ADRIANO SOFRI -
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Il racconto
Il bimbo davanti alla balena spiaggiata "Piangevano, gli ho dato le mie coperte"
Il naufragio della Costa Concordia al largo all'Isola del Giglio raccontata dagli abitanti.
Che sono corsi in strada per dare una mano
di ADRIANO SOFRI
ISOLA DEL GIGLIO - Leonardo tiene le mani sprofondate nelle tasche e parla col mento dentro il colletto, come un lupo di mare. Ha un suo battellino a remi, ha dieci anni, fa la quarta. "La mamma mi dice: 'Oh, apri la finestra'. C'era il saluto della nave". Al Giglio - spiega la mamma - il suono della sirena si dice "tufare": la tufa era la conchiglia in cui soffiare. "Ho salutato. Loro erano in pericolo, noi non ce eravamo accorti, aspettavamo i tre fischi. Poi abbiamo capito e l'allegria è finita. Hanno buttato l'ancora, i megafoni dicevano Calma, i passeggeri urlavano. Il babbo è uscito con la barca ad aiutare. Il babbo è pescatore, meccanico e ormeggiatore. Quando hanno cominciato ad arrivare le scialuppe ero già sulla punta del molo. Arrivavano zuppi. La mamma mi ha detto: adesso tu vai a letto. Ma adesso io non avevo sonno. Portavamo le persone alla chiesa, abbiamo distribuito l'acqua, il tè e le coperte. Piangevano, volevano andare a casa, non si capivano. I bambini piccoli li mandavamo all'hotel Bahamas o all'asilo".
Hai immaginato che toccasse a te? Di trovarti nei panni zuppi? "Sicuro, perché l'anno scorso c'ero io sulla stessa nave. Siamo partiti da Civitavecchia e poi abbiamo fatto Barcellona, le Canarie, Madeira, Malaga e ritorno". E quando siete passati dal Giglio avete tufato?
"No, quella volta eravamo passati più lontano". Quanti siete voi bambini e ragazzi d'inverno, al Giglio? "Una trentina in tutto alle elementari, una ventina alla media". E il tuo migliore amico chi è? "Giuseppe, ha due anni di più. Lui però non abita sul porto, perciò dormiva". Quanto ci metteranno a raddrizzare la nave? Hai visto le persone che cercano di risospingere in mare le grandi balene spiaggiate? "Con le balene avrei un po' paura. Secondo me ci metteranno un annetto".
E tutto questo subbuglio, le telecamere e i giornalisti e l'avventura, a parte il dispiacere per le persone che sono morte e sono state male, ti piace? "No, mi piace solo di avere aiutato. Ora non possiamo fare le gare di bicicletta". D'inverno preferiresti stare qui o in città? "Qui si possono fare più cose, e io pesco dei pesci, in città c'è il parco giochi". "Allora perché - protesta la mamma - mi hai risposto 'Ci vai tu, io resto col mio babbo'?". Hai letto un libro quest'anno? "Tom Sawyer a scuola e La scuola degli Acchiappadraghi a casa". Che cosa c'era nella tasca di Tom Sawyer? "Una pallina, un topo morto legato col filo, un pezzo di gomma, una scatola di petardi e una piccola pulce".
Li ho incontrati che uscivano dalla chiesa, Leonardo e la mamma, Paola. Lei racconta come tutti abbiano dato quello che potevano, così all'improvviso: coperte di casa, indumenti. Li riavrete mai? "Non ci abbiamo nemmeno pensato. Don Sandro, alla Caritas di Porto Santo Stefano, dice che qualcosa rimanderanno. La provvidenza è stata suor Lina, che era missionaria in Venezuela ed è parsimoniosa e all'asilo aveva messo insieme una quantità di coperte e vestiti. Ci sono altre due suore, giovani, una filippina e una indonesiana, Wilma e Maria. Nella chiesa, dopo il viavai dei passeggeri è arrivata la bassa forza dell'equipaggio, e si sono seduti a bere il tè a occhi bassi e stavano zitti zitti, finché suor Wilma e suor Maria hanno scambiato con loro due parole e loro erano filippini e indonesiani, è stata un'emozione fortissima, e le due suorine si sono illuminate come candele, e poi non la smettevano di chiedere e raccontare e meravigliarsi di che vita fanno".
