ADRIANO SOFRI -

<< < (7/10) > >>

Admin:
   
I ragazzi che occupano l'Ilva: "Noi i padroni"

Taranto, niente blocchi in città.

L'orgoglio degli operai abbandonati dall'azienda: "Stavolta si va a Roma"

di ADRIANO SOFRI


TARANTO - Ormai le città sono due. La Taranto delle persone, e quella dell'Ilva. E come se non bastasse, proprio ora la Taranto delle persone è stata dichiarata la città più invivibile d'Italia. L'ingresso della Direzione dell'Ilva  -  un luogo tanto meno solenne ma assai più influente del Municipio cittadino  -  era sconsacrato ieri da un lenzuolo con su scritto: "Senza lavoro, nessun futuro". Dentro, la mattina, lo slogan gridato dal grosso corteo di operai che avevano lasciato i loro posti per radunarsi in quello spazio padronale era: "I padroni dell'azienda siamo noi!".

C'era il furgone dei "Liberi e pensanti", c'erano soprattutto gli operai della Movimentazione Ferroviaria. Loro sono i compagni di Claudio Marsella, di Oria, 29 anni, locomotorista, si chiama così, morto lo scorso 30 ottobre col torace schiacciato durante la manovra di aggancio di un carro. Lo avevano trovato agonizzante, perché all'Ilva per quel lavoro pesante e pericoloso si era lasciato solo un operaio per turno.

Quella notte c'erano stati altri due "incidenti" gravi, un operaio ustionato, uno intossicato dal gas. Oggi qualcuno ricorda quella giornata, la protesta dei compagni di lavorazione cui si era unito il sindacato di base, l'assenza di troppi altri, per non dire della città. Bisognava continuare con lo sciopero, dicono anche, come stanno facendo a Genova.

Io sono qui, dice uno, anche se è il mio compleanno, e tira fuori la
carta d'identità per provare che è vero. È vero, ha 37 anni, se ne ricorderà di questo compleanno, gli dicono, tanti auguri. Per un momento, le facce serie serie si fanno allegre. Sono serie anche le facce dei carabinieri e dei poliziotti in borghese che stanno anche loro a far capannello sul marciapiede: se non lo dicessero, sembrerebbero piuttosto operai. Polizia da disordine pubblico non ce n'è, se non in qualche blindato parcheggiato distante, ma non ce n'è bisogno. È tutta un'altra aria.

A mezzogiorno di ieri, all'ingresso della Direzione dell'Ilva, occupata e già disoccupata, e ora presidiata da capannelli di operai e di intervistatori di operai, ho pensato di trovarmi di fronte a una ricapitolazione della storia del capitalismo. C'erano gli operai, buttati più o meno sul lastrico alla vigilia - "messi in libertà", notevole espressione. Migliaia di messi in libertà, un'amnistia generale, un giubileo alla rovescia. C'era lo strato della famosa polvere rossa, accumulata sulle sbarre dei cancelli, su cui passare il dito e guardarsi attoniti il polpastrello arrugginito. Il capitalismo, sia detto senza offesa, spreme e scarta e impesta: ma qui, in questa istantanea di mezzogiorno di un giorno di novembre senza qualità, c'è qualcosa di più e di peculiare, che riguarda il rapporto fra il capitalismo e i capitalisti. I quali sono in galera, o in fuga dalla galera, o appena di qua dalla galera, il vecchio padrone e i suoi figli, i suoi manager, i suoi faccendieri - e poi i suoi uomini di vetrina, già prefetti, già candidati del centrosinistra, già. Forse la siderurgia, che era già finita tristemente a Bagnoli e agonizza a Piombino e fa agonizzare Trieste, sta tirando le cuoia oggi a Taranto e a Genova e nelle altre filiali italiane, in un disastro che non risparmia nessuno, compresi i burattinai, impigliati nei loro fili.

