ADRIANO SOFRI -
Arlecchino:
Viaggiare prendendola larga: il mio viaggio a Ninive
Reportage
Sofri
Passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà.
Ieri gli scontri sono continuati nel sobborgo di Gobjali, più rarefatti, e la «Brigata d’Oro » irachena si è dedicata soprattutto alla ripulitura degli spazi conquistati.
L’ingresso delle truppe irachene è avvenuto nella parte orientale di Mosul, sulla «riva sinistra» del Tigri. Si leggono i nomi dei villaggi e dei sobborghi in cui infuria la battaglia: Bazwaiya, Tehrawa, Gogjali, alKarama, Jdeidet al-Mufti…In trasparenza, dietro questi nomi a noi nuovi, se ne legge uno carico di gloria e cenere: Ninive.
Le rovine di Ninive stanno a un passo dal sito della battaglia. È lei quella metà orientale di Mosul. Pochi nomi sono capaci dell’evocazione suscitata da Ninive, dalla sua dea Ishtar dell’amore e della guerra, dal palazzo impareggiabile di Sennacherib e dalla biblioteca di Assurbanipal e dalla condanna del Dio biblico. La Ninive splendore e terrore dei fasti di Assurnasirpal: «Scorticai tutti i capi della rivolta, e con la loro pelle rivestii la colonna; alcuni murai all’interno, altri infilzai su pali… Molti prigionieri arsi nel fuoco… Ad alcuni tagliai le mani e le dita, e ad altri il naso, gli orecchi e le dita, a molti cavai gli occhi. Feci una colonna coi viventi e un’altra con le teste, e legai le loro teste a pali tutt’attorno alla città. Bruciai nel fuoco i loro giovani e le loro ragazze…».
La spietatezza non è un’ultima notizia. Si potrebbe annotare che quelli cavavano occhi e innalzavano palazzi e templi e statue; questi cavano occhi e demoliscono i resti di templi e statue.
Da noi il nome di Mosul è associato alla diga, che ne dista, a monte, fra una trentina e una cinquantina di km. I progetti erano iniziati fin dalla metà del Novecento, impegnando una quantità di imprese internazionali. Che la fondazione fosse di un gesso solubile era noto dall’inizio, e che bisognasse riempirla di cemento e malta prima di costruirci sopra. Ma una volta avviati i lavori, nel 1981, l’impresa italo-tedesca che aveva ricevuto l’appalto fu sollecitata a sbrigarsi, e ripiegò su un espediente tecnico che andrebbe intitolato a Sisifo: si scavò una galleria attraverso la quale sarebbe stato iniettato in permanenza il materiale di riempimento, così da compensare la fondazione gessosa che si squagliava. Saddam Hussein volle intitolarsi la diga, e del resto si intitolava più o meno tutto l’Iraq.
La costruzione fu completata nel 1984 e nella primavera del 1985 l’acqua trattenuta del Tigri inondò il vasto invaso sommergendo una miriade di siti archeologici. Questa sì è una gran storia.
L’Iraq e l’Iran erano in guerra, per otto anni, 1981-1988, e più di un milione di morti. L’archeologia era un lusso superfluo se non molesto. Gli archeologi disperati riuscirono a strappare la concessione di scavare quanto potevano, fino allo scadere del tempo –alla rottura delle acque, per così dire.
Arrivarono missioni archeologiche da molti paesi, anche dall’Italia, naturalmente. Il territorio apparteneva, allora come oggi, al governatorato della curda Dohuk. Ho ripescato un resoconto finale patrocinato dalle autorità irachene: una lettura troppo tecnica per le mie competenze, ma a grattarci dentro affiorava l’angoscia per un mondo riperduto.
C’era una introduzione ufficiale, conteneva naturalmente un paragone coi «barbari iraniani, che non sanno che cosa sia cultura e civiltà» –riferito al regime khomeinista non è inappropriato- e una dedica a Saddam, «vessillo di cultura e di pace». Sperticata, come quelle di Assurnasirpal. Vediamo. C’è una missione polacca, si occupa dei siti paleolitici di Nemrik, Tell Rijim e Tell Raffaan.
«I risultati preliminari dell’ispezione compiuta nella microregione di Raffaan mostra che il primo insediamento umano nella valle del Tigri a nord di Mosul rappresenta il più antico stadio nello sviluppo della cultura umana». Che non è poco, ma subito dopo avverte che è solo perché hanno scavato qui: anche altrove, tutt’attorno, dev’essere così. I polacchi fanno la loro terza e ultima campagna di scavo nel 1985. Hanno per così dire l’acqua alla gola: «Il livello del Lago Saddam continua a salire».
Si concentrano sui resti del vasellame di Ninive 5 e sull’esplorazione degli strati di ceramica di Khabur (1900-1400 a.C.). Trovano sepolture, vasi, manufatti in bronzo, sculture. Crateri e vasetti dipinti, a motivi geometrici e animali stilizzati, calici, sigilli assiri in stile line are. Ci sono i giapponesi, lavorano ai tell (collinette) di Jigan, Fisna, Musharifa, Der Hall. «Almeno 150 siti archeologici saranno sommersi dall’acqua», scrivono. Il più vasto è Tell Jigan, al momento c’è un villaggio yazida –sarà sommerso anche lui. «Attualmente gli abitanti dei villaggi risiedono attorno al tell, impegnati nell’agricoltura o nella raccolta di ciottoli lungo il Tigri per società di costruzione». I ritrovamenti coinvolgono 6 diversi livelli, dal periodo Hassuna (5600-5000 a.C.) al primo tempo islamico.
Gli inglesi del British Museum scavano a loro volta a Khirbet Khatuniyeh, 30 km a nordovest di Mosul. Continuano freneticamente dal 13 febbraio al 3 aprile, giorno in cui l’acqua li sommerge. Madame du Barry sul patibolo implorò: «Un istante ancora, signor boia».
È una leggenda, ma sarebbe verosimile che l’avessero detto davvero quei bravi archeologi giapponesi e i loro colleghi mentre l’acqua montava. E però proprio l’ultimo giorno estraggono il pezzo più prezioso: un rhyton per libagione in terracotta -una coppa per bere- che termina in una testa di ariete dipinta a strisce rosse. Simile al rhyton trovato in una tomba di Nimrud, che però è privo della decorazione a pittura.
Spostandosi dal basso in alto man mano che l’acqua sale gli inglesi riescono ancora a condurre una campagna di scavo fin nel 1986, nell’area di Tell Abu Dhahir. Attraversano otto strati: parto-ellenistico, tardo assiro, Khabur, Taya o accadico, Ninive 5 dipinto, Uruk, Ubaid, e Hassuna, l’ultimo, che poggia sul suolo vergine. La missione francese del 1983-84 opera a Khirbet Derak e Kutan, trova soprattutto documenti importanti delle culture Halaf e Ninive 5, sigilli impressi su bitume ecc. Gli Halafiti (6°- 5° millennio a.C.?) allevavano anche maiali, dunque erano sedentari –i suini non sono capaci di transumanza.