Il famoso curato è don Lorenzo, sul portone ha affisso un foglio col suo numero di cellulare: 333 2658575. Caduto nella tentazione delle telecamere? Non scherziamo, dice, quel foglio è attaccato lì da sempre, chiunque può trovarmi quando ne ha bisogno. Lo trovo in sacrestia che ripiega tovaglie ricamate e frangiate d'oro che fino a poco fa sono servite per avvolgere persone intirizzite. È qui da tre mesi, ha tante storie alle spalle e poca voglia di perdere tempo a raccontarle, fu attratto dal cristianesimo sociale, poi fu monaco cistercense per una ventina d'anni, poi parroco di paesi. Quando ha preso le sue coperte ed è sceso in chiesa e qualcuno gliele ha chieste si è scusato: "Sono prima per i bambini". Non hanno protestato. Erano molto dignitosi, dice, e ormai non erano più atterriti, non c'è stata rabbia né litigi, erano solo seduti a cercare di riscaldarsi, "ma non dimenticherò mai gli occhi spaesati, smarriti".
Don Lorenzo crede che sulla terra "c'è posto per tutti e per tutto: purché l'uomo non sia arrogante, non creda di bastare a se stesso".
Uno dei suoi fedeli mi dice: "Tante disgrazie di colpo da noi: il naufragio, e la signora che è morta". Nel seguito della conversazione viene fuori che la signora che è morta aveva 92 anni.
Arrivano in sacrestia il corrispondente del Times e un veterinario a chiedere notizie del cane malato di don Lorenzo.
Resto a parlare col veterinario, si chiama Antonello, ha 39 anni, lavora a Prato. È arrivato proprio venerdì sera per stare un fine settimana nella sua isola, non veniva da agosto.
"Sono uscito per spostare la macchina e ho visto la nave. Mi sembrava inclinata. Ho chiamato il babbo: "È inclinata forte!" "Ma va".
Sono tornato a guardare e ho richiamato: "Sta affondando!" "Ma su!" Quando l'ha vista! Meno male che ero tornato a far numero: c'erano due carabinieri, due vigili urbani, mio fratello e qualche altro ragazzo. Arrivano le scialuppe, c'è una famigliola francese, la mamma ha indosso solo la biancheria, un bambino zuppo, gli metto su il mio cappellino e la mia maglia, poi vado a prendere quello che ho di maglie, calzini... Qualcuno mi dice: "Money money", volevano pagarmeli!". Qualche passeggero aveva degli animali? "Non ne ho visto nessuno.
Però nella concitazione ieri è andato sotto un'auto un canino del Giglio, poveretto".
C'è un giovane comandante di nave, coi bambini. "Le isole, chi non le conosce, meglio che stia alla larga. In Italia la sicurezza non è più la prima cosa. Orari lunghi, meno personale, filippini che non parlano l'inglese, che non hanno nessun brevetto. Ho lavorato in Inghilterra con equipaggi indiani, ma erano marinai provetti". Tutti credono di sapere che cosa è successo, ma hanno una riserva a pronunciarsi sul comandante, per non infierire, o perché sentono che perfino una pazzia inaudita come questa può capitare, tant'è vero che è capitata. Uno che ha fatto 40 anni di mare da nostromo e ne ha più di 80 non vuol sentir parlare di Titanic. Il Titanic nella piscina di casa, bofonchia amaro.
Anch'io rilutto al paragone col Titanic, soprattutto perché il Titanic è svaporato fino a diventare una grandiosa metafora, e invece le tragedie, anche quelle assurde in una tinozza, devono restare attaccate almeno per un po' alla realtà, al buio, all'acqua gelata, ai morti e i feriti e gli spaventati, ai bambini turisti e a quelli dell'arcipelago toscano, alle suore e ai mezzi marinai pakistani. Quando si è così a mal partito, tutto fa da metafora. Uno racconta che, con quella balena colorata lì davanti, ha sognato che l'Italia intera, la penisola, si piegava sul fianco del Tirreno, come la Costa Concordia, e valla a raddrizzare. Ero venuto col governatore della Toscana, come ora li chiamano. "E pensare - ha detto - che la parola governo viene dal greco e significa pilotare la nave".
(16 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/16/news/bimbo_coperte_costa_concordia-28198057/?ref=HREA-1
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Il caso
Piazza Fontana, la verità di Sofri
Un instant-book di 132 pagine su internet per contestare la tesi del libro al quale si sono ispirati gli autori del film di Marco Tullio Giordana, quella dell'attentato "duplicato". "Una ricostruzione assurda, puntellata su fonti anonime"
ROMA - La vicenda giudiziaria di Piazza Fontana si è chiusa, finora, senza colpevolI. La verità storica, invece, ha raggiunto delle certezze che hanno nomi, volti, sigle e identificano senza dubbi la matrice materiale neofascista della strage in un contesto da Guerra fredda che nell'attentato ha visto attivi e complici servizi di intelligence italiani e atlantici. Ora, però, il film di Marco Tullio Giordana ("Romanzo di una strage") e soprattutto il libro al quale si è "liberamente ispirato" per la sceneggiatura, tentano di rimettere in discussione questa verità storica con un'operazione di revisione pericolosa per la memoria, e dunque per il presente, del Paese.
E' questa la ragione che ha spinto Adriano Sofri a pubblicare oggi sul web una sorta di instant-book di 132 pagine sulla strage, dal titolo "43 anni". Nel testo, anticipato in parte dal Foglio e online sul sito www.43anni.it 1, facendo uso abbondante di documenti e testimonianze tratte dalle varie inchieste, Sofri contesta la tesi fondamentale su cui è costruito il libro "Il segreto di Piazza Fontana", scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli e pubblicato dall'editore Ponte alle grazie: quel 12 dicembre del 1969, in sintesi, secondo Cucchiarelli, alla Banca dell'Agricoltura furono portate due bombe, da due persone diverse, appartenenti a fronti politici diversi; una, anarchica, doveva fare solo rumore; l'altra, quella fascista, doveva fare una strage.
Secondo la tesi del libro, i neofascisti dopo aver infiltrato i circoli anarchici e appreso del progetto di attentato dimostrativo, ne "duplicarono" l'esecuzione, arruolando un "sosia" di Pietro Valpreda e "clonando" la borsa con l'esplosivo per confondere i testimoni. L'operazione, secondo Cucchiarelli, sarebbe riuscita perfettamente.
Sofri contesta da cima a fondo la ricostruzione del libro, giudicandola insensata, assurda e puntellata nelle sue ipotesi sulle dichiarazioni di fonti anonime, e dunque senza alcuna attendibilità valutabile, oltre che spesso in contrasto con le carte dei processi. E aggiunge: "Il film, avendo conservato questa tesi e avendola - grazie al cielo - spogliata dell'attribuzione agli anarchici delle bombe 'innocue', l'ha resa gratuita, dunque ancora più assurda: bombe d'ordine o parafasciste che 'raddoppiano' bombe fasciste".
(31 marzo 2012) © Riproduzione riservata
DA - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/31/news/piazza_fontana_la_verit_di_sofri-32515232/?ref=HREC1-1
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Il commento
L'uomo della speranza
di ADRIANO SOFRI
Leggo che la tesi teologica di Carlo Maria Martini, nel 1958, ebbe per oggetto il "problema storico della risurrezione", dove le due parole, storia e risurrezione, sembrano contraddirsi, o almeno succedersi, e che l'una finisca dove l'altra comincia.
Eugenio Scalfari ha ricordato come, a più di mezzo secolo di distanza, alla domanda su quale fosse per lui il momento culminante della vita di Gesù, Martini gli avesse risposto: "La Resurrezione, quando scoperchia il sepolcro e appare a Maria Maddalena". Quel punto è anche il confine invalicabile che separa il credente cristiano dal non credente. Nel dialogo fra Scalfari e Martini pubblicato qui nel maggio 2010 era stato il cardinale a proporre come argomento la Resurrezione. In quella occasione, dopo che si furono confrontati sulle reciproche idee di speranza e carità, Scalfari lo interrogò sul romanzo di Tolstoj, Resurrezione. Martini riassunse la vicenda del romanzo - con un lapsus del ricordo, facendo del principe protagonista un condannato e deportato, invece che l'uomo pentito che segue volontariamente nella deportazione la donna che aveva offeso - e concluse che era quello esattamente il percorso della conversione e della resurrezione. Era anche il punto finale comune: le resurrezioni degli esseri umani su questa terra. Il cardinale Martini è stato, fin da giovane e poi sempre, un visitatore di carceri, convinto, come detta invano anche la Costituzione dello Stato, che ai poveri cristi che le affollano sia data la speranza di risuscitare, due, tre volte, prima di quella ultima - o prima d'esser morti del tutto.
Non so oggi, ma una volta per i ragazzini tirati su nella fede la chiesa era anche una possibilità di immaginare la più straordinaria promozione sociale o la più emozionante avventura. Di diventare Papa - tutti possono diventare Papa, non è come fare il farmacista - o missionario in Congo o in Patagonia. Così rileggo le biografie di Martini, persona pur aliena dall'avventura fisica. Un ragazzino che decide che la sua vita sarà quella di un uomo di chiesa. A 17 anni, 1944, l'ingresso nella Compagnia di Gesù. Prete a 25. Biblista prestigioso, che affianca al magistero romano una personale messa alla prova accanto ai propri poveri - il rischio della chiesa è infatti di lodare la povertà e scansare i poveri: mette allegria il racconto delle persone di Sant'Egidio, su Martini che accudisce un anziano povero irascibile e anticlericale, come il non credente che vada ad accudire il povero bigotto e si sorbisca sorridendo le sue geremiadi. Poi la scelta imprevista di Karol Wojtyla che lo toglie all'accademia e lo manda, lui mai stato curato d'anime, arcivescovo a Milano, la più grande e delicata diocesi del mondo: ci resterà 22 anni, gli anni del terrorismo e poi della cosiddetta tangentopoli. Si sono ricordati episodi di riscatto civile e umano che furono allora inutilmente controversi e che ebbero invece un sapore manzoniano: i militanti di Prima Linea che se ne congedarono depositando il loro arsenale di armi in vescovado, la decisione dell'arcivescovo di dare il battesimo ai due gemelli concepiti in un'aula di tribunale da due di quei militanti, che l'avevano chiesto. Le iniziative pastorali, il "Farsi prossimo", la Cattedra cosiddetta dei non credenti. Ieri ho sentito un passante milanese, intervistato da un notiziario, che diceva: "Dialogava con tutti, ebrei, musulmani, buddisti, perfino coi non credenti". Mi è venuto da sorridere per quel "perfino". È successo infatti alla nostra società di essere talmente assorbita dalla nozione della necessità di un confronto fra le religioni - quando non da un'ottimistica fiducia nella fratellanza (sorellanza meno...) fra "le tre grandi religioni monoteiste" - da dimenticare che il pregio più caro della nostra civiltà, pagato a così caro prezzo, sta nella confidenza e nella naturalezza con cui conviviamo, nella stessa famiglia, nella stessa cerchia di amici, negli stessi partiti e sindacati e tram e bar e chiese e stadi, fra credenti e non credenti. L'ecumenismo non esisterebbe senza questa premessa. Leggo di Martini che diceva che in ognuno di noi c'è il coraggio e la paura, e altrove diceva: "Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda...". Forse per lui questo voleva dire che il coraggio coincida con la fede e la paura con la sua assenza: non è così per me, ma questa confidenza, questo scambio fra i due sentimenti, fra le due persone, è il contenuto più prezioso della nostra vita comune, e il più messo a repentaglio da una premura esclusiva per il "dialogo fra le religioni", di cui certo nessuno può sottovalutare l'importanza.
Martini è stato anche, hanno ricordato tutti, l'interprete di "un'altra chiesa", forse sopravvalutandone la divergenza: è un fatto che si augurava una conversione in capite et in membris. Si chiama in causa il relativismo, cui sarebbe stato incline, all'opposto del Ratzinger di cui è stato grande elettore. Non so, anche Martini parlava di "una società sottoposta alla deriva dell'arbitrio". E Ratzinger ricorse a sua volta al paradosso di un "assolutismo relativista". Il fatto è che un relativismo assoluto è una boutade, buona ad autorizzare il dogmatismo assoluto. Mi pare che la differenza stia altrove, e abbia a che fare con una cosa decisiva per tutti, e per i gesuiti specialmente, come la casistica. La casistica è Welby, è Eluana, voi, io, ciascuno di noi. Il dogmatismo che elogia l'assolutezza è disposto a passare sopra ai casi singolari, magari coi cingoli, come nella scelta di Piergiorgio Welby e nel rifiuto al suo funerale. Martini vi si sottraeva, in quello come in tanti altri casi, che esemplificavano in carne e ossa le questioni dichiarate graziosamente "eticamente sensibili". Non parlava di omosessualità senza immaginare o ricordare persone omosessuali che aveva incontrato, né di profilattici, né di aborto, né di celibato dei preti (e nubilato di suore) o di pedofilia, di divorziati e risposati. Così, esemplarmente, sull'eutanasia: "Non si può mai approvare... E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé... Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica...".
Ammesso che io non sbagli, questa differenza ha molto a che fare con il modello dei vangeli. Quanto alla volontà di non sottoporsi a un accanimento terapeutico (espressione dubbia anche questa, perché l'aggettivo terapeutico ci entra abusivamente, ed è l'accanimento a farla da padrone) non c'è niente di cui discutere, niente che non rientri nello spirito e nella lettera dello stesso catechismo cattolico: se non fosse che uomini (e donne) pubblici e laici pretendono di fare dell'accanimento sui corpi altrui una legge dello Stato, e di gabellarla per sacralità della vita.
(02 settembre 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/02/news/l_uomo_della_speranza-41832004/?ref=HRER3-1
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La storia
Alcoa, quegli operai in cima al silo con il volto nascosto e l'elmetto Cgil
La protesta a 66 metri di altezza, o quella nel fondo di una miniera, costringe a porsi il problema degli 'invisibili', della dignità del lavoro, dei nuovi disperati. Perché i lavoratori di oggi sono come i detenuti
di ADRIANO SOFRI
LA FOTOGRAFIA, quella o una simile, l'avete vista tutti ieri sui giornali. Ci sono i tre operai dell'Alcoa 1 all'interno della piccola tenda nella quale hanno trascorso 4 giorni (e notti, soprattutto) a 66 metri di altezza, sopra una vecchia torre cisterna. Indossano le tute da lavoro. Hanno i visi coperti da passamontagna neri, come quelli dei Nocs (non so voi: io ho appreso solo in questa circostanza che si chiamano mephisto) o dei banditi. E poiché hanno inalberato uno striscione che dice: DISPOSTI A TUTTO, qualcuno ha pensato di assistere a una versione inedita di passaggio alla clandestinità, condotto sotto tutti i riflettori.
Che cosa vogliono dire quei passamontagna neri? Loro sapranno spiegarlo, noi spettatori distanti intanto possiamo chiederci che cosa dicono a noi. E prima di tutto che in quel travisamento non c'è niente che faccia credere a un'intenzione di mascherare il proposito di delitti imminenti. Chi siano quei tre lavoratori lo sanno benissimo i loro compagni, la polizia, i giornalisti e chiunque voglia saperlo. Dunque non sono la pattuglia d'avanguardia di una nuova genia di clandestini armati.
Se non ci si accontenta di guardare le facce coperte, si resterà colpiti subito dopo dal fatto che quei lavoratori in lotta hanno scelto anche di tenere in testa i caschi di sicurezza, e su un casco si legge distintamente, accanto alla sigla dell'Alcoa, quella della Cgil. Vorrà dire qualcosa
anche questa combinazione di una scelta estrema - non nel vecchio senso dell'estremismo politico, ma in quello della messa in gioco della propria incolumità e della vita stessa - e della rivendicazione di un'appartenenza sindacale. Non importa che la Cgil approvi o no, o dica di approvare e in realtà tema sommamente, o chissà che altro, una simile forma di lotta: la Cgil è anche quell'operaio a 66 metri, e lui l'ha fatta figurare nella stessa fotografia del passamontagna e delle mani conserte, chiuse in attesa di qualcosa.
Dice forse, quella fotografia, che i tre e i tanti loro compagni che li stanno aspettando a terra, sono davvero "disposti a tutto", e al tempo stesso che sono persone normali, che lavorano e credono nella dignità - nell'"onore", hanno detto - del lavoro. Dice forse che a furia di essere trattati da invisibili ("invisibili", già si definivano così anche gli operai dell'Ilva, e anche i cittadini dei Tamburi, prima che si accendessero le luci) si rendono deliberatamente invisibili, così che chi guarda sia finalmente costretto a chiedersi che faccia abbiano.
Dice forse che si sta facendo retrocedere a tappe forzate la classe operaia agli stadi dai quali uscì lentamente e a un prezzo di sangue, i fuorilegge che diventarono operai agli operai che si vogliono far tornare fuorilegge. Dice che non si tratta della messinscena, né di un modo drammatico di partecipare dell'universale aspirazione ai riflettori, ma di una vera tragedia. Uno dei tre che tiene sul viso il passamontagna come per dichiararsi uguale agli altri, a innumerevoli altri, nel Sulcis e molto più lontano, ha rischiato davvero su quella torre e ancora ieri, alla partenza ennesima per una piazza di Roma. "Chiamaci disperati", hanno detto a Paolo Berizzi, che sta raccontando qui la loro vicissitudine. "Disperato 1", "Disperato 2", "Disperato 3": a che numero si fermerebbe questa nomenclatura, anche solo per la Sardegna?
Chi guardi poco meno che distrattamente quella fotografia rinuncerà subito a vederci un annuncio di violenza oscura, e proverà un moto forte di solidarietà e di simpatia per quel quarto stato che vuole continuare ad andare a testa alta. Ma bisogna andare avanti, nella riflessione e nelle sue conseguenze. Cominciò qualche anno fa, un genere di ricorso a forme di lotta che richiamassero spettacolarmente l'attenzione, e qualcuno, per sciocchezza o per zelo combattivo, proclamò che stava facendosi strada un nuovo modo di lottare, corrispondente alle condizioni nuovissime della società: gli immigrati senza nome e senza polpastrelli, i precari istruiti, colti, impegnati e buttati via.
La lotta cominciò ad arrampicarsi sui tetti, seguita dalle telecamere. Provai a dire allora, solo per cognizione di causa, che quelle nuove iniziative erano anche una estensione sociale di altre vecchissime, come quelle dei detenuti. Che i detenuti anche loro, ormai tanto tempo fa, avevano scoperto di poter lottare, ma che per loro le vie d'uscita orizzontali erano sbarrate, e però, oltre che scavar cunicoli col cucchiaio, potevano salire sui tetti, e guardare finalmente il cielo e farsi guardare da terra. Sventolavano lenzuoli, avevano i torsi nudi, tenevano un fazzoletto sul viso - anche allora, non perché pensassero di diventare irriconoscibili.
Una frontiera molto sottile separa la scelta nonviolenta di testimoniare con il proprio corpo dalla necessità disperata di usare la sofferenza del proprio corpo perché non resta altro. L'autolesionismo è affare quotidiano delle galere, decine di migliaia di detenuti si tagliano le vene ogni anno, e i dati finiscono nelle statistiche non lette del ministero della Giustizia.
L'altro giorno, quando ho visto un minatore della Carbosulcis 2 tirare fuori il temperino e tagliarsi davanti a compagni e telecamere, un uomo lucido ed esperto, un capo operaio, ho riconosciuto un gesto visto tante volte. Quel capo operaio aveva messo insieme a suo modo cose inconciliabili, come il casco con la sigla sindacale e il passamontagna. I lavoratori si battono oggi come detenuti in un carcere, come autoreclusi in un fondo di miniera minato: c'è di che interrogarsi, no?
Giorni fa un commento di Di Vico sul Corriere notava come le "forme estreme" di lotta "taglino fuori" i sindacati, che ne devono essere preoccupati. Vorrei prendere la cosa dall'altro capo, e dire che i sindacati debbano allarmarsi all'estremo di "tagliare fuori" forme di lotta che non sono più collettive alla vecchia maniera, ma non sono nemmeno "individualiste". E che mostrano, se ancora se ne dubitasse, come sia andata svanendo la distinzione, e ancor più l'opposizione, fra lavoratori "garantiti" e precari. Andare a testa alta, è il programma comune. Ora si dice: "Metterci la faccia", non è granché, spesso chi lo dice ha una faccia impresentabile. Quanto a perdere la faccia, non saprei riconoscere in una fotografia la fisionomia e l'abbigliamento di uno solo dei padroni multinazionali dell'Alcoa, né di chi ha trattato con loro le tariffe elettriche agevolate, eccetera. A loro modo, sono felicemente invisibili.
(10 settembre 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/10/news/alcoa_quegli_operai_in_cima_al_silo_con_il_volto_nascosto_e_l_elmetto_cgil-42254115/?ref=HREC1-1
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La polemica
Il Pd oltre le primarie
di ADRIANO SOFRI
IGNORANDO per un momento la vertenza sul regolamento delle primarie, vorrei dire perché la situazione non potrebbe essere più favorevole al Pd. La premessa è che il tracollo del centrodestra, Lega e Pdl, è il regalo insperato che insipienza, volgarità e ingordigia dei nuovi ricchi del governo e del sottogoverno hanno fatto al Pd, che non vi ha avuto un gran merito.
Oltretutto la Lega aveva occupato lo spazio del rancore xenofobo e razzista. Così che il suo sprofondamento lo indirizza, non in una dichiarata estrema destra, ma nella reazione antipolitica, elettoralista o astensionista. Il Pd può essere il beneficiario di questo passaggio insieme drammatico e buffonesco, e può anche esserne travolto.
Ci sono moltissime ragioni di delusione nei confronti del Pd, della sua deliberata confusione e della sua inefficacia; ma è infantile o vanesio non vederne la differenza dalla maggioranza berlusconista, anche dentro la grottesca necessità del sostegno comune al governo Monti. Chi veda lo scandalo di una crisi che esaspera le disuguaglianze ed espropria la politica democratica deve scegliere se confidare esclusivamente nei tempi lunghissimi della costruzione minoritaria di una conversione sociale ed ecologica, dando per indifferente un'alternativa di governo vicina, o se riconoscere nella vittoria del Pd una condizione più favorevole alla difesa del lavoro e degli impoveriti, al rovesciamento del ricatto finanziario e a un europeismo e un internazionalismo dei diritti. Nel secondo caso la sorte del Pd ha un'importanza determinante. Perché dunque mi pare che la situazione non potrebbe essere più favorevole per il Pd?
Perché le circostanze, abbastanza fortuitamente, hanno fatto sì che nelle primarie si giochi una posta essenziale. I suoi protagonisti, Bersani e Renzi (Vendola ha una grande responsabilità, ma è fuori dal Pd), hanno finito per incarnare un dilemma cruciale del nostro tempo. Renzi lo immagina e lo fa immaginare come un tempo novissimo. Bersani lo immagina e lo fa immaginare come un tempo di trasformazione.
Renzi non è candidato di programmi, troppo affini a una linea politica, troppo affine a sua volta a parole come destra e sinistra, perché la sua offerta viene prima dei programmi: è il "tutti a casa", il ricominciare daccapo, la definizione di sé secondo "quel che non siamo, quel che non vogliamo". La sua idea forte è che la politica vigente, anche quella non compromessa col malaffare, sia ancora dentro il Novecento, e non abbia capito quanto il mondo e i suoi linguaggi siano nuovi.
È un'idea nient'affatto distante da quella che sventola il movimento 5 stelle, salvo che Renzi la trasferisce dentro il Pd, di cui ha sperimentato la debolissima resistenza agli assalti (un suicidio collettivo di vecchie volpi nel caso delle primarie per Firenze) e il credito e il seguito residuo che può dare. Il giovanilismo di Renzi sarebbe poco attraente se non coincidesse con il rigetto popolare e populista verso un'intera classe dirigente, e con l'impazienza verso i partiti storici.
Oltretutto, nel Pd, benché abbia le ali impiombate dai notabili, un ricambio di generazione si compie, e non solo di facciata: nella Toscana di Renzi molti dirigenti del Pd sono più giovani di lui. Renzi gioca a modo suo la carta di un entrismo, perché l'entrismo storico (la tattica di stare dentro i partiti comunisti per condizionarli dissimulando la propria eterodossia) era il colmo della dedizione ideologica, mentre Renzi è per così dire il colmo del disinteresse per l'ideologia, che può voler dire della spregiudicatezza senza principii o di un eclettismo pragmatista.
All'obiezione: con quale competenza starai di fronte ai capi delle potenze internazionali, Renzi può rispondere con un'alzata di spalle. La competenza ho il tempo di farmela. Se non fosse che il mondo è terribilmente cambiato, e così in fretta, e sempre più in fretta vada cambiando sotto il nostro naso raffreddato, si potrebbe concludere che Renzi propone una variante dell'antica tabula rasa, della piazza pulita (termini in voga nelle nostre arene) che fondava le rivoluzioni. A essere un po' cattivi, una tabula rasa "per le dame".
E però Renzi non ha a che fare con Berlusconi, e il paragone è visceralmente sentito ma del tutto insussistente, e quando dichiara che il primo rottamato da lui sarebbe Berlusconi, Renzi non fa solo una battuta per respingerne il furbo corteggiamento, dice una cosa vera. Renzi non è miliardario, non è vecchio, non è arrapatissimo: è il portabandiera estemporaneo dell'idea diffusa che bisogni liberarsi di ogni arretrato e riguardare la realtà con occhi nuovi e ingenui. Non è un leader carismatico e non ci prova, non è un profeta-buffone: è un ragazzo svelto, e la sua idea di modernità mira alla velocità. Non è detto che sveltezza e velocità coincidano, non è detto nemmeno che più veloce sia di per sé più buono. Col che siamo a Bersani.
È curioso che l'improntitudine di Renzi abbia sigillato la sfida con Bersani dentro una doppia terminologia automobilistica, la rottamazione contro l'usato sicuro, in un'epoca in cui l'automobile va in rimessa. Nemmeno Bersani è un leader carismatico, e lo sa fin troppo: a furia di rinfacciarglielo gli avevano messo addosso un po' di complesso da "figlio della serva", poi è arrivato Crozza e gliel'ha tolto. Raro caso in cui un comico ha dato molto a un politico, e il politico ha restituito moltissimo a un comico. Che i due contendenti non siano "carismatici" è affare di cui congratularsi, dopo la sbornia. Bersani è appunto affidabile, sa che cosa significhi amministrare e governare, ha una sensibilità sociale incomparabile con quella del suo rivale. Ma non sarà questo a decidere.
L'offerta di Bersani si è fatta molto più chiara grazie alla sfida di Renzi. La dico con le parole che mi sembrarono decisive al momento di congedarsi dal sogno della palingenesi politica: qualunque cimento intraprendessimo, da allora in poi, non avremmo avuto altra eredità cui affidarci se non quel nostro (e di tanti altri prima di noi) passato esausto. Non il poetico "Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", la cui incertezza Renzi ha mutato in baldanza e buttato in politica, ma quello stesso pensiero con l'aggiunta di un minuscolo avverbio di tempo: più.
Ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo più. Non voglio chiudere Bersani nelle mie parolette, ma il vero senso della sua candidatura mi pare consistere di quello: c'è un passato che si è ereditato e cui si è appartenuti, benché non al punto di finirne ostaggi, e la distanza presa da quel passato è un criterio prezioso per misurarsi col futuro. L'usato sicuro dice male questa condizione, ne fa una rassicurazione moderata e intimidita. Al contrario, essa ha bisogno di radicalità almeno quanto la scommessa di ripartire da zero.
Vincendo chiaramente le primarie aperte, Bersani avrebbe le mani molto più libere per compiere lo svecchiamento e il rinnovamento indispensabili, senza cedere alla demagogia. La questione del governo tornerebbe nel campo della politica elettiva, e al tempo stesso si limiterebbe la distorsione delle elezioni verso la vendetta antipolitica e la lotteria degli aspiranti. I cambiamenti avverranno, sono già avvenuti, spettacolosi.
Ma non c'è ingenuità in politica che rifaccia il mondo. È la storia di Mani pulite, ma soprattutto dell'ecologismo e del femminismo: cioè dei punti di vista che più di tutti avrebbero richiesto una rottura antropologica. I candidati principali alle primarie sono maschi. Anche qui si può immaginare una differenza fra chi non è più maschilista - piuttosto: si sforza di non esserlo più - e chi crede di non esserlo mai stato, di essere venuto dopo l'invenzione dei vaccini. E ancora, fidarsi di più di un antinuclearista di sempre, o di un nuclearista pentito? Il fatto è che la storia del genere umano è andata avanti così a lungo, così generosamente e così ottusamente, in una direzione, che non esiste un solo campo in cui un acquisto non abbia bisogno di un passo indietro, una nuova strada non sia anche la retrocessione da un vicolo cieco.
Insomma, le primarie per la candidatura sono una vera scelta fra i modi possibili di trattare la cosa pubblica e la scritta che corre sul suo imballaggio: Fragile.
(06 ottobre 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/06/news/il_pd_oltre_le_primarie-43954832/
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