La lavorazione dell'area calda era interdetta dai magistrati, salvo il minimo necessario alla tenuta degli impianti. Invece si produceva come se niente fosse, anzi. "Il materiale è sempre arrivato, al Terzo Sporgente, e fino a ieri si facevano gli straordinari. Dovevamo bloccarla noi, la spedizione, prima della magistratura". Lunedì, quando l'ennesimo e drastico ordine della magistratura ha bloccato il materiale prodotto contravvenendo al sequestro, c'erano quattordici navi in attesa d'essere caricate, e sono lì, inutili. Dicono, gli operai dichiarati inutili: "Sono mesi che andiamo a lavorare, sapendo che cosa ci aspetta, non sapendo niente di che cosa ci aspetta, come se ogni giorno in più fosse un giorno guadagnato. Con questa sensazione di assurdità".

Sono giovani, all'Ilva, figli di pensionati e prepensionati, sì e no 35 anni di età media, non è questione di guadagnare giorni o di pensionarsi in anticipo. Dicono che ai padroni interessa solo di tirare avanti. Che investono solo per il ripristino delle macchine, che continuino a produrre. Il resto, che vada in rovina. Ci sono sette caricatori al porto, i più moderni risalgono al 1982. E i capannoni di stoccaggio, ci piove, sui rotoli a freddo che non si dovrebbero bagnare. Dove vuole andare un'azienda che pensa solo alle tonnellate, che non si preoccupa dello stoccaggio dei suoi prodotti e li manda così ai suoi clienti nel mondo?

A Taranto non si sa se il mare circonda la fabbrica, o la fabbrica accerchia e soffoca il mare. L'odore del mare sì, è stato rotto e sgominato da quello dell'Ilva. Ma il mare, i famosi due mari di Taranto, si insinua continuamente nei pensieri e nelle frasi delle persone. Sono qui dentro da vent'anni, che cosa andrò a fare? Le cozze sono amare, i pesci impiombati. ("La cozza è la cattiva coscienza di Taranto..."). L'azienda è allo sbando, dicono. È come nella stiva di un peschereccio, coi pesci tirati in secco e boccheggianti e però quelli grossi continuano a mangiare quelli piccoli.

Sono molto arrabbiati, gli operai. Forse per questo non è successo niente, ieri. Non è successo nemmeno, però, che la direzione e i capi li abbiano spinti a fare casino di strada, rifocillati dall'azienda e col salario pagato, come in qualche incresciosa giornata di primavera. Forse i padroni se lo aspettavano, dopo la messa in libertà, forse non sanno più che pesci pigliare, o sono gli operai a non abboccare. Per la prima volta, dicono, anche ai capi è stato fatto sentire che se ne vanno a casa, e il badge è stato staccato anche agli impiegati. La confusione è grande. Stamattina, agli operai che hanno occupato il territorio della direzione, i sindacalisti hanno comunicato che ai "messi in libertà" saranno pagate le giornate fino alla decisione del riesame, aspettata per martedì prossimo. Rumori, qualche petardo, poi l'uscita. Amarezza di molti, ai quali sembrava che si fosse accettata una mancia. "Perdiamo il posto di lavoro, e ce ne torniamo a casa per qualche giorno di salario".

Confusione. I badge, dicono, erano stati cambiati di recente: se lo aspettavano già. "A qualcuno il badge non marca, a qualcuno sì. A qualcuno dell'area a freddo hanno detto di venire, ma a fare che cosa? Ai più non hanno detto niente. Dicono che chi ha ferie da fare se ne sta a casa, chi non ne ha entra: poi chiamano chi ha 200 ore di ferie, e lasciano fuori chi ne ha 20".

Sono già cominciate le ritorsioni, dicono. Domani, giovedì, c'è l'incontro romano con un governo che più latitante di così non si potrebbe, e corrono voci diverse sulla partecipazione degli operai. Qualche sindacalista trascrive i nomi di chi andrà a Roma, come se si trattasse di una delegazione ristretta. Hanno detto che al massimo ci saranno dieci pullman, dice qualcuno, e dieci pullman sono appena 500 persone. Dev'essere un desiderio del governo, che non facciamo troppo rumore. Noi, dice Francesco B., delegato Fiom, ci auguriamo che venga il maggior numero. "Tanto - dicono - se fanno i furbi, veniamo con la nostra auto. Essere o non essere a Roma, è decisivo. Non a fare i vandali, a mostrare che ci siamo, e con quelli di Genova e tutti gli altri". Essere o non essere, è decisivo.

