ADRIANO SOFRI -

(1/10) > >>

Admin:
da Il Foglio del 6 febbraio 2008, pag. 2

di Adriano Sofri

Trovo assai istruttiva, quanto all'assurdità o peggio dei tempi, la polemica sul bando dei radicali da parte del Partito democratico.

Un po' per lealtà, un po' perché se ne aspettavano molto meno che gli altri commensali (con quella formula pannelliana, i Capaci di tutto contro i Buoni a nulla) i radicali sono stati i più fedeli partecipi della vicenda del governo Prodi, e i meno inclini agli ultimatum e ai calcoli di botteguccia. Emma Bonino si è guadagnata, come ogni volta che le venga affidato un incarico di fiducia - come il soldato Nemecsek, pronto a immergersi nella vasca dei pesci rossi, se la consegna è quella - l'apprezzamento di tutti gli osservatori in buona fede.

Ai radicali si deve in misura decisiva il più prestigioso dei rari meriti di cui il governo può andar fiero, il voto all'O­nu per la moratoria sulla pena di morte. Ai radicali è stato fatto il torto evidente - e come tale riconosciuto in pubblico da alcuni fra i più autorevoli giuristi, in privato da tutti - di sottrarre i seggi in Senato che la lettera della legge, cioè la legge, assegnava loro, capaci oltretutto di dare al governo quella infima maggioranza che ne avrebbe protratto l'esistenza.

In una esperienza governativa lungo la quale le cose buone sono state realizzate non grazie ma nonostante o contro la coalizione di governo, e la consumazione di una maggioranza si è bruciata fino alla mortificazione e al rigetto di un intero popolo, e l'opposizione è cresciuta come un pallone gonfiato senza prendere alcuna iniziativa degna di memoria, e anzi dando prove intestine di meschinità madornale e sbandierando dalla prima ora fantastici proclami di illegittimità del risultato elettorale, i radicali hanno fatto la loro parte costruttivamente facendosene un punto d'onore, come gli ultimi giapponesi di una guerra perduta.

Nel corso di questa esperienza, e già alla sua vigilia, hanno ampiamente dissipato una rischiata confusione fra l'americanismo, che rivendicano, e il bushismo, e fra il liberismo, che rivendicano, e la legge della giungla. Vantando a ragione una estraneità ai vizi castali, e anzi una primogenitura nella denuncia della partitocrazia, si tengono alla larga dalla cresta d'onda demagogica. Hanno auspicato costantemente e vigorosamente indulto e amnistia, e non se ne sono pentiti ipocritamente quando piovevano pietre forcaiole. Hanno sostenuto, con l'esempio della vita e della morte di militanti e dirigenti politici che dalla loro solidarietà hanno tratto e soprattutto dato forza, da Luca Coscioni a Piergiorgio Welby, battaglie tra le più es­senziali per una nobile idea della politica.

Quanto all'aborto, solo una confusione fra la dolorosa libertà di scelta personale del­le donne e l'infamia delle demografie coercitive di stato può ricacciare su trincee opposte e accanite persone accomunate da un intimo amore per la vita. I radicali sono laici, ma questo non dovrebbe guastare in nessun partito, tanto meno nel Partito democratico. Qualcuno di loro sarà anche mangiapreti, ma i preti contemporanei hanno a loro volta appetito da vendere.

Insomma, la mia opinione è che l'idiosincrasia per i radicali sia una brutta malattia, che per giunta vede loro come ammalati dal cui contagio guardarsi.

Ora, in un serio partito che voglia fare da sé, ed essere davvero aperto, l'unico veto accettabile è quello contro chiunque voglia imporre veti alla partecipazione altrui. I radicali non lo fanno. Questa almeno è la mia opinione.

Admin:
L'ex leader lc: non fu terrorismo.

