ADRIANO SOFRI -
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IL COMMENTO
Una lezione ai maschi
di ADRIANO SOFRI
È inevitabile che le manifestazioni collettive sollevino qualche dubbio, e anche quella delle donne di domenica.
Non avevo mai sentito tante buone ragioni per aderire a una manifestazione. E non avevo mai sentito pretesti così capziosi e vanesi per non aderire. Lo svolgimento è stato magnifico.
Tanto tempo fa, noi uomini (molti di noi, almeno) che respingevamo con sdegno l'eventualità di stare mai dalla parte dei padroni, fummo costretti a un estremo imbarazzo, o a vergognarci francamente, quando di colpo ci venne rinfacciato di essere i padroni nel rapporto con le "nostre" donne, e le altre. Non era facile reagire: diventare donne, o un altro dei generi possibili, riesce solo a pochi, e restare maschi sapendo di essere in torto era seccante. A parte qualche provvedimento di correzione personale - palliativi, del resto - l'ideale era che le donne contassero per la maggioranza che sono, e per l'intelligenza peculiare di cui qualche millennio di raggiri e prepotenze le ha dotate, e allora gli uomini potessero rivendicarsi tali a ricominciare da una leale condizione di minorità.
Che questo avvenisse nell'arco della nostra esistenza personale, nonostante la longevità moderna, era da escludere. E per giunta la storia mondiale è andata in un modo tale che gli uomini si sono presi una quantità di rivalse, cruente o no, sulla risalita delle donne. Naturalmente donne e uomini sono categorie troppo generali perché si trascuri il rilievo dei casi individuali, cioè delle persone.
Va da sé che anche delle donne possono essere scemissime, e titolari di dicastero.
Tuttavia la statistica conserva una sua presa. Ho visto che fra pochi giorni si apre a Bruxelles una importante fiera del libro intitolata "Il mondo appartiene alle donne". Immagino che sia un auspicio, e anche così lascia perplessi, per quell'intonazione proprietaria, peraltro giustificata dalla convinzione opposta, data per ovvia, che il mondo appartenga agli uomini. (Tant'è vero che dicemmo "uomini" invece che maschi o esseri umani, per annetterci le donne).
Noi uomini non possiamo convocare una nostra manifestazione, perché tutte le manifestazioni sono state nostre - abbiamo finito a volte per invadere di forza quelle di sole donne. Non proclamiamo mai di fare qualcosa "in quanto uomini", perché tutto quello che facciamo lo facciamo in quanto uomini. Possiamo immaginare ora che il mondo non ci appartenga più, o almeno che noi tutti, donne e uomini, e cavalli e tonni rossi, gli apparteniamo quanto lui appartiene a noi.
Ci vorrà parecchio tempo, nella migliore delle ipotesi. Però, per uomini fieri e sportivi e azionisti e allegri di minoranza come ci figuriamo, sarà bellissimo dividerci accanitamente sull'accettabilità delle quote celesti, e sfilare con i cartelli che dicono: "Non siamo panda giganti", e alla fine indire cortei in 2.300 città ammettendo, anzi richiedendo, la partecipazione di donne. Da domenica, ci siamo un po' meno lontani.
(15 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
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Se io fossi un tunisino
di ADRIANO SOFRI
METTIAMO che io sia un tunisino di vent'anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).
Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.
Mettiamo che io sia un poliziotto di vent'anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire "Italia Italia" e "Libertà libertà". Mi hanno mandato qua - avrei voluto venirci in vacanza - e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos'altro si deve aspettarsi che facciano?
Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l'Italia, l'Europa, e l'Europa e l'Italia li fermano qui, a Lampedusa, e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.
Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all'inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all'invasione, all'Europa indifferente, e si è lasciato che l'alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all'indecenza i nuovi arrivati. Dapprincipio mi sono detto, ci siamo detti in tanti, che era la scelta deliberata e allegra di un governo alle prese con un mare di guai: era così infatti, e poi la Libia e il Giappone sarebbero arrivati di rincalzo a far da palo a un governo che intanto borseggiava il processo breve e qualche altra porcheria d'interesse privato. Fino al giorno in cui il gioco si è svelato teatralmente sulla doppia scena della visita del capo del governo a Lampedusa, un'esibizione con pochi eguali nella storia del caudillismo contemporaneo, e del parlamento, un parlamento senza eguali nella democrazia contemporanea. Ma intanto si capiva che il cinismo grossolano di quel calcolo si andava ritorcendo giorno dietro giorno contro i suoi autori, e che prendeva il sopravvento la loro insipienza. Hanno detto di tutto - che li pagheremo perché tornino indietro, che gli faremo un campo di tende perché restino nell'isola, che li manderemo a casa della Merkel, che li riporteremo manu militari al loro paese, nolenti loro e il loro governo e le loro acque territoriali: e fatto niente.
Il maestrale ha regalato una dilazione di forza maggiore. Ma le scadenze sempre più solenni e ultimative del capo e dei suoi uomini - 24 ore, 48, 60, e tutto sarà risolto! - suonavano vecchie, e mostravano la sostanza. C'è una moltitudine di rifiuti da smaltire, come a Napoli, come all'Aquila. Monnezza a Napoli, terremotati all'Aquila, rifiuti extracomunitari a Lampedusa: e la stessa soluzione, spazzarli qua e là, alla rinfusa, con le cattive o con le buone - le buone, una villa trattata su e-bay, un nobel o un casinò a Chiaiano o Lampedusa o Manduria. Quanto alle cattive, basta un tipo addolcito dalla malattia che biascica "Fuori dalle palle!", e l'intendenza seguirà. Così la vergogna travolge gli argini, sommerge prima i piani alti, poi i mediani, infine anche i piani bassi e gli scantinati.
In questa combinazione di trivialità, incapacità e inumanità non è facile dire che cosa bisognerebbe fare. È più facile farlo. O almeno, qualcuno lo fa. Ieri monsignor Crociata ha comunicato per conto della Cei che "come Chiesa italiana attraverso le diocesi e le strutture della Caritas, abbiamo individuato 2.500 posti disponibili per accogliere altrettanti immigrati in 93 diocesi italiane". Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha sventato l'ukaz ministeriale che concentrava e recintava nella palude di Coltano (Pisa) centinaia di migranti così da avventarli contro la gente del posto e, capolavoro, i residenti rom, offrendo di ospitare lo stesso numero di persone in strutture di località diverse e in gruppi di poche decine, e "senza filo spinato". Immagino che iniziative così ce ne siano tante e ignorate, a compensare gli smaglianti rifiuti di autorità varie di ogni latitudine - e specialmente delle più alte. Andrebbero censite e messe a frutto, tanto più di fronte alla disfatta di un modo di governo che si nutre propagandisticamente dell'emergenza e nell'emergenza vera soccombe.
Mettiamo dunque che io sia io, nei miei panni, e ciascuno di noi si metta nei suoi panni personali. La cosa ci riguarda? O pretendiamo che la nostra condizione di individui ci esoneri (e ci impoverisca) di una parte di responsabilità? Ci sono tutti questi esseri umani che si mettono in viaggio avventurosamente e dolorosamente in cerca di una vita migliore, che somigli un poco di più alla nostra.
