare, secondo il verso dantesco, «come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte».

C’è insomma una tradizione giuridica italiana che si mantiene inalterata pur nel passaggio dal regno alla repubblica; ma in che misura si è tradotta in un fattore d’unificazione? Se effettuassimo un esame intransigente, dovremmo stendere un bilancio in rosso. Sull’unità degli italiani pesano fratture storiche mai del tutto ricucite: quella fra élite e masse popolari, a partire dal modo in cui le classi dirigenti sabaude gestirono il nuovo Stato nazionale; quella fra laici e cattolici dopo il Non expedit di Pio IX; la guerra civile dopo l’8 settembre; la conta fra monarchici e repubblicani; lo scontro fra partiti di sistema e partiti antisistema, gli uni e gli altri - significativamente - con un riferimento fuori dal contesto nazionale (Washington, Mosca, Città del Vaticano). E pesa infine una questione meridionale che nel tempo si è aggravata, invece d’attenuarsi.

Tuttavia gli ostacoli al sentimento unitario non devono indurci a negare quello stesso sentimento. Vale per l’unità nazionale, vale per tutti gli altri valori espressi dalla Costituzione, a cominciare dai valori di eguaglianza e libertà. Potrà mai esistere una società totalmente libera, totalmente eguale? Non su questa terra, perché la vita stessa genera ogni giorno nuove situazioni di diseguaglianza, nuove ferite alla libertà degli individui. Conta allora la tensione verso l’eguaglianza, verso la libertà, infine verso l’unità. La condizione umana riecheggia la fatica di Sisifo, ciascuno di noi porta un masso sulle spalle, senza mai riuscire a liberarsene. A loro volta i valori costituzionali sono come l’orizzonte che ci sovrasta: non possiamo toccarlo con le mani, ma non possiamo neppure evitare di tendervi lo sguardo.

Nella Carta repubblicana, questo orizzonte si disegna nell’art. 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Una formula icastica, che però fu ritenuta a lungo una scatola vuota. Per quale ragione? Perché ospita due principi che a prima vista si negano l’un l’altro, perché l’unità è nemica della diversità. Ma l’identità - in termini aristotelici - è sempre un divenire, sia per i singoli sia per i corpi collettivi. In secondo luogo, l’unità non è uniformità: anche il matrimonio è un’unione fra sessi diversi, e d’altronde l’unione dell’uno sarebbe un ossimoro. In terzo luogo, in democrazia l’unità è a sua volta pluralista, il pluralismo genera l’autonomia delle comunità locali, e l’autonomia esprime una carica antiautoritaria, perché avvicina governanti e governati. Da qui la doppia valenza dell’art. 5: vi si estrae sia un principio propulsivo, nel senso del decentramento del potere pubblico; sia un principio negativo, un argine a riforme che possano disgregare il nostro tessuto connettivo, anche se approvate nella forma della legge costituzionale.

Ma a chi spetta custodire l’unità? Dice l’art. 87: «Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale». Anche in questo caso la formula costituzionale inizialmente venne irrisa, fino a qualificarla espressione «poetica» o al più pleonastica. Sennonché - come osservò Ruini in Assemblea costituente - vi s’incarna «la forza permanente dello Stato al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Certo: il Presidente è specchio dell’unità che c’è, può rifletterla, non può crearla artificiosamente. Anche il suo ruolo di custode sarebbe impotente dinanzi a fenomeni insurrezionali, quando il fatto diventa diritto. Ma l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 26, 2010, 03:35:07 pm »

26/5/2010

Intercettazioni costituzione e buon senso
   
MICHELE AINIS

L’incostituzionalità di una legge può essere provata solo quando la Consulta ci mette sopra un timbro.

Prima d'allora è un semplice sospetto, o in qualche caso un dubbio. Eppure il disegno di legge sulle intercettazioni è proprio di questo che ha bisogno: un esame urgente di costituzionalità. Se il Parlamento vi si dedicasse, farebbe certamente meno danni.

Nel caso di specie vengono in gioco tre libertà fondamentali: il diritto alla giustizia; il diritto alla riservatezza; il diritto all'informazione. Qualcuno saprebbe rinunziare all'uno o all'altro? Nessuno, né tra gli avversari né tra i tifosi di quest'ultimo provvedimento normativo. Difatti l'esistenza di una macchina giudiziaria capace di reprimere i delitti garantisce la nostra sicurezza collettiva: senza legalità saremmo come bestie nella giungla. A sua volta, il diritto alla privacy ci tutela contro l'invadenza dei poteri pubblici e privati: senza il dominio sulla nostra sfera intima, senza la possibilità d'appartarci fra le mura domestiche, saremmo come gli uomini narrati da Orwell, altrettante marionette del Grande Fratello. Quanto alla libertà d'informazione, non a caso la Corte Costituzionale - in una celeberrima sentenza del 1969 - l'ha definita «pietra angolare della democrazia». L'improvvisa sintonia fra tutti i direttori di giornale contro la stretta sulle intercettazioni può aver lasciato nei lettori un retrogusto amaro, l'idea d'una reazione difensiva, se non corporativa. Non è così: il lavoro dei giornalisti è in funzione della nostra libertà di cittadini. Se non avessimo più accesso alle notizie, tanto varrebbe confiscarci pure il voto.

Com'è possibile dunque miscelare questi tre ingredienti senza offendere la Costituzione? Tutto sommato, basterebbe evitare d'offendere il buon senso. Non serve una laurea in legge per capire che se in nome della privacy strangolo la legalità e l'informazione sarò un assassino, non un gendarme dei diritti. È insomma una questione di misura; o in termini giuridici di bilanciamento, di proporzione tra il dare e l'avere. D'altronde se mi metto in tasca un sassolino raccolto nella villa comunale, nessuno mi processerà per furto; ma se comincio a spalare terra per riempirci un camion, prima o poi arriverà una volante a sirene spiegate.