Il figlio del commissario: lo era, noi tra le vittime

Onu e omicidio Calabresi

Sofri riaccende la polemica

D'Ambrosio: uscita fuori luogo. Manconi: giusto chiarire il contesto



MILANO — Meglio cominciare dalla fine. «Mi dispiace: argomenti come questo hanno bisogno di spazio e delicatezza, e sopportano male la risposta del giorno dopo. Ma io, sapete, non sono mai stato un terrorista». Adriano Sofri conclude così il suo articolo di ieri su Il Foglio, una chiusa inconsueta che dimostra piena consapevolezza del fatto che le sue parole non lasceranno indifferenti. In effetti: l'ex leader di Lotta continua commenta un articolo scritto su Repubblica da Mario Calabresi, che racconta di un incontro organizzato dal segretario delle Nazioni Unite tra le vittime del terrorismo venute da ogni parte del mondo, al quale ha preso parte in quanto figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972 da un commando di militanti di Lc. «Desidero muovere la più ferma obiezione a questa considerazione dell'omicidio Calabresi» scrive. Lo fa a doppio titolo.

Il primo deriva dalla sua vicenda personale. Come è noto, per la giustizia italiana il mandante di quel delitto è proprio lui. Il secondo invece è di altra natura. «Mario Calabresi parla sentitamente delle vittime, "donne e uomini che stavano vivendo la loro vita e non erano in guerra con nessuno". Con Pino Pinelli e Luigi Calabresi non fu così. Non c'era una guerra, ma molti di noi erano in guerra con qualcuno». Secondo Sofri la morte di Luigi Calabresi deve essere collegata alla strage di piazza Fontana, alle accuse «premeditate e ostinate» contro gli anarchici che sono all'origine della morte di Pino Pinelli, delle quali «Luigi Calabresi fu non certo l'autore, ma un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione ». La sua morte, scrive Sofri, non è terrorismo, ma fu semmai «l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca».

L'anello di Piazza Fontana, dunque. Le 16.37 di venerdì 12 dicembre 1969, quell'istante di sangue che ha fatto cambiare per sempre strada alla storia d'Italia. Ma ancora più di questa tesi, peraltro rispettabile, Adriano Sofri sa bene di aver rotto un tabù con il suo articolo. Per la prima volta contesta una iniziativa, una opinione, proveniente dalla famiglia del commissario. Mario Calabresi ha già dedicato un libro intenso e rigoroso alla sua vicenda umana, e si limita ad un commento asciutto. «Ero e rimango molto contento di aver partecipato all'iniziativa dell'Onu. Si trattava di un simposio sulle vittime del terrorismo, ed è stato emozionante, intenso, un'esperienza di grande valore».

Gerardo D'Ambrosio non ne parla volentieri. «Certo che ho letto» dice in un mugugno. Oggi senatore del Pd, negli anni Settanta è stato il giudice istruttore che ha condotto l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana e ha pronunciato la discussa sentenza sulla fine di Pinelli, quella che ipotizzava il famoso «malore attivo» e dava un'assoluzione purtroppo postuma a Luigi Calabresi. «Davvero non capisco dove voglia andare a parare Sofri. La sua uscita è fuori luogo, fatico a capirla. Dice il falso quando attribuisce la responsabilità della pista anarchica al povero Luigi. Fu la Polizia di Roma ad ordinare il fermo di Valpreda. Ma poi, se non è stato terrorismo quel delitto, mi domando cosa può esserlo. Esiste per caso un tribunale che condannò a morte Calabresi? Non mi risulta. Quell'uomo fu vittima di una campagna di denigrazione atroce, senza precedenti e mai più ripetuta, per fortuna. Credo che suo figlio sia andato all'Onu con pieno diritto. Che sia proprio Sofri ad affermare il contrario, mi sembra grave».

Tra gli ex di Lotta Continua, Gad Lerner è uno di quelli che conosce meglio i media e la politica, e ha messo in conto reazioni come quelle di D'Ambrosio.

Si dice sicuro che Sofri non abbia alcuna intenzione di polemizzare con Mario Calabresi, ma è altrettanto consapevole che il crinale sul quale si è mosso il suo vecchio compagno questa volta è davvero stretto. «Adriano prova profondo rispetto per Mario e la sua famiglia, che vivono ancora oggi un trauma irreparabile. Ma questo non può togliere ad un uomo già privato della sua libertà il diritto alle sue opinioni. Trovo paradossale che si voglia additare tigna o superbia nel suo bisogno di ricostruire la verità storica. La storia di quegli anni non è fatta di bianco o nero, di torti e ragioni scolpite nel marmo. È giusto che se ne parli, e che Adriano mantenga la sua libertà intellettuale».

Sintetico e scandito con estrema cura il commento di Luigi Manconi: «Trovo corretto sotto il profilo storico, politico e morale richiamare il contesto in cui maturò quel delitto». Nel complesso ecosistema dei reduci di Lotta Continua, Erri De Luca si è visto attribuire la funzione di bastian contrario, se non di reprobo, proprio per via di alcune sue affermazioni sulla vicenda Calabresi. «Ma questa volta ha ragione Sofri. Pinelli, e anche piazza Fontana, sono stati cancellati dalla memoria di questo Paese. La versione di Adriano deve essere considerata con lo stesso rispetto dovuto a quella che fornisce Mario Calabresi nel suo libro».

E alla domanda più delicata, De Luca risponde netto. «Dei rapporti tra loro due non mi voglio impicciare. Sono questioni personali».

Marco Imarisio
12 settembre 2008

da corriere.it

Admin:
IL COMMENTO

Sequestro di persona


di ADRIANO SOFRI


Duemila anni fa, a Roma, un capo che vedeva in grande si rammaricò che il genere umano non avesse una testa sola, per poterla mozzare di netto con un colpo solo.
Ieri, a Roma, il Senato ha decretato un colossale sequestro di persona: 60 milioni di corpi in un solo colpo. E' così vendicato l'oltraggio sacrilego della morte di una donna dopo soli diciassette anni di persistenza vegetativa, e riscritto il vocabolario italiano, dove pretendeva che una sonda infilata in gola o nella pancia di una persona fosse un trattamento terapeutico, una cura, e non un'ordinaria colazione.

Vasta la maggioranza che ha realizzato l'impresa, ben più della stessa ingente maggioranza uscita dalle urne scorse, così da corrispondere, alla rovescia, alla vastissima maggioranza di cittadini italiani che dissente dal nuovo decreto, quando non ne è atterrita o scandalizzata. Quando se ne completasse il cammino, gli italiani, dal Presidente della Repubblica all'ultimo povero Cristo, finirebbero espropriati della libertà di disporre del proprio corpo, cioè di sé: e con gli italiani chiunque si trovasse ad agonizzare in Italia per qualche circostanza di passaggio. Era il paese della dolcezza del vivere, non è nemmeno un buon paese per morire.

Certo, resta la Corte Costituzionale, finché dura. Resta il referendum: ma ai referendum le Curie hanno escogitato da tempo l'espediente - furbizia con cui soppiantare intelligenza - che lo sventi. Se non si riesca a impedirne l'attuazione, si promuoverà l'astensione: il quorum proibitivo lavora per noi. Furbizia è ormai la risorsa metodica. Fino a poco fa le Curie dicevano no a qualunque legge sul fine vita. Assediate dall'iniziativa laica e dalla pressione popolare, decisero bruscamente di accettare che la legge fosse fatta: a loro immagine, un'antilegge. L'altroieri il cardinal Bagnasco ha chiesto che ci si sbrigasse a farla. Vedete dunque che non è vero che questa Chiesa non creda all'evoluzione. Ma non è ai cardinali e ai vescovi che si devono muovere obiezioni di parole e di coscienze.

La legge è l'opera di una classe politica molto votata, e del sostegno di un'altra parte meno votata.
Quello che succederà d'ora in poi somiglierà a quello che succedeva finora. Che pazienti, famigliari, medici e infermieri faranno quando e come potranno il loro officio pietoso, mutati solennemente in fuorilegge. Finché un'altra donna, un altro uomo deciderà di sfidare pubblicamente l'usurpazione della legge, in nome della propria libertà e della Costituzione italiana, e l'Italia assisterà di nuovo col fiato sospeso a una coraggiosa agonia da una parte, e alle mene affannate delle autorità riunite dall'altra. L'Italia sta imparando dolorosamente a maneggiare in pubblico questioni di vita e di morte finora confinate, e anche protette, nelle corsie di ospedale e nelle stanze da letto di case dalle tende tirate.

Non sarà la stessa Italia, non lo è già. Cartelli esposti in pronti soccorsi e ambulatori, in tante lingue, dicono: "Noi non vi denunciamo". Tante lingue, due Italie, due cartelli opposti. Anche nel maneggiare ottimismo e trepidazione, sanità e malattia. A Bologna, un medico ha sfidato i candidati sindaco a esibire il loro certificato di sana e robusta costituzione fisica. Il presidente del consiglio è, buon per lui, ottimista e in forma, e tratta le malattie come allegre metafore. Ma le metafore tratte dalla malattia, e dalla biologia, sono brutte e pericolose. Se vuole prendersela con l'America, faccia pure; ancora meglio se volesse prendersela un po' con la Russia del suo amicone. Ma se dice: "Il virus americano", non va bene. C'è un odore di caccia all'untore, e anche di peggio. Se vuole prendersela con la magistratura, libero di farlo, salve obiezioni. Ma se dice che "la magistratura - o una sua parte - è una metastasi", offende imperdonabilmente una professione importante e coloro che la professano, e offende ancora più imperdonabilmente chi è ammalato di cancro e sa nel proprio corpo che cos'è una metastasi. Una sciagura, ma la sua, la mia, la vostra sciagura. Con la quale mi misuro io, ti misuri tu, si misura ciascuno a suo modo, espellendolo da sé e combattendolo come un nemico, sentendolo come una parte di sé, ignorandolo, vincendolo, morendone. Si prendano altrove le metafore, e anche le magistrature, e le Americhe. Si lascino i virus e le metastasi a chi sa, per sé o per i propri, di che cosa si tratti.

La politica professionale non è granché, anzi spesso - per esempio oggi - è abbastanza disgustosa, ma non è "un cancro", "un virus", "una metastasi". E tanto meno l'Aids: il cui abuso metaforico e barzellettiere surclassa tutte le altre porcherie analoghe, peste contemporanea per chi ne parla senza esserne affetto, senza pensare di poterne essere affetto, senza pensare a chi ne è affetto, senza immaginare ogni volta che apre bocca di esserne affetto. Come si dovrebbe. Ora e nell'ora della nostra morte, amen.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it

Admin:
IL COMMENTO

La febbre del peggio

di ADRIANO SOFRI

 CADONO muri, e lasciano vedere come siamo. Non era nel patto, non c'è stato un casting, non c'erano telecamere pronte. Sono arrivate molto dopo, tutto è arrivato molto dopo. Quelli che hanno fatto in tempo a scappare hanno poi raccontato: "Senza scarpe, senza telefonini...". Avevano ragione, le scarpe sono state sempre la prima cosa nelle guerre. I telefonini sono diventati la prima, nelle paci.

Sono crollati i muri, e abbiamo visto un'umanità vera. Non che l'altra non sia vera, quella del casting e delle telecamere perenni, ma questa è un'altra cosa. Basta pensare al significato di una parola come "fratello", qui e là. Questa è fraterna. Induce a fare un discorsetto sopra lo stato d'animo degli italiani.

Mentre la luna andava verso il plenilunio, le notti scorse, si pensava a chi, all'addiaccio o venuto fuori dalle tende, se la vedesse splendere addosso dal suo cielo di rovine. I terremoti tolgono la fede ad alcuni, in altri la rinsaldano. Io non ce l'ho né la rimpiango, ma ricordo mia madre che pregava, e guardo mello schermo persone sedute in cerchio fuori dalla tenda che pregano, e pregherei con loro, se mi chiedessero di farlo. Ma per chi non abbia il conforto o l'illusione della religione, noi abbiamo Leopardi. Anche il sole di Foscolo, finché risplenderà sulle sciagure umane. Ma abbiamo soprattutto Leopardi. Abbiamo la luna.

Sappiamo che i cattivi cementieri sono farabutti e sono affar nostro, ma che la natura ci è distrattamente matrigna, e di troppo gran lunga superiore alle nostre forze; e però che la nostra natura, "incontro a questa / Congiunta esser pensando, / Siccome è il vero, ed ordinata in pria/ L'umana compagnia, / Tutti fra sé confederati estima / Gli uomini, e tutti abbraccia / Con vero amor, porgendo / Valida e pronta ed aspettando aita...".

Avete sentito, in qualche tg, la vecchia signora che dal suo giaciglio raccontava le gambe spezzate del suo pianoforte e la profanazione dei suoi libri precipitati dagli scaffali e la sua vita dirottata al tramonto? Voci di solito ignote alla tv, improvvisamente sommerse, e riemerse a un microfono importuno a mostrare un'altra Italia. Succede ogni volta. Se ne sono ricordati in tanti, in questi giorni, della Ginestra. Per giunta, i nostri contemporanei pompeiani, contenti dei deserti, più accaniti delle ginestre, non fanno che risalire verso il cratere di un Vesuvio che i vulcanologi auscultano inascoltati.

La poesia è la più forte religione civile, per questo è bene imparare a memoria da bambini, per poterla rirecitare da vecchi, come una preghiera, la notte fuori da una tenda: "Che fai tu luna in ciel..." . Gli italiani danno il meglio di sé nell'emergenza, si dice. Lo si dice, da alcuni per congratularsene, da altri per deplorarlo, per rimpiangere un paese normale che sappia vivere fuori dalla febbre del peggio e del meglio. Però forse si dovrebbe aggiungere, oggi, che l'emergenza e i suoi abusi fanno i conti con uno stato del mondo sul quale la campana è suonata già per la terza volta.

Se fosse vero che noi, e gli umani in genere - perché quello che è vero per noi è largamente vero per gli altri - fossero capaci di dare il meglio nel mezzo di un disastro e di un allarme, ebbene, è lì che siamo, benché non basti ancora a farcelo sentire vicino com'è. Vuol dire questo, la conversione "ecologica" della politica o delle private abitudini. Nei giorni dell'Aquila si è staccato dall'Antartide un iceberg "grande come la Giamaica", hanno scritto i trafiletti: e siamo andati a controllare quanto è grande la Giamaica, sperando di trovarla più piccola possibile. E la guerra, e le guerre?

Lasciatemi dire una cosa. Le persone all'Aquila, e ancora di più quelli che ci arrivavano da fuori, dicevano: "Era come la guerra", "Come un bombardamento a tappeto". Qualcuno ha osservato che il terremoto fa più paura della guerra, del bombardamento. In Italia le persone che hanno conosciuto una guerra sono ancora molte, ma diventano sempre meno. Qualcuno è andato a vederla in giro per il mondo. Non occorreva andare lontano: per esempio, appena ieri, a mezz'ora di volo dall'Abruzzo. Non so se faccia più paura un terremoto o un bombardamento aereo: gli uomini non fanno che emulare la natura, anche nello spavento. E la terra trema anche sotto le bombe. So che "la guerra" significa che contemporaneamente cento città come L'Aquila sono distrutte come L'Aquila. Pensiero difficile da pensare e sopportare, vero?

Nei giorni del terremoto, succedeva che Obama, proprio nella piazza del Castello di Praga, ritrovasse il coraggio di nominare il disarmo nucleare. Una temerarietà, piuttosto: perché la terra è un colossale arsenale nucleare di guerra, e la proliferazione interdetta non fa che crescere, e le parole di Obama erano appena state sbeffeggiate dal lancio semiserio del missile nordcoreano (scherzi che possono fare molto male, però), e India e Pakistan giocano a loro volta con quel fuoco, e l'Iran...

Ecco: sono le nostre metafore quotidiane, lo tsunami, la guerra, il terremoto. Poi ci sono le guerre vere, i terremoti veri, gli tsunami veri. Non si può immaginare di vivere in una mobilitazione permanente da tempo di guerra o di terremoto, chi abbia la provvisoria fortuna di esserne risparmiato. La vita reclama i suoi diritti. Ma non si può nemmeno far finta che esista una vita "normale" fatta di ingorghi stradali e Grande Fratello, salvo sospenderla - gli ingorghi no, il Grande Fratello - quando le macerie tracimano. E la politica? La politica campa, vivacchia, o ingrassa, da molto tempo su emergenze di dettaglio o vere a metà, dunque false del tutto. Fa le facce, incarica, rimuove, si pavoneggia, ci scherza su, perfino.

La politica seria ha da misurarsi con l'emergenza universale, e non ha bisogno di inventare nuovi strumenti per rilevare il radon predittore: le basta mettere l'orecchio sul suolo, e sentire l'eco di quello che è già successo.

P.S. Noi amiamo i bambini e i cani, no? Siamo contenti che i bambini amino i cani. Sappiamo che i cani, quando non siano pervertiti da cattivi maestri, amano i bambini. Avevamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani di Ragusa, abbiamo avuto il cuore stretto per i bambini e i cani dell'Aquila. Sono state due lezioni esemplari.

(9 aprile 2009)

Admin:
IL COMMENTO

Se Veronica diventa preda

di ADRIANO SOFRI



Gentile Silvio B., le dirò alcune cose sincere, da uomo a uomo. Noi uomini non siamo abituati a dirle, e tanto meno ad ascoltarle. Vale per quasi tutti noi, non solo per i bugiardi più spericolati come lei. Noi (con qualche rarissima eccezione: ci sono anche uomini davvero nobili d'animo, ma non ci riguarda) sappiamo bene di che porcherie si tratti, sia che le pratichiamo, come lei ostenta di fare, sia che ci rinunciamo, perché abbiamo imparato a vergognarcene, o semplicemente perché non abbiamo il fisico.

Lo sa lei, lo so io.

Mi hanno raccomandato di non perdermi i giornali a lei vicini: non li ho persi. Ho scorso gli editoriali, ho guardato le fotografie. Sa che cosa ho pensato? No, non che mi trovavo di fronte a qualche colonna infame, questo era ovvio, l'ha pensato chiunque. Ho guardato le fotografie - una giovane donna, un'attrice, che si scopre il seno - e mi sono chiesto come sia stato possibile che una giovane donna così bella dedicasse la propria vita a uno come lei. E' successo anche a me, mi interrogo anch'io: come sia possibile che giovani donne così belle e intelligenti dedichino la propria vita a uomini come noi. Naturalmente, un po' lo sappiamo come succede.
Che carte abbiamo in mano, per barare.

Siamo volgari abbastanza per riconoscere la reciproca volgarità. Semplicemente, ci teniamo a bada un po' di più di quanto faccia lei. Dicono tutti che gli italiani la invidiino. Sinceramente, nemmeno a questo credo. La guardo, dalla testa ai piedi, e non ci credo. Gli italiani hanno, come tanti maschi del mondo, un problema con la caduta dei capelli. Ma sanno bene che la sua non è la soluzione. Lei stesso lo sa, e non deve farsi troppe illusioni. Il cosiddetto populismo è traditore. Uno crede di aver sostituito ai cittadini un popolo, al popolo un pubblico, al pubblico una plebe: ed ecco, proprio mentre passa sotto l'arco di trionfo del suo impero di cartapesta e lancia gettoni d'oro, parte un solo fischio, e la plebe d'un tratto si rivolta e lo precipita nel fango.