C’è nel 1984 anche una spedizione italo-tedesca: Frederick Mario Sales da Venezia, Sebastiano Tusa da Roma, Gernot Wilhelm da Amburgo e Carlo Zaccagnini da Bologna. Lavorano a Tell Jikan, Tell Karrana, Tell Khirbet Salih. Una campagna tedesca si svolge ancora nel 1985 a Hirbet Aqar Babira. Sempre nel 1985, da marzo a maggio, avviene una spedizione sovietica al Tell Sheikh Homsy, a pochi km dalla cittadina petrolifera yazida di Zummar.
Anche Zummar verrà sommersa, Saddam ne fa costruire un doppione più in là, e poi sommerge anche quello con la sua campagna di arabizzazione forzata. Quando il livello dell’acqua è particolarmente basso, ne riemergono cupole e cime di minareti della vecchia Zummar. Come da noi in Lucchesia, quando il lago di Vagli si svuota e riaffiorano le case e i campanili di Careggine, con quell’aria di spettri pieni di rimp rove ro. L’ultima volta che ho visitato la diga era maggio. Era deserta, c’era uno che ci pescava dentro con una lenza arrangiata, è piena di grasse carpe.
Il peshmerga che mi accompagnava si lavò le mani i piedi e la faccia nell’acqua e fece le sue preghiere. Il livello dell’invaso era decisamente basso. Era vietato fare fotografie. Era vietato ai lavoratori parlare con gli estranei. Stupidaggini. È ancora tutto vietato. I giornalisti ci vanno, fanno fotografie e video, riprendono i bersaglieri incolpevoli e tornano a casa col loro pescato. I bersaglieri si annoiano, essenzialmente. Stanno in un recinto dentro un altro recinto. La mensa è ottima, pare.
A maggio i tecnici della Trevi erano appena venuti. Non li vidi, ma ne incontrai un gruppo all’aeroporto di Erbil. Una decina, piuttosto giovani ed energici, qualcuno scrive sul portatile, qualcuno guarda fotografie, altri aspettano e basta. Gli guardo le scarpe, guardo le mie, e riconosco la stessa polvere spessa. Venite dalla diga, dico. Infatti, sono consulenti di rientro dall’ispezione. Uno scrive un diario, lo faccio sempre quando vado in giro per il mondo, a caldo, dice, una volta a casa non è più la stessa cosa.
I vostri erano preoccupati di sapere che venivate alla diga di Mosul? Non gliel’abbiamo detto, rispondono. Io ho detto che andavo a Doha, dice uno, e un altro: io a Istanbul. Chiedo come hanno trovato gli impianti. Si vede che sono senza manutenzione da trent’anni, dicono, ma all’origine sono ottimi, impianti e macchinari. Poi uno si alza e va a sussurrare agli altri che è meglio stare zitti, ha letto in rete una mia cronaca dalla diga. Mi viene da sorridere. Non vi preoccupate, dico, me ne fotto degli scoop.
Me ne fotto tuttora degli scoop. Ora Mosul è vicina, e anche le canaglie Daesh e la miscela di liberatori, e soprattutto un milione e più di persone minacciate. E ancora la vicinanza di quella antica Ninive a farsi sentire. Anche lei ricavò la propria grandezza dalla ferocia, ma il tempo che è scorso mette una specie di anestesia morale sui suoi strati archeologici. I morti ammazzati furono anche allora troppi per uscire dalla contabilità e meritarsi una commemorazione: restano Ishtar dai seni rotondi e dal ventre materno e dalla vendetta crudele e il mirabile leone scolpito trafitto e morente ma messo in salvo al British Museum. Bisogna fare dei giri larghi, nel Kurdistan di oggi.
Il Kurdistan stesso gira attorno a Ninive e a Mosul come per accerchiarla, dopo esserne stato accerchiato: il monte Sinjar, Zakho, Duhok, Erbil, Makhmour, Kirkuk…Sono passato da Akre, dove la città vecchia è tutta arrampicata, ho visitato il caravanserraglio, che dentro è in rovina ma ha ancora un maestoso portale.
È venuto a interpellarmi bruscamente un anziano male in arnese ma aitante, mi ha chiesto se fossi ungherese. No, gli ho detto, mi dispiace. Ma parli ungherese, ha insistito, un po’minaccioso. Nemmeno, ho detto, mi dispiace. Mi hanno tradotto la sua storia: era in galera sotto Saddam, è stato in cella con un ungherese e ha imparato i rudimenti della lingua e non trova mai nessuno con cui praticarli. Mi dispiace, gli ho detto: però sono stato in galera. Sono arrivato fino ad Amedi –Amadyah , vicina a tutti i confini, favolosa in cima a un monte capitozzato, assira e curda ed ebraica e cristiana: la città dei re magi.
Turismo non ce n’è, naturalmente, tutto va in pezzi. Sceso da Amedi ho preso un tè nel piccolo centro lungo la strada, in una pizzeria gestita dal signor Taha Amide, formidabile faccia di caratterista che mi rivolge la parola in olandese, poi in tedesco, poi in italiano. Gli chiedo quante lingue conosca, dunque, dice, vediamo: olandese, tedesco, italiano poco, arabo, curdo naturalmente, tutte le lingue curde, e poi spagnolo e turco, e inglese, ma poco.
Di notte passiamo da una strada interna minore per tornare a Erbil, avevamo voglia di vedere Barzan, il villaggio natale di Mustafa Barzani, che vi è sepolto, e il Memoriale a lui dedicato. Ma abbiamo fatto tardi ed è una notte di buio pesto. La strada è sorprendentemente dissestata per un luogo così storico, che è ancora la dimora dei Barzani. Forse vogliono tenerla al riparo dalla folla. Il presidente Massud, figlio di Mustafa, ha popolato la zona di animali selvatici vietando la caccia in qualunque periodo dell’anno. In questa zona avrebbe dovuto essere costruita una diga sul Grande Zab, che raddoppiasse quella di Mosul e ne dimezzasse la portata, per ridurne il pericolo. Ma i Barzani, si dice, non hanno intenzione di sacrificare il loro terreno ancestrale.
Ninive passò, passerà il Califfato coi suoi panni neri e i video ripugnanti, e passerà tutto, anche i nostri anni di viltà e l’im presa di iniezioni di cemento e le coalizioni e gli imperi di Erdogan e degli ayatollah sciiti e di Riyadh wahhabita. Al museo di Erbil incontro quattro giovani italiani, di Milano, Roma, Genova, che in un cortiletto sgangherato spolverano e catalogano i sassi che hanno scavato a Makhmour, sotto un cielo nero di petrolio incendiato. Toccherà a loro.
Da - http://www.unita.tv/focus/viaggiare-prendendola-larga-attorno-a-ninive/
Arlecchino:
Ecco i nemici del Califfo
Reportage
Mosul
Con l’Unicef nel campo profughi a Dibaga.
Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, ora accoglie oltre 5mila famiglie
Ieri siamo andati con l’Unicef a Dibaga. Era un villaggio fra Erbil e Makhmour, poi accolse un piccolo campo di emergenza, poi è diventato una città di qualche decina di migliaia di abitanti –ieri ne aveva 32.040, per 5142 famiglie. Di questi, 16.200 hanno meno di 18 anni. La maggioranza ha molto meno di 18 anni. Sapete com’è andare per un campo di profughi, e in questi giorni per di più si pensa ai numeri degli sfollati in Italia.
Una guerra è diversa dal terremoto. Il terremoto non ha nemici, benché possa essere crudelissimo. Una guerra li ha e si gonfia di odio. Dapprincipio, in un campo, si è confusi e spaesati perché non ci sono persone, ma mucchi di persone, bambini che fanno ressa, che spingono per arrivare a toccarti. Dura poco, perché prendono l’iniziativa e si fanno riconoscere una per una, uno per uno, con una specie di discrezione invadente: ti si aggrappano, e poi si staccano per passare la mano ai prossimi. Si prende e si dà una confidenza piena nel giro di qualche minuto. Poche ore prima che venissimo qua il Califfo, quell’al-Baghdadi, aveva fatto diffondere –o chi per lui – un messaggio roboante. Resistere e morire, attaccare a morte sauditi e turchi, colpire dovunque e preferire la Libia, come meta personale.
Il Califfo probabilmente pensa di voler bene ai bambini. Fa loro l’onore di renderli guerrieri e tagliagole fin da piccoli, di toglierli da casa e da scuola e forgiarli come uomini (e donne, molto meno, naturalmente) nuovi. Ha stampato dei manuali scolastici adatti ai suoi programmi: una sola materia. Gli altri, i bambini destinati a essere bambini, sono i suoi nemici.
Sono questi che ci sciamano addosso per darci la mano, per dire tenkiù, per guardare la fotografia –per farla, anche: oggi pubblichiamo le nostre ma solo perché non ci eravamo preparati a raccogliere le loro, che sarebbero un impareggiabile reportage sul campo. Il campo –i campi, perché si sono moltiplicati- ha fame di spazio per le tende, e l’Unicef e le altre buone volontà devono sgomitare per guadagnare uno spazio alle scuole. C’è il sole di nuovo caldo oggi, una fila di bambini con un tesserino d’identità in mano, passano davanti a un tavolino dove un grosso signore burbero prende i loro dati e dà un foglietto, col quale, lì accanto, ritirano lo “school bag”, lo zainetto celestenazioniunite che intanto gli addetti stanno riempiendo di: quaderni, matite e, meraviglia, un temperamatite.
Quando l’orario della distribuzione finisce, e anche i bags, i bambini restati senza sono tanti, e tristi come se avessero perduto un patrimonio. Ci chiedono di aiutarli a ricevere quello che gli spetta, spieghiamo di no, vaglielo a spiegare. Chiedo di tradurre che domani, glieli daranno domani. Domani no, corregge il traduttore, è venerdì, è festa. Ve li daranno dopodomani. Facciamo il giro delle classi. Che cosa vorrebbero diventare, domande così. Dentista, uno. E imparare l’inglese, dicono in coro le bambine. Se sai l’inglese parli con tutti. Inshallah –come si dice in inglese? «Godwilling», ma il concetto è un altro.
C’è una zona di «transito» riservata agli uomini che la polizia controlla prima di accettarli, può durare un’ora, o settimane. Gli uomini sono molto meno numerosi delle donne: alcuni perché sono andati con l’Isis. Qui arrivano meno dalla zona di Mosul, più da quelle di Hawijia, Qayyara. Stanno seduti, i mariti da un lato della rete le mogli dall’altro, a parlarsi, o a starsene zitti. Specialmente i nuovi venuti hanno paura di essere riconosciuti, delle rappresaglie sui parenti. Hanno racconti terribili, naturalmente. Da Mosul sono usciti ancora in meno di 40 mila, e soprattutto dal circondario. Però a Mosul il disastro deve ancora arrivare. I nuovi venuti aspettano l’inverno che si annuncia. Sara, 7 anni, che viene da Jara La, Makhmour, dalla fotografa non si stacca più invece. Non le manca la sua casa, le dice. E come mai? Perché mi sono liberata dal gatto di mio fratello, non lo potevo soffrire. Ha 4 fratelli e 4 sorelle, hanno pagato uno spallone 100 euro l’uno, in 11, per scappare.
In tv le piacciono i film di paura e i fantasmi, questi perché volano. Vuole fare il dottore, perché il camice è bello e può ascoltare il cuore degli altri con lo stetoscopio. Maria, che è un’italiana dell’Unicef, ha trovato dei bambini che saltano alla corda con dei fili elettrici, tranne uno bravissimo che invece ha una vera corda, con le maniglie e tutto. E’ la sola cosa che si è portato via scappando da casa. Una sorella di Sara si chiama Athra, ha 19 anni, era in casa di uno zio. Aprì la porta e si trovò davanti i ceffi dei Daesh. Ebbe una tale paura che per un mese e mezzo non uscì più dalla casa. Quando è venuta via si è coperta di nero dalla testa ai piedi, anche le mani, ma a un posto di blocco dei Daesh hanno fatto una scenata a suo padre perché lei aveva gli occhi scoperti
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Le tre guerre di Erdogan
Medio Oriente
Erdogan, un avventurista, che gioca d’azzardo su tre fronti
Adriano Sofri · 5 novembre 2016
Si era detto: quante guerre si dirameranno dal tronco della guerra all’Isis e alla sua roccaforte principale, Mosul. Si era calcolato: 10, forse 12. Forse bisogna dare un colpo di freno e uno di acceleratore.
Di freno: perché si è presentata, e ancora si continua, una prima tappa della battaglia per Mosul come se Mosul fosse già presa, e invece si è presa e solo in parte solo la sponda orientale di Mosul, e vi si combatterà ancora a lungo, e ieri la resistenza è stata più forte che mai, e al di là del fiume aspettano le migliaia di miliziani dell’Isis, suicidi e soprattutto omicidi, e il milione e oltre di persone chiuse come in un recinto di mattatoio.
E un colpo di acceleratore, perché le tensioni pronte a esplodere dopo Mosul hanno fretta di divampare mentre ancora bisogna combattere e vincere quella guerra dichiarata ipocritamente comune. In questo rincaro c’è un giocatore che vuole surclassare gli altri con le sue puntate d’azzardo: Recep Tayyp Erdogan.
Fate un conto. Erdogan è uscito trionfante da un colpo militare (serio, non di facciata, e non privo di ragioni) e ha liquidato, sotto il nome di cospirazione gulenista, una vasta parte della società civile turca: scuole, tribunali, polizia, esercito, giornali e tv e radio… Ai curdi, che sono per lui prima che un problema politico una intima ossessione, aveva già mosso guerra per terra e per cielo, trovando nella loro organizzazione militare, il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, un nemico altrettanto risoluto.
Ieri, con l’arresto dei due copresidenti dello HDP, il Partito Democratico dei Popoli curdo, e di una decina di parlamentari, dopo che il parlamento aveva votato a maggio una svergognata esclusione dello HDP dall’immunità, il regime turco ha fatto terra bruciata della distinzione fra una via democratica curda e una della lotta armata, e ha compiuto un passo decisivo nella trasformazione del confronto militare fra il proprio esercito e quello partigiano del PKK in una vera guerra civile. E i curdi in Turchia sono fra i 20 e i 25 milioni, e hanno un loro antico e fiero territorio.