All'Ilva come alla Fiat, la domanda è se non aspettino che un alibi - il sequestro dell'area a caldo qui, la Fiom là - per andarsene. Nel frattempo, grattano il fondo del barile. Ieri, quando rientravano i 19 di Pomigliano, i 5mila di Taranto uscivano: usati tutti come ostaggi di gare e rese dei conti altrui, concorrenze economiche, impunità giudiziarie, fine dei diritti. Si capisce che rabbia e demoralizzazione vadano assieme. A chiedergli quanti sono gli operai che ormai si augurano, o sono rassegnati, che la fabbrica chiuda, rispondono all'unisono: Nessuno. Qualcuno, aggiungono risentiti, che si sta assicurando il suo vantaggio privato. Non c'è oggi, qui almeno, alle porte della città d'ombra che vuole ingoiare l'altra, la contrapposizione fra lavoro e salute, e nemmeno la loro alleanza. Chi chiede se abbiano votato per le primarie si sente mandare a quel paese. Quelli si tengono alla larga da noi, dicono. Nessuno dice che i candidati al ballottaggio dovrebbero misurarle anche su questo marciapiede le loro intenzioni: in effetti dovrebbero, credo. Ci sono tribune che vale la pena di frequentare, anche se promettono fischi. I fischi possono essere la premessa di una riaffezione alla buona politica.

(28 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/11/28/news/ilva_i_ragazzi_che_occupano_la_fabbrica_i_padroni_siamo_noi-47589629/?ref=HREA-1

Admin:
Consigli a Bersani sulle primarie

di ADRIANO SOFRI

Vorrei proporre un paio di argomentazioni a Bersani. Il quale invita a valutare i passi che il suo Pd compie e a metterli a confronto con l'operato altrui. Ha moltissime buone ragioni: non so se abbia ragione per intero.

Lo spettacolo offerto dagli altri partecipanti alla corsa, vecchie volpi e nuovi furetti, si fa di giorno in giorno più increscioso. Si capisce che, al confronto, esitazioni e compromessi del Pd si mostrino molto più veniali e dunque accettabili. La questione è se basti invocare questa vistosa differenza relativa, o valga la pena di perseguire più nettamente scelte indipendenti dal paragone coi concorrenti.

Prendiamo l'affare delle deroghe e del 10 per cento del "listino del segretario". Le percentuali c'entrano, e possono sembrare più o meno ragionevoli. Poi però c'è il merito. Se deroghe e listino servissero soprattutto a conservare equilibri di apparato e piazzare persone, indebolirebbero assai la novità delle primarie per i candidati al parlamento. Oltretutto i tempi così accorciati  -  non certo per scelta del Pd  -  favoriscono i candidati ereditieri di voti, gli amministratori ecc.

Nel giudizio sulla volontà del Pd di sconfessare nei fatti il meccanismo indecente della legge elettorale conterà l'esito delle primarie, ma anche la composizione delle liste riservate. Non sarebbe bello che l'innovazione venisse soprattutto dalle primarie, e la conservazione soprattutto dai listini; per giunta, dei listini è più
direttamente responsabile il segretario.

Ho orecchiato una storia ferocemente istruttiva, e la giro a Bersani, per il caso che non la conoscesse. Riguarda una zona tradizionalmente "forte" della Toscana, in cui si era svolta un'assemblea di militanti del Pd in preparazione delle primarie per la candidatura alla presidenza del Consiglio, conclusa con un voto-consultazione. Fra i 55 partecipanti, più o meno l'insieme dei membri attivi e variamente titolati, 53 si erano detti per Bersani, 2 per Renzi.

Al voto, che si è tenuto nel luogo della stessa sezione, Renzi ha stravinto, e a Bersani sono andate 53 preferenze. Ora, si è trattato di un caso estremo, ma, benché per eccesso, rivelatore. Le prossime elezioni decideranno  -  speriamo  -  di un'intera e importante legislatura: che le candidature siano complessivamente governate dalla ricerca delle migliori capacità di donne e uomini, vecchi e giovani, e condizionate molto meno (non dirò: per niente affatto, siamo umani) dall'opportunità di sistemare alcune persone e accontentare alcune cordate, sarebbe un investimento lungimirante.

