ADRIANO SOFRI -
Admin:
ECONOMIA
IL COMMENTO
La minoranza manesca
di ADRIANO SOFRI
Le discussioni franco-tedesche sul sequestro dei manager rischiano di apparire un lusso dalla Torino in cui viene spinto giù dal palco sindacale il segretario nazionale della Fiom. Bruttissimo segno.
E non basta a consolarsi la fama di irresponsabilità o peggio che accompagna il gruppo di autonomi nolani che hanno premeditato e attuato l'assalto, contando anche su una singolare ingenuità degli organizzatori.
Gianni Rinaldini è un sindacalista normale, che ha all'attivo lotte preziose per lo spirito di sacrificio e di solidarietà, come quelle contro la disciplina da caserma alla Fiat di Melfi, passate vilmente sotto silenzio, e sa misurare la minaccia dell'isolamento. La Fiat sta giocando un prestigioso azzardo internazionale, ma sui suoi lavoratori italiani pesa un azzardo doppio.
Il governo italiano, salva qualche penna di pavone, non ha speso niente, e non si è mostrato nemmeno ansioso di discutere con la Fiat le prospettive dell'operazione. Ma i sindacati, che ragioni di ansia ne hanno fin troppe, meritavano una considerazione diversa. Tanto più se si confronti il buio in cui sono rimasti col ruolo del sindacato americano - che ha "ereditato", a proprie spese, la Chrysler - e tedesco.
La manifestazione nazionale di ieri, indetta in un giorno difficile come il sabato, ha visto una partecipazione debole per numero: qualche migliaio di lavoratori, dunque con un'adesione ridotta della Fiat torinese, dell'indotto, e della città. Si può pensare che una buona parte della città sia fiera e perfino euforica per l'impresa americana. Ma certo un'altra parte è spaventata dalla portata attuale della crisi e dall'oscurità del futuro.
L'episodio torinese ha soprattutto questo significato: che l'allarme sociale gravissimo che attraversa l'Italia e può tradursi sia nella sfiducia, sia nell'adunata attorno alla Cgil (di cui pure ci sono segni importanti, benché si faccia chiasso solo attorno agli episodi di contestazione sindacale), consente a minoranze manesche di mettere sotto sequestro maggioranze incerte ed esitanti. Le minoranze manesche mirano solo a diventare un po' meno minoranze e un po' più manesche. I rappresentanti dei lavoratori devono fare gli interessi dei lavoratori. Dovrebbe essere chiaro per chiunque con chi occorra confrontarsi.
(17 maggio 2009)
da repubblica.it
Admin:
L'ANALISI
Il Purgatorio dei democratici
di ADRIANO SOFRI
Scommetto che molti di voi avranno reagito alla notizia che Grillo vuole candidarsi (o dice di volere) a guidare il Pd sbuffando ed esclamando: "Ma siamo seri!" Be', sbagliato. Intanto perché essere seri, è un vasto programma, e forse ormai tramontato. E poi perché un partito che si sia dato delle regole, fossero anche le più insulse (non dico una porcata di regole, ma una scemenza magari sì), non può che rispettarle.
Dunque se di qui al 23 luglio Beppe Grillo si iscrivesse davvero al più vicino circolo del Pd e raccogliesse le 2 mila firme di iscritti in almeno 5 regioni e tre circoscrizioni prescritte dallo Statuto, nessuna obiezione formale potrebbe venire alla sua candidatura. Obiezioni sostanziali sì, ma è un altro paio di maniche. Io per esempio penso che Grillo dilapidi le cose buone che gli succede di dire col modo in cui le dice: e il modo vale, nel suo caso, almeno il 51 per cento. Così, ammesso che non sia lui stesso a dire fra cinque minuti che la sua era solo "una provocazione" - del resto le provocazioni pesano- si troverà paradossale che uno si candidi a dirigere un partito di cui ha fatto il proprio bersaglio grosso.
Debole argomento anche questo, perché rinfacciare a Grillo il paradosso è come sequestrare l'idrante a un pompiere. Proprio perché parla sprezzantemente del Pd come del nulla, Grillo se ne offre come un'alternativa. L'alternativa al nulla, non è difficile da rivendicare. "Sono serissimo", ha tenuto a precisare Grillo, che detto da un comico di professione è a sua volta come il paradosso del cretese, che disse che tutti i cretesi sono bugiardi.
Dunque rinunciamo a esclamare: "Siamo seri!" Troppo tardi. Le primarie del Pd (le prime, quelle per tesserati, le seconde, quelle aperte, aspetteranno il 25 ottobre) sono al riparo dalle scorrerie e dalle goliardie di chiunque solo grazie alla prossimità della data di scadenza, il 23 luglio. Senza di che, nessuno potrebbe frenare una valanga di candidature concorrenti, rispettabili o provocatorie, dal momento che non c'è più, e da tempo, quella intima serietà responsabile che sola, altro che gli Statuti, trattiene dal trattare il partito cui tanti affidano le proprie speranze come il bar della stazione di notte. D'altra parte, se si miri davvero a costruire un Partito democratico, perno di un'alleanza elettorale che contenda il governo del paese all'alleanza di destra, iscrizioni e candidature non possono che essere benvenute. Ci sono oggi quattro candidati, maschi. Non si potrebbe certo trovare strana o importuna una candidatura femminile. E se i radicali, che nelle liste del Pd furono eletti in Parlamento e stanno nello stesso gruppo, sia pur chiamandosi "delegazione", avessero voluto iscriversi e candidare, per esempio, Emma Bonino, che obiezione si sarebbe mossa loro? Certo non quella della doppia tessera, salvo che la doppia tessera pretenda di autorizzare una partecipazione elettorale con il centrodestra, come hanno ragionevolmente obiettato esponenti insospettabili del Pd, da Marini a Rutelli. Quanto a me, troverei normale che un'adesione al Pd coinvolgesse anche le persone che si sono appena riconosciute nel cartello di "Sinistra e libertà": solo che è troppo normale, dunque non avverrà, anzi sì, ma molto più tardi, a partita giocata. E se fra i "giovani", nome già sparpagliatissimo, qualcuno volesse fare la propria corsa, senza subordinarsi a ticket mutilanti, e sia pure senza immaginare di vincere, che argomento potrebbe trattenerlo? E anche, per fare tutta la gamma delle ipotesi, se dei concorrenti già scesi in campo pensassero che dopotutto la cosa migliore è puntare a una leadership la più autorevole possibile, e a tagliare le unghie alle vanità personali, senza affatto sacrificare la battaglia delle idee, non ci sarebbe da rallegrarsi? Naturalmente, perché le idee si diano lealmente battaglia, bisogna averne, almeno un paio.
Le cose sono a questo punto. Il Pd paga uno scotto altissimo e interminabile al divario plateale fra una buona intenzione e gli inciampi della pratica. Oltretutto, non si può ignorare come il lungo congresso promuova comportamenti di apparato incresciosamente contrari all'investimento originario sulle primarie, tesseramenti democristiani o napoletani: per non dire dei guai già consumati in una quantità di situazioni locali. E con le elezioni regionali che incombono. Del resto qualcosa incombe sempre. Incombe oggi, ieri, il rischio di rinviare l'azione politica a cielo aperto perché si è troppo concentrati a farsi la fototessera nella cabina con le tendine tirate. E incombe la liquefazione del Pd. Anche la sua rianimazione: purