ADRIANO SOFRI -
Admin:
IL COMMENTO
La catastrofe del lavoro
La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione
di ADRIANO SOFRI
SE esistesse oggi un'Internazionale dei lavoratori, dovrebbe ammettere una catastrofe simile a quella che travolse la Seconda Internazionale nel 1914, quando le sue sezioni nazionali aderirono al patriottismo bellico, e i solenni principii andarono a farsi benedire. L'Internazionale non esiste e la crisi finanziaria ed economica non è (per ora) una guerra armata. La Seconda Internazionale era stata largamente partecipe dei pregiudizi e delle convenienze colonialiste: differenza minore, dal momento che lavoratori e sindacati dei paesi ricchi si sono guardati finora dall'affrontare il colossale divario con la condizione del proletariato dei paesi poveri.
La crisi, restituendo agli Stati un più forte intervento economico - senza per questo ridurre la sovranità delle grandi multinazionali - sospinge il lavoro salariato verso un rinnovato "sacro egoismo". Pomigliano ha reso clamorosa questa condizione. La Cina è vicina, e gli scioperi della Honda o della taiwanese Foxconn (e i suicidi operai) mettono in vetrina l'andamento da vasi comunicanti che Scalfari ha qui illustrato: gli operai cinesi rivendicano salari meno infimi e condizioni di lavoro meno infami e gli operai occidentali diventano più cinesi. Il punto però è che la nuova Panda ha messo in concorrenza diretta lavoratori italiani e lavoratori polacchi, cioè di due paesi dell'Unione Europea. E anche se una rilocalizzazione italiana dall'est europeo è inedita, come vanta Marchionne, è vero però che da anni la minaccia di trasferire la produzione in Ungheria o in Romania è valsa a far accettare nell'industria occidentale sacrifici di lavoro e salario non molto dissimili da quelli che si impongono a Pomigliano.
In Germania, la difesa dell'occupazione è costata, ben prima della crisi finanziaria, un forte allungamento dell'orario di lavoro a parità di salario - alla Opel da 38 a 47 ore! A Bochum, nel 2004, si trattò proprio di sventare il trasferimento in Polonia. In Francia le 35 ore erano legge, e sono un ricordo imbarazzato. Oggi, alla Opel, saturati i tempi, gli operai cedono - agli investimenti aziendali, a fondo perduto - una metà di tredicesima e quattordicesima, un mese di salario. Il ritorno a un protezionismo "nazionale" fu vistoso con il prestito offerto dalla Merkel alla Magna in cambio della salvaguardia dell'occupazione tedesca, violando le regole europee sulla concorrenza. Ma si tratta di una tendenza generale, di cui gli incentivi governativi alla Fiat furono un capitolo ingente. Sarebbe interessante sapere in quante fabbriche italiane (Fiat inclusa) condizioni di lavoro largamente simili a quelle imposte a Pomigliano sono già in vigore.
Se dunque non c'è una capacità, e neanche una vera volontà - a parte la lettera "di bandiera" di un gruppo di operai di Tichy - di animare una solidarietà europea, tanto meno ci si attenterà a immaginare una simpatia e un legame fra gli operai di Pomigliano e di Tichy e gli scioperanti e i suicidi di Shenzhen, i quali per giunta fabbricano (sono 400 mila solo alla Foxconn) componenti elettroniche per il mondo intero, e non un prodotto esausto come l'auto, sia pure la nuova Panda. Nel momento in cui accentua la sua internazionalizzazione, la Fiat "nazionalizza" gli operai di Pomigliano, con un ultimatum prepotente perfino nel tono. A sua volta, in un gioco delle parti di cui non è affatto detto che sia voluto - che Sacconi e Marchionne siano in combutta: anzi - il governo prende la sfida della Fiat a pretesto per l'abolizione dei contratti nazionali, la liquidazione simbolica della Costituzione, la sostituzione dei "lavori" ai lavoratori, delle cose alle persone. (L'autocertificazione per cui oggi si pretende di rifare la Costituzione, veniva garantita dal Capezzone quondam radicale in un progettino dal titolo "Sette giorni per aprire un'impresa").
La famigerata "anomalia" di Pomigliano è perciò largamente pretestuosa: serve a far passare per una cruna il cammello del conflitto sociale e dei diritti sindacali. Un precedente prossimo c'è, ed è l'Alitalia: anche lì era facile trovare le anomalie, e fare piazza pulita delle norme. Pomigliano è "anomala" dalla fondazione, come ha raccontato Alberto Statera, con la sua combinazione fra una maggioranza di operai venuti dalla campagna e da assunzioni clientelari, e una minoranza di reduci da altre fabbriche e lotte. Si raccontava, il primo giorno dell'Alfasud, che fossero entrati in fabbrica 3 mila operai, e ne fossero usciti 2.980, perché venti erano evasi durante l'orario di lavoro, avendone già abbastanza. Ma l'industria cinese, quella che fabbrica gli iPad, è fatta largamente di contadini scappati dai villaggi.
Un dirigente mandato da Torino al passaggio dall'Iri alla Fiat, nel 1986, avrebbe poi raccontato agli intimi Pomigliano in termini più coloriti del dialogo fra Chevalley e il principe nel Gattopardo. A Pasqua, si aspettavano una gratifica e un agnello. Il manager, magari anche per l'assonanza col nome della dinastia, provò a monetizzare gli agnelli. Uno sciopero lo costrinse a cedere in extremis. Al rientro dopo la festa lo sciopero riprese, e il dirigente costernato si sentì dire che l'agnello avrebbe dovuto essere vivo, e non macellato. Bisognava che prima ci giocassero i bambini. Sarà una leggenda. Anche sull'assenteismo e sulla camorra a Pomigliano corrono storie vere e leggende, utilizzabili a piacere.
Sarà vero che al direttivo provinciale di Cisl e Uil partecipano seicento dipendenti di Pomigliano? Marchionne deve saperlo, e non da oggi. Deve averci pensato almeno da quando ribattezzò la fabbrica col nome di Giambattista Vico, per riparazione: il più grande intellettuale della Magna Grecia. Non bastava un'intitolazione a passare dall'assenteismo alla scienza nuova, e nemmeno la deportazione dei cattivi a Nola. Ma appunto, il colore locale fa comodo a tutti, e anche a rovesciarlo in un ipertaylorismo - parola buffa, perché il taylorismo è iperbolico per definizione, e caso mai bisogna ridere amaro delle chiacchiere sulla fine del lavoro manuale e della fatica. I 10 minuti in meno di pausa - su 40 - la mezz'ora di mensa spostata a fine turno, e sopprimibile, lo straordinario triplicato - da 40 a 120 ore - e una turnazione che impedisce di programmare la vita, sono già un costo carissimo. Aggiungervi le limitazioni allo sciopero e il ricatto sui primi tre giorni di malattia è una provocazione o un errore, di chi vuole usare Polonia e Cina per insediare un dispotismo asiatico in fabbrica qui, quando la speranza è che l'anelito alla dignità e alla libertà in fabbrica faccia saltare il dispotismo in Cina.
Non c'è l'Internazionale, viene fomentata la guerra fra poveri, si fa la guerra ai poveri, questa sì dappertutto. Perché l'altra lezione venuta in piena luce grazie a Pomigliano è che la storia degli operai "garantiti" opposti ai "precari" era del tutto effimera, e i nodi sono al pettine, per operai e pensionati. Termini Imerese chiude, Pomigliano chissà, Mirafiori... Chi garantisce chi? Dei due modelli presunti - lavorare di meno o consumare di più - è destinato a prevalere, da noi ricchi, il terzo: lavorare di più e consumare di meno. Il "movimento epocale" di redistribuzione del reddito, invocato da Scalfari, va insieme a un cambiamento radicale dei modi di vivere e consumare (si chiamano, chissà perché, "stili": come se ci fosse stile in una coda di autostrada). Erano provvisori i "garantiti", siamo provvisori "noi ricchi" del mondo.
Questione di tempo, e l'economia va più svelta della stessa demografia. Prediche al mondo vorace che esce dalla povertà a spallate, perché non si ingozzi di automobili e telefonini come noi, non ne possiamo fare. Abbiamo dato l'esempio dell'ubriachezza consumista, possiamo solo provare a darne uno pentito, di sobrietà. Sbrigandoci.
(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/22/news/sofri_pomigliano-5043267/?ref=HREA-1
Admin:
LE IDEE
Noi uomini vigliacchi, rileggiamo Cuore
Il delitto di Milano e il segreto di Larsson ripropongono un'antica domanda: io che avrei fatto?