Ma non c'è misura in questa legge, a partire dalle sue stesse dimensioni: 5654 parole nel testo licenziato dalla Camera, prima che il Senato aggiungesse le proprie filastrocche. Non c'è misura in questo testo che comincia dalla lettera h-bis) ed esplode in un trionfo d'avverbi quando enumera le condizioni per rendere valide le intercettazioni: devono essere «assolutamente» indispensabili sulla base di esigenze «espressamente e analiticamente» indicate. Non c'è misura nel trattare la privacy del delinquente abituale alla pari di quella del cittadino onesto, né nel difendere la riservatezza dei politici, di cui dovremmo sapere pur qualcosa dato che ci domandano il voto. Non c'è misura in una procedura che si risolve nella processione del pm prima nello studio del procuratore, poi dinanzi al tribunale in composizione collegiale, doppia autorizzazione, doppie carte, tempi al quadrato. Infine non c'è misura - o forse ce n'è troppa - nel termine di 75 giorni per gli ascolti, anche se il giorno prima hai catturato per caso la voce di Bin Laden.

Basterà a sanare queste pecche il recupero del testo approvato dalla Camera, che permetteva la pubblicazione «per riassunto» delle intercettazioni? Come ha scritto Mario Calabresi, se ai pm viene sostanzialmente impedito il lavoro d'investigazione, i giornali non avranno più nulla da riassumere. Del resto non è il solo aspetto irrazionale della legge. C'è per esempio la metamorfosi dei quotidiani in libri di storia, giacché l'informazione dettagliata potrà venire pubblicata soltanto dopo l'udienza preliminare, e quindi dopo vari anni dall'arresto. C'è il divieto d'intercettare quando l'ascolto è utile, e il permesso quando è inutile. E c'è in conclusione l'oscuramento del buon senso: vietato intercettarlo.

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« Risposta #65 inserito:: Giugno 08, 2010, 10:23:22 am »

8/6/2010
L'impresa e l'alibi dell'articolo 41
   
MICHELE AINIS

La Carta costituzionale è al contempo la carta d’identità di un popolo. Ne elenca i tratti culturali, anziché quelli somatici. Poiché in Italia nessuno la conosce, significa che non abbiamo idea di cosa siamo. Peggio: significa che ci sentiamo liberi di plasmare ogni mattina i nostri connotati, senza preoccuparci della fotografia scattata dai Costituenti. Ma c’è un’insidia più grave dell’oblio: il falso ricordo, tanto più se procurato con l’inganno. Un esempio potrà forse aiutarci a risvegliare la memoria.

Quale? L’art. 41 della Costituzione. Urge cambiarlo, ha detto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia. Altrimenti la libertà d’impresa rimarrà per sempre una chimera, ostaggio d’uno Stato ficcanaso. Applausi bipartisan, con l’opposizione - da Morando a Violante - pronta a concorrere a questa rivoluzione liberale. E i cittadini? Avranno pensato che quella norma l’aveva vergata di suo pugno Stalin, che la Costituzione italiana del 1947 sia una ristampa anastatica della Costituzione sovietica del 1936. Poiché il professor Tremonti è persona colta, lui certamente sa cosa c’è scritto nei tre commi dell’art. 41. Noi invece dei nostri studi ci fidiamo poco, sicché apriamo un codice e inforchiamo un paio d’occhiali.

Primo comma: «L’iniziativa economica privata è libera». Dunque o stiamo consultando un testo apocrifo, oppure la libertà d’impresa ricade già fra i nostri valori collettivi. Che altro dovremmo aggiungerci per renderla più libera? Forse un termine di comparazione: libera come il vento, come un pesce, come il Popolo della libertà. Ma andiamo avanti, magari l’intralcio sbuca dal rigo successivo. Secondo comma: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E che dovremmo dire? Che le imprese d’ora in poi saranno inutili o dannose? Che gli industriali devono esser liberi di brevettare giocattoli pericolosi, auto inquinanti, ecomostri, farmaci nocivi? Che possono trasformare le loro fabbriche in altrettanti lager?

Eppure è questo il gluteo su cui andrebbe a conficcarsi l’iniezione ri-costituente. Non può trattarsi infatti del terzo e ultimo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Perché no? Perché senza controlli ciascuno farebbe un po’ come gli pare, svuotando il secondo comma dell’art. 41. Altrimenti sarebbe come predicare la sicurezza sulle strade, licenziando al contempo tutti i vigili urbani. E perché se in tale norma s’individua viceversa la matrice delle leggi di piano, è bene ricordare che la prima e ultima legge di tal genere venne approvata nel 1967. Basta lasciare in sonno il terzo comma, dato che dorme da più di quarant’anni. A meno che il problema non siano i «fini sociali» dell’economia pubblica e privata. Si sa che il Pdl, quando sente menzionare Fini, fa un salto sulla sedia.

Insomma l’art. 41 non è che un alibi, uno schermo. Serve a scaricare sulla Costituzione l’impotenza dei politici a inaugurare una stagione di riforme liberali. Dice: ma l’art. 41 tace sulla libertà di concorrenza. E allora? Sarebbe forse incostituzionale l’Antitrust (per chiamarla col suo nome di battesimo: Autorità garante della concorrenza e del mercato), che bene o male funziona dal 1990? Non c’è forse l’art. 117 della Costituzione, che assegna alla legislazione dello Stato la «tutela della concorrenza»? Non c’è un fiume di norme europee - recepite nel nostro ordinamento - che a loro volta proteggono il libero mercato? Altrimenti non si capirebbe perché mai nella giurisprudenza costituzionale la «tutela della concorrenza» figuri in 131 decisioni, il «libero mercato» in 44, la «libertà di iniziativa economica privata» in 81, e via elencando.