Ieri un membro influente dello storico partito kemalista, CHP, il Partito Popolare Repubblicano, il secondo partito turco (lo HDP è il terzo) che era stato prodigo di riconoscimenti a Erdogan all’indomani del colpo militare, ha dichiarato che la repressione dei leader e dei parlamentari dello HDP equivaleva a un secondo bombardamento del parlamento.
Sempre ieri, il PKK ha detto che il tempo delle parole è finito: era finito già per il PKK, e nella sua determinazione combattente c’era stata anche la volontà di recuperare la propria egemonia rispetto alla via parlamentare del partito di Demirtas, quello che confidava nelle “p a ro l e”. Del resto che ieri sia finita la democrazia in Turchia, come hanno decretato in molti, è vero, e la sola obiezione che può avanzarsi riguarda la convinzione che fosse già finita l’altroieri.
Noto qui la nettezza del giudizio del presidente del consiglio italiano, che sulla Turchia di Erdogan non aveva avuto indulgenze e ipocrisie, ed è una buona cosa. Questa interna è la prima e per il momento principale delle guerre guerreggiate di Erdogan, che ne ha almeno altre due. La seconda si svolge oltre il confine siriano, dove le forze armate turche intervengono per terra e per cielo contro l’Isis –cui avevano elargito a lungo un sostegno attivo o passivo- e soprattutto contro i curdi siriani di Rojava, il Kurdistan d’occidente, che resistendo all’Isis e tenendo a distanza le truppe di Assad hanno guadagnato un proprio territorio minacciosamente allungato lungo la frontiera con la Turchia.
Questo secondo fronte delle guerre di Erdogan è minato da ogni lato: la Turchia era riuscita a iscrivere il PKK nella lista nera del terrorismo riconosciuta da Unione Europea e Stati Uniti, ma non ha ottenuto lo stesso risultato col PYD curdosiriano, il Partito dell’Unione Democratica, che è però tutt’uno col PKK, e ha costituito finora il principale alleato sul terreno degli americani e alleati, e continuerà a costituirlo, salvo uno scandaloso voltafaccia, fino alla presa di Raqqa, capitale siriana dell’Isis.
Erdogan non è mai stato in così malandati rapporti con gli Stati Uniti e la Nato, né con la Germania, nonostante la compravendita di fuggiaschi siriani, e finalmente il rinfocolato amore con la Russia non è così caloroso da risarcirlo: Putin resta il capo di u n’internazionale sciita.
C’è una terza guerra, in Iraq, e ora ha il nome di battaglia di Mosul. Anche qui Erdogan ha giocato da avventurista. Aveva piazzato suoi militari, uomini e armi, vicino a Bashiqa, tenuta dall’Isis ma già terra di yazidi e cristiani. E gli yazidi sono, dopo il massacro e la fuga sul monte Sinjar, devoti del PKK e dei curdi siriani che li difesero valorosamente nella rotta iniziale dei peshmerga di Barzani. Militari e armi turche in territorio iracheno erano fino a poco fa un episodio minore, minimizzato dagli stessi turchi come un addestramento di truppe locali su invito del governo di Erbil, né confermato né smentito.
Improvvisamente, iniziata l’offensiva per Mosul, Erdogan ha alzato la posta del suo intervento iracheno oltre l’immaginazione: Mosul è turca, ha ammonito, ed è turca Kirkuk e tutto il vilayet ottomano di Mosul e Ninive. Turco dunque tutto il Kurdistan iracheno, quello che si è già conquistato dal 2003 un’indipendenza di fatto e conta i giorni per prenderselo di diritto, e turco tutto quello smisurato petrolio e gas. Proclami reciprocamente bellicosi si sono scambiati fra governo turco e governo iracheno, alternati da propositi più concilianti, ma le mine sono molte e pronte a scoppiare. Prima fra tutte l’avanzata delle milizie iracheno-sciite verso, almeno così pretendono (“siamo a 15 km.”), il centro strategico di Tell Afar, oggi dell’Isis e già turcmeno, che la Turchia ha fissato come linea rossa al proprio intervento militare, benché sia Iraq.
E del resto le milizie sciite vogliono dire Iran, e l’eventuale guerra per Tell Afar sarebbe un’enne sima guerra interposta, qui fra Turchia e Iran. Cerca guai, Erdogan. Si dirà che è così sicuro di sé, così al riparo grazie al consenso che si è procurato nell’esaltato sentimento nazionale e nell’epurazione di massa dei dissenzienti o anche solo degli infidi, da poter giocare la sua doppia e tripla partita al rialzo. Vedremo.
Ma è una pazzia cronicizzare una guerra civile in casa contro un nemico strenuo come il popolo curdo, dopo che suoi esponenti lucidi e brillanti come il Demirtas ieri arrestato avevano fatto intravedere una possibilità di conciliazione e convivenza civile e laica. L’aveva suggerita anche il vecchio Abdullah “Apo” Ocalan che nel suo ergastolo isolato ha maturato una conversione politica e umana sorprendente, benché esposta ancora in un impianto ortodosso, verso femminismo, ecologia, rifiuto dell’aspirazione statale e perfino non violenza. E Ocalan è più che mai un mito vivente per i curdi militanti in Turchia e in Siria (e in Iran e in buona parte in Iraq).
In uno scontro armato con truppe irachene, irregolari o no, attorno alla battaglia per Mosul i turchi comprometterebbero del tutto i propri rapporti con gli americani senza vedersene compensati dai russi. Intanto, l’aggressione indiscriminata all’intera leadership curda di Turchia ha già messo l’alleato stretto di Erdogan in Kurdistan, il presidente Barzani, in un imbarazzo micidiale. Il PKK è la bestia nera del PDK di Barzani, che mal ne sopporta l’esilio armato dentro i propri confini, sui monti Qandil, alla frontiera con l’Iran, e ancora peggio il radicamento all’a l t ro capo del suo Kurdistan, sul monte Sinjar. Il partito rivale del PDK di Barzani, il PUK di Suleimania e Kirkuk, ha buoni rapporti col PKK, e la sua base lo ammira.
Il programma turco di distruggerne le basi nel KRG col consenso anche solo tacito di Barzani, all’indomani della battaglia di Mosul, è reso oggi più irreale e molto più temerario –meno male, si potrebbe d i re. E torniamo a Mosul. Tutto vale a distoglierne l’attenzione. A Mosul le vite di più di un milione di persone sono minacciate. Quanto importano, e a chi? Ho accennato alle tre guerre che Erdogan ha mosso, ubriaco del proprio potere. Ce n’è una quarta che si è tirato addosso, enunciata nel discorso del farabutto che volle farsi Califfo, e incita a far scorrere fiumi di sangue in Turchia (e in Arabia Saudita). A mordere la mano che ieri gli fu tesa
Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-tre-guerre-di-erdogan/
Arlecchino:
Adriano Sofri
· 13 novembre 2016
L’Isis e cosa resta dell’Europa
L’Europa deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi: l’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era)
Ieri, nell’anniversario degli attentati di novembre a Parigi, il primo ministro francese Manuel Valls scriveva che “in materia di Difesa, non possono più esserci passeggeri clandestini. Siamo tutti sulla stessa barca! La Francia assume oggi una grossa parte dello sforzo, per colpire Daesh nelle sue roccaforti, in Iraq e in Siria, e combattere i gruppi jihadisti in Africa. Non può essere l’unica”. È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande).
È un motivo ricorrente in Valls (e in Hollande) quello della Francia «lasciata sola» a battersi per conto dell’Europa nel Sahel e nel Vicino Oriente, e a «salvare l’onore dell’Europa», come disse Jean-Claude Juncker facendogli eco. Valls vi aggiunge ora la considerazione che «gli Stati Uniti sono sempre meno coinvolti nelle questioni mondiali». Questa lubrificata frase vuol dire che con Trump nessuno, tanto meno Trump, ha la minima idea su che cosa faranno gli Stati Uniti nel mondo. Dunque la cosa più ragionevole e più urgente è di immaginare che dia davvero seguito ai proclami sul ridimensionamento della Nato e procurarsi gli strumenti per debellare l’Isis, che dopotutto è un problema europeo infinitamente più di quanto sia americano. Europeo come il Bataclan, e come i fuggiaschi che premono ai nostri confini. L’elezione di Trump è venuta nel pieno di una controffensiva per la liberazione di Mosul dall’Isis attesa da oltre due anni, e raddoppiata dall’operazione per isolare Raqqa. Sono le due capitali dell’Isis in Iraq e in Siria. Si era pensato che l’offensiva fosse stata lanciata per decorare la fine del mandato di Obama, o per anticipare la linea più risoluta che Hillary prometteva di tenere. Ora l’affare è passato a Trump, tanto più che è piuttosto escluso che Mosul sia liberata da qui al cambio alla Casa Bianca. Un giornalismo mediamente cialtrone aveva dato Mosul pressoché per conquistata una dozzina di giorni fa, quando la forza speciale «antiterrorismo» irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis.
Da allora l’avanzata non ha fatto sostanziali passi avanti e a volte ne ha fatti indietro, colpita dalle autobombe e gli attaccanti suicidi dell’Isis sbucati fuori dalle gallerie sotterranee o nascosti nelle case.
La battaglia di Mosul durerà a lungo e a ogni giorno cresce la minaccia spaventosa che incombe su una popolazione che ancora supera il milione. Tutto ciò era previsto.
Gli attacchi aerei sono largamente frustrati quando i bersagli si nascondono dentro una folla di civili, e in una folla di civili che vi corre incontro sventolando stracci bianchi è difficile distinguere i fuggiaschi dagli attentatori suicidi, specialmente se sono bambini violentati a questo. Si sapeva anche che le truppe in campo contro l’Isis non sono le meglio addestrate alla specie di estrema guerriglia urbana che Mosul impone. L’Iraq di Saddam aveva un reparto speciale agguerrito per la repressione urbana, dissolto come l’insieme dell’esercito, e l’antiterrorismo addestrato dagli americani manca di una pratica sul campo. Ramadi fu liberata radendola pressoché al suolo. Gli stessi peshmerga, che non operano a Mosul, erano campioni di guerra partigiana sulle montagne ma non hanno esperienza di guerriglia di città. Su questa situazione –dove l’Isis moltiplica la ferocia esemplare del terrore, come nei corpi impiccati ai semafori di cui avete sentito incombe l’incognita della vittoria di Trump.
Delle cose che aveva annunciato in campagna elettorale son piene le fosse, davvero. L’offensiva di Mosul era un disastro, lui avrebbe fatto fuori l’Isis in 30 giorni, bisognava smettere di proteggere degli infidi nemici di Assad e lasciar fare a lui e a Putin… E far pagare il conto agli alleati, e indurli, chi non ce l’ha, a dotarsi della bomba atomica, per esempio l’Arabia Saudita. Lungi dall’essere una battuta, è la prospettiva più verosimile per la Corea del Sud e per lo stesso Giappone, una volta che non si senta più difeso dagli Stati Uniti. Comunque vada, l’Europa, in corsa qua e là per emulare un risultato elettorale come quello americano dopo averlo anticipato, quel che resta dell’Europa, diciamo, deve accorgersi del terremoto che le sta togliendo il terreno sotto i piedi. L’Isis è affar suo (anche l’Ucraina lo era).
Nella ritirata eventualmente suonata da Trump sono compresi i colpi di testa internazionali cui ricorrere per rimediare ai disastri della ritirata. All’interno, almeno per due anni Trump non ha un’opposizione che ne limi il potere. All’estero, non ce l’ha per definizione. La gente del Dipartimento di Stato, del Pentagono, dell’Intelligence, lo calmerà, si dice, faranno finta di obbedire e invece no, o solo un poco… Magnifica prospettiva. Intanto Trump può forse investire Vladimir Putin, il protettore di Milosevic e di Bashar el Assad, della missione di gendarme del mondo. Non è una sua personale pazzia: da noi in tanti non vedevano l’ora, a destra e a sinistra.
Da - http://www.unita.tv/focus/lisis-e-cosa-resta-delleuropa
Arlecchino:
Opinioni
Adriano Sofri
· 20 novembre 2016
Benedetto Croce, Trump e noi
Usa2016
L’altro giorno a Palazzo Strozzi, all’Istituto di Studi sul Rinascimento a Firenze, veniva presentato il bel volume delle opere di Benedetto Croce dedicato a “Etica e politica”, curato da Alfonso Musci (Bibliopolis Edizioni)
Era inevitabile che negli interventi si evocasse la rappresentazione che Croce diede del fascismo come una «malattia morale», una «parentesi» nella continuità della storia civile d’Italia. Quella interpretazione, come si sa, sollevò molte e sentite obiezioni. Si rimproverò a Croce di aver voluto, minimizzando il legame fra il fascismo e la parzialità dello Stato liberale che l’aveva preceduto, minimizzare sulla propria personale indulgenza verso il primo fascismo. All’opposto della tesi sul fascismo come una parentesi era stata l’idea di Piero Gobetti: per lui il fascismo (delle origini, dal momento che scriveva nel 1923 e sarebbe morto venticinquenne nel 1926) era stato una rivelazione della storia d’Italia, l’autobiografia di una nazione che non aveva conosciuto una vera rivoluzione, nella Riforma cristiana né nel Risorgimento.
Croce aveva impiegato la metafora della parentesi nel momento in cui il regime fascista cominciava a disfarsi. Più tardi, in un clima politico meno militante, parecchi studiosi hanno sottolineato come Croce avesse fatto ricorso a quelle immagini (il morbo morale, la parentesi) negli interventi giornalistici e politici più che nei più meditati scritti storici, col fine di riabilitare il ruolo dell’Italia nel mondo del dopoguerra e di tutelarla da una umiliazione esorbitante da parte dei vincitori, e intanto di avvertire come il fascismo fosse stato un fenomeno internazionale. Croce aveva infatti sostenuto la sua tesi per la prima volta sul New York Times, il 14 ottobre 1943: “Il fascismo come pericolo mondiale”.