di ADRIANO SOFRI
HO L'IMPRESSIONE che fra i sentimenti un tempo campali - per i bambini che leggevano il libro Cuore e i ragazzi che leggevano Conrad - che oggi sono sbiaditi, abbia un posto dei primi la vigliaccheria, e la sua lunga compagna, la vergogna. Ieri questo giornale le ha misurate, senza volere.La pagina 19 raccontava l'orrendo mattatoio di una strada milanese, un forsennato che si imbatte in una donna e infierisce a pugni su lei, fino a sfondarle le ossa. "Lo vedono atterriti un paio di passanti, le auto gli sfilano accanto, la portinaia chiama aiuto ma nessuno...". La pagina 20 riferiva una testimonianza su Stieg Larsson e il "segreto inconfessabile" che avrebbe ispirato i suoi romanzi: quindicenne, assistette inerte allo stupro compiuto da tre suoi amici. "La ragazza urlava ma nessuno interveniva". Ora mettiamole nella stessa pagina, queste due notizie. Le differenze si vedono bene. Nella strada di Milano, gli spettatori che si tengono alla larga hanno tutte le attenuanti: sono paralizzati dalla sorpresa e anche dalla paura, e la paura è giustificata di fronte al furore di un energumeno che scarica i suoi pugni da boxeur su una creatura senza riparo. Nel sottoscala della Casa dello Studente di Umea in cui si consuma lo stupro, a fare di Larsson un complice è "la lealtà verso gli amici". L'odiosa "lealtà" del ragazzo maschio verso gli amici maschi è altra cosa dalla paura fisica, ma può rendere altrettanto e più vigliacchi, e attaccare addosso una vergogna senza fine. Non saprei parlarne per chi è ragazzo oggi, ma quelli della mia generazione e, temo, di altre a venire, conoscono bene questa situazione, anche se abbiano avuto la fortuna di sperimentarla in circostanze meno drammatiche, e la loro sia stata solo una piccola viltà, o, com'è più frequente, una successione di piccole viltà. Le piccole viltà sono più facili da rimuovere, ma basta un incidente a tirar fuori la vergogna, e senza sconti. Si diventa maschi - temo che succeda ancora - imparando a ingannare una femmina, fosse anche la "propria", e tradire lei per non tradire la banda degli amici.
In ambedue le pagine la vittima è donna. L'ammazzamento della signora Emlou Aresu incute un terrore sacro. C'è Milano, c'è una strada che si chiama viale degli Abruzzi, c'è un ucraino venticinquenne che teme d'essere lasciato dalla sua compagna, lettone, c'è una gentile donna, madre di due figli, venuta dalle Filippine a tenere in ordine case italiane, che sarebbe tornata nelle Filippine all'indomani, che - raccontano altre donne che la vedevano passare ogni giorno - "era sempre di fretta", e così, di fretta, è arrivata al crocevia fatale. Secondo le cronache aggiornate, quel furioso, una volta in manette e con le nocche ferite, avrebbe detto di aver "solo picchiato un filippino di merda". Può darsi che fosse accecato fino a quel punto. Sua madre però dice che era uscito di casa gridando: "La prima che incontro, l'ammazzo". La prima che incontro, è un'idea che spiega tutto, come nelle canzoni: sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai, d'oro o di cazzotti a morte, secondo il caso. Una donna, una qualunque, basta perfino una filippina di merda. I criminologi dicono che sono i delitti più inevitabili, quelli "casuali". Salvo che non è davvero casuale essere donna, e filippina per giunta.
Si corre il rischio di fare i maramaldi. Di deplorare i passanti che non sono intervenuti, i passeggeri dell'autobus che hanno guardato fuori dal finestrino mentre un'anziana signora veniva derubata e malmenata, i bagnanti che continuano a prendere il sole accanto al cadavere di un annegato. Noi uomini - appunto perché siamo maschi, e solo di rado siamo filippini - dobbiamo pur chiederci che cosa avremmo fatto, se ci fossimo trovati lì. A volte, come per l'episodio del Larsson adolescente, può darsi che lì ci siamo trovati, e che dobbiamo solo ricordarcene. I romanzi venduti a milioni di copie servono a eludere la questione: riguarda altri, personaggi romanzesche. Anche la vita vera riguarda altri, salvo che ci venga addosso, "proprio a noi", come una disgrazia. In genere, non facciamo che scongiurarlo, e scansarci più che possiamo. E quando succede, e non ci si può scansare?
