ILVO DIAMANTI -
Arlecchino:
Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d'autunno ci diranno cos'è oggi il Pd
Di ILVO DIAMANTI
25 aprile 2016
SONO passati vent'anni dal 21 aprile 1996. Quando l'Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da - e intorno a - Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l'Ulivo, d'altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.
Dopo la vittoria elettorale, l'Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell'ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D'Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l'assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l'Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell'Unione. Dunque, "coalizione". E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l'introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.
Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il "mito fondativo" del Partito dell'Ulivo, in alternativa all'Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l'esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe - dovrebbe - dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant'anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.
D'altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni "personali" che complicano l'affermarsi di "un" leader. Il passaggio dall'Ulivo all'Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'"irruzione" di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell'Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, "contro" Bersani. Cioè: contro l'eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario "contro" il passato. Contro D'Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il "suo" Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D'altronde, l'antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All'anti-comunismo si è sostituita l'antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l'antipolitica, l'opposizione alla politica e ai politici "tradizionali" sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il "rottamatore", non ha vincoli né appartenenze. Inoltre - e soprattutto - fa del Pd un "partito del leader". Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.
Così, vent'anni dopo l'avvento dell'Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni - ben espresse dall'opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell'organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com'è avvenuto alle Europee. Non ci vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d'autunno ci diranno se davvero l'Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.
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25 aprile 2016
Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/dall_ulivo_al_pdr_il_volto_e_le_radici-138394413/
Arlecchino:
Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'
Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017
IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.
Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.
Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.
Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".
Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.
Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.
I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.
Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.
Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.
La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".
Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.
E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.
Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.
© Riproduzione riservata 29 maggio 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
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Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'
Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017
IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.
Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.
Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.
Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".
Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.
Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.
I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.
Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.
Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.
La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".
Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.
E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.
Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.
© Riproduzione riservata 29 maggio 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L
Arlecchino:
Il paradosso 5Stelle: sconfitti ma radicati. Darli per finiti sarebbe un errore
Il Movimento ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.
Di ILVO DIAMANTI
13 giugno 2017
Meglio essere prudenti prima di dare per “finito” il M5S. Prima di leggere il risultato delle amministrative di ieri come segno, inatteso, di un’inversione di rotta. Il primo passo di un declino inarrestabile. Conviene attendere altri test elettorali. Perché le elezioni amministrative costituiscono un passaggio politico importante, soprattutto quando hanno l’ampiezza di questa consultazione. Ma sono, più di ogni altra elezione, condizionate da ragioni e fattori “locali”. Tanto più dopo il 1993, quando la nuova legge sull’elezione diretta dei sindaci ha “personalizzato” il voto, per restituire legittimità allo Stato e alle istituzioni, dopo il crollo della Prima Repubblica e le inchieste sulla corruzione dei partiti e della classe politica della Prima Repubblica. In effetti, anche l’affermazione del M5S riflette la crisi dei partiti e della classe politica, dopo il crollo del “muro di Arcore”, che aveva segnato i confini della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata “da” e “su” Berlusconi. L’ascesa del M5S era avvenuta proprio cinque anni fa, alle amministrative del 2012.
Quando Federico Pizzarotti, allora sconosciuto ai più, era divenuto sindaco di Parma, nella sorpresa generale. Anche a Parma. Tuttavia, in seguito, il rendimento elettorale del M5s ha seguito un modello preciso. Forte e competitivo in ambito nazionale, molto meno alle elezioni amministrative.
LEGGI LE TABELLE
Per due ragioni, fra le altre. Perché a livello locale contano i candidati. E, in secondo luogo, occorre disporre di tradizioni e di basi organizzative. Per questo il M5S ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.
Per dare un’idea e una misura di questa tendenza bastano poche cifre. Nel 2013, alle elezioni politiche, con oltre il 25% dei voti validi, il M5S diventa primo partito in Italia. Ma, solo due mesi dopo, alle elezioni comunali vince in 2 soli comuni “maggiori” (con oltre 15 mila abitanti) sui 92 nei quali si vota. Successivamente, questo trend si ripete, talora amplificato. Nel 2014 si rinnovano le amministrazioni in 243 comuni maggiori: il M5S ne conquista solo 3. Eppure, alle – concomitanti – elezioni europee, aveva ottenuto il 21% dei voti validi. Secondo, a distanza, dietro al Pd di Renzi (oltre il 40%). La tendenza non cambia neppure nel 2015, quando il M5S vince in 5 comuni, fra i 108 nei quali si vota. Oggi, infine, è al ballottaggio in 9 fra i 160 comuni maggiori al voto.
Così, la vera discontinuità con la breve storia elettorale del M5S, è costituita dalle elezioni amministrative di un anno fa. Nel 2016. Quando il MoVimento ispirato da Grillo conquista la guida di 19 comuni, fra i 143 al voto. Ma, soprattutto, vince a Roma e Torino. Due capitali. Che danno a quel voto un chiaro significato “nazionale”. Anche allora, dunque, il M5S riproduce l’impronta di “partito senza territorio”, apparsa evidente fin dalle elezioni politiche del 2013. Quando risultò primo o secondo partito praticamente in tutte le province italiane. Mentre gli altri partiti maggiori, nella storia della Repubblica, hanno ri-proposto una geografia specifica. La DC e, in seguito, i Forza-leghisti: “impiantati” nella periferia produttiva del Nordest e del Nord, ma anche in molte aree del Mezzogiorno. Mentre le basi elettorali dei partiti della Sinistra – a partire dal Pci e dai suoi eredi – sono sempre state “forti” nelle zone definite, non per caso, “rosse” dell’Italia Centrale. Il M5S, invece, non ha radici né tradizioni territoriali. O meglio: sfrutta quelle degli altri. Perché intercetta i propri elettori dal rifiuto verso i partiti e la politica tradizionali. Canalizza e amplifica il ri-sentimento. Politico e sociale. Contro tutti. Così, spesso, allarga i suoi consensi nei ballottaggi, quando si vota non per il “più vicino”, ma per il “meno lontano”.
Per questo, come abbiamo mostrato in un Atlante Politico di pochi giorni fa, ha basi forti fra i più giovani, fra gli operai, fra gli stessi imprenditori. I più esposti alla globalizzazione. E per questo fatica a rendere stabili le proprie basi elettorali. D’altronde, ha rimpiazzato il territorio con la rete e con il digitale. O meglio: il suo territorio è digitale. E dunque fluido. La sua azione è ispirata alla contro-democrazia, come la definisce Pierre Rosanvallon. La democrazia del controllo e della sorveglianza. Che stenta a sedimentare. A costruire un “popolo” di riferimento. Anche per questo il M5S fatica a “stare sul territorio”, a selezionare e presentare candidati conosciuti e autorevoli. La Rete, a questo fine, non basta. Tanto più perché, a sua volta, è sorvegliata dal Garante. In modo non sempre comprensibile ai “suoi” stessi elettori. Com’è avvenuto a Parma, dove Pizzarotti oggi è un avversario.
Mentre nei “luoghi amici” del fondatore, come a Genova, gli elettori preferiscono rivolgersi altrove. Perché il M5S appare in bilico. Canale di critica e mobilitazione. Ma anche soggetto politico che mira a governare. Visto che nei sondaggi contende il primato al Pd, con quasi il 30% dei consensi. A livello nazionale. Questo è il vero rischio per il M5s. Di apparire, agli occhi degli elettori, un partito come gli altri. E di perdere la sua “diversità”. Mentre per la classe politica dei partiti nazionali il rischio è di considerare la battuta d’arresto del M5S in questo primo turno una svolta.
Irreversibile. Sul piano nazionale. Salvo scoprire, alle prossime elezioni politiche, una realtà molto diversa. Dai propri desideri. Perché, come recita un antico proverbio, è meglio non vendere la pelle di Grillo prima di averlo catturato davvero…
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13 giugno 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/13/news/il_paradosso_5stelle_sconfitti_ma_radicati_darli_per_finiti_sarebbe_un_errore-167964436/
Arlecchino:
25 giugno 2017
Un appunto per non dimenticare Stefano Rodotà
Ilvo DIAMANTI
Ho incontrato Stefano Rodotà in molte occasioni. Pubbliche e private. A convegni e seminari. Al “Festival del Diritto”, di Piacenza, del quale è stato ispiratore e guida, per tanti anni. Non intendo, qui, ricostruirne i meriti e le qualità, in ambito scientifico e politico. In particolare, sul piano del diritto e dei diritti. Altri - con maggiore competenza di me al proposito - l’hanno già fatto. E altri ancora lo faranno. Perché Rodotà ha lasciato un segno difficile da oscurare.
Al di là delle opere, conta il suo esempio. Conta la sua presenza sulla scena pubblica. Stefano Rodotà. Intellettuale e protagonista di iniziative mai banali. In tempi in cui la banalità incombe sulle iniziative e sulle figure pubbliche. Così, non mi interessa recitarne le lodi proprio oggi. In questa sede, in questa occasione. Anche perché talora –più di una volta – non ho condiviso le sue posizioni. Le sue scelte. Tuttavia, non mi hanno mai lasciato mai indifferente. Mi hanno sempre fatto pensare. Reagire. Anche – e tanto più - quando ero in disaccordo, magari marcato. Proprio questo, però, è il compito di un intellettuale pubblico. Far pensare, reagire. Scuotere l’in-differenza.
Stefano Rodotà, per questo, ci mancherà. Almeno: “mi” mancherà. La sua voce. La sua presenza. Non lo dimenticheremo. Io, di certo, non lo dimenticherò.
© Riproduzione riservata 25 giugno 2017
DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/06/25/news/un_appunto_per_non_dimenticare_stefano_rodota_-169096564/
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