Là scriveva che i miti in voga al trapasso fra Ottocento e Novecento, superomismo e nostalgia assolutista e rivoluzionarismo marxistico, non avevano avuto la forza «di turbare il senno e l’equilibrio politico italiano /…/ e nessuno di essi sarebbe prevalso se non fosse intervenuta la guerra del 1914, che fornì il materiale umano, o, come si dice, la “massa di manovra” al fascismo, e ne preparò le condizioni politiche propizie». Dunque era stata la grande guerra a far deragliare il senno italiano, e a incubare nel fascismo «non un morbus italicus, ma un morbo contemporaneo che l’Italia per prima ha sofferto e sul quale può istruire gli altri popoli con le sue dolorose esperienze».
È curioso che in questo primo scritto la metafora della parentesi venisse applicata da Croce non al fascismo ma alla guerra: «Certo la parte eletta dei combattenti non si comporto a questo modo, e, chiusa la lunga parentesi della guerra, ripigliò con fervore gli studi interrotti, le opere cominciate e gli uffici ai quali aveva atteso da giovane, e similmente i contadini che tornarono ai loro campi…».
Intervenendo nel luglio 1947 all’Assemblea Costituente per rifiutare la firma a un trattato di pace ritenuto inutilmente punitivo, Croce ribadiva che «cosa affatto estranea alla sua /dell’Italia/ tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui».
L’esorcismo della storia messa fra parentesi
Nel dopoguerra la controversia si inasprì piuttosto che attenuarsi, perché la tesi della parentesi ora non riguardava più solo né tanto la continuità fra l’Italia liberale prefascista e il fascismo, ma, all’altro capo, la continuità fra il regime fascista e l’Italia repubblicana. Si capisce: una parentesi può indicare qualcosa di grave, magari gravissimo, e tuttavia inessenziale, qualcosa che si apre e che si chiude. (A scuola avevamo sempre un compagno che non si ricordava mai di chiudere le parentesi e diventava la dannazione dell’insegnante). Parentesi chiusa, si dice: e così si intendeva che fosse del fascismo. Non poteva contentarsene l’antifascismo più rigoroso e consapevole delle radici profonde e illese che l’illibertà fasciste aveva nella società e soprattutto nell’apparato statale italiano. Però in quella formula della parentesi c’era e c’è un’accezione più generica e condivisa, un desiderio, un auspicio intimo e consolatorio, che la parte ripudiata della storia, pur tradotta in un lungo dominio –un ventennio, nel caso del fascismo- fosse e sia estranea al vero corso della storia, al suo senso, dunque destinata a esserne finalmente superata e accantonata.
“Non praevalebunt”, era l’esortazione di fondo di Croce, ha ricordato nella discussione fiorentina il professore di politica, oggi parlamentare democratico, Carlo Galli. Non praevalebunt, aggiungo, è un altro modo, incoraggiante appunto, di ammettere che intanto hanno prevalso, stanno prevalendo: gli altri, gli avversari, i nemici, quelli del morbo morale o dell’autobiografia di una nazione incompiuta.
Lo stesso Croce, abbiamo visto sopra, aveva menzionato con naturalezza “la parentesi della guerra”, che a sua volta avrebbe imposto di stabilire se fosse stata una parentesi o una rivelazione della storia d’E u ro p a e del mondo. Croce ne era così persuaso, quanto all’Italia, che aveva fermato al 1915 la sua Storia d’Italia dal 1871 al 191 5 , concedendole un anno supplementare rispetto al 1914 della “cesura drammatica della prima guerra mond i a l e”, di cui recita il risvolto della ristampa Adelphi.
La parentesi berlusconiana e quella trumpiana
Ora noi siamo abituati a mettere fra parentesi, a condannare alla reclusione fra due parentesi, ciò che temiamo, detestiamo e sentiamo come pressoché inspiegabile e insensato tanto delle nostre vite personali –le malattie soprattutto, appunto- quanto delle nostre vicende collettive. Noi, se non siamo stati berlusconiani, al contrario, diciamo: “la parentesi berlusconiana”. Lo dicevamo quando era ancora aperta e, come quella dello scolaro renitente, nessuno avrebbe saputo dire se e quando si sarebbe richiusa. La parentesi berlusconiana è durata anche lei molti anni –con intermittenze, le parentesi dei governi Prodi e poco più, ma in questo caso parentesi voleva dire proprio la durata breve e pressoché incidentale, e così ci prepariamo a parlare della parentesi Renzi.
La parentesi berlusconiana è stata vissuta per lo più dai suoi avversari non come un fenomeno di alternanza politica e governativa, ma come l’irruzione di un corpo estraneo nella normalità politica, come una recidiva malattia morale. Lo era stata già il Partito Socialista di Bettino Craxi, benché la formazione di lui fosse la più tradizionalmente politica, della politique politicienne, che si potesse richiedere. Con Berlusconi il corpo estraneo si fece estraneo fino alla caricatura e, complementarmente, all’oltraggio.
Senonché la politica e la vita pubblica in generale non fanno altro che riprodurre corpi e modi estranei, di durata e successo alterno e comunque capaci di prendere il campo. Dopo il Craxi così inteso («un cinghiale entrato nella vigna del Signore», come diceva Leone X di Martin Lutero nella sua Bolla di scomunica) e Berlusconi, è venuto il corpo estraneo di Beppe Grillo –a non voler considerare i numerosi attori e pagliacci minori, pure per lunghi momenti in grado di far la faccia dell’orco e spaventare i bambini. Davanti al successo esoso dei 5 stelle ci si è chiesti, chi non inclinava a imbarcarvisi, «quanto sarebbe durata la parentesi dei grillini».
Ce lo si è richiesto a Roma dopo il trionfo della sindaca Raggi: «Quanto durerà la parentesi della sindaca Raggi?» –qualcuno si è illuso che potesse durare un mesetto sì e no, poi è sceso il silenzio. Adesso tutto ciò ha preso una portata mondiale: “La parentesi Donald Trump”. Un corpo più estraneo di così era difficile da immaginare, tuttavia qualcuno l’aveva immaginato, e soprattutto si era immaginato lui. Noi no, noi non abbiamo voluto. Non erano i sondaggi a sbagliare, eravamo noi. «Non ci posso credere!», è questa la reazione di noi, quelli dalla parte normale della storia, dalla parte del senso e della ragione, dentro le strade, fuori dalle parentesi. Trump ha prevalso, dunque è di nuovo il momento di dire: «Non praevalebunt!». È una parentesi, è incredibile che si sia aperta, prima o poi si chiuderà. E potremo ricominciare da dove eravamo arrivati. Heri dicebamus… Ma dove eravamo arrivati? Che cosa cazzo dicevamo ieri?
La Brexit, Trump e i prossimi casi di ubriachezza molesta
Ho fatto qualche osservazione del genere, quasi per scherzo, all’incontro dell’altro giorno su Benedetto Croce e l’edizione critica di Etica e politica. Oltretutto l’ambiente si prestava. Era la sala adiacente al salone più grande in cui si leggono e consultano i libri della Biblioteca del Rinascimento, al terzo piano di Palazzo Strozzi. Uno di quei posti meravigliosi e poco frequentati di cui l’Italia e perfino Firenze è ancora piena, dove si può andare, specialmente se piove, gratis, e sfogliare riviste, arrampicarsi lungo gli scaffali, o semplicemente guardare fuori dall’alto dei secoli.