Naturalmente, io non so affatto come mi sarei comportato se mi fossi trovato in viale degli Abruzzi al cospetto di quel prolungato massacro. So che temo fortemente che sarei stato vile e comunque inetto, che avrei avuto paura e che magari avrei escogitato nomi pretestuosi e meno mortificanti per la mia paura. Oltretutto, c'è una differenza fra scegliere coraggio o dignità quando si abbia il tempo di riflettere e decidere, e quando d'improvviso si sia messi alla prova. La verità è che succede a tutti, tutti i giorni. E che si è perduta l'abitudine di farsi la domanda su se stessi: "Che cosa avrei fatto...?". Ogni anno, l'11 luglio, ci si ricorda - chi se ne ricorda - della strage genocida di Srebrenica. Quest'anno era il quindicennio. Ogni volta si ritorna in quel luogo del delitto immane, tra le fosse di migliaia di trucidati, si racconta di nuovo l'empia malvagità dei carnefici, il generale Mladic che dà un buffetto a un bambino atterrito davanti alle telecamere, le donne separate dagli uomini e cacciate, gli uomini sterminati e buttati nelle fosse. E si racconta di nuovo l'infamia di ufficiali e soldati olandesi con le insegne delle Nazioni Unite, che non hanno mosso un dito per impedire la strage e anzi hanno accolto gli assassini e hanno brindato con loro e hanno collaborato a radunare le greggi dei rifugiati che avevano il compito di proteggere, aspettandosene, o fingendo di aspettarsene, che servisse a sventare il peggio. Il governo olandese, a distanza di anni, pagò con la caduta quel disonore. Dopo qualche anno ancora - nel dicembre 2006 - il ministero della difesa olandese assegnò ai 500 reduci del battaglione cui era commessa la difesa di Srebrenica una medaglia, per compensarli delle accuse di cui avevano sofferto.
La viltà all'ingrosso degli Stati e delle potenze attraversa i tempi, e si è trovata anche lei nomi cattivanti, Ragion di Stato o Realpolitik, e medaglie larghe abbastanza da coprire la macchia rossa di vergogna sul petto delle uniformi. Poi ci sono le persone. A ciascuno di noi, specialmente se ha appena finito di commemorare Srebrenica e di dedicare il suo sarcasmo a un ministero olandese, o di commentare l'orrenda storia dell'altroieri a Milano, vien fatto di chiedersi: che cosa avrei fatto se fossi stato un ufficiale olandese, un passante a Milano? È la domanda che si fa chi legge Primo Levi, soprattutto se è un ragazzo e non è ancora indurito, la domanda per cui Primo Levi e altri che erano tornati da lì non vollero più vivere. C'è una differenza fra le tante, i cinquant'anni che separano Auschwitz da Srebrenica. Le cose infatti continuano a succedere. Si possono ascoltare molti consigli, e andare in palestra, e portare non so quale spray nella borsetta. Però non mi sembrerebbe inutile che i bambini e i ragazzi leggessero qualcosa che somigliasse al libro Cuore o a Lord Jim. O anche alla storia del giovane uomo maschio che si trovò a passare proprio nel punto in cui stavano per lapidare un'adultera.
(08 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/08/news/noi_uomini_vigliacchi_rileggiamo_cuore-6147135/?ref=HREC1-4
Admin:
IL CASO
Quella foto del bimbo pakistano simbolo dell'orrore dimenticato
Lo scatto che ritrae due fratellini coperti di mosche ha risvegliato le coscienze sull'emergenza delle alluvioni.
Sembra un quadro, ma è la drammatica realtà: quella di una crisi di fronte a cui il mondo ha chiuso gli occhi.
Cosa facciamo davanti a questa foto?
di ADRIANO SOFRI
La prima cosa che si pensa - no, viene prima di pensare: la prima cosa che si spera - è che sia un fotomontaggio, o una di quelle escogitazioni che prendono il nome di arte, che qualcuno abbia sparpagliato manciate di mosche finte a macchiare il quadro coi bambini e il pavimento di fango e stracci sul quale sono sdraiati. Poi ci si forza a guardare, l'insieme e i dettagli. L'insieme colpisce tanto più perché è una "bella fotografia", dalla composizione geometrica, le due teste accostate in primo piano, di cui si capisce che sono di bambini vivi, perché uno è attaccato al biberon, sia pure senza sollevarsi, l'altro punta il braccio destro al suolo, benché anche lui senza tirarsi su. Il biberon è vuoto. Ce n'è un'altra bottiglietta, di plastica, vuota anche quella, per terra un po' più in là. Sul biberon ci sono davvero le api finte, e uno scorcio di scritta che dice: Honey. È geografia, serve a misurare la lontananza. I due bambini in secondo piano dormono e senza il confronto coi due del primo piano sembrerebbero senza vita, avvolti alla rinfusa negli stracci. Perfino i colori sembrano sapienti, con la simmetria di rossi nella metà a sinistra di chi guarda.
Chi ha guardato per primo e fotografato questo quadro si chiama Mohammad Sajjad, deve aver avuto, subito prima, o subito dopo, l'impulso di cacciare quelle mosche, che del resto non si lascerebbero intimidire da un'intera armata. La fotografia, scattata il 31 agosto e distribuita dall'AP, ha fatto il giro del mondo, Internazionale l'ha pubblicata da noi a doppia pagina, il Guardian l'ha messa ieri in prima e la sua inviata, Rania Abouzeid, ha rintracciato i bambini e la loro famiglia. Sono scampati alle inondazioni che hanno infuriato sul Pakistan per più di un mese, come altri milioni, decine di milioni di sfollati. Vengono dal circondario di Peshawar, si sono accampati a un bordo di strada ad Azakhel, affiancano le auto che passano di lì e chiedono qualcosa. Questa famiglia, la madre Fatima, il padre Aslam Khan e i loro otto figli - i due in primo piano nella foto, Reza e Mahmoud, hanno due anni e sono gemelli - non sono nemmeno pachistani, ma profughi afgani, dunque scampati una volta alla disgrazia degli uomini e un'altra a quella della natura, e stanno ancora più indietro nella fila lunghissima degli infelici che tendono le mani. Ora stanno morendo di fame. "E' un mese che non hanno latte", dice la madre. Scrive la giornalista: "Quando l'abbiamo trovato, Reza era ancora attaccato allo stesso biberon. Era ancora vuoto". Prima Aslam viveva andando in giro in bicicletta a vendere pollame. Ora, attorno e dentro una tenda di fortuna, senza nessuna organizzazione umanitaria che gestisca il piccolo accampamento, senza acqua né soccorso sanitario, umani e altri animali sopravvivono nella sporcizia comune e le mosche la fanno da padrone. Per cacciarle, Fatima ha solo un ventaglio di foglie di bambù. E ha poco tempo e forze da spendere a far guerra alle mosche.
Gli stracci che si vedono nella fotografia sono tutto il loro patrimonio. Reza ha una maglietta stinta con la scritta "Apples", lettere dell'alfabeto latino, e dei disegni forse di farfalle. Nell'altra fotografia, scattata per il Guardian da Jason Tanner, ha una maglietta stinta con la scritta grande "Levi's". Tutti gli stracci sono firmati al mondo d'oggi, e anche i biberon vuoti sono colorati e allegri. La maglietta rossa del suo gemello lo copre solo fino alla pancia e ha uno strappo accanto alla cucitura. Le mosche sembrano disposte caoticamente, è probabile che si addensino e distribuiscano seguendo la sporcizia e gli umori.
I biologi chiamano commensalismo la vita comune di due esseri viventi in cui uno si ciba degli scarti dell'altro. Le mosche domestiche sono commensali dell'uomo. Queste, stanno addosso ai bambini, senza nemmeno curarsi di volare, come se i bambini stessi fossero scarti. Hanno ragione loro, hanno capito tutto? Nei giorni scorsi si è discusso, a proposito di un'idea di Hawkins, se Dio esista o no - davvero - ed eventualmente se non possa darsi il caso che Dio esista, ma non abbia creato il mondo. Non abbia creato i bambini, le inondazioni e le mosche.
Questa fotografia ha fatto un gran viaggio e ci ha portato addosso, alla distanza di un giornale tenuto fra le mani, di uno schermo di computer, i bambini Reza e Mahmoud e i loro fratellini e la miriade di mosche che li copre e s'insinua dentro gli occhi e le bocche. Non siamo più abituati a questa vista: ai bambini scartati sì, magari, succede anche in qualche greto di fiume nostro, ma alle mosche no. La carta moschicida è vietata da tempo, da noi, per ragioni igieniche. Così, benché ci sia arrivata così pericolosamente vicino, la fotografia dei bambini - la fotografia delle mosche - è destinata a tornarsene alla sua tenda di afa dolore ed escrementi. Da noi, un'immagine così la potremo trovare in qualche biennale, facsimili di bambini da esposizione o bambini veri, mosche vere o facsimili, perché bisogna pure che gli scandali avvengano, o almeno i facsimili di scandali.
Guardate: mentre scrivevo questo, mi sono interrotto due o tre volte per cacciare una mosca che mi volava fastidiosamente attorno, finché me ne sono accorto, e mi sono detto che quel gesto distratto avrebbe spiegato più del mio articolo e di altri diecimila. Mi sono anche ricordato dell'aneddoto su Giotto ragazzo, che dipinse di nascosto su un'opera di Cimabue, suo maestro, una mosca, e Cimabue cercava di cacciarla via.
(07 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/09/07/news/la_foto_di_reza-6817715/?ref=HRER2-1
Admin:
COMMENTI
L'abuso di potere/10
di ADRIANO SOFRI
Rovesciamo il tavolo. La versione della difesa è memorabile. C'è un uomo buono, e una ragazza - mille ragazze - sventata.
Ha, ancora per poco, gli occhi coperti per legge. Ma il potere risiede sulla punta dei suoi seni. La ragazza approfitta dell'uomo buono, del suo affetto indefesso e prodigo. È un abuso di potere. Noi uomini capiamo. Scuotiamo la testa, deploriamo la nostra debolezza paterna, ci diciamo che valga da lezione: alla larga dal potere che nasce dalla punta rosata dei seni, che ci taglia i capelli durante il sonno e ci vende inermi al nemico.
Sarebbe bello, eh? Le puntate precedenti hanno riportato l'abuso di potere al suo significato essenziale, prima (e dopo) qualsiasi fattispecie penale. Il potere insidia pressoché ogni relazione, e l'abuso tenta pressoché ogni potere. Il rapporto fra uomo e donna è segnato dal principio da una disuguaglianza di potere. L'espressione lusinghiera e disgustosa, "un uomo di potere", può estendersi, salvo complicazioni, a qualunque uomo nei confronti di qualunque donna. La storia universale spalleggia l'uomo che si aggiusta il nodo della cravatta preparandosi a fare la sua offerta. La complicazione sta nell'esistenza di uomini che vi si sottraggono per indole o per consapevolezza (rari) e di donne che vi si rifiutano fino alla ribellione, meno rare.
Alcune società rendono impervia la ribellione delle donne e la schiacciano ferocemente, facendo della forza pubblica la garante e complice della prepotenza patriarcale. Altre società imparano a favorirla, e lasciano progressivamente soli gli uomini che se ne sentano offesi e sopraffatti, e non di rado reagiscono esercitando la loro bruta forza privata. Se questo è vero, e una sproporzione di potere e una tentazione di abusarne accompagna in modo che vuol apparire naturale la relazione fra uomo e donna, figurarsi la relazione fra una ragazza di diciassette anni in fuga da famiglia, carta d'identità a rischio e clausura in comunità, e il vecchio uomo più ricco e potente del reame.
È la favola di sempre mutata in caricatura grottesca. Il rospo bacia la bella e resta rospo, la bella finisce in questura fra la sezione furti e la buoncostume. Questa smisuratezza misura la miseria della questione. Non è infatti il signor B. a unirsi per una sera o due alla signorina R.: è l'ammontare del patrimonio intestato al signor B. ad afferrare il giro di vita della signorina R., farle fare un paio di piroette e rimetterla in strada con la mancia. Il signor B. è una funzione del suo reddito - e, in addizione, del suo rango, cioè il filmino in cui racconta quella dell'ebreo e dell'orso a un re e gioca allo schiaffo del soldato con un imperatore, da mostrare alle signorine all'acme della nottata - dunque è altrettanto triste e mortificato del ragioniere che materialmente gli prepara le buste a tariffa differenziata, nottata dietro nottata, e chissà che vita fantastica e sessuale ha il ragioniere, e su lui sì che un Gogol contemporaneo saprebbe scrivere un romanzo immortale (Nikolaj Gogol', il romano, non Google, l'americano), sul signor B. non ci proverebbe nemmeno il signor Balzac.
Ora, in questa spropositatezza - una pretty woman cui invece di Richard Gere è toccato il nostro, e invece del delizioso direttore d'albergo Hector Elizondo è toccato un malinconico caposcorta scampato al Copasir - è facile immaginare che alle ragazze novissime che sognano il casting istigate dalle novissime mamme (ma già Anna Magnani in Bellissima, 1951: però lei alla fine s'incazza forte) giri la testa e batta il cuore. Macché. Non gli batte il cuore, si direbbe. Vanno lì e già nei furgoni si dicono che bisogna fotografare più che si può, un giorno potrebbe tornare utile. Si direbbe che non si innamorino del signor B. Già: provateci voi. Innamoratevi voi del signor B., o del signor Lele M. Provano un trasporto per i suoi record - al governo, nelle televisioni, nella classifica dei redditi - e sanno distinguere fra i record e lui. Abusano di lui? In un certo senso.
Si potrebbe perfino compiangere la sorte di B., poiché tutto quello che tocca diventa euro e gli si ritorce contro. Ma non si può, non si riesce, non ancora, almeno. Forse fra poco, quando la muta di cani che divorano le briciole sotto il suo letto gli azzannerà le mani e scodinzolerà all'ufficiale giudiziario. Per ora lui sta completamente al gioco, convinto di poterselo permettere, di potersi pagare tutto, dunque permettere tutto. Ha rinunciato a essere amato, gli servono i surrogati, qualche piccola folla che applauda di giorno, qualche comitiva di femmine di notte, che facciano marchette ma, mi raccomando, non lo dicano a voce alta. Le ragazze pensano di usarlo, lui sa di abusarne. Poi non esita a dichiararsene vittima, della malavita o della ragazza R. che, sleale, gli ha fatto credere di essere maggiorenne e, dettaglio immortale, nipote di Mubarak. (In tutta questa storia nessuno ancora ha chiesto al signore o alla signora Mubarak - la zia - che cosa ne pensino; e nemmeno ai padri pachistani che sgozzano la figlia adolescente che vuole decidere della propria capigliatura, o agli sventurati padri italiani marescialli che la sparano, la figlia tredicenne, perché va su Facebook.
Voglio proporre un confronto, per spiegarla bene la cosa, com'è davvero. Prendete il vecchio pensionato vedovo accudito da una badante o relegato a un ospizio cui si faccia sposare un fiore di ragazza bielorussa, così, per darle la cittadinanza e magari anche una reversibilità pensionistica. Uno di quei matrimoni combinati per denaro o per raggiro. Il vecchio pensionato ne avrà in cambio, chissà, un bacio sulla guancia da lei al momento della cerimonia, prima che i suoi papponi la portino via ridendo. Oppure prendete un uomo italiano anziano e benestante che vada a comprarsi un fiore di ragazza romena e se la porti in casa, vitto e alloggio e magari qualcosa da mandare ai suoi, in cambio di tutti i servizi, e con la corda corta, e se la tirasse troppo, botte. Chi abusa di chi?
Ecco, il signor B. è anche lui benestante, ma molto di più, al punto che di questi matrimoni in saldo può permettersene una dozzina per notte, un numero di cellulare per certificato nuziale, il ragioniere che prepara la busta di liquidazione e la mattina dopo chi s'è visto s'è visto. Turismo sessuale, senza muoversi da Palazzo, parità da un milione a zero, furgoni che vengono furgoni che vanno. Avevo un amico tanti anni fa, operaio alla Dalmine, voleva far presa su una ragazza di fuori in una sala da ballo, le disse che si chiamava T. di nome e Dalmine di cognome. Non sapeva che era un paese. Figurarsi se vi chiamate davvero Dalmine. Lui però era un bel ragazzo.
Veniamo al punto. La volgarità è sempre esistita, e siamo in tanti, noi uomini, a essere vissuti molto al di sopra delle nostre possibilità, in fatto di donne. Zeus l'immortale, altro che centovent'anni, e la sua immortalità la portava benino, si tramutava anche lui in una volgarissima pioggia di euro per prendersi senza precauzioni la disgraziata Danae, e la ingravidò, e non doveva aver raggiunto nemmeno lei la maggiore età. Ma la scoperta, salvo errore, che questi stuoli di signorine restano attaccate al signor B., o se lo vendono alla prima telecamera, ma comunque non si innamorano di lui - e vorrei vedere - ha una portata più generale. Ha a che fare con la persuasione, ennesimamente ripetuta, che B. sia "in sintonia col paese", che la gente si riconosca in lui, che "gli italiani" siano fatti così, che ogni scandalo rafforzi lo zoccolo durissimo dei suoi amatori e invidiatori. Non ci credo, non più, non abbastanza.
B. era la malattia, ma ha cominciato a diventare il vaccino. "Gli italiani" non possono dividersi fra amanti della Costituzione e amanti della prostituzione. È di ieri la mirabolante riforma prostituzionale che vuole toglierle dalla strada e confinarle a Palazzo. E non c'è stato nemmeno bisogno dei due terzi dei voti, né della doppia lettura parlamentare. Un potere madornale, un abuso madornale. Se la ricorderà, il signor B. quella famosa barzelletta che, riadattata, suona così. "Papà, il signor B. è fatto come noi?" "No, mooolto di più".
(07 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/07/news/sofri-8834437/
Admin:
IL COMMENTO
Il permesso di manifestare
di ADRIANO SOFRI
IL GOVERNO annuncia un pugno più duro con le manifestazioni politiche, a cominciare dalle prossime degli studenti e degli universitari. Il governo non si risparmia. Fa le veci del Parlamento. Fa le veci della magistratura, si impegna all'unisono, interni e giustizia, a spiegarle che i ragazzi fermati vanno tenuti in galera. Si profonde in avvertimenti sul ritorno del Sessantotto e degli anni di piombo. Dal'45 al Sessantotto erano passati 23 anni. Dal Sessantotto a oggi 42. I "ragazzi" di oggi, dai 41 anni in giù, sono nati dopo il Sessantotto, e dai 40 in giù dopo lo sbarco sulla luna.
Che studenti ricercatori operai vadano sui tetti al governo sembra seccante, ma fino a un certo punto. Da lì possono solo scendere, o buttandosi di sotto, e non c'è problema, o dalle scale, e basta aspettarli e rimetterli al loro posto. Che dai tetti scendano nelle strade e le riempiano e tornino ad avere insieme obiettivi definiti e un'ispirazione generale, che ripudino una presunta riforma e non ne possano più di un'intera idea del senso della vita, questo il governo non può sopportarlo. Il governo ha tutto il potere, e lo venera come un sacramento, il Parlamento è un incidente sempre più superfluo, giustizia e stampa (non servili) cerimonie fastidiose, le polizie - quando non manifestano a loro volta contro il governo - un privato servizio d'ordine.
La cosa è culminata - per il momento - nell'invenzione del Viminale: l'estensione del Daspo alle manifestazioni politiche - cioè alla politica. Essendo le manifestazioni politiche appunto il modo di manifestarsi della politica, la proposta vale né più né meno all'esonero di polizia di un certo numero di cittadini - "ritenuti pericolosi" - dalla politica, e dunque, per completare il giro di parole e di fatti, dalla cittadinanza. Ascoltare la trovata e sorridere - o ridere francamente - è fin troppo facile. "Li vogliamo vedere, a decidere chi può partecipare a un corteo o a un comizio, e poi a impedirglielo". Ma il bello delle trovate reazionarie sta proprio lì: che vengano sparate nonostante la loro enormità, anzi, grazie alla loro assurdità. Gli anziani si ricorderanno le polemiche roventi sulle leggi d'eccezione e il fermo di polizia. Ma il fermo di polizia, anche il più arbitrario per durata e modalità, pretende almeno di far seguire l'arbitrio a un reato commesso. Qui il fermo ne precede la presunzione, vagheggia una legislazione dei sospetti. Alle manifestazioni politiche possono partecipare solo i buoni cittadini: i cattivi no. Chi sono i cattivi? Quelli che, se si permettesse loro di partecipare alle manifestazioni politiche, si comporterebbero male. Logico, magnifico. Vengo anch'io. No tu no. E perché? Perché no. Il Viminale non vuole. Per il nostro bene.
L'idea del Daspo politico è così genialmente ministeriale da lasciare ammirati e senza parole. All'inizio; poi le parole vengono, altro che se vengono. Una volta che vi siate informati su che cos'è (è il Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, scritto così) perché non applicare il Daspo anche agli accessi alle Autostrade Italiane? Ho appena sentito dalle autorità preposte che la colpa di ieri è degli automobilisti sventati che sfidano la sorte senza attenersi alle raccomandazioni dei cartelloni stradali ("catene a bordo" eccetera: anche in treno?). Dunque Daspo ai caselli. Manifestanti o automobilisti, basterà dotare le polizie (e le forze armate, per la sinergia) di un elenco dei facinorosi, da compulsare al momento della loro discesa in strada. Del resto, diciamocelo: elenchi così ci sono già, pubblici e privati.
Per le incombenti manifestazioni studentesche basterà disporre di un primo catalogo approssimativo: due o tre milioni di nomi e cognomi. Del resto, avvenne già. Anzi, geniale com'è, l'idea ministeriale rischia di essere troppo modesta rispetto ai precedenti classici. Fascismo o "socialismo reale" non sapevano forse assicurare l'ordine pubblico e lo svolgimento ordinato delle libere manifestazioni, piuttosto che con la bruta repressione, con una accurata azione preventiva (di igiene, vorrei dire, ora che questa sintomatica parola - "la guerra, igiene del mondo" - è stata rimessa all'onore del mondo stesso)? Andando più per le spicce, quei regimi non si limitavano ad applicare un Daspo antemarcia ai sospetti dissidenti per le eventuali loro manifestazioni pubbliche, ma per le proprie. Alla vigilia delle quali gli oppositori, meticolosamente schedati senza bisogno di computer, quando non fossero già al sicuro in galera o al confino, venivano arrestati o consegnati agli arresti a domicilio. E la piazza delle manifestazioni di regime ne risultava sgombra dal rischio di incidenti: igiene, appunto, piazza pulita di rivoltosi, violenti e altri rifiuti organici.
Si applichi dunque il Daspo alle manifestazioni politiche, ma se ne escludano le manifestazioni di opposizione al governo - non occorre vietarle, basta abolirle - e lo si applichi rigorosamente a quelle del Pdl, della Lega e delle forze loro alleate e genuinamente fasciste, dai cui paraggi saranno allontanati i membri dell'Elenco Facinorosi, e concentrati per il tempo necessario alla sicurezza collettiva e all'ordinato esercizio del diritto di manifestazione - 36 ore minimo - fra Incisa Valdarno e Firenze Sud. A bordo. In catene.
(19 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/19/news/sofri_commento-10378340/?ref=HREC1-3
Navigazione