ADRIANO SOFRI -
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La grande ritirata dai paradisi dei turisti. Il nostro mondo è sempre più piccolo
La mobilità umana oppone nuove classi: una colpita da guerre e carestie, l'altra spinta dalla voglia di conoscenza e vacanza. E sulla nostra carta ridisegnata dalle violenze ora si cancellano le frontiere: dalla Libia al Corno d'Africa, dal Sinai fino al Mar Rosso
Di ADRIANO SOFRI
27 giugno 2015
C'È UN modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro - non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.
Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo.
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27 giugno 2015
Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/27/news/la_grande_ritirata_dai_paradisi_dei_turisti_il_nostro_mondo_e_sempre_piu_piccolo-117801117/?ref=HREA-1
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I puntini nel mare della nostra vergogna: annegati e aguzzini
Le autorità, ma anche i comuni cittadini, hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire
Di ADRIANO SOFRI
La PRIMA fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani. Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c'è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un'ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa. In una foto successiva, più ravvicinata, c'è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c'è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l'hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26, tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.
Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un'altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ". Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L'ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola - La chaqueta metálica - e l'elmetto famoso con il motto Born to kill. Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l'unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare - e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta.
C'è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall'acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all'anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un'Europa civile. Il numero giusto - tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest'anno, che già ne conta già 2.400 - si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell'anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.
È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall'acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d'oro e una d'argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.
Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: "Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!" E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un'ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio - cioè, dalla Tunisia, tutti - con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l'ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?
Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: "300mila dollari per i sandali di diamanti". Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un'altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.
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08 agosto 2015
Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/08/08/news/i_puntini_nel_mare_gli_annegati_e_quegli_aguzzini-120609365/?ref=HRER3-1
Arlecchino:
Vi scrivo da Mosul, la città irachena spaccata in due
Mondo
Reportage dalla città irachena. Sciiti, peshmerga, yazidi, turkmeni. Turchia, Russia, Iran.
E la coalizione Internazionale.
La battaglia contro l’Isis è già un ingorgo di manovre che prepara le guerre di domani
Affidarsi ai vari portavoce è impossibile: non che tengano le bocche cucite, al contrario, annunciano ciascuno una data, da domani mattina a gennaio prossimo. Ci si regola su quello che si vede, convogli lunghissimi di blindati trasportati su grossi camion diretti al fronte di nord est attraverso il territorio curdo: sono dell’esercito iracheno, benché alcuni alzino la bandiera con il volto dell’imam Hussein, il protomartire sciita. Ci si regola su quello che si sente, un andirivieni di grossi aerei militari e di elicotteri sulle nostre teste.
Quanti scarponi sul terreno
I capi dell’esercito iracheno proclamano di essere pronti – “in 65 mila” – e di aspettare solo l’ordine da Baghdad. I peshmerga di Erbil sono pronti per definizione, e stanno zitti. I peshmerga di Suleimania e di Kirkuk avvertono che prima bisogna prendere l’ultima roccaforte irriducibile di Hawijia, già qaedista poi dell’Isis, per sgombrare l’intera riva orientale del Tigri. Hashd al Shaabi, i famigerati sciiti «paramilitari» ammoniscono che loro ci saranno – «in 24 mila» -e che non c’è bisogno di altri, tanto meno dei turchi. I curdi del Pkk e di Siria non lo dicono ma ci saranno; rivendicano una nuova divisione della provincia di Ninive in cui un territorio sia loro riservato. Gli americani dicono che non vogliono il Pkk né i paramilitari sciiti.
I turchi di Erdogan rigettano sprezzantemente gli ultimatum di Baghdad, loro sono già a Bashiqa, a un tiro di schioppo, diciamo così, da Mosul, e avanzeranno: e dietro di loro fa ormai capolino la Russia che i giri di valzer diplomatici hanno avvicinato all’unico fronte dal quale erano ancora tagliati fuori. Erdogan, che Dio lo aiuti, ha detto ieri di avere un piano B e anche uno C… Gli iraniani non hanno bisogno di dire niente, per loro parlano i governanti di Baghdad e strepitano le milizie Shaabi. Poi ci sono i battaglioni di yazidi, di assiri cristiani, di shabak e turkmeni sciiti…
I sauditi si riuniscono con gli emirati per ammonire l’Iran a stare alla larga. A terra, sia pure con la beneducata avvertenza di svolgere solo compiti di istruzione e logistica, ci sono anche i militari della coalizione, americani, francesi, italiani, britannici eccetera. Le truppe in terra, gli scarponi sul suolo famosi, sono diventati fin troppi.
La città minata a ogni passo
La direste una farsa se non fosse l’epilogo provvisorio di una tragedia. A renderla farsesca è stato il lunghissimo rinvio. Tuttavia l’alternativa non c’è, salvo lasciare per sempre Mosul al Califfato. Così da un giorno all’altro il nome di Mosul diventerà famigliare e terribile come quelli di Sarajevo e di Aleppo. Più di quelli. La riconquista è annunciata da più di due anni: dal 10 giugno 2014 in cui la capitale dell’Iraq sunnita cadde ingloriosamente nelle mani di al Baghdadi che vi si proclamò califfo. Non so se esistano precedenti di una battaglia simile. Qui si tratta di liberare da un’occupazione spietata una città che ha ancora un milione e 300mila abitanti. Molti di loro aprirono le porte all’Isis, che già da anni con altri nomi vi agiva come un governo ombra, in odio alla prepotenza del governo sciita; i più si sono ricreduti, ma temono la ferocia dei miliziani sciiti e le vendette delle minoranze cacciate.
La grande città è minata a ogni passo con quei congegni esplosivi improvvisati che sono l’arma più micidiale contro gli eserciti regolari e tecnologici. In una città così popolosa, e con le vie di fuga sbarrate ai civili, i bombardamenti e i tiri di artiglieria sono un repentaglio tremendo se non si voglia emulare la terra bruciata di Groznj e di Aleppo. Si può contare su una resistenza interna? Da molti mesi si dice di gruppi che agiscono di notte, uccidono uomini del Califfo, scrivono sui muri la M di al-Mukawama, resistenza. Sono 3mila, 5mila, si dice – esagerando. Venerdì il Califfato ha «giustiziato» 58 cospiratori, affogati e poi bruciati in una fossa comune: fra loro uno che era stato al fianco di al Baghdadi. Si è parlato di un tentato golpe – esagerando. Sta di fatto che i notabili dell’Isis hanno svenduto tutto quello che c’era da vendere nella città, facendola a pezzi, come per una liquidazione.
I tetti di Mosul la favolosa
Ci sono nomi gloriosi di città che abbiamo imparato a pronunciare solo per le cronache del terrore, Mosul, Dacca. Eppure: «Mussola (mussolina): tessuto leggerissimo a trama rada, simile alla garza. Il nome deriva dalla città di Mosul, dove gli europei la conobbero, ma era originaria di Dacca in Bangladesh». Mosul, sapete, ha un minareto pendente, «come la torre di Pisa»… Non ho mai visitato Mosul, e forse per questo il suo nome suona così favoloso alle mie orecchie. Stavo per scrivere che non l’ho mai vista, ma non è vero: l’ho vista dall’orlo della frontiera mobile che separa il territorio dell’Isis da quello curdo, ma era un altro modo di immaginarla. Prima di quel fatale giugno 2014 era un altro il nome che Mosul favolosamente evocava per lo straniero: Ninive. Ma questa gran storia la racconterò un’altra volta. L’antica Ninive, da cui oggi è chiamata la provincia, era rimasta di qua del Tigri, e Mosul era cresciuta sull’altra sponda. Più tardi la città nuova espandendosi l’avrebbe ingoiata, divenendo la seconda dell’Iraq – due milioni.
Di notte, la gente di Mosul sale furtivamente sui tetti, dove i telefoni forse prendono, e parla coi suoi parenti e amici sfollati. Quando avvistano un’auto dell’Isis spengono e scendono precipitosamente. Uno pensa alla vita a Mosul: il niqab obbligatorio, le ragazze «sposate» per forza ai combattenti, due figli su tre arruolati per forza e cambiati di nome, le teste mozzate, i roghi umani, gli «effeminati» buttati giù dalle terrazze. Il mio amico Ahmad vendeva frutta secca e dolciumi. Gli buttarono i pistacchi in mezzo alla strada. «Ma è un dono di Dio», azzardò. «Ha la forma dell’organo femminile», dichiararono quei teologi. In strada anche i lokum appesi: la forma del membro maschile. In strada i sottaceti, si avvicinano all’alcool. E i cetrioli freschi, naturalmente.
La battaglia di oggi le guerre di domani
Mosul è stretta da terra oltre che dal dominio esclusivo dei cieli da parte della coalizione. (Che cosa sarebbe se l’Isis e i suoi concorrenti islamisti disponessero di un’aviazione, come ne dispone Assad coi barili bomba e Putin coi bombardamenti a tappeto? Giorni fa un drone esplosivo ha ucciso qui due peshmerga e ferito gravemente due militari francesi, prima prova riuscita di droni da guerriglia). L’esercito iracheno, dai e dai, ha espugnato i centri della provincia di Anbar, Ramadi e soprattutto Falluja. È il protagonista designato alla riconquista di Mosul. Gli si muovono addosso le truppe «paramilitari» sciite – nome irrisorio, perché sono altrettanto militari e pagate dal governo, ma al comando di privati a loro volta al comando dell’Iran – che pretendono la propria parte, la più esosa, del bottino, e sono in guerra non con l’Isis ma coi sunniti in genere. Minacciano di vendicare a Mosul l’imam Hussein, morto a Kerbala 1336 anni fa…
I peshmerga sono ingaggiati per la battaglia, e gli americani se ne sono assunta la spesa: loro non avanzano rivendicazioni su Mosul, a differenza che sulla curda Kirkuk. La grande battaglia di tutti contro l’Isis per Mosul è già oggi un ingorgo di manovre che preparano le guerre di domani. Gli ultimi giorni sono stati riempiti dalle minacce reciproche fra Erdogan e al Abadi, il vacillante premier di Baghdad. Ieri a Baghdad il solito attentato suicida a un funerale sciita ne ha ammazzati almeno 31 e feriti 63.
La partita militare e quella del dopo
Fermando per un momento il film dell’avanzata su Mosul possiamo vedere tre linee di impegno sovrapposte. La prima è quella militare. La seconda quella dell’emergenza umanitaria: le vite da soccorrere e curare. La terza quella della ricostruzione quando la città sia stata espugnata: che ha a sua volta un aspetto di sicurezza, uno politico – chi la governerà e come – e uno urbanistico. È infatti una grande città storica che andrà a sua volta curata e guarita delle ferite subite finora, e di quelle che la battaglia ultima le infliggerà ancora. Quale preparazione abbiano raggiunto i piani militari non è dato sapere. I comandanti americani vogliono dare un’impressione di gran sicurezza e parlano dei miliziani dell’Isis a Mosul come morti che camminano. Nel secondo confronto con Trump, Hillary ha messo in rilievo il proprio personale impegno e ha fatto intendere che la liberazione di Raqqa verrà dopo quella di Mosul – oltre a ribadire la fiducia nell’apporto curdo. Resta che una battaglia che si deve prevedere lunga e durissima, se fosse scatenata oggi, invaderebbe in pieno la campagna presidenziale americana. «Ora che Trump è crollato nei sondaggi – dice il mio amico Kamo – gli americani non hanno più fretta di avanzare su Mosul».
Mancano anche le tende
Sulla preparazione all’emergenza umanitaria si sa di più, che è molto indietro. Dopodomani arriverà in Kurdistan Filippo Grandi che è a capo dell’Unhcr, l’agenzia per i rifugiati. In questi giorni si è svolta una missione dell’ambasciatore italiano in Iraq, Carnelos, che ha visitato la diga di Mosul e tutte le principali città del Krg, compresa Kirkuk, e ha ascoltato le preoccupazioni per l’afflusso possibile di sfollati da Mosul – 250mila ne aspettano solo a Dohuk, che già ne trabocca.