Ma dopotutto non è questo ciò che importa. In Italia non conta la Costituzione scritta, conta quella immaginata. Occorre un bel po’ di fantasia, però i nostri politici ne hanno la bisaccia piena. Come diceva Giambattista Vico, la fantasia tanto più è robusta quanto più è debole il raziocinio.

michele.ainis@uniroma3.it
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« Risposta #66 inserito:: Giugno 17, 2010, 09:16:18 am »

17/6/2010 - LA POLEMICA

Il giurista e le interviste partigiane
   
MICHELE AINIS

C’ erano un tempo politici di destra e di sinistra, ciascuno intruppato nel proprio schieramento.

Ora ti capita d'incrociare Gianfranco Fini, che milita a destra ma è caro alla sinistra.

Oppure Pierferdinando Casini, che in Parlamento vota insieme alla sinistra mentre il suo cuore batte a destra. Chi può restituirci le nostre geometrie perdute? Stampa e tv una soluzione l'hanno rimediata: i costituzionalisti.

Ne parlo qui per esperienza personale, ma è l'esperienza di tutti i miei colleghi. C'è in cantiere una legge sulle intercettazioni? Doppia intervista con un giurista contrario alla nuova normativa e uno favorevole (quest'ultimo più raro sul mercato, ma fa niente, vuol dire che gli toccheranno sei interviste al giorno). C'è un progetto di riforma del bicameralismo? Della giustizia? Dell'immunità per le alte cariche? Idem, anzi doppio idem. Una volta un tg nazionale mi ha chiesto una dichiarazione per difendere la promulgazione d'una legge contrastata, avendo già incassato l'opinione avversa: un'intervista a risposta obbligata. E se tu spiazzi il giornalista dicendo il contrario di ciò che lui s'aspetta? Non ti pubblica, e non ti chiamerà mai più in futuro: inaffidabile.

Qualcuno di noi (pochi) si sente un po' a disagio a indossare una maglietta da tifoso. Qualcun altro (molti) si compiace di quanto sia neutrale l'informazione qui in Italia, e soprattutto si compiace di leggere il proprio nome sui giornali. E la neutralità della scienza? Roba da Ottocento, l'importante è che sia partigiana la coscienza. L'importante, per noi addetti ai lavori, è difendere l'autorità della Costituzione, leggendola ovviamente da destra e da sinistra. Tanto più se quest'ultima si somma all'autorità degli ex presidenti della Corte costituzionale, anch'essi regolarmente intervistati in coppia: uno di destra e uno di sinistra. C'è il dubbio che le loro performance da ex non giovino all'immagine d'imparzialità della Consulta? Allora basta intervistare un ex presidente di sinistra, tirando a sorte fra i molti candidati: o meglio di sinistra come costituzionalista, di destra come ex presidente, dato che la sua testimonianza suonerà giocoforza come una convalida alle accuse di Berlusconi contro la Corte «comunista». Noi costituzionalisti, per amor di patria, ci prestiamo al gioco. Ma perché dobbiamo essere gli unici a rappresentare la nostra patria bipolare? Metti per esempio i terremoti o il ponte sullo Stretto: per farcene un'idea obiettiva pretendiamo che anche sismologi e ingegneri vengano intervistati in coppia, uno a dritta, l'altro a manca.

michele.ainis@uniroma3.it
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7486&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #67 inserito:: Giugno 26, 2010, 06:13:52 pm »

26/6/2010

Dalla parte dell'etica e del diritto
   
MICHELE AINIS

E’ irrituale il comunicato di Napolitano sul caso Brancher? Può darsi; ma certamente è fuori da ogni rito democratico che un ministro senza ministero, prima ancora di capire quale sia il suo daffare nel governo, mandi a dire ai propri giudici che ha troppo da fare, verrà in tribunale un’altra volta. Trasformando il sospetto in una prova, quanto alle ragioni della sua fulminea nomina. E soprattutto trasformando il legittimo impedimento in un’onda collettiva di legittima indignazione, come ha scritto Cesare Martinetti su questo giornale. Di tale sentimento il Presidente non può che farsi interprete, nel suo ruolo di custode di valori etici, oltre che giuridici. Anche il diritto, però, vuole la sua parte. E almeno in questo caso il diritto sta dalla parte del nostro Presidente. La legge n. 51 dello scorso 7 aprile - che ha introdotto questa via di fuga dalle aule giudiziarie per il premier e per i suoi ministri - stabilisce che il legittimo impedimento può essere invocato quando altrimenti verrebbe ostacolata una funzione di governo. Nel suo tenore letterale, l’art. 1 della legge non distingue fra ministri con dicastero ovvero senza portafoglio. Aggiunge tuttavia che l’attività ministeriale dev’essere di volta in volta disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato.

Quale specifica attività ministeriale impedisce al neoministro di presentarsi in tribunale? E qual è la specifica norma che la regola? C’è poi un’ultima questione, sempre in punta di diritto. La legge parla di «legittimo» impedimento, non d’impedimento «assoluto». Il primo è sindacabile dal giudice, il secondo no. Significa che un’interpretazione costituzionalmente orientata può temperare le due esigenze in gioco - quelle del governo e quelle della giustizia - senza sacrificare troppo l’ultima alla prima. Significa perciò che ogni magistratura giudicante potrà ben valutare se l’impedimento è davvero «legittimo», ossia conforme alle leggi sull’attività ministeriale. Ecco, è questo il senso del comunicato che abbiamo letto ieri. Un avallo interpretativo - il più autorevole, anche perché dettato da chi presiede il Consiglio superiore della magistratura - verso letture compatibili con la Costituzione, quando si tratta di applicare questa legge travagliata. Poi spetterà ai giudici l’ultima parola. michele.ainis@uniroma3.it

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« Risposta #68 inserito:: Luglio 02, 2010, 09:39:49 pm »

2/7/2010

L'immunità un'offesa al buon senso
   
MICHELE AINIS


King cannot wrong»: il re non può sbagliare, recita un’antica massima della democrazia inglese. È dunque irresponsabile, se non infallibile tal quale il Papa, come stabilì Pio IX nel 1870.