Vedete, ogni discorso sull'immigrazione, sui profughi e sui viaggiatori (i "clandestini"!) che non rinunci del tutto alla nostalgia per una fraternità umana, viene tacciato subito di buonismo, cioè di una bontà di maniera. E messo a tacere dalla frase definitiva: "Prenditeli a casa tua!" La frase è cattivista, ma ha una sua utilità, e non è affatto imbattibile. Non solo perché ci sono molte persone che se li prendono, "a casa propria". Ma mi interessa che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi altri. Avere una casa propria, e "una stanza tutta per sé", è ancora un gran privilegio sul nostro pianeta, ma è anche una condizione preziosa di libertà e di civiltà. I privilegi, anche quelli che non implicano una soperchieria diretta sulla povertà altrui, sono a rischio. I nostri pezzi grossi si riempiono la bocca di parole tolte al loro contesto reale. Berlusconi ieri, Dio lo perdoni e non lo sentano a Sendai, ammoniva sullo "tsunami umano" che ci sta travolgendo; e in Tunisia sono entrati 200 mila profughi dalla Libia. Così è per la parola "invasione": "È una vera e propria invasione!". No, naturalmente. Non è un'invasione vera e propria. Ma le invasioni succedono davvero, sono successe al tramonto di altri imperi, e quando succedono, abbiano una ragione o no (se la fanno, una ragione), entrano senza bussare.
Finché dura, assottigliandosi, l'età del nostro privilegio, piuttosto che gridare "Fuori dalle palle!", conviene versare il nostro modesto contributo supplementare per l'usufrutto del metro quadrato che ci è toccato in sorte. Se non siamo tipi da spartire il mantello col povero che trema, e anzi per tenercelo, il mantello, regalargli un cappotto in saldo, prima che gli venga un'altra idea. Spendere qualche energia e qualche soldo in aiuti, prima di rovinarsi in guardie giurate. Ho detto che conviene: se poi ci riuscisse di farlo con una specie di gioia, sarebbe fantastico.
(02 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/02
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IL CASO
Se a Napoli arrivassero gli angeli della monnezza
di ADRIANO SOFRI
Immagino come un dopoguerra, un film di persone che scendano in strada a prendere ciascuna il proprio sacco di spazzatura e se ne rientrino in casa. Confronto la monnezza a Napoli col fango dell'Arno a Firenze nel 1966. Che cos'hanno in comune, direte, a parte l'impiego metaforico del termine alluvione anche a Napoli?
Che l'una fosse un disastro naturale e l'altra umano, non è così decisivo. Nel 1966 l'incuria umana trasformò un accidente naturale in disastro: a questi fiumi rovinosi si apprestino argini e ripari nei tempi quieti, diceva Machiavelli, in modo che l'impeto loro non risulti così licenzioso e dannoso. Oggi inettitudine e corruzione di umani danno alla monnezza napoletana la portata di una catastrofe naturale. Ormai è difficile che i grandi disastri avvengano senza un concorso di colpa - come a Fukushima.
Però là c'erano i libri, qua la monnezza. Infatti: sgombrare dall'una vuol dire far posto agli altri, in tutti i sensi. Si pretende che Napoli sia affare dei napoletani. A uno strano finale va avviandosi l'anniversario dell'unità d'Italia. Uno spiazzo padano in cui gridare Secessione. Una città del cuore (dell'aneddoto sul Cavour morente: "Questi nostri poveri napoletani...") che si vuol mandare alla deriva. Eppure è bella l'idea che l'atto finale delle celebrazioni del 150enario abbia a che fare col riscatto dalla monnezza, e vi metta mano ogni parte del paese. "Quand'è che si vota di nuovo?", chiede un giovane in una vignetta dei giorni scorsi. La buona volontà c'è, aspetta solo i varchi da cui passare. Si chiamarono angeli del fango, con una dose di retorica melensa, i ragazzi di Firenze 1966, che infatti aspettavano il loro varco. Verrebbero a Napoli, i loro coetanei d'oggi, a passarsi di mano in mano i sacchi di spazzatura, se solo ci fosse alla fine un posto in cui depositarli. Sarebbe bello che ci venissero lo stesso, così, per prendersi il loro sacchetto e tornarsene via, un altro modo per votare, e per dire che abbiamo capito alcune cose semplici. Che i commissariamenti governativi sono serviti a rendere perenne l'emergenza e i suoi guadagni, e a saldare un sistema Commissariato-Impregilo-Camorra. Che si pretende che i rifiuti non partano da Napoli alla volta di altre regioni e si scarica da anni una valanga di rifiuti speciali dal nord alla Campania. Che è davvero possibile raggiungere una percentuale oltre il 60 per cento di raccolta differenziata nel giro di mesi, e che ci sono riuscite Salerno e Portici e Mugnano, che non sono in Finlandia. E che l'impegno per lo sgombero della monnezza coincide con quello contro la camorra: per esempio, spiega Guido Viale, nella discarica vuota nel Casertano controllata dalla famiglia Schiavone. Una tipica situazione risorgimentale, no?
Se da 17 anni si è fatto in modo di perpetuare un'emergenza della spazzatura che danna l'intera vita economica e civile di una metropoli mediterranea ed europea, è evidente ora il desiderio di trarne una rivalsa nei confronti del bruciante risultato elettorale: qualcosa come il "cacerolazo" cileno del 1972. La nuova amministrazione napoletana è stata investita da un voto che indica un desiderio irruento e profondo di rinnovamento e di pulizia. Ha ereditato la montagna di rifiuti. È grottesco che l'eccesso di zelo di De Magistris sui "cinque giorni" (nella città, del resto, delle Quattro Giornate, e c'era ben altro da spazzar via), gratuito com'era, faccia da pretesto a un impudente rovesciamento di responsabilità, e che Berlusconi arrivi a dire che dovrà ancora pensarci lui. Sarà bene che ci pensiamo tutti quanti, e che i governi di regioni che hanno dichiarato la propria solidale disponibilità, e lo fecero già in passato, sentano il sostegno dei cittadini, e si vergognino quelli che ostentano il proprio egoismo. (Si rilegga il riconoscimento dell'ex sindaco Formentini su Milano invasa dalla monnezza e soccorsa dal Bersani presidente dell'Emilia Romagna nel 1995).
Chiunque, se gli chiediate che cosa associa al nome di Napoli negli ultimi anni, risponderà "la monnezza". Lasciategli un minuto in più, e gli verranno in mente altre cose. Un presidente della Repubblica, naturalmente. E il libro italiano di gran lunga più amato, Gomorra. Un altro libro esce ora, e così nettamente l'editore Sellerio lo presenta: "Era dal tempo della Lettera a una professoressa che non leggevamo pagine così emozionanti". Si intitola Insegnare al principe di Danimarca, l'ha scritto Carla Melazzini, racconta fatti e riflessioni di un'esperienza ardua e formidabile come quella dei maestri di strada del Progetto Chance, che raccolgono ragazzi "dispersi" della Napoli un tempo operaia di Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, oggi ribattezzata "il triangolo della morte". Scarti, quei bambini, che vengono ordinariamente smaltiti nel "Sistema". Quanta ricchezza contengano, e quali lezioni vengano sulla città e il nostro tempo dal punto di vista di chi si dedica a loro, è difficile da immaginare per chi segua, fra l'angoscia e il fastidio o l'abitudine, le cronache sui mucchi di monnezza. "Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l'intensità e la consequenzialità del principe Amleto?"
Non si fa letteratura in questo resoconto, caso mai la si traduce nelle cose: "Lessi in una classe le prime righe della Metamorfosi, poi chiesi ai ragazzi chi dei membri della loro famiglia, secondo loro, avrebbe accettato di prendersi cura del povero Gregor Samsa trasformato in un immondo scarafaggio. I maschi all'unanimità risposero "la mamma". Perché? Ovvio: perché "pure 'o scarrafone è bello a mamma soja". Il giorno dopo ero in biblioteca, si affaccia Gianni, il più piccolo e brutto della classe, chiedendo timidamente: "Professoré, lo tenete qui il libro dello scarrafone?"".
Scriveva l'autrice (è morta un anno fa, immaturamente): "Quando le nostre alunne vogliono significarci che non sono venute a scuola per poter fare i servizi domestici, fanno un ampio gesto col braccio che mima lo svuotamento a terra di un intero recipiente di detersivo... Lo sporco deve essere espulso, finché non ne rimanga traccia dentro la casa... La stessa ossessione espulsiva è vigente nei confronti di mosche e altri insetti, del sudore, degli odori (a questi ragazzi è difficilissimo far fare esercizio fisico, perché non tollerano di sudare). Gettano ogni cosa nello spazio esterno a sé. L'essenziale è che sia "fuori". Quelli per i quali l'essenziale è che i rifiuti siano "fuori" sono i diretti discendenti di quelli che con i rifiuti hanno coabitato per tanto tempo, che come rifiuti sono stati sempre trattati. Il ragazzo che dieci anni fa ci disse "spendite tanti soldi pè munnezza comme nuje!", aveva una casa luccicante di pulizia ed era, come gli altri, un consumista coatto. Successivamente ha fatto in modo di mettere in pratica il concetto che aveva di se stesso".
Di una rivoluzione ha bisogno, e però ha un'imprevista opportunità, Napoli, e noi con lei. Sgombrare la monnezza e imparare a riusarla non è che la premessa. Issarono un tricolore sul mucchio di spazzatura. In un certo senso, era una buona idea.
(28 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/06/28/news/se_a_napoli_arrivassero_gli_angeli_della_monnezza-18334812/?ref=HRER2-1#commenta
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GHEDDAFI
Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco
Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Ma hanno i cellulari.
di ADRIANO SOFRI
La guerra non è che la caccia all'uomo. E anche il più abominevole tiranno esce da sé quando è ridotto a un animale braccato e denudato, e costringe chi guarda da lontano alla vergogna e alla pietà. Le scene finali di Sirte sono immagini di caccia antica, la preda sbigottita e insanguinata, il branco sfrenato e invasato. Non l'hanno divorato, Muammar Gheddafi: è la sola differenza. Gli umani non cacciano per nutrirsi.
Quando finalmente Ettore si vergogna di fuggire e affronta Achille, deciso a uccidere o morire, lo invita al rispetto reciproco del vinto. Gheddafi non è certo Ettore, al contrario, un torturatore della propria gente, né la brigata di Misurata somiglia ad Achille (se non, forse, per quella olimpica protezione della Nato). Se ne fa beffa il furioso Achille, "ti divorerei brano a brano", dice, e lo finisce, e gli altri Achei accorrono e non ce n'è uno che non affondi il proprio colpo nel cadavere, e il vincitore gli fora i piedi e lo lega al carro e lo trascina di corsa facendone scempio.
Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. L'uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo:
e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topi il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini. Ci sono le foto di Misurata, il cadavere disteso, a torso nudo, lavato, e circondato da maschi in posa ciascuno dei quali brandisce il telefonino: e qualche ispirato artista contemporaneo, come lo Jan Fabre che ha messo alla Vergine della prima Pietà di Michelangelo la faccia di un teschio, avrà già pensato di rifare una Deposizione in cui Maria e le pie donne e Giovanni e Nicodemo tengano in mano un telefonino.
Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l'antiquato animale umano e l'ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la Nato e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n'è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall'alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l'odore della vendetta e della gloria.
L'odore della foto di gruppo è più forte dell'odore del sangue per il branco dei lupi. Non fanno il conto, in quel momento esaltante, esultante, dell'effetto che la scena farà più lontano, nel tempo o nello spazio. Il nemico giurato che ha ancora la forza di tirare su il braccio sinistro e pulirsi il sangue dal viso e guardarsi attonito la mano insanguinata e mostrarla anche a loro, sbigottito, come a dire "Guardate che cosa avete fatto" - pare che abbia detto cose simili, "Chi siete?", e "Perché lo fate?", istupidito dal corpo che cede e dalla vecchia abitudine a non capacitarsi.
Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possano essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri. C'è sempre un Cristo, un Hussein, nella memoria. Gli americani l'avevano capito, con Osama, e quel precedente modera oggi le loro deplorazioni. La differenza, più sottile di una carta velina, fra la barbarie e la civiltà sta nel processo; più esattamente fra il processo popolare, la gogna, i prigionieri neri legati alle canne delle mitragliatrici e trasportati in giro come trofei, e il processo regolare. Il quale, con tutte le ipocrisie che volete, ha intanto bandito la pena di morte, eppure si occupa dei crimini più feroci contro l'umanità, mentre certi Stati la tengono ancora per crimini di particolari. Per i ribelli terra terra, e per i grandi delle democrazie, il processo è ancora un lusso da donnette, o il peggiore degli imbarazzi.
Riguardate questi video, e chiudete gli occhi, perché l'audio è forse più terribile. Poi riguardate, e immaginate di leggere l'avvertenza: "Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità", prima di un canto dell'Iliade o di un passo della Bibbia. Deve tremare un mondo che tenga accanto così spaventosamente una tragedia arcaica - il tiranno e i suoi figli e la sua tribù e le fosse - con la sofisticazione di armi e comunicazioni e con la voglia di liberazione. Gheddafi era lui stesso al colmo di questa aberrazione, e l'ha passata di mano ai suoi sacrificatori, come l'orpello della pistola dorata. Naturalmente, bisogna andare avanti, provare ogni volta a ricucire gli strappi, capire. Ieri a Damasco si gridava già: "Ora tocca a te, Bashar".
(22 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/esteri/2011/10/22/news/carnefici_telefonino-23652478/
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IL DIBATTITO
Disporre della propria vita lusso supremo della civiltà
La decisione di Lucio Magri ci mette di fronte a vicende dolorose che non è possibile affrontare solo con leggi o regolamenti.
Teniamoci la contraddizione: la scelta è un bene prezioso ma se lo fa chi ami ti ribelli
di ADRIANO SOFRI
E DI NUOVO qualcuno, qualche specialista, ci ammonisce: "Non siamo padroni della nostra vita". "Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e riprendercela, "la nostra vita". Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa disperare e ribellare l'eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo: nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo improvviso, l'uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano perché torni di qua.
Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l'uno o l'altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C'è una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall'una o dall'altra fede, dall'esistenza o dall'assenza di una fede. Il suicidio assistito - prende un suono sindacale, come tutte le
formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato, spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant'anni, che era andato e tornato, è andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.
Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un'affinità fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all'insensatezza, dunque all'incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell'accappatoio, il fornellino del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento - immaginarlo, immaginarvisi - a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d'altri in quella ressa, per capire che cos'è un suicidio non assistito. Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela. Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà si rovesciano l'una nell'altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.
La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l'aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì un'epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell'illusione di non morire soli e non uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini", ndr.). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo e piena di mortificazione, o da un'anima vedova e spezzata, o dall'offesa di una bambina cui siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino all'ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano.
In ogni caso faremo di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, "Si sciolgono 15 grammi di pentobarbital di sodio in un bicchiere d'acqua...", non è cinica là e affabile qua, dove dev'essere spacciata di nascosto. È strana, la Svizzera, lo è proverbialmente. Ha le banche, i caveau, è neutrale e affarista. È terra di rifugio, neutrale e accogliente. Noi siamo, quanto a caveau, una Svizzera colossale, e quanto ad accoglienza, una penisola di piccole Svizzere clandestine, in cui si muore al nero. Certo la ricetta e la liceità dell'assistenza al suicida non tolgono il dolore, la disperazione e lo schianto. Immagino che anche in Svizzera una tromba delle scale possa attirare più che una bevanda antiemetica. Primo Levi era un chimico, avrebbe saputo come fare.
Voglio dire un'ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono spazzate e mietute all'ingrosso, senza riguardo all'età - anzi, con una predilezione per i giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare, e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino individuale. Améry, Levi... Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli sull'euro, su Durban, su Teheran, parlano d'altro, parlano di quell'antico anonimo mercato all'ingrosso delle vite e delle morti.
(01 dicembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/12/01/news/sofri_diritto_morire-25879004/?ref=HREC1-3
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