L'Italia è il paese di Maramaldo, e io non voglio maramaldeggiare su lei: benché sia ora di rovesciare le parti di quel vecchio scurrile episodio, e avvertire, dal suolo su cui si giace, al prepotente che gl'incombe sopra che è un uomo morto. Noi c'intendiamo: abbiamo gli stessi trucchi, dimissionari o no, pentiti o no. Siamo capaci di molto. Di esibire le nostre liste alle europee, e vantarcene: "Dove sono le famigerate veline?" dopo aver fatto fare le ore piccole ai nostri esasperati luogotenenti a depennare capigliature bionde. Di dire: "La signora" (non so se lei ci metterebbe la maiuscola: fino a questa introspezione non arrivo), sapendo che la signora di noi sa tutto, e anche delle liste elettorali prima della purga. Magari la signora la lascerà, finalmente, e lei le scioglierà addosso la muta dei suoi cani. Diventerà la loro preda prediletta. Ma nel Parlamento Europeo (le maiuscole ce le metto io: un tocco di solennità non fa male) ci si ricorderà di Veronica. Capaci perfino di chiamare "maleodoranti e malvestite" le deputate dell'altro schieramento: ci ho pensato, e le dirò che almeno a questo non credo che avrei saputo spingermi. In fondo lei è fortunato: le circostanze le permetteranno fino alla fine di restare soprattutto un poveruomo desideroso di essere vezzeggiato e invidiato e lusingato da ammiccamenti e colpi di gomito dei suoi sudditi, a Palazzo Chigi o sul prossimo colle, mentre padri di famiglia minacciano di darsi fuoco perché la loro bellissima bambina non è stata candidata, e vanno via contenti con la sua camicia di ricambio. In altre circostanze avrebbero potuto succederle cose terribili.

Nel giro d'anni in cui lei e io nascevamo morirono chiusi in due distanti manicomii, perfettamente sani di mente, la signora Ida Dalser e suo figlio Benitino, che facevano ombra al capo del governo. Allora lo Stato era più efficiente di oggi, e misero mano a quella soluzione medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia. Altro che lo scherzo delle belle ragazze nelle liste elettorali. Dipende tutto dall'anagrafe.

Per ora molti italiani (e anche parecchie italiane: le è riuscito il gioco di far passare la cosa come una rivalità fra giovani e belle e attempate e risentite) ricantano ancora il vecchio ritornello: "Tra moglie e marito...". Di tutti i vizi nostri, quello è il peggiore. E' la incrollabile Protezione civile dei panni sporchi da tenere sporchi in famiglia, delle botte e delle violenze a mogli e bambini, delle malefatte di padri spirituali al segreto del confessionale, fino a esploderci nelle mani quando il delitto d'onore appena cancellato dal nostro codice si ripresenta nelle figlia ammazzata in nome di qualche sharia. Non mettere il dito: no, a condizione che non si sentano pianti troppo forti uscire dalle pareti domestiche. O, anche quando la casa è così ricca e i muri così spessi, non sia la moglie a far sapere che cosa pensa. Che né il denaro né il soffio della Storia (Dio ci perdoni) le basta a tacere il suo disgusto.

Invidiarla, gentile presidente? Mah. Ammetterò che, reietto come sono, una tentazione l'ho avuta. Non mi dispiacerebbe avere un ruolo importante nell'Italia pubblica di oggi, per le nuove opportunità che si offrono a chi sappia pensare in grande. E' da quando ero bambino che desidero fare cavallo uno dei miei senatori.

(1 maggio 2009)
da repubblica.it

Navigazione

[0] Indice dei messaggi

[#] Pagina successiva