Invece nella nuova democrazia italiana irresponsabili e infallibili sono i ministri, quale ne sia il numero, il sesso, la fedina penale. Così vuole il lodo Alfano nel suo abito costituzionale. Un abito peraltro continuamente allargato e ricucito nella sartoria del Senato; o dovremmo chiamarlo lodo Brancher?

L’ultima idea - quella di estendere lo scudo processuale alle iniziative giudiziarie inaugurate prima che l’imputato giurasse da ministro - sembra in effetti tagliata su misura per il neoministro a Non si sa che cosa. Significa che è un’idea incostituzionale? No di certo: ormai è vietato concludere i processi, figurarsi i processi alle intenzioni. E d’altronde già la Carta del 1947 elenca una serie d’immunità per le alte cariche; dunque l’immunità di per sé non viola il principio d’eguaglianza, altrimenti dovremmo reputare incostituzionale la Costituzione stessa. Purché ogni immunità venga introdotta attraverso il procedimento di revisione costituzionale, non con legge ordinaria: così ha sentenziato l’anno scorso la Consulta, così effettivamente sta operando la maggioranza di governo.

No, non c’è un attentato alla Costituzione in questo lodo redivivo. C’è piuttosto un’offesa al buon senso, oltre che al buon gusto. Perché mai, difatti, l’immunità dovrebbe estendersi ai reati commessi prima del giuramento da ministro? Se la risposta è il fumus persecutionis, ossia il sospetto che l’inchiesta giudiziaria risponda a una finalità politica, allora è come dire che i magistrati italiani hanno la palla di vetro. E perché il nuovo lodo protegge i ministri con una diga più alta di quella eretta nell’art. 96 della Costituzione? Quest’ultima norma concerne i reati funzionali, compiuti guidando un dicastero; il lodo tocca viceversa i delitti comuni. Insomma d’ora in poi ogni ministro sarà più tutelato se fa una rapina in banca anziché un abuso d’ufficio. E perché infine l’autorizzazione a procedere viene affidata alla maggioranza semplice delle assemblee legislative? Siccome tale maggioranza è lo sgabello su cui poggia il governo, siccome la sua sopravvivenza in Parlamento dipende dalla sopravvivenza del governo, è un po’ come consegnare un fucile a chi ha le manette ai polsi.

Eccolo infatti il vizio (logico, prima ancora che giuridico) di questo nuovo lodo. Non è illegittimo, è inopportuno. Peggiora la qualità delle nostre istituzioni, anziché innalzarla. Infine erode sotto traccia l’autorità del Capo dello Stato. Il presidente della commissione Giustizia del Senato ha dichiarato che sarebbe ingiusto negare al premier il medesimo scudo processuale per i reati pregressi di cui potrà avvalersi il Quirinale. Errore: lì abita la prima carica dello Stato, il presidente del Consiglio è soltanto la quarta. Ma il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il Capo dello Stato: un improprio voto di fiducia, ha osservato Paolo Caretti. O altrimenti un’arma di ricatto. Meglio la maggioranza assoluta, come del resto vuole l’art. 90 della Costituzione per i reati presidenziali. O l’improcedibilità tout court, quale esiste in Francia, Israele, Grecia, Portogallo.

Ma l’opportunità è una categoria dello spirito, non della politica. A noi che non abbiamo scudi processuali sembrerà forse inopportuno tutto questo scalmanarsi attorno allo scudo dei potenti, prima con il lodo Schifani, poi con il lodo Alfano, poi con il legittimo impedimento, poi con il lodo Alfano bis. Suoneranno altrettanto inopportune le proclamazioni sui principi - la forma di governo, il federalismo, la libertà d’impresa nel nuovo art. 41 - quando le uniche riforme che poi approdano a riva sono quelle che hanno di mira la giustizia. Ci parrà infine inopportuno venire scomodati per il referendum costituzionale che giocoforza accompagnerà questo nuovo lodo. Ma ci scomoderemo.

michele.ainis@uniroma3.it

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« Risposta #69 inserito:: Luglio 08, 2010, 10:52:24 am »

8/7/2010

Cavilli scambiati per cavalli

MICHELE AINIS

Chissà perché in Italia ogni mosca in volo diventa un’astronave. L’ultimo Ufo è atterrato davanti al Quirinale, con un doppio avvistamento: da destra (il Giornale) e da sinistra (il Fatto quotidiano).

Lassù sul Colle hanno smentito seccamente la notizia, ma gli avvistatori recano prove inoppugnabili. In attesa di discuterne al prossimo congresso di cosmologia, proviamo a misurarle in questa sede.

Dunque, il Senato sta votando con legge costituzionale il lodo Alfano, che forgia uno scudo processuale per il governo e per il Capo dello Stato. Un senatore del Pd - Stefano Ceccanti, che di mestiere fa il costituzionalista - avanza un emendamento che dichiara il Presidente improcessabile, e perciò sottratto all’autorizzazione parlamentare da cui dipende viceversa l’immunità per i ministri. Da qui la prova, una e trina come il Padreterno: se Ceccanti ha firmato quell’emendamento, significa che aveva la benedizione del partito; se il Pd si è fatto avanti, significa che è stato imbeccato dal diretto interessato, ossia dal Presidente; se Napolitano vuole sottrarsi ai rigori della legge, significa che ha commesso qualche marachella. Lui nega? E allora perché il suo consigliere - aggiunge il Fatto quotidiano - giudica un errore l’autorizzazione a procedere verso il Presidente?

Giacché mi trovo a essere citato per nome e cognome nei panni di chi dà consigli al Capo dello Stato, vorrei rivolgere un appello agli amici del «Fatto»: o cambiate il nome del giornale o cambiate le notizie. Il Quirinale ha uno staff di prim’ordine, nel quale non sono mai stato reclutato. Ma dopotutto non è questo ciò che conta. Pesano piuttosto riforme di sistema che scassano il sistema, perché non si curano affatto delle geometrie costituzionali. Ceccanti sarà forse stato ingenuo sul piano politico (tant’è che ha dovuto ritirare il proprio emendamento), ma da costituzionalista aveva tutte le ragioni. Quando i nostri padri fondatori scrissero l’art. 90 - che esige la maggioranza assoluta per porre in stato d’accusa il Presidente, nei casi di alto tradimento e d’attentato alla Costituzione - avevano negli occhi il proporzionale con cui fu eletta l’Assemblea Costituente. Con il maggioritario avrebbero scritto come minimo due terzi, per garantire il consenso dell’opposizione. E allora come si fa a contentarsi della maggioranza semplice per i delitti extrafunzionali, oltretutto in un sistema come questo, dove i parlamentari sono altrettanti soldatini?

C’è però un’osservazione che rende superfluo l’emendamento di Stefano Ceccanti, e forse pure il lodo Alfano. Il Presidente già da oggi è improcessabile per i reati comuni: se i costituenti non hanno messo nero su bianco questa immunità, è solo perché sarebbe suonata «irriguardosa» verso il Capo dello Stato. Chi l’ha detto? Costantino Mortati, e dopo di lui molti altri maestri di diritto. Gioca qui infatti l’eredità dello Statuto Albertino, che proclamava «sacra e inviolabile» la persona del Re. Gioca un motivo sistematico, perché non si può negare alla suprema istituzione la tutela che la Carta offre persino ai deputati. E gioca infine un argomento logico: come mai farebbe il Presidente a promulgare leggi o ricevere ambasciatori dentro una cella di Regina Coeli?

Insomma il fiore delle immunità perde un petalo alla volta. Il lodo Schifani s’estendeva ai presidenti delle Camere, oltre che a chi dirige la Consulta. Il primo lodo Alfano si sbarazzò di quest’ultima figura; il secondo ha eliminato i presidenti delle Camere. Se non c’è ragione d’aprire l’ombrello sul Capo dello Stato, non resta che il governo. Magari è proprio per evitare tale solitudine che i nostri ri-costituenti hanno tirato in ballo il Quirinale. Un frutto avvelenato, come dimostra quest’ultima vicenda. E insieme una lezione per Ceccanti e per la categoria cui entrambi apparteniamo: in Italia i cavilli vengono scambiati per cavalli.

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« Risposta #70 inserito:: Luglio 14, 2010, 10:27:49 am »

14/7/2010

Un Paese immerso nella palude
   
MICHELE AINIS

L’Italia che s’accinge a celebrare un secolo e mezzo di storia nazionale è diventata una palude, uno stagno d’acque limacciose nel quale siamo immersi fino al collo. Scorri le cronache che incalzano giorno dopo giorno, e t’accorgi che nessun ceto sociale, nessuna categoria professionale è fuori dalla melma. Ci trovi dentro il poliziotto e il giudice, l’imprenditore e il generale, il direttore della Asl così come il prefetto, il banchiere, il professore. E ovviamente il politico di turno, con le sue mani rapaci. Tutti affaccendati in faccende deplorevoli ma ben retribuite, e infatti il faccendiere ormai incarna il mestiere con la maggiore schiera di seguaci.

Tu vedi che l’Italia è questa, ma sai pure che non è soltanto questa. All’università imperversano piccoli baroni (fateci caso: in genere sono anche bassi di statura), ma i più insegnano, studiano, scrivono, non passano tutto il proprio tempo a imbastire trame e organigrammi.

Succede lo stesso negli ospedali, nei tribunali, negli studi professionali, nelle aziende. Succede tra le forze dell’ordine, al di là di qualche mela marcia. Proprio ieri 300 arresti hanno decapitato la ’ndrangheta dal Sud al Nord della penisola, dopo i colpi già andati a segno contro la mafia e la malavita organizzata. E allora perché mai il presidente del Consiglio, invece di menarne vanto, difende ora Brancher ora Verdini ora Cosentino, vittime a suo dire d’un furore giacobino? Ma soprattutto: perché noialtri giriamo gli occhi altrove? Da quando abbiamo perso ogni capacità reattiva? Per quale ragione non riusciamo a espellere il furbetto della stanza accanto, e anzi lo guardiamo con ammirazione? A che si deve questo sonno collettivo?

La risposta suonerà forse impietosa, ma è da qui che dobbiamo cominciare. Se gli onesti camminano per strada a mani alzate, ciò accade perché sono un popolo sconfitto. L’Italia del malaffare è anche l’Italia dei potenti, di chi ha vinto la partita. E alle nostre latitudini i potenti sono immarcescibili, hanno bevuto l’elisir di lunga vita. Al massimo accettano di scambiarsi le poltrone, come nel gioco dei quattro cantoni. Capita fra i membri delle authorities come nei consigli d’amministrazione, nelle regioni, nei gabinetti ministeriali. È quest’antica confidenza col Palazzo che li fa sentire onnipotenti, al di sopra della legalità costituita. Ed è al contempo quest’esempio che indebolisce la nostra tempra collettiva. Sai che puoi farti spazio nella vita soltanto per graziosa concessione del sovrano, e sai inoltre che il sovrano applica regole diverse da quelle stampate sulle Gazzette ufficiali.

Insomma la questione legale è figlia d’un paese bloccato, senza ricambio nelle sue classi dirigenti. E dunque senza premio per i meriti, né castigo per i demeriti. Un paese dove il tuo destino dipende dal certificato anagrafico che hai ricevuto in sorte, oppure dalla benevolenza dei potenti. Questa sciagurata condizione tradisce la promessa di riscatto per i deboli conservata nel principio d’eguaglianza sostanziale, il pilastro sul quale i nostri padri fondatori edificarono la Costituzione del 1947. E in secondo luogo tradisce l’ambizione su cui vent’anni fa sorse la seconda Repubblica.