Aggiungo una cosa rispetto ai radicali, non motivata dall'urgenza dell'iniziativa di Marco Pannella. Nelle scorse elezioni politiche Veltroni, che ebbe molti meriti e commise alcuni errori, rifiutò un'alleanza con radicali e socialisti, e la stipulò invece con Di Pietro, il quale si impegnò a entrare nel gruppo del Pd all'indomani dell'elezione, poi si guardò bene dal tener fede alla parola e anzi giocò a oltranza a parassitare e infilzare il Pd. Veltroni candidò bensì dei singoli radicali nelle liste del Pd. Nove di loro entrarono in parlamento (su Pannella c'era stato un veto) e costituirono una "delegazione" nel gruppo del Pd. Durante la legislatura l'uno e gli altri, Pd e Radicali, in modi e momenti diversi, hanno fatto del loro peggio per pregiudicare un impegno comune, ben al di là (è la mia opinione) dei dissensi di merito, e soprattutto per questioni che dirò caratteriali. Dirò anche che la questione caratteriale non riguarda, nella politica italiana, il solo Marco Pannella, come si finge di pensare: lui la dissimula meno, anzi la ostenta.

Ora Pannella sta cercando in maniera estrema di dare a un costante e imperterrito impegno su carceri e giustizia un improbabile sbocco elettorale. Indipendentemente dal quale, non mi è chiaro  -  a me e a molti, direi  -  perché non accogliere i radicali nella coalizione che ha giustamente compreso i socialisti. La risposta migliore punterebbe ancora una volta sull'incidente caratteriale: vacci tu a fare una riunione con Pannella. La migliore, dico, perché ce n'è un'altra. Che i radicali, con le loro manie sul fine vita e così via, siano incompatibili con uno schieramento che riconosca l'apporto decisivo dei cattolici democratici. Questa è la risposta peggiore.

(19 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/19/news/consigli_a_bersani_sulle_primarie-49058429/?ref=HREA-1

Admin:
Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva.

Lo scandalo Ilva è il doppio dell'Imu

Sigilli a 8,1 miliardi di euro. "Accumulati ai danni dei tarantini".

Il Gip: "L'azienda ha ottenuto negli anni un indebito vantaggio economico a scapito di popolazione e ambiente"

di ADRIANO SOFRI


TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede "la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente", la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell'Imu... Qualunque decisione prenda il consiglio d'amministrazione convocato per stamattina, non c'era e non c'è un futuro per l'Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto "salva-Ilva", in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all'amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato.

Un'amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati  -  circa 800 milioni  -  non basta. Se l'imminente piano europeo, cui lavora l'italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno del governo. Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull'umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.

Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli "incidenti rilevanti" (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l'ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D'Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l'omissione di un piano di emergenza nell'eventualità di un incidente rilevante: a un'obiezione su questo punto, responsabili dell'Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l'azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell'area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo "slopping" e al "sovradosaggio ossigeno" (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell'impianto di aspirazione); frequenti emergenze all'acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le "torce", i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l'incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, "in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali" - cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l'agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione ("anche da stabilimenti esterni"!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l'attività produttiva si svolge secondo l'accusa in modi dolosamente illegittimi.

Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori - e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un "allarmismo" seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
"Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all'Ilva, ai danni della popolazione e dell'ambiente". È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L'onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L'alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell'Ilva dall'Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l'esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi - tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli - e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell'azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L'affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l'Ilva ha consegnato all'operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

(25 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/05/25/news/ilva_imu-59584396/?ref=HREC1-1

Admin:

I confini della linea rossa

di ADRIANO SOFRI


Fra i danni collaterali della tragedia siriana c'è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma ("La moralità delle bombe" pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell'angustia di questi giorni: che senso ha stabilire "linee rosse" sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l'orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.

Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell'avvelenamento dei pozzi. In gara con l'orrore cresceva l'avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l'espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l'intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all'inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l'aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale - cioè per la riduzione della barbarie planetaria - una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali.