I fondi per i rifugiati sono prosciugati e si rischia che i fuggiaschi di Mosul vadano sotto i ponti o affollino gli scheletri dei palazzi in costruzione. C’è bisogno di tutto, a partire dalle tende. In Kurdistan ci sono ancora 30 gradi di giorno, ma l’autunno avanza e le notti in montagna sono fredde. Si può immaginare che cosa significhi far fronte a un esodo di un milione di persone, che si suppone improvviso. Per giunta, il controllo degli sfollati, in particolare degli uomini, sarà lungo e scrupoloso per la paura che vi si infiltrino miliziani dell’Isis. Si può aggiungere che il coordinamento fra le innumerevoli agenzie – dell’Onu, delle Ong, dei governi e delle amministrazioni curde e irachene – pone problemi meno esplosivi ma non meno complicati di quelli fra gli eserciti rivali nella controffensiva su Mosul.
Che cosa farà l’Isis? Che cosa farà la gente?
Mosul è spaccata in due dal Tigri, e la riva sinistra è quella della antica Ninive e della parte più nuova della città. Da questa parte arriveranno le forze della coalizione. Sulla riva destra sorge il centro storico di Mosul, nel quale l’Isis è arroccata. Sei ponti principali uniscono le due rive ed è ovvio supporre che vengano fatti saltare al momento dell’avanzata. La popolazione sceglierà di fuggire o di rintanarsi nelle case e pregare il suo Dio? E che possibilità avrà di fuggire? Certo l’Isis vorrà valersene per farsene scudo o per imputare ai suoi nemici la carneficina. Si teme anche che l’allarme sugli scudi umani faccia da schermo a operazioni indiscriminate della coalizione o di sue fazioni: una Aleppo trasferita a Mosul. C’è infine la domanda sulle vere intenzioni dell’Isis – intendo il nerbo dei suoi miliziani, forse 5mila, non i suoi aggiunti, bambini-soldato compresi: vorrà battersi alla morte, o sceglierà di svignarsela?
Si vocifera di un corridoio che la coalizione lasci loro per riparare in Siria, e di spostamenti già avvenuti verso Raqqa di miliziani e famiglie. Mosul era la città del fior fiore della leadership politica e militare del vecchio Baath sunnita e di Saddam. Magari qualcuno di quei marpioni, accantonati dagli americani e montati in sella con il califfato sta meditando di tornare a tagliarsi la barba.
Da - http://www.unita.tv/focus/reportage-mosul-iraq-sofri-isis/
Arlecchino:
Le peripezie di una fotografia curda
Reportage
Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia per la mia fotografia che tanto mi piaceva. Ma la realtà ha superato la fantasia
Un pomeriggio del 2015 mi ero innamorato di una fotografia. L’avevo trovata esposta al museo dei tessuti, nella Cittadella, il qalat, di Erbil.
La didascalia diceva: «21 marzo 1970. Foto scattata da un maestro di scuola nel giorno di Newroz /il Capodanno curdo/. Mamosta Jalal, Erbil».
Desiderai rintracciare la storia di quella fotografia. La didascalia era laconica e quasi misteriosa. Il luogo non sembra Erbil, sia pure la Erbil del 1970, ma piuttosto uno dei suggestivi villaggi curdi dalle case sovrapposte. Interrogai qualcuno, inutilmente. Provai con la rete. Mamosta significa maestro, Maestro Jalal, può significare un generico attributo rispettoso. Trovai un libro di memorie di Jalal Barzanji, Man in Blue Pyiamas, pubblicato in Canada nel 2001, racconta gli anni in cui l’autore, poeta e giornalista, era stato incarcerato e torturato dagli scherani di Saddam, dal 1986 al 1988. Gli altri prigionieri gli si rivolgono con l’appellativo Mamosta Jalal – mi sarebbe piaciuto che fosse l’autore della foto, ma non era possibile: è nato nel 1953, e nel 1970 aveva solo 17 anni. Stavo per scoraggiarmi ed ero tentato di inventare una storia mia alla fotografia. Se l’avessi fatto, come fra poco vedremo, mi sarei reso piuttosto ridicolo.
La fotografia è bellissima a prima vista. Guardata in un’epoca di selfie induce a una invincibile nostalgia. L’idea è che tutti i vivi vi siano compresi, donne e uomini, piccoli e grandi, vecchi e giovani. I bordi, soprattutto a sinistra, mostrano che molte altre persone sono rimaste fuori dall’obiettivo. Sembra un giudizio universale tenuto in un giorno di festa e senza dannati. Un popolo che si mette così in posa testimonia di una comunità unita e solidale formidabile: l’incarnazione dell’idea mitica che ci facciamo della nazione curda. Un popolo che si mette così in posa per lasciare un ricordo di sé nel giorno del nuovo anno è difficile da piegare per qualunque nemico. Non voglio vantarmi di avere scoperto il dettaglio più singolare, che mi è stato invece segnalato dal giovane cassiere del piccolo museo. Tutti i personaggi della fotografia indossano i costumi tradizionali curdi, ad eccezione di uno: il giovane all’estrema destra di chi guarda, vestito in giacca e pantaloni.
Un pomeriggio di ottobre del 2016 sono tornato al Museo del tessuto con la mia cara fotografa, Neige. Volevo avere una copia migliore della fotografia, che nella mia aveva il riflesso del vetro sotto cui è incorniciata. Ho trovato una sorpresa, la didascalia è cambiata e questa volta è molto più dettagliata. Dice: «Questa fotografia fu scattata il 21 marzo (Newroz) 1970 da un maestro di scuola, Mamosta Jalal, di Erbil. Essa mostra il villaggio di Roste, che si trova a nord est di Soran. È uno dei più remoti villaggi della regione di Balakyati, situata in fondo a una valle profonda, vicino al confine iraniano. È una precoce fotografia a colori e costituisce un’unica testimonianza del villaggio e del suo popolo, e racconta molte storie, non solo del villaggio ma dell’intero popolo curdo. Sebbene Roste esista ancora, non ha più questo aspetto. Durante la campagna di distruzione condotta da Saddam contro i curdi, Roste fu uno dei primi villaggi a venire spianato dai bulldozer nel 1977. Altri 120 villaggi nella regione di Balakyati e altri 4 mila nel Kurdistan subirono lo stesso destino. La loro gente venne dispersa allora dopo centinaia di anni in cui vi aveva dimorato. Noterete che tutte le persone nella foto indossano il costume curdo».
La nuova didascalia era ancora laconica sull’autore della foto, ma faceva fare un gran passo avanti alla mia curiosità e sembrava confermare la prima impressione, che la posa di quella gente così raccolta offrisse un ritratto in miniatura dell’unità dell’intero popolo curdo. Il vice-direttore del museo fu molto gentile, staccò la foto dal muro per posarla sul pavimento e permettere a Neige di rifotografarla senza il riflesso, e soprattutto mi disse che lui no, ma suo fratello, che avrei potuto incontrare la mattina dopo, aveva notizie sul fotografo.
Diventai allegro come quando si apre uno spiraglio su una cosa misteriosa e fa pensare che fra poco se ne verrà a capo: domani mattina, addirittura. Intanto scendemmo dalla Cittadella e andammo alla famosa Casa del Tè Machko, che è scavata proprio dentro le sue mura ed è il più illustre punto di ritrovo degli artisti, gli intellettuali, i politici scontenti, i turisti, le spie e gli sfaccendati di Erbil. Era ancora il primo pomeriggio e Machko non era così affollato, ma c’era il mio amico curdo-italiano-francese Ali Hadi, che è un pittore di fama. La conoscenza con Ali è una delle tante coincidenze di cui il Kurdistan è prodigo, perché lui era stato studente all’Accademia di Belle Arti di Firenze negli anni in cui io vi insegnavo, e ora lui insegna all’Accademia di Erbil.
Insomma ci siamo abbracciati, abbiamo chiesto il nostro tè, gli ho presentato Neige e gli ho subito raccontato che venivamo dalla visita al museo e che ero contento perché avevo trovato una traccia a proposito di una fotografia eccetera eccetera. Stette ad ascoltarmi cortesemente, infatti è un uomo molto cortese, ma a un certo punto si fece più attento e interessato, finché mi interruppe calorosamente: «Ma è suo padre!», e indicò un giovane seduto di fronte a noi con altri, tutti suoi allievi. «Il fotografo, Jalal, è suo padre!». Ho appena detto delle coincidenze curde: questa però! Stava scherzando? Macché.
Quel giovanotto dalla bella faccia si chiama Dara Jalal, è il figlio del «mamosta» Jalal, si è appena diplomato all’Accade – mia, fa il pittore e il fotografo – e insomma ho combinato sui due piedi un incontro con suo padre. Il quale frequenta tutti i giorni la piazza della Cittadella, ma in un’altra casa da tè riservata ai pensionati, sotto il minareto antico sovrastato dal gran nido della cicogna protettrice di Erbil. Avevo trovato il mio fotografo. Neige purtroppo partiva. Avrei preferito che fotografasse lei il fotografo ritrovato: pazienza. Dunque ci siamo incontrati, e sono stato ammesso alla casa da tè dei pensionati, a pieno titolo del resto.
Il fotografo ha 73 anni, uno meno di me, è alto e ha una bella faccia scavata e dei baffetti, si chiama Jalal Majeed Amin. È nato in un villaggio vicino a Erbil-Hawler e si è trasferito in città a dieci anni. È diventato maestro nel 1965 e «sono stato maestro per tutta la vita». Dopo un anno di insegnamento impiegò tutto quello che aveva messo da parte per comprare una Kodak Retina 1B. Fotografava in positivo, le diapositive doveva procurarsele da Bagdad. Fotografava senza altro fine che il proprio piacere. È stata la sua passione principale, l’altra gli scacchi, in cui è maestro. Fu mandato a insegnare prima a Pendro, sulle montagne di Shirwan-Mazin, per 5 anni, poi alla scuola elementare di Roste, e ci rimase tre anni, dal 1970 al 1973. Gli racconto perché la sua fotografia mi è piaciuta tanto. Anche i dettagli: il giovanotto, unico vestito all’occidentale… «Davvero?», dice incredulo. Saranno state 500 famiglie, dice. Gli chiedo come ha fatto a radunare tanta gente per la fotografia, come li ha persuasi… Qui c’è il colpo di scena: alla lettera. «Ma no, non erano affatto in posa. Vedi l’angolino bianco in basso a sinistra? Era un pezzo di palcoscenico. Si stava recitando, era il teatro, per la festa di Newroz, la gente era lì per guardare lo spettacolo». «Aspetta», dice, e tira fuori un’altra diapositiva, che riprende la scena dal punto di vista degli spettatori. Questa.
Infatti, aggiunge Jalal, ho rifatto ogni anno la fotografia nello stesso luogo. Questo basta a far crollare la mia immaginazione su quel popolo così unito e disciplinato e sul maestro fotografo che l’aveva persuaso a radunarsi per la fotografia collettiva. I tetti digradanti non erano che la galleria del villaggio mutato per un giorno all’anno in teatro all’aperto. Jalal mi mostra un’altra panoramica della stessa folla, ripresa da un punto di vista obliquo. Questa
È quasi altrettanto bella, ma non si lascia scambiare per una posa collettiva in memoria del popolo curdo unito. In compenso ha qualche mucca, le uniche disinteressate a guardare verso il palcoscenico. Insomma, gli dico, la mia ammirazione per l’assemblea popolare sui tetti era solo un equivoco. «Ma no, la vita del villaggio era davvero solidale. D’inverno si portava la legna per tutti. Tutti insieme costruivano le case. E si difendevano quando ce n’era bisogno». Ma la sua fotografia com’è finita al museo? «L’hanno comprata al bazar, dove avevano fatto dei poster, senza sapere chi fosse l’autore. Non c’è scritto niente». E come mai? «Nel 1996 avevo venduto il permesso di farne copie a un commerciante, Rahman, che ora è morto. Avevamo fame. Mi diede 3.000 dinari, più o meno 35 dollari. Lui la mandò a riprodurre in Turchia, e lì si rifiutarono di stampare anche una sola parola, perché era in curdo, così scomparve anche il mio nome e il poster diventò anonimo». Che storia: la tua fotografia se n’è andata per il mondo da una parte e tu dall’altra. «Anche la mia Kodak l’avevo venduta, nel 1990: per 5 kg di farina. E una serie di 25 diapo per altri 3.000 dinari. Nel 1977 mi ero sposato e avevamo cinque figli, 2 maschi e tre femmine». Nel 1978 Jalal smise di fotografare, e non ha più ricominciato.
Un autoscatto di Jalal, al centro, sul Helgourd, 3.607 m., nei monti Zagros,1972. Sotto, il maestro Jalal fotografato per me da suo figlio Dara. Le sue fotografie le ha proiettate qualche volta qui a Erbil al Circolo degli insegnanti. Solo nel 2007 ha avuto una mostra modesta a Suleimania, alla Zamwagallery. La fotografia di cui mi sono innamorato io è in copertina, sulla controcopertina c’è una folla formidabile di bambine ragazze e donne coloratissime: è un’adunanza del Partito Comunista iracheno, più di quarant’anni fa. Oggi non si vedrebbe più.
Le coincidenze hanno un’appendice. Mamosta Jalal mi regala il sobrio catalogo della mostra. C’è una pagina scritta, e Lokman, il mio amico curdo-italiano, me la traduce. È di Rostam Aghale, un artista di Suleimania: mi ha preceduto per filo e per segno. Aveva visto a casa sua nel Newroz del 1980 la fotografia su una rivista, «Autonomy», e ne era stato colpito. Non c’era il nome del fotografo. Nel settembre 2006 viene a Erbil e al museo ritrova la foto, senza nome. Ma qui è il direttore, il signor Lolan, a dirglielo: Jalal Majid Amin. «Nel mondo degli artisti, mai sentito nominare». In un secondo viaggio Aghale incontra Jalal. Come faceva, scrive, a fare foto così belle di paesaggi e villaggi con una Kodak senza zoom? È arrivata così la prima mostra di Jalal, «Il fotografo del villaggio di Roste».
Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-peripezie-di-una-fotografia-curda/
Arlecchino:
Mosul, l’altra riva del fiume
Mondo
Il racconto di guerra di Adriano Sofri
Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro» irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.
I fiumi sono fatti per distinguere e unire le due metà delle città. Per dare una fisionomia diversa a ciascuna metà –trastevere, l’oltrarno, la rive gauche- e però congiungerle come una cerniera, come il bordo fra due pagine.
Mosul ha la sua riva sinistra e la sua riva destra, fortissimamente caratterizzate e fittamente cucite insieme dai ponti e da un viavai di imbarcazioni. La riva sinistra, che era stata già la splendida Ninive, fu poi la parte povera, una città di ripiego che guardava con soggezione alla Mosul della ricchezza e dei pascià.
Ora si combatte ancora sulla riva sinistra, ma presto la battaglia si sposterà sul fiume, ridiventato una spaccatura fra due città. Di là c’è quel milione e oltre di persone il cui destino è appeso ai fili di una violenza imprevedibile. Più che mai, con la distanza bruciata, ci si chiede che cosa proverebbe quella gente di fronte alla disinvolta lungimiranza con cui altrove ci si intrattiene sul dopo Mosul.
Lunedì il consigliere del segretario generale Onu per la Prevenzione del Genocidio, il senegalese Adama Dieng, ha pubblicato una dichiarazione su Mosul. Il suo allarme ha il merito di cominciare dalla condanna ribadita «dell’assoluto disprezzo per i diritti umani e il diritto internazionale da parte dell’Isis, appena confermato dai sequestri e dalle uccisioni di massa di civili e dal loro uso come scudi umani, dal ricorso a armi chimiche e da rappresaglie indiscriminate».
Il giorno prima l’Isis aveva tentato di deportare da Hammam al-Alil 25 mila persone da ammassare in una base militare già adibita a mattatoio umano. Formulato questo allarme, e raccomandata la documentazione dei crimini per cui un giorno i responsabili dell’Isis dovranno comparire davanti a un Tribunale Internazionale, Dieng ricorda al governo iracheno l’obbligo di perseguire immediatamente qualunque rappresaglia da parte delle sue forze regolari o delle forze loro associate –leggi le milizie sciite. Esprimendo la preoccupazione di violenze settarie sciite contro i sunniti Dieng aiuta a ricordare come l’esistenza stessa di forze armate sul fondamento di un’appartenenza religiosa sia inconcepibile, almeno quando la religione di quelle forze è al potere, come nel caso dell’Iraq –anzi, è doppiamente al potere, a Bagdad e a Teheran.
«Bagdad non ha un amico migliore di Ankara»
Ieri, le milizie sciite hanno dichiarato ulteriori avanzate nella direzione di Tal Afar, che avrebbe messo sotto il loro controllo le principali vie di comunicazione fra l’Isis di Mosul e quella di Raqqa. Ancora ieri la febbre fra turchi e iracheni sembra essersi repentinamente abbassata.
Dopo che il primo ministro Abadi aveva avvertito i turchi che avrebbero «pagato caro» la decisione di far guerra all’Iraq, il governo turco ha rimpiazzato la voce del ministro della difesa con quella del ministro degli esteri, che ha soavemente dichiarato che «Bagdad non ha alcun amico che le sia più amico di Ankara». E una così intima amicizia non sarà guastata dalle mene di «altri paesi» –cenno sobrio all’Iran. Ieri ancora la truppa sunnita arabo-turcmena addestrata dai turchi nel campo del distretto di Bashiqa, rinominata «I Guardiani di Niniveh», ha vantato la liberazione dall’Isis della zona di Abassiyah, fino a «meno di 3 km a sudovest di Mosul». (Non lontano cioè dall’area in cui operano le milizie sciite).
Il momento di Hawijia
A sera di ieri si è avuta notizia di raid aerei americani e alleati su Hawijia e Riaz, che fanno pensare che sia arrivato il momento tante volte rinviato della liberazione di Hawijia, l’irriducibile roccaforte dell’Isis a sud di Kirkuk. Là l’azione sul terreno spetterà ai peshmerga del PUK, che non hanno rivendicazioni su Hawijia ma ne subiscono gli attentati su Kirkuk. A Suleimaniah però si ritiene che l’azione militare inaugurata dai raid aerei non abbia di mira direttamente Hawijia, nemmeno questa volta, ma l’allargamento del suo territorio liberato così che la marcia irachena da sud a nord non debba trovarsi in una strettoia. Anche qui un grosso problema è posto dalla pretesa di Hashd al-Shaabi sciita di intervenire, respinta da curdi e americani. Io non scrivo dal fronte di Mosul, mi muovo altrove, come potete leggere qui oltre.
Leggo e guardo anch’io, col vantaggio della vicinanza, le testimonianze di chi vi si trova: i servizi televisivi di Lucia Goracci, fra quelli che riesco a vedere. Voglio citare un video pubblicato dalla curda (di Erbil) agenzia Rudaw, breve quasi come un batter d’occhi. Più esattamente, breve come il gesto di liberare la testa e il viso da un velo nero. È una giovane donna, dev’essere appena scappata, e fa quel gesto prima ancora di fermare la propria corsa. In tempo per tornare a essere se stessa.
Da - http://www.unita.tv/focus/mosul-laltra-riva-del-fiume/
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