Gli oratori del nostro incontro erano seduti davanti a una pala di Cosimo Rosselli raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, e insomma tutto sembrava dar ragione alla scommessa di Croce sull’Italia turbata bensì da improvvise deflagrazioni magari importate da fuori ma alla lunga salda sul senno e l’equilibrio della sua storia civile. Un luogo in cui anche l’arredamento vale a riscattare uno spirito di élite mortificato da una cronaca becera. Del resto non è forse questa la discussione che furoreggia dopo l’elezione di Trump?
Se si sia così rivelata una vera e sommersa anima americana appena scalfita dalla parentesi di Barack e Michelle Obama, o se si tratti piuttosto di un sia pur colossale incidente, un po’ come per la Brexit nel Regno Unito, una di quelle sventatezze che prendono un popolo, o la sua maggioranza regolamentare, verso un certo giorno, e il giorno dopo lo costringono a svegliarsi con la testa pesante e il cuore pentito? Noi italiani, un po’ per il senno e l’equilibrio, un po’ per la parentesi berlusconiana, siamo i meglio piazzati per soccorrere i tramortiti americani. E infatti il giorno dopo un editoriale sul New York Times firmato da Luigi Zingales spiegava “Il modo giusto per resistere a Trump”: «Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi può offrire una lezione importante su come evitare che una vittoria di stretta misura si trasformi in un guaio ventennale».
“A two-decade affair”. Un’altra parentesi di vent’anni, prima che il mondo ricominci a girare nel verso giusto, quello della storia, il nostro. È come con le guerre, che per definizione sono delle parentesi, anche le più tragiche: cominciano, anzi scoppiano, come i temporali, e bisogna aspettare che finiscano, come i temporali. Delle parentesi nella storia pacifica del genere umano. Ogni tanto, quando fra una guerra e la prossima l’intervallo è troppo breve, la storiografia si rassegna a cambiare passo e la chiama come un’unica lunghissima guerra europea, con l’intervallo di una pace precaria, in cui la guerra interrotta nel ‘18 ha un ventennio per incubare la guerra prossima. Revisioni della storiografia a parte, noi continuiamo a dirci che la storia ci ha fatto un altro tiro mancino, ha aperto una nuova parentesi, e comunque passerà. Prima o poi. Non praevalebunt.
I più attempati di noi, fra sé e sé, si dicono che, salvo un impeachment o un altro imprevisto, dopo aver visto arrivare la parentesi di Trump non avranno il tempo di vederla chiudersi. Nel breve periodo siamo morti. «Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato /il trattato di pace/, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere» (così Benedetto Croce). Ci sono anche dei momenti in cui noi, “noi”, ci chiediamo se forse non siamo noi, la nostra parte, il nostro senso della storia, a trovarci sempre più stretti dalla transitoria malsania dei tempi dentro una parentesi che si vuole chiudere. Ci vuole chiudere.
Da - http://www.unita.tv/opinioni/trump-e-noi-fra-parentesi/
Arlecchino:
Opinioni
Adriano Sofri 26 novembre 2016
Gli eroi non muoiono vecchi
Un uomo sopravvissuto a se stesso, che si è tramutato in un monarca con successione dinastica
Bisogna morire giovani per essere amati con tutto il cuore. Come Camilo Cienfuegos, come il Che, che tanto giovane non era più. Fidel si è tenuto alla sua vecchiaia, e anche noi che gli sopravviviamo, e siamo tentati di rinfacciargliela. Quando desiderammo la rivoluzione ci sembrò di dover scegliere fra due modi, uno cinese, maniaco del metodo, e uno cubano, votato all’irregolarità. Teorizzarono ambedue la guerra di guerriglia, ma i cinesi erano glabri come porcellane e i cubani irsuti di barbe.
I rivoluzionari del Terzo mondo oscillarono fra gli uni e gli altri. Il modello cubano era spartito a sua volta fra due immagini: un eroe morto e un padre della patria vivo. Il Che non diventò mai un padre della patria, restò sempre un figlio, il beniamino. Un cubano di adozione, dunque il più cubano dei cubani, tuttavia sempre uno venuto dall’Argentina e incontrato in Messico e andato a farsi ammazzare in Bolivia. La superficie glabra dei ritratti cinesi sembrava confermare il luogo comune dell’impenetrabilità orientale.
Erano barbudos i cubani, nella loro foggia selvatica, in memoria della sierra e la selva. Barba e baffi sono così decisivi per Guevara che li taglia per travestirsi, all’ingresso in Bolivia, e somiglia così a un anonimo viaggiatore di commercio. Si capisce che, anche quanto a capigliature e vestiario, i giovani degli anni ’60 prediligessero i cubani. La rivoluzione, scrisse Sciascia, può fare a meno delle barbe, la contestazione no.
L’Unione Sovietica era fuori causa, esempio di rivoluzione tradita e di imperialismo mascherato di socialismo. I socialismi “non allineati”, ammesso che fossero presi in conto, sapevano di mezze misure e i rivoluzionari detestano le mezze misure. Fu molto amato il Vietnam di Ho Chi Min e di Giap, e i giovani arrivarono anche in Europa a immaginare di partire per battersi al loro fianco, come avevano fatto i (pochi) loro padri in Spagna, ma era una situazione troppo distante e singolare per diventare un modello. Restava la scelta: Cuba o Cina. La Cina aveva rotto con l’Urss, denunciava il rinnegamento del Marxismo-leninismo e i Partiti comunisti legati a Mosca, a cominciare dal Pci. In Europa, i suoi legami si riducevano, oltre che ai tremendi partitini emme-elle rossi e neri, alla Romania di Ceausescu e all’Albania di Enver Hoxha. Una tirannia brutale e grossolana, e un’altra che aveva serrato il suo paese in una galera disseminata di bunker. Cuba appariva libertaria, scanzonata e avventurosa, oltre che avventurista. L’avventura era il cuore del sogno rivoluzionario dei giovani occidentali fra gli anni ’60 e ’70. Si detestavano i ruoli predestinati, era passato poco tempo da una guerra mostruosa ma sembrava già abbastanza per prendersela con una pace ipocrita e una generazione di padri accomodati nella vita sazia. C’era lo scandalo per la fame e l’umiliazione degli ultimi della terra, che sempre deve ferire le nuove generazioni. C’erano altre guerre, tenute a distanza: il Congo, l’Angola, il Mozambico, infamie degli ultimi colonialismi, e l’Indocina prima francese poi americana. L’America era il nemico principale, anche per gli odiatori dell’Urss: cui si imputava anche che non combattesse abbastanza gli Stati Uniti. C’entrava anche la convinzione che con l’America e con le democrazie “borghe – si”in genere la partita fosse aperta, mentre la tirannide sovietica sulla Russia e i satelliti sembrava incrollabile se non dopo che si fosse scosso l’occidente. Insomma: Cuba e Cina. Cioè Mao e Fidel… Anzi no: perché Cuba era stata ed era ancora Fidel o il Che. Una eccentrica reincarnazione della sfida di Stalin e Trotsky. Niente di paragonabile quanto al sangue versato, né quanto alla furia ideologica.