Se il primo tempo delle nostre istituzioni restituì un’immagine pietrificata, con un partito al governo per 45 anni di fila, il secondo tempo avrebbe dovuto aprirci viceversa alla competizione, alla mobilità sociale, alla meritocrazia. Altrettante riforme mancate, progetti abbozzati e subito abortiti. Ma senza riforme non verremo mai fuori dalla nostra palude collettiva.

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« Risposta #71 inserito:: Luglio 28, 2010, 10:52:15 am »

28/7/2010

Gli elettori senza potere
   
MICHELE AINIS


C’è un fantasma nella nostra scena pubblica: la legge elettorale. La sua riforma non ha mai occupato i desideri della maggioranza di governo, ora non interessa più nemmeno all’opposizione. Perché dovrebbe? È così comodo manovrare un esercito di soldatini di piombo travestiti da parlamentari.

Niente capricci, niente alzate d’ingegno: altrimenti la volta prossima te ne rimani a casa, anche se la tua pagina su Facebook conta un popolo di lettori e di elettori. E poi nell’agenda politica incalzano altre urgenze, altre questioni: la manovra finanziaria, le intercettazioni, il federalismo, l’università. Perché mai dovremmo attardarci sugli alambicchi del maggioritario o del proporzionale?

Eppure c’è un nesso tra i funerali della legalità e il battesimo della nuova classe dirigente. Basta misurare le reazioni dei politici finiti sotto torchio. Verdini: una congiura mediatica. Cosentino: un complotto giudiziario. Brancher, Dell’Utri, Caliendo: idem. E comunque l’essenziale è mantenere la fiducia del Capo, chissenefrega dei giornali. Tanto è lui, soltanto lui, che decide il tuo posto in Parlamento. L’insubordinazione, ecco il delitto più infamante.

Per i disobbedienti s’agita il randello dell’epurazione, oggi dal Pdl contro il finiano Granata, ieri dal Pd verso Riccardo Villari, dal Pdci verso Marco Rizzo, da Idv verso Nicola D’Ascanio, dalla Lega con una lista di proscrizione lunga come l’elenco del telefono. D’altronde Bossi l’ha detto chiaro e tondo, inaugurando nei giorni scorsi la sezione di Travedona Monate: «chi pianta casino è fuori dal partito». Berlusconi usa un linguaggio più tornito, ma anche per lui la «lealtà» costituisce la prima virtù dei suoi parlamentari. Insomma ai padroni del vapore sta a cuore la fedeltà, non certo l’onestà. Le nomine si fanno per appartenenza, non per competenza. Sicché gli incompetenti disonesti sono ormai il grosso della nostra classe dirigente.

Negli Stati Uniti o in Inghilterra non succederebbe. Lì, se un deputato viene sorpreso con le dita nella marmellata, la sua constituency gli sbatte la porta in faccia senza troppi complimenti, e lui poi difficilmente trova un altro collegio elettorale. Lì l’accountability, la responsabilità dell’eletto verso l’elettore, è l’olio che fa girare il motore democratico. Lì la reputazione dei politici è come la verginità: quando l’hai persa è per sempre, non c’è chirurgo plastico che tenga. Noi, in Italia, questa medicina non l’abbiamo mai bevuta.
Neanche ai tempi della Dc, un partito che ha pietrificato per 45 anni ogni alternanza di governo. Sarà che abitiamo in un Paese cattolico, dove il confessionale monda ogni peccato. Sarà l’eredità delle corporazioni medievali, un mondo dove il mestiere dei padri spettava di diritto ai figli, senza concorrenza, senza ricambio d’uomini e di idee. Ma certo dal 2005, da quando abbiamo in circolo questa legge elettorale, lo spettacolo è scaduto ulteriormente. Servirebbe l’uninominale, uno contro uno. Servirebbe la possibilità di revocare gli eletti immeritevoli. Invece la politica italiana ha revocato gli elettori.

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« Risposta #72 inserito:: Luglio 31, 2010, 08:28:35 am »

31/7/2010

Uno scontro tra due idee di democrazia
   
MICHELE AINIS

C’è un conflitto più grave, più esteso e lacerante, della frattura che in queste ore ha spaccato in due come una mela il maggiore partito politico italiano. È il conflitto tra due concezioni della democrazia, della legalità costituzionale. La prima è una democrazia plebiscitaria: significa che la sovranità si trasferisce dagli elettori al leader, il quale poi la esercita dettando in solitudine l'agenda di governo così come l'organigramma dello Stato. La seconda è una democrazia parlamentare, con i suoi riti, con i suoi tempi, con i suoi equilibri perennemente instabili. È alla prima concezione che si è richiamato Silvio Berlusconi, cacciando dal partito Fini e licenziandolo dallo scranno più alto di Montecitorio. È alla seconda che s'appella viceversa il presidente della Camera, alla sovranità del Parlamento anziché del Capo carismatico. Non che le democrazie debbano temere le occasioni di contrasto. Meglio portarle allo scoperto che nascondere la polvere sotto i tappeti. Non per nulla la nostra Carta regola il conflitto d'attribuzioni fra i poteri dello Stato. E infatti la nascita d'un gruppo parlamentare autonomo chiude una stagione di congiure, dove non era chiara nemmeno l'identità dei congiurati.

Ora finalmente potremo fare un po' di conti, ma soprattutto dovrà farli Berlusconi. Perché sta di fatto che sbarazzandosi del proprio oppositore interno in nome della democrazia plebiscitaria, paradossalmente ha rivitalizzato la democrazia parlamentare. È in Parlamento, difatti, che il suo gabinetto dovrà trovare i numeri per continuare a governare. È lì che le forze politiche potranno decidere di battezzare un altro esecutivo. Ed è sempre al Parlamento che il Premier dovrebbe riferire circa la fase politica che si è aperta nel Paese. Lo farà? È giusto dubitarne: nella democrazia plebiscitaria le Camere sono un orpello, un accidente inutile. Ecco allora l'autentico conflitto che in Italia si consuma ormai da molti anni: quello fra Costituzione scritta e Costituzione materiale. È un conflitto fra diritto e anti-diritto, che in ultimo ci rende viandanti nel deserto del diritto, perché i due regimi s'elidono a vicenda. Eppure si profilano entrambi all'orizzonte specie durante il frangente d'una crisi, quando sarebbe maggiormente necessario il salvagente delle regole. Accadde per la prima volta nel 1994, dopo il ribaltone di Bossi che colò a picco il primo governo Berlusconi. Lui reagì chiedendo elezioni anticipate, in nome per l'appunto della democrazia plebiscitaria; invece il presidente Scalfaro insediò il governo Dini, in nome della democrazia parlamentare. Adesso ci risiamo: Fini non si dimette, le regole scritte non contemplano alcuna mozione di sfiducia verso i presidenti delle assemblee legislative, Berlusconi tira in ballo le regole non scritte. C'è però un colpevole, c'è un killer a viso scoperto, in questa strage delle regole di cui siamo costretti a celebrare i funerali. Questo colpevole è il sistema dei partiti: tutti, di destra e di sinistra.

Nella seconda Repubblica si sono avvicendati a turno sui banchi del governo, senza mai adeguare la Costituzione scritta al nuovo ordinamento materiale, o senza contrastarlo in nome della legalità formale. In più trattano le istituzioni come la propria cameriera. Ne è prova lo scandalo del nuovo Csm, dove hanno trovato un posto al sole l'avvocato di Bossi (Brigandì), quello di Berlusconi (Palumbo), quello di D'Alema (Calvi). Ne è prova altresì la lunga occupazione della presidenza di Montecitorio da parte dei segretari di partito, ancora senza differenze tra sinistra e destra: nell'ordine Casini, Bertinotti, Fini. E poi ti meravigli se il capopartito continua a fare il primattore anche da lassù? Non sei stato proprio tu - Prodi, Berlusconi - a farlo votare? Nella prima Repubblica, quando s'affermò la convenzione che la presidenza della Camera spettasse al Pci, Berlinguer ci mandò la Iotti, senza mai sognarsi d'occuparla in prima persona. Ma Berlinguer è morto, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.

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« Risposta #73 inserito:: Agosto 19, 2010, 03:14:27 pm »

19/8/2010

Italia ferma nell'ingorgo degli "ex"
   
MICHELE AINIS

Un personaggio segnato dalle rughe s’aggira fra i palazzi del potere. Non ha un nome, benché in gioventù ebbe un nome altisonante. Non ha una carica, o almeno non così solenne come quelle che rivestì in passato. Non ha più lustro, né energie per lustrare la sua targa d’ottone. Tuttavia non si contenta affatto dei ricordi. No: traffica, cospira, confabula, almanacca, e in conclusione non esce mai di scena. È l’ex.

La politica italiana trabocca di questi pluridecorati, perennemente a caccia di trofei per rimpolpare il proprio medagliere. E non c’è troppa differenza fra sinistra e destra, fra estremisti e moderati. Pensateci: con chi deve vedersela tutti i santi giorni il segretario del Pd Bersani? Con gli ex segretari D’Alema, Franceschini, Veltroni. Tutti lì, ancora e sempre in prima fila. Ma d’altronde quel partito ha affidato il Dipartimento Riforme all’ex presidente della Camera Violante, nonché ex magistrato, ex docente, ex parlamentare, ex capogruppo, ex presidente dell’Antimafia. Siccome di riforme non ne parla più nessuno, almeno in questo caso la poltrona dell’ex è un’ex poltrona.

E a destra? Solo per citare le figure più eminenti, ci trovi per esempio Fabrizio Cicchitto, già deputato e senatore socialista. O Giulio Tremonti, che fin qui ha girato il Psi, Alleanza democratica, il Patto Segni, la Federazione liberaldemocratica, Forza Italia, il Pdl. Senza dire del centro, dove il riciclo è come l’usato garantito. Tanto per dire, la nuova formazione politica fondata da Rutelli (Alleanza per l’Italia) è la sua quinta creatura.

Infatti, il fondatore è stato via via eletto in Parlamento con i Radicali, i Verdi arcobaleno, la Margherita, il Pd, mentre adesso rappresenta per l’appunto l’Api.

È la tragedia dell’Italia: un Paese immobile, come le sue classi dirigenti. Al più cambiano le sigle, mai le facce. È anche il fallimento della seconda Repubblica, che nei primi Anni Novanta aveva allevato la speranza d’un ricambio generazionale. Ci guadagnò una rispettabile pensione Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 26 volte ministro. Esordirono in politica uomini nuovi, a partire da Silvio Berlusconi. Dopo quasi vent’anni, dopo cinque elezioni vinte o perse, anche lui è diventato un ex. Ma la sua età rimane in media con quella della classe politica italiana: secondo il Rapporto Luiss 2008 il 60% ha più di settant’anni, mentre nella Penisola iberica lo stesso dato s’arresta al 4,3%. D’altronde in Spagna Aznar e Zapatero avevano entrambi quarant’anni, quando ottennero le chiavi del governo. E il primo ha lasciato la politica dopo una sconfitta elettorale, al pari di John Major, Tony Blair, Michail Gorbaciov, Al Gore, Carl Bildt. Tutti cinquantenni, mica vecchi come il cucco.

Ma in Italia nessuna sconfitta è mai definitiva. Specialmente con questa legge elettorale, che toglie agli elettori ogni potere sugli eletti. Decidono loro, i capibranco, i signori dei partiti; e decidono in base alla ferrea regola della cooptazione. Significa che promuovono se stessi, o al più i loro maggiordomi. Poi capita talvolta che non si mettano d’accordo (gli oligarchi sono molto suscettibili); e allora smembrano le truppe, vanno in sartoria a cucirsi una divisa tutta nuova, la indossano insieme ai propri soldatini. Ma le parole no, quelle sono sempre uguali, come le bocche che gli danno fiato.

Sarà probabilmente questo lo scenario che ci consegneranno le prossime elezioni: qualche nuovo partito, nessuna faccia nuova. Eppure c’è una volontà di cambiamento in giro per l’Italia, un senso di stanchezza per le litanie e le risse di palazzo, la voglia di respirare un vento fresco, anche a costo di buscarsi un raffreddore. La politica, invece, spranga le finestre. Tuttavia stavolta non potrà arricciare il naso se gli italiani, chiamati a celebrare il trionfo dell’ex, trasformeranno il loro voto in un ex voto.

 michele.ainis@uniroma3.it

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« Risposta #74 inserito:: Agosto 31, 2010, 03:30:28 pm »

31/8/2010

I peccati della legge elettorale
   
MICHELE AINIS

L’appello per l’uninominale, firmato da intellettuali e da politici di ambedue gli schieramenti, ha il pregio di deporre sul tappeto un’idea concreta, in alternativa all’attuale legge elettorale. Però, attenzione: il sistema perfetto non esiste, anche se nessun sistema al mondo sarà mai peggio del Porcellum. E in secondo luogo alle nostre latitudini la ricerca della legge perfetta diventa sempre un alibi perfetto per lasciare tutto come prima.

Si sa come vanno queste cose: tu metti insieme due partiti attorno a un tavolo, loro sputano fuori tre idee distinte e contrapposte. Salvo poi mettersi d’accordo se c’è da tirare uno sgambetto all’avversario, facendolo cadere un metro prima del traguardo. Nel 2005 la legge Calderoli è nata a questo scopo, per sabotare il trionfo annunciato del centrosinistra alle elezioni successive. In Italia nascono così pure le riforme costituzionali, da quella «federalista» dettata dal governo Amato nel 2001 alla «devolution» battezzata dal governo Berlusconi nel 2005, in entrambi i casi alla vigilia d’una prova elettorale. Insomma qui da noi la Grande Riforma è sempre un bottino di guerra, imposto col coltello fra i denti dalla maggioranza di turno all’opposizione di turno. Meglio non farsi illusioni.

C’è però un esercizio cui possiamo dedicarci, mentre la politica affila i suoi coltelli. Possiamo elencare non tanto le virtù, quanto i peccati mortali della legge elettorale. Possiamo ripetere il verso di Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

E i peccati da cui dovremmo mondarci sono almeno quattro, come gli elementi del nostro pianeta.

Primo, la terra. Quella italiana, che calpestiamo tutti i giorni. Significa che non è una buona legge elettorale quella che offende le nostre tradizioni, il nostro abito civile. Come diceva il vecchio Montesquieu, le leggi dovrebbero rispecchiare la geografia dei popoli, il numero dei cittadini, perfino il clima. Sicché smettiamola d’almanaccare sui modelli stranieri, dividendoci fra tifoserie tedesche, francesi, americane. E siccome la nostra carta d’identità collettiva si conserva nella Costituzione, via il premio di maggioranza (340 deputati) senza una soglia minima per guadagnare il premio. Così com’è viola il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto. E con la scomposizione del quadro politico, permette a una coalizione votata dal 30% del corpo elettorale d’accaparrarsi il 54% dei seggi in Parlamento. Accaparrandosi per giunta il presidente della Repubblica, quelli delle Camere, i giudici costituzionali.

Secondo, il fuoco. Quello che dovrebbe divampare attorno ai santuari dei partiti, restituendo voce ai cittadini. Perché sta di fatto che il Porcellum ci ha tolto la possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento. E perché non è affatto vero che anche in passato la scelta stava tutta nelle mani dei partiti. Con il Mattarellum le segreterie politiche sceglievano i candidati, non gli eletti. Se aggiungiamo l’obbligo d’indire le primarie su ogni candidatura, se sforbiciamo il numero di sottoscrizioni necessarie per presentarsi alle elezioni (alla Camera servono 4500 firme), forse s’aprirà una chance anche per i non addetti ai lavori.

Terzo, l’aria. Quella che respira l’eletto dev’essere la stessa che respira l’elettore. In questo senso l’uninominale recupera un rapporto fra i due perfetti sconosciuti inventati dalla legge Calderoli. Di più: recupera il sapore della sfida, uno contro uno. Poi vi si potrà affiancare una quota proporzionale, tagliare ogni collegio in lungo o in largo, plasmare il sistema secondo le nostre specifiche esigenze. D’altronde i collegi uninominali inglesi sono ben diversi da quelli tedeschi o francesi. L’importante è che i parlamentari rimangano ancorati al territorio, e che quest’ultimo non sia esteso quanto un continente. Come diceva, ancora, Montesquieu: una buona Repubblica deve riflettersi su un piccolo territorio.

Quarto, l’acqua. Sorgente di vita, giacché in Italia avremmo quantomai bisogno di far sorgere una nuova classe dirigente. Quella che c’è è la stessa da vent’anni, e da vent’anni caracolla con il suo fagotto di promesse tradite, riforme mancate, progetti effimeri quanto un battito di ciglia. Ma almeno questo non dipende solamente dalla legge elettorale, benché la legge attuale santifichi la cooptazione come tecnica di trasmissione del potere. Dipende da noi, dalla voglia che ci rimane in corpo.

michele.ainis@uniroma3.it
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