Fa impressione vedere come l'argomento apparentemente di buon senso, in realtà fra qualunquista e cinico, sull'indistinzione delle armi mortifere, faccia dimenticare, perfino a tanti che vi si sono impegnati, battaglie come quella per il bando alle cluster bombs, le bombe a grappolo, o le mine antiuomo cosiddette, che uccidono squartano e mutilano come un bombardamento "normale" - ma con un di più di inganno e adescamento di inermi. O per il bando all'uranio impoverito. Vogliamo passare dallo scandalo della manipolazione sull'esistenza di armi di distruzione di massa, alla dichiarazione della loro irrilevanza? Per far culminare questa liquidazione alla leggera di distinzioni sulle quali si costruisce pietra su pietra, frana dietro frana, riparazione dopo riparazione, la storia della civiltà - della riduzione della barbarie, delle unghie tagliate agli artigli - si chiamano in causa anche l'arma atomica e la nozione di genocidio.

"Esiste davvero una grande distinzione morale tra uccidere circa centomila persone sganciando una bomba atomica su Hiroshima e ammazzarne un numero addirittura superiore provocando una pioggia di bombe incendiarie lanciate in una sola notte sul cielo di Tokyo?" Le vittime di Tokyo furono più numerose, certo. E i bombardamenti al napalm e ai defolianti sul Vietnam non furono meno infami, e Dresda, e... Ma a Hiroshima e Nagasaki gli umani emularono per la prima volta Dio nell'unico modo in cui potevano, mostrandosi capaci di distruggere la terra di colpo, in una creazione alla rovescia. Per la prima volta e per l'ultima, finora: l'unico caso in cui hanno rinunciato a ripetersi. Finora, insisto: perché custodiscono decine di migliaia di ordigni nucleari, e decine di paesi sono pronti a dotarsene. L'ipocrisia e l'inadeguatezza del Trattato di non proliferazione nucleare saranno una ragione per liberarcene - tanto si muore comunque ammazzati?

Infine, il genocidio. "Tollerare il genocidio è intollerabile... A che punto esatto, però, occorre tracciare una linea? Quanti omicidi costituiscono un genocidio? Migliaia? Centinaia di migliaia? Milioni?". Che sia Buruma a proporre simili interrogativi mi lascia interdetto. Riformulateli a proposito di Auschwitz. Fatto? Non occorre altro, se non ricordare che il genocidio - la parola, e poi la tormentata definizione, e la Convenzione delle Nazioni Unite, insoddisfacente quanto si voglia - venne dopo, dopo che nessuno volle tracciare quella linea rossa.


(04 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/04/news/siria_sofri_confini_linea_rossa-65850028/?ref=HRER2-1

Admin:
L'abisso delle prigioni

di ADRIANO SOFRI

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l'opinione.

Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l'ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato  -  lui, non io  -  il giorno di Natale del 2005, a una "marcia per l'amnistia" indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant'anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, "senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari...".

Continuo a immaginare che cosa dev'essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una "questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile". Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta "a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere". Citò "i più clamorosi fenomeni degenerativi  -  in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti  -  e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento". Parlò di "una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana  -  fino all'impulso a togliersi la vita  -  di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile  -  che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora". (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: "Evidente è l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale... È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo...". E concluse: "Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss'altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte".

Non ci si rifletteva, da nessuna parte, o quasi. Intanto lui, Giorgio, continuava a tormentarsene, penso. Visitava galere, ascoltava invocazioni, veniva alternamente lodato e insultato da Marco Pannella, che gli ingiungeva di rivolgere un messaggio alle Camere. Napolitano è forse altrettanto impaziente di lui, ma lo dissimula meglio, e temeva che un'iniziativa così straordinaria come il messaggio presidenziale sarebbe restata in quelle circostanze lettera morta, e avrebbe fatto retrocedere piuttosto che avanzare la giusta causa e urgente. Però non perdeva occasione per ribadirla. Qualche tempo fa, all'uscita da una visita a San Vittore, a Marco Cappato che lo interpellava sull'amnistia, rispose: "Se mi fosse toccato mettere una firma lo avrei fatto non una ma dieci volte". Berlusconi stava ancora così e così.