Le guerre per un paragrafo o per una traduzione che decimarono gli apparati bolscevichi non avevano spazio in una dirigenza cubana cresciuta senza vincoli dogmatici e tanto meno marxisti, in cui il comunismo fu un’adesione tarda e condizionata dall’esterno. Rossana Rossanda riferì di aver raccontato lei, con Karol, a Fidel Castro, che Trotsky era stato assassinato su commissione di Stalin, e lui ne fu sbalordito: eppure aveva vissuto al Messico, e Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, visse fra Mosca e Cuba, dove morì nel 1978.
C’è un economista qui? Era stato comunista Raúl, ma fra il Che e Fidel il più marxista caso mai era il primo, mentre il secondo all’origine era un avvocato legalitario e patriota. C’è quell’aneddoto formidabile, sulla riunione dopo la conquista del potere in cui Fidel chiede: «C’è un economista fra voi?», e il Che alza la mano e viene nominato sui due piedi direttore della Banca Centrale di Cuba. All’uscita il Che chiede a Fidel: «Ma come ti è venuto in mente di mettermi a capo della Banca?» e Fidel: «Ho chiesto se c’era un economista», e il Che: «Ma io avevo capito un comunista!». Il Che era la rivoluzione ininterrotta e la sua esportazione internazionale, Fidel il socialismo in un piccolo paese solo e il realismo politico addobbato di retorica. Una divisione dei compiti, o piuttosto una divergenza che ne avrebbe separato i destini e per Guevara sarebbe finita nel mattatoio della Higuera.
Il Che era il romanticismo rivoluzionario (così argentino!) combinato del resto con un militarismo guerrigliero spietato lugubre e anche compiaciuto. Recitano le righe finali del messaggio alla Tricontinental di Algeri, 1967, «Creare due, tre, molti Vietnam: in qualsiasi luogo ci sorprenda la morte, sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga a un orecchio sensibile e un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria». Il Che delle magliette e di un filone letterario e cinematografico di gran successo ha finito per diventare una specie di hippy poetico e sentimentale, che non era affatto.
E se è vero che un vibrar di chitarra si accompagna sempre alla voce dei rivoluzionari cubani e latinoamericani, bisogna affiancargli quel canto funebre e quel crepitio di raffiche, se non si vuole tradirne la verità. Tanto più che, pur nell’eclettismo che caratterizza i cubani, il Che fu il più impegnato nel tentativo di dare una sistemazione alle loro esperienze, dalla teorizzazione del “fuoco” guerrigliero al tentativo di elaborare rapporti economici più indipendenti dagli interessi e dagli incentivi individuali, al tempo in cui dirigeva la Banca di Cuba e ne firmava le banconote… A questa complicazione della figura del Che appartiene anche la più famosa e venerata delle sue espressioni: «Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza». L’accento batteva sulla seconda metà: senza perdere la propria tenerezza. Rassicurava chi si vergognasse della tenerezza come di una debolezza piccolo-borghese.
La durezza invece, ci si sarebbe vergognati di metterla in dubbio, così come la capacità di odiare il nemico. Autorizzava qualche sentimentalismo –mitra e social club e barbe lunghe e mal curate, la cifra latina in concorrenza con l’impassibile e liscia ideologia asiatica- ma lo riservava ai propri compagni, da ripagare con l’implacabilità verso il nemico. Il Che diventava dunque colui che si era ricordato della tenerezza. Però la frase andava letta anche a ritroso: Bisogna intenerirsi senza perdere la propria durezza. Quando un ragazzo inerme, con un suo sacchetto di plastica, scherzò a costo della vita coi carri armati della Tiananmen il 5 giugno del 1989, segnò un passaggio d’epoca: e con lui il soldato alla guida del tank che rifiutò di travolgerlo.
Cosa resta – Gli eroi non diventano vecchi. Chi diventa vecchio smette piano piano di essere un eroe, e a volte tradisce del tutto la propria gioventù. Ce ne sono stati, di veri eroi, anche da noi: Carlo Pisacane, per esempio. “Sacrificio senza speranza di premio”. Quanto a Garibaldi, sulla cui filigrana tanta parte del mito del Che Guevara si è modellata, seppe tenersi alla larga dal potere costituito e invecchiare accanto al suo sacco di legumi a Caprera. Fidel è sopravvissuto di molto a se stesso, si è tramutato in un monarca, ha voluto una successione dinastica. I suoi sostenitori irriducibili hanno accettato di giustificargli tutto, in nome di una perenne condizione di necessità: l’accerchia – mento, l’embargo yanqui… Ma le rivoluzioni che finiscono nella coda stretta del partito unico, del potere a vita, dell’intolleranza del dissenso e del sequestro di un popolo dentro le frontiere, rinnegano se stesse.
Quando, a dicembre del 2011, morì il Caro Leader di Pyongyang, Kim Jong Il, il blog di Yoani Sanchez raccontò che a Cuba erano stati indetti tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta, e paragonò il proprio paese a quella grottesca prigione a cielo aperto. Il paragone era troppo duro da sostenere, ma per un momento fu inevitabile giustapporre le formule nordcoreane –il Leader Perpetuo, il Caro Leader, il Leader Supremo- a quella di Castro, che pure voleva suonare di una benignità ironica: il Líder Maximo. Cuba è piccola, ed era proprio questo a segnare un punto per lei nella gara alla leadership rivoluzionaria. Perché la rivoluzione è sempre, al suo inizio, roba di minoranze. C’èuna fierezza speciale nel piccolo David che ogni volta di nuovo affronta Golia. I cubani sono una dozzina di milioni. Erano sì e no sette milioni nel 1956.
Il Granma misurava 18 metri, era progettato per 12 persone, salparono dal Messico in 82, compreso il Che, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: allo sbarco e alla ritirata sulla Sierra sopravvissero solo in dodici. Due anni e mezzo dopo la rivoluzione aveva trionfato. Si capisce che avesse entusiasmato gli animi ribelli di tutto il mondo, e promosso impetuosamente l’idea che tutto fosse possibile, per chi fortemente volesse. “Soggettivi – s m o”, l’avrebbe chiamato il marxismoleninismo ortodosso, “avventurismo. Ho letto da qualche parte: «Un ricciolo strappato al cadavere di Che Guevara da un agente della Cia fu venduto nel 2007 per centomila dollari». Mi auguro che fosse una notizia falsa, o almeno falso il ricciolo. A Cuba i pellegrinaggi politici non sono mai finiti del tutto, ed ebbero sempre anche, a differenza di quelli tetri e reggimentali in altri paradisi comunisti, un versante turistico. C’erano donne, mare, allegria, canzoni, la trasgressione che il regime cubano lascia sopravvivere anche nei momenti più odiosamente repressivi. Più probabilmente è la gente cubana che non viene piegata. È un fatto che Fidel – titolare del raccapricciante record ufficiale di attentati falliti a suo danno: 638 – è stato il meno ortodosso dei capi rivoluzionari. Provate a chiedervi che cosa resti delle leggendarie ore e ore di suoi discorsi, a parte la frase che pronunciò al processo per l’assalto al Moncada nel 1953: «La storia mi assolverà». Del Che gli scritti restano, Fidel è uomo da orali. Restano di lui, a lettere cubitali, degli slogan.
Da - http://www.unita.tv/opinioni/gli-eroi-non-muoiono-vecchi/
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