ADRIANO SOFRI -
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L'ANALISI
L'occasione di Emma
di ADRIANO SOFRI
ROMA - Emma Bonino può essere un'ottima candidata di bandiera o una felice occasione per il Pd e l'insieme dell'opposizione.
Le buone bandiere sono un premio di consolazione, in una stagione sconsolata: ma sarebbe ora di tornare a cercare, almeno nelle elezioni, risultati veri. Ricapitoliamo ? che non vuol dire torniamo a capitolare. Alla leadership del Pd sta a cuore un'alleanza con l'Udc. È una prospettiva che ha i suoi costi "a sinistra", se dia per perduto un vasto e ormai frantumato elettorato, e un'altrettanto vasta astensione, ma ha una sua logica politica. Anche così ha i suoi ostacoli. Il primo, di procedere verso la liquidazione del famoso bipolarismo: ma si può obiettare che essa è già abbastanza un fatto compiuto. Il secondo, che l'Udc si tiene le mani libere, sicché il Pd, col suo (augurabile) 30 per cento, farebbe da vaso di coccio tra ultimatum di Casini ed esazioni di Di Pietro.
In Puglia, il Pd ha tutto il diritto di volere un proprio candidato, e di sceglierlo in funzione dell'accordo cercato con l'Udc. Ma non ha né il diritto né la ragione di imporre un veto alla candidatura di Vendola, che è il presidente uscente, e che lo diventò vincendo un'ardua sfida primaria e un'altrettanto ardua elezione. Una elementare regola avrebbe suggerito di misurarsi con la candidatura di Vendola in primarie aperte. Non lo si è voluto fare, e questo impedisce di imputare a Vendola una responsabilità di guastatore personalista. Peggio, si è insistito per candidare Emiliano, sindaco di Bari. L'idea di privarsi di uno stimato sindaco per candidarlo alla regione, e di correggere per giunta la legge che condiziona la nuova candidatura alle dimissioni dalla vecchia carica, è abbastanza scandalosa. Davvero un partito come il Pd e una coalizione di centrosinistra non trova altre o altri candidati degni se non in chi già occupa una carica importante?
Una simile ammissione di angustia si sarebbe ripetuta nel Lazio, dove il Pd puntava sullo stimato presidente della provincia, Zingaretti. Il calcolo era decisamente azzardato, tanto più nella regione reduce dalle elezioni romane in cui la staffetta ripetuta fra Veltroni e Rutelli finì nel disastro che sappiamo. E che può misurarsi senza alcun sarcasmo, ma sì con amarezza, nella situazione attuale dei protagonisti di allora: appartato Veltroni, in un altro partito Rutelli. Se Zingaretti avesse accettato (o ancora accettasse, non so: ma si mostra persona lucida e responsabile con chi già lo votò) di candidarsi, il rischio concreto sarebbe stato di perdere in un colpo regione e provincia, e andare in convento. Ma anche a non voler paventare un esito simile, e a ostentare un'implausibile audacia, restava il messaggio dato a tutti i cittadini: che per trovare un candidato degno il Pd lo debba spostare dalla carica importante che già ricopre. Messaggio inosservato, tale è l'agonia dello spirito pubblico: ma ci si fermi un momento a pensarci, in un paese di sessanta milioni, in regioni di milioni di uomini e donne, e passano per candidabili solo due o tre uomini già intronizzati ? e donne niente.
A questo punto viene la candidatura di Emma Bonino. Dire le sue virtù è imbarazzante, dato che sono diventate proverbiali come un necrologio anticipato. Il centrodestra ha in Lazio una candidata brava e popolare e, scaramucce di fuoco amico a parte, ha nelle vele il vento della disavventura di Marrazzo (e della sciagura delle sue incolpevoli amiche). Emma Bonino è capace, come e più di Renata Polverini, di consensi trasversali, e tuttavia ha fornito una prova rigorosa di fedeltà alla parola data tanto nella disgraziata legislatura precedente, da ministro, quanto nella attuale, da parlamentare radicale nel gruppo del Pd e vicepresidente del Senato. Il Pd ha ritenuto per lo più di dare questa fedeltà per dovuta e scontata, e di trascurare il confronto e perfino le buone maniere nei confronti degli alleati radicali, che spesso le sparano grosse ma stanno ai patti, a differenza di altri alleati.
Eletto segretario, Bersani andò al congresso dei radicali italiani e diede prova di attenzione e di una spiritosa affabilità. Oggi, facendo di Emma la candidata propria ? e passando serenamente dalle primarie, perché ci sono altre proposte, da Renato Nicolini, il cui pregio sta, e non sembri una battuta, in una specie di diritto acquisito a non essere preso sul serio, a Loretta Napoleoni, e agli eventuali altri ? il Pd mostrerebbe di impegnarsi a vincere le elezioni regionali, e caso mai a perderle limpidamente, e a rinunciare a farne un paragrafo della trattativa tattica con l'Udc o chissà chi altri.
Tattica sofisticatissima, dal momento che l'Udc ha una ferma predilezione per la candidata del centrodestra e soprattutto una vocazione a fissare veti politici e personali.
Differenza che Emma Bonino fa bene a sottolineare, non avendo lei veti da imporre, e perciò non amando di subirne. L'inclinazione di Bersani per la concretezza va condivisa, e suggerisce di preferire, in un territorio come le elezioni dove, a differenza che nella vita quotidiana, quello che conta non è partecipare, l'efficacia all'orgoglio di bandiera. In Piemonte, dove la partita è tra il candidato della Lega e Mercedes Bresso, la lista dei radicali italiani si apparenterebbe a quella della presidente uscente del Pd. I radicali farebbero bene a rinunciare a una concorrenza di richiamo nella Toscana di cui leggermente si dà per eterna la prevalenza del centrosinistra. La Toscana ha in Enrico Rossi un candidato autorevole, provato dalla fattiva responsabilità della sanità regionale fra le migliori, se non la migliore, in Europa, che si mostra aperto alle persone e alle loro idee, se ne hanno, Oliviero Toscani compreso. Nel Lazio, Emma Bonino, finora candidata della lista Bonino-Pannella, può diventare la più forte e competente concorrente alla presidenza della Regione. È un passaggio che dipende solo dal Pd, e sarebbe bello che il Pd la facesse dipendere solo da se stesso.
© Riproduzione riservata (07 gennaio 2010)
da repubblica.it
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IL COMMENTO
Quando il capo non sa vedere
di ADRIANO SOFRI
PRIMO: non infierire. Ma come si fa? Mettiamola così: ci sono due buone notizie. In Puglia si sono svolte le primarie con un'adesione sentita, e finalmente abbiamo il candidato. A Bologna il sindaco si è dimesso, che è proprio la cosa che andava fatta. Tutto bene, dunque.
E ora facciamo due chiacchiere. Bersani ha ribadito lealmente il sostegno del Pd a Vendola, caldo di una così larga investitura.
E ricapitolando - mi viene sempre questo verbo, mannaggia - le ragioni dell'impegno per Boccia, ha ribadito il proposito di guadagnare adesioni fuori dai confini della sinistra, dentro i quali invece è destinata a restare la candidatura di Vendola.
Una prima obiezione possibile riguarda la riduzione della ricerca di consensi cosiddetti moderati all'alleanza con l'Udc. Tanto più quando non ci si misuri con tempi tagliati e fronti uniti, come sarebbe stato se Berlusconi avesse imposto elezioni politiche anticipate. L'obiezione maggiore è un'altra: e cioè che i dirigenti del Pd commettono un serio peccato di appropriazione indebita quando parlano del "proprio" elettorato, dei "proprii" suffragi già acquisiti e bisognosi di allargamento.
Non mi riferisco tanto agli elettori che si sono presi da tempo una libera uscita dalle fedeltà di schieramento. Mi riferisco piuttosto alle persone, ancora tantissime, che si sentono tuttavia fedeli a un ideale, o almeno a un'idea, di sinistra e di democrazia, e stentano a riconoscerla nel Pd. Persone che dirottano il loro voto sulla costellazione di partiti e movimenti che affettano un'intransigenza eroica, o lo conservano al pulviscolo di etichette che furono già della sinistra malamente detta "radicale" e diventata extraparlamentare, dai verdi ai comunisti, o, più consistentemente, decidono che non voteranno più, con uno spirito amaro o punitivo.
Si faccia un conto, come suggeriscono i politici "esperti", e ne risulterà una somma di voti superiore a quella promessa dall'alleanza con l'Udc. Il saldo diventa più allarmante se si consideri la disaffezione crescente dentro la base che si definì un po' rozzamente "lo zoccolo duro" (formula non così distante da quella borsistica del "parco buoi", e non per caso). Ogni volta che i dirigenti del Pd fanno appello alla necessità di andare oltre i "propri" elettori, stanno ingannando se stessi. Frughino bene: hanno le tasche bucate. Ognuno dei voti che presumono "loro" va riguadagnato. E non al prezzo di un sovrappiù di irresponsabilità, di rinuncia all'intenzione di governare, di demagogia: al contrario.
Abbiamo intravisto sugli schermi le lunghe file di cittadini pugliesi alle primarie, e anche la folla entusiasta a festeggiarne il risultato. È improbabile che quei cittadini siano ostili per principio alle alleanze e ai ragionati compromessi: però non si rassegnano alle primarie negate per non dispiacere a Casini. Chissà quanti di quei cittadini che si sobbarcano all'impegno di una domenica d'inverno per scegliere un candidato avrebbero deciso di non andare a votare nelle elezioni "vere" se il candidato fosse stato imposto d'autorità.
I dirigenti del Pd non lo vedono? Vivono altrove, e di che cosa? Massimo D'Alema ebbe un'uscita magistrale, qualche giorno fa, quando all'improvviso dichiarò, delle cose di Puglia, di non capirci niente. È un buon punto di partenza. Le primarie per la segreteria del Pd furono in fondo, per chi non fosse legato stretto alle cordate concorrenti, un apprezzabile modo per restituire autorevolezza alla leadership di un partito che l'aveva perduta, chiunque vincesse fra candidati senz'altro rispettabili. Questa ennesima intenzione responsabile portò un numero ingente di persone a votare, e non la passione per i rivali in gara.
Ancora una volta, come ora in Puglia, le persone che vogliono bene all'Italia e alla democrazia e a un ideale, o almeno un'idea, di sinistra, si mostrarono disinteressate e lungimiranti, e disposte a dare una spinta - fisicamente, come si fa con una macchina che è restata col motore spento in salita - a chi aspirava a rappresentarle. Il piccolo gruzzolo in più di consensi che si registrò subito dopo (già dilapidato) non andava tanto alla corrente che era stata più votata, ma alla speranza che una leadership fosse stata investita, e facesse il suo mestiere. Quanto al merito, proprio dalla corrente di Bersani e di D'Alema ci si aspettava caso mai che fosse la più determinata e capace di recuperare l'adesione di quella larga diaspora perduta fra antipolitica, risentimento, giustizialismo e caudillismo - o pura stanchezza. Tutto precipitato nello strettissimo imbuto dell'Udc serva di due padroni, o padrona di due servi.
Ma bisogna pur limitare i danni della perdita di regioni che ci appartenevano - diranno i dirigenti esperti. (Dai quali ci si aspetta che prima o poi mettano all'ordine del giorno la questione sempre più spaventosa della sistemazione personale di chi "fa politica", e della sua influenza soverchiante sulla politica da fare). Ammesso che sia il punto, e non è mai bello far politica con l'acqua alla gola, o più su, il risultato è lontanissimo dal confermarne il realismo. Se non si perderà la Puglia, sarà grazie all'insipienza della destra, che a sua volta non scherza, ma non gliene importa granché, le piace così, e grazie alla ribellione degli elettori delle primarie a una politica di partito in cui l'ottusità ha fatto a gara con la prepotenza. D'Alema, che non si tira indietro dalle proprie responsabilità, farebbe però male oggi ad ammettere semplicemente una sconfitta.
Le sconfitte prevedono una misura: qui non c'è stata partita. Qui, semplicemente, uno dei contendenti "non ci aveva capito niente".
E se invece ci aveva capito, e ci si è infilato lo stesso, occorre rivolgersi ai professionisti, ma della psicoanalisi o della vita monastica. Se non si perderà il Lazio, sarà grazie alla speranza suscitata da una candidata come Emma Bonino che, qualunque opinione si abbia delle sue singole opinioni, non appartiene a quel modo di praticare la politica. Parliamo di candidati a presiedere regioni, Bonino e Vendola, che starebbero comunque al proprio posto in un Partito Democratico come quello che si era immaginato, e per il quale ancora a distanza di anni e di disinganni la gente si mette in fila d'inverno, a rimetterlo in carreggiata e dare una spinta.
© Riproduzione riservata (26 gennaio 2010)
da repubblica.it
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LE IDEE
Bambine mai nate
di ADRIANO SOFRI
Le mimose, certo. In verità sappiamo sempre meno che cosa fare, noi uomini, l'otto marzo. Le mimose poi, serre liguri a parte, sono gli agnelli del regno vegetale. Possiamo dedicare questa data a una bambina mai nata.
Una di cento milioni, forse duecento, che negli ultimi decenni non sono nate a causa dell'aborto forzato: da una legge di Stato o da un costume patriarcale o dalla loro combinazione. Ma cento milioni, forse duecento, fanno troppa impressione, cioè poca. Bisognerebbe guardarne una, una bambina del Punjab o dello Shanxi, e proporsi di strapparla alla sua speciale condanna a morte. C'è un'Italia che vanta il proprio impegno internazionale contro la pena di morte, c'è Nessuno tocchi Caino, c'è Sant'Egidio. Non c'è niente di paragonabile per un'infamia enorme come la cancellazione delle bambine: abortite a forza, affogate alla nascita, lasciate attaccate al cordone ombelicale a infettarsi, buttate in una discarica o in un rigagnolo di strada. Perché?
L'Economist ha appena risollevato la questione, dedicando la copertina alla strage delle bambine. Niente di nuovo, salvi i dettagli raccapriccianti che ogni ultima inchiesta porta alla luce. E la conferma della complicità fra arcaismi e tecnologia, ecografia itinerante nei villaggi a prezzi stracciati, pillole distribuite a man salva e fatte consumare fuori da ogni controllo e ogni scadenza, predilezione di sempre per il maschio e moderna aspirazione alla famiglia poco numerosa. Il Foglio, che fa del rifiuto assoluto dell'aborto la propria ragion d'essere, ha dato un gran risalto alla sortita dell'Economist, e ha fatto bene. Ma l'assimilazione fra la possibilità delle donne, delle singole donne, di abortire con un'assistenza sicura e senza essere perseguitate, e dall'altra parte la coazione statale o sociale ad abortire, è un punto debolissimo. La condanna delle demografie coatte di Stato è infatti conseguente al riconoscimento dell'autodeterminazione delle singole donne, che è a sua volta l'essenza più preziosa delle democrazie. Restino pure fedeli ai propri principii assolutisti la Chiesa cattolica o i laici persuasi della vita piena e intangibile dal momento del concepimento: ma non si rassegnino a farne un ostacolo all'impegno più comune e ampio contro il genocidio femminile - il ginocidio. E viceversa: i difensori della libertà personale delle donne non si ritraggano da quell'impegno, per la preoccupazione che riapra la strada alla persecuzione dell'aborto - come succede in certe vili prese di posizione dell'Unione europea. E, a maggior ragione, chi è allarmato per la sovrappopolazione umana non si lasci tentare dall'ammirazione per la mano libera dei regimi totalitari, capaci di arrivare in demografia e in ecologia dove le democrazie hanno le mani legate o inceppate. Questa inconfessata invidia si è tradotta non di rado nella complicità di organismi delle Nazioni Unite con le politiche di denatalità forzata e di soggezione delle donne.
Fra le innumerevoli guerre che attraversano la terra, e che usurpano lo stesso orrendo nome di guerra perché sono violenze sfrenate a senso unico, la guerra contro le donne è ferocissima: contro le bambine cui si impedisce di venire al mondo e di restarci, e contro le madri. La guerra, dice un penetrante pensiero classico, è il culmine della vocazione venatoria, la caccia all'uomo, e ha in palio la bionda Elena o le Sabine da rapire e le donne d'altri da stuprare. Si è mutata sempre più in una caccia alla donna, all'ingrosso nei territori delle culture e delle religioni patriarcali, al minuto nel femminicidio occidentale. Lo squilibrio demografico nelle zone più popolose del mondo ha raggiunto il rapporto di 100 donne per 120 uomini, e tocca in alcune regioni i 145 contro 100. Ed è ormai antico abbastanza da annoverare decine di milioni di uomini in età coniugale privi di compagne possibili: altro che proletariato.
"Entro dieci anni, un cinese su cinque non riuscirà a trovare moglie", dice la solita Accademia cinese delle scienze sociali. Disordini criminali e rivolte sociali vengono attribuiti a questa peculiare carestia, cui fa da complemento l'esportazione di donne da paesi schiantati come la Corea del Nord. È probabile che il genere umano sia alla vigilia di una mutazione tecnica e genetica che ne dirotti impensabilmente la storia naturale. Ma quanto agli umani cui ancora apparteniamo, ai mortali e ai nati di donna, nessuna mutazione è esistita altrettanto catastrofica di questa che investe il posto delle creature femminili, e già riduce di un quinto la vantata metà del cielo in mezzo mondo. E che è legata strettamente a un fenomeno sconvolgente, e singolarmente banalizzato, come la scomparsa di fratelli e sorelle - sorelle soprattutto: cui si cercherà invano un succedaneo nella retorica della sorellanza e della fraternità metaforica. Ci mancherebbe altro che si tornasse al pregiudizio antico contro il figlio unico, "viziato" - del resto sostituito oggi dal nipote unico di quattro nonni o più. Figlio e figlia unici liberamente voluti o accolti sono una meraviglia. Né ha molto fiato la disputa ricorrente sul diritto o il merito rispettivo della donna madre o della donna che non ne voglia sapere - in Francia in questi giorni ci si accapigliano di nuovo. Ma la nostra umanità perderebbe in solido le sue radici quando perdesse sorelle e fratelli, Antigone e sia pure Caino.
Adottiamola, a qualunque distanza, la bambina che il mondo non vuole, e facciamola venire al mondo. Andiamole in soccorso, e forse lei ce la farà a salvare il mondo che la bracca fin da prima della culla, fin dall'annuncio, vero Edipo dei nostri giorni. E se non a salvarlo, almeno a prolungarne per un tratto la bellezza.
© Riproduzione riservata (08 marzo 2010)
da repubblica.it
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LA POLEMICA
Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale
di ADRIANO SOFRI
Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.
Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?
Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.
Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".
Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.
Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.
Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.
Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.
© Riproduzione riservata (20 aprile 2010)
da repubblica.it
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LA POLEMICA
Saviano, il Cavaliere e la cosmesi universale
di ADRIANO SOFRI
Mi piace che Sebastiano Vassalli abbia qui descritto due Italie secondo l'antitesi fra Berlusconi e Saviano: più esattamente, chiamando Saviano l'"anticorpo" di Berlusconi, e forse l'antidoto. Piuttosto che un vaccino contro il berlusconismo, malattia senile del qualunquismo, il nome di anticorpo incarna, alla lettera, una figura imprevistamente opposta. Roberto Saviano è entrato nelle rose di candidati a governare un giorno un'altra Italia, anche quelle fabbricate per amor di sondaggi.
Lupo spelacchiato, Berlusconi ha sentito odore di bruciato, e ha anticipato il suo sondaggio personale. Così, l'autore più venduto della sua casa editrice, il giovane di talento cui poco fa dichiarava "civile gratitudine", è diventato ora un malaugurato promotore di cosche. Domanda Saviano: "Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine, o da chi commette il crimine?". Già: si può davvero discutere una cosa così?
Cose da pazzi: ma c'è un metodo in questa follia. Perché si tratta di azzannare il lupacchiotto che corre forte fuori dal branco e non mette in piega le sue idee. E perché si tratta di difendere, col proprio titolo di capobranco, un'intera etologia minacciata. Non direi che Berlusconi abbia pensato di mettere a tacere Saviano. Intanto perché non direi che Berlusconi abbia pensato: non gli succede spesso, è il suo segreto vincente. Gli è scappato, ma così la sua sortita è più rivelatrice. Per far tacere Saviano del resto c'è un modo solo, e per questo ha una scorta e fa, lui e loro, una vita dolorosa. Il suo cammino ha superato da tempo, e, temo, irreversibilmente, la soglia oltre la quale non esiste più ritirata o compromesso. L'ha voluto in parte, in un'altra parte gli è successo - è uno dei significati, dei più veri e amari, della parola "successo" - e non è più in discussione.
Dunque, anche Marina Berlusconi ha scritto: "Credo che nessuno si sogni nemmeno lontanamente di pensare che sulle mafie si debba tacere". Si può prenderla in parola. In effetti, Berlusconi non ha proclamato che della mafia non si debba parlare: piuttosto, che non se ne debba parlare tanto. Non ha detto che non si debbano vendere libri intitolati Gomorra: che non se ne debbano vendere tanti milioni. Berlusconi è ottimista. Non vuole un'Italia di cui ci si debba vergognare. Ho citato una volta il pensiero di Carlo Ginzburg secondo cui ci si accorge di avere una "patria", di appartenere a un paese, soprattutto quando si è costretti a provarne vergogna. Ha appena detto qualcosa del genere, del proprio paese, lo scrittore spagnolo Javier Marias. Lo stesso Marias concluse così, nel 2002, un ritratto di Berlusconi per El Pais: "... Una persona che non sente mai vergogna di alcun tipo, né personale, né pubblica, politica, estetica. E nemmeno narrativa. In realtà egli non sa cos'è la vergogna".
Berlusconi ha un sorriso stampato in volto, non resiste alla tentazione di raccontare barzellette, e le giudica irresistibili. Colto in fallo, se ne rallegra, come un attore nell'intervallo. Saviano non è tipo da barzellette, e tiene seria la faccia. Molti italiani vorrebbero assomigliare a Berlusconi. Altri italiani si mettono sulla faccia la maschera di Saviano, per aiutarlo a non essere isolato. Il segreto di Berlusconi non è la tabula rasa, ma il ritocco. La cosmesi. La cosmesi personale, da capo a piedi, capelli e tacchi, e quella universale, la filosofia della cosmesi. Vi ricordate le fioriere di Genova? Anche allora, rovinate dai disfattisti che andarono a dormire alla scuola Diaz, che si fecero torturare alla caserma di Bolzaneto. La cosmesi funziona - il verbo "funzionare" riassume bene la cosa. I rifiuti dalle strade di Napoli spariscono. È quel guastafeste di Saviano, e altri come lui, a mostrare in che tasche vanno a finire. La storia è antica, del resto. Ha una proverbiale versione russa, probabilmente falsa, ma meravigliosa, i Villaggi Potjomkin. Nel 1787 Caterina II e il suo seguito di ambasciatori stranieri, in visita in Crimea, furono incantati da villaggi lustri e felici, reparti militari agguerriti e greggi innumerevoli, che il principe Potjomkin aveva fatto costruire alla vigilia in cartapesta e popolare di attori e comparse e girotondi di pecore. Si fa così, se si ama il proprio paese e lo si vuol far ben figurare con gli ambasciatori stranieri, alla Maddalena o all'Aquila o a Secondigliano: altro che Gomorra. Cosmesi: a maggior ragione quando la chirurgia estetica sa applicarsi a un doppio mento, a una Grande Opera, a una intera Costituzione.
Che sia questo il cuore della cosa, è evidente se si consideri che Berlusconi non accusa Saviano di aver scritto o detto il falso. Gli spiega che non dovrebbe dire il vero - non troppo. Anch'io quando ho visto una bruttezza nuova delle persone nel film "Gomorra" - e l'avevo già vista, altrettanto nitidamente, nelle pagine del libro - ho sperato che non fosse vera: che scrittore e regista avessero calcato la mano. Voglio bene a Napoli, infatti. Invece è proprio così, e Saviano la racconta com'è, perché vuole bene a Napoli. Non è un caso che Saviano faccia un uso pregnante della parola "bellezza". La cosmesi berlusconista è la contraffazione della bellezza. Intendiamoci: è probabile che Berlusconi non possa nemmeno figurarsi qualcosa di diverso. Date tempo al tempo, si dirà, e lo stesso Saviano imparerà la lezione - stavo per scrivere, vergogna, la lozione. Ma appunto, il tempo corre, e bisogna sbrigarsi. Saviano dice: "Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare". Frase che deve suonare minacciosa all'egoqualunquismo di Berlusconi: è lui, quello di "né destra, né sinistra". Non immagina che si tratti d'altro. E non solo del fatto che uomini come Ambrosoli o Borsellino fossero di educazione e sentimenti "di destra" - che non è poco. Ma che, a complicare le cose dopo i muri, e però a renderle più fondate, c'è un'inversione, e quello che si fa viene prima di quello che si crede di essere, e questo vale soprattutto per le mafie.
Saviano ha riconosciuto, quando gli è sembrato giusto, i risultati dell'azione di polizia o giudiziaria contro le mafie. Che Berlusconi vanta al suo governo, in una peculiare analogia con quel Giulio Andreotti che per spiegare l'inveterato rapporto dello Stato democristiano con la mafia coniò la graziosa formula del "quieto vivere". Come Berlusconi oggi, Andreotti vantò le misure del suo ultimo governo contro la mafia. Come Berlusconi oggi, si aspettò - e ottenne, lui senza legittimo impedimento - la prescrizione giudiziaria e civile sul quietissimo vivere del passato. La tenacia di Saviano, che gli viene imputata come una mania o un affarone, non riguarda del resto il passato, ma soprattutto la presente espansione universale dell'economia e dell'etologia mafiosa, che nessuna politica e nessuna opinione pubblica può evitare di guardare negli occhi.
Un luogo comune vuole che gli italiani si compiacciano autolesionisticamente di denigrare il proprio paese e invidiare gli altri: lo trovate ricapitolato nello studio di Silvana Patriarca, "Italianità", appena uscito per Laterza. Lo schema dell'opposizione fra antitaliani (che comprenderebbero, del resto, Dante e Machiavelli e Leopardi) e arcitaliani, non è dei più utili, e nemmeno le frasi desolate di un dopoelezioni sugli italiani che assomigliano a Berlusconi e Berlusconi che assomiglia agli italiani. L'Italia non è mai fatta del tutto, e per giunta corre il rischio d'esser disfatta. Gli italiani devono farsi e rifarsi continuamente. Assomigliare a qualcuno, al corpo di Berlusconi o all'anticorpo di Saviano, non è la più alta delle ambizioni. Imparare a essere se stessi, e sapere da che parte stare, è la premessa per fare buoni incontri. C'è tanto posto.
© Riproduzione riservata (20 aprile 2010)
da repubblica.it
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