Napolitano si sarà ricordato tutto questo. Intanto l'Europa ci condannava ripetutamente, e l'Italia, che lui supremamente rappresenta, veniva vieppiù umiliata. Avrà pensato ancora: "Mentre lasciavo il Quirinale, e avevo pronte le valigie, e mi figuravo un ozio di Capri appropriato alla mia età e ai desideri di famiglia, questo mi rimordeva sopra tutto. Quando ho disfatto le valigie, mi sono ripromesso di riprendere comunque il filo. L'ho fatto ora, prima che sia davvero troppo tardi. Tardi per le scadenze tassative cui ci obbliga l'Europa, e, più irreparabile ancora, per la nostra umanità. Il mio messaggio è là, cliccateci sopra, leggetelo, non vi accontentate di questa usurpazione giornalistica. Troverete tutto, niente di più e niente di meno di quello che penso e sento. Adesso ne ho 88, di anni. A differenza di voi giovani, posso permettermi di guardare lontano. Come volete che mi intimidisca delle speculazioni, delle insinuazioni, degli insulti? Mi dispiacciono certo le incomprensioni e le diffidenze sincere, mi auguro che vogliano misurarsi con la verità. E comunque, posso permettermi anche di dire le cose come stanno: per esempio, che chi mi accusa di voler salvare Berlusconi (che non potrebbe nemmeno San Gennaro, n. d. r.) e assicurare 'l'impunità delle caste', se ne frega del paese e della gente, e non sa quale tragedia sia quella delle carceri".

Cinque anni fa, quando fu varato un indulto mutilato dell'amnistia, che avrebbe sgombrato tribunali ostruiti da un arretrato intrattabile, favorendo prescrizioni agli abbienti e sventura ai poveri cristi, restarono con pochi altri a difendere una decisione del parlamento, lui Napolitano e Romano Prodi. Allora, lo spauracchio agitato sul futuro della democrazia era Previti: Previti restò dov'era, in un comodo domicilio, e nessuno ne ha più sentito parlare. Gridavano che il processo all'Eternit sarebbe stato insabbiato: si è tenuto ed è finito come doveva. Ammonirono che i delinquenti usciti avrebbero messo a repentaglio la sicurezza degli italiani: non successe, e fra gli usciti e i beneficiari di pene alternative ci furono assai meno recidivi. Queste ultime osservazioni, e molte altre cui rinuncio, non sono del presidente, ma mie: un po' per uno.

Considerando tutti questi precedenti, Napolitano ha confidato che non si potesse lealmente fraintenderlo. Che non si possa fraintendere il favore per la stessa amnistia, quando viene da giuristi come Carlo Federico Grosso, da ministri indipendenti come la signora Cancellieri, da direttori di carceri, da sindacati di agenti penitenziari, da magistrati e avvocati e operatori penitenziari. Ci sono 64.758 detenuti per una capienza di 47.615, ha scritto. Ci sono sgabuzzini provvisori di un metro per un metro adibiti a cella, senza finestre, senza una suppellettile, con un giornale sul quale fare i propri bisogni. È un po' lungo il suo messaggio, lo sa, ma si abbia cura di leggerlo. Poi lui non c'entra più. È sovrano il Parlamento. Può fare quello che crede, là sono indicate molte misure diverse, e soprattutto un criterio, e più ancora un sentimento. In Parlamento ci sarà chi è favorevole all'amnistia perché spera che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Ci sarà chi è contrario all'amnistia perché teme che ne venga una via d'uscita per Berlusconi. Napolitano avrà fatto la tara, e si sarà augurato che ci sia chi rifletta perché è in pena per l'inferno in cui stanno i carcerati e le loro famiglie, e per il vicolo cieco in cui si trova la giustizia. (Gli altri, quelli che sono comunque contro ogni clemenza perché sono pieni di rancore e detestano il prossimo loro, non vanno considerati in una categoria a parte, perché stanno indifferentemente nella prima e nella seconda).

Ecco, penso che sia andata più o meno così. Tornato del tutto nei miei panni, ho una cosa da dichiarare, per conflitto d'interessi. Io devo gratitudine a Napolitano, perché non mi diede la grazia. Avrei vissuto il mio tempo supplementare da graziato, sarebbe stata dura.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/09/news/l_abisso_delle_prigioni-68206323/?ref=HREA-1

Navigazione

[0] Indice dei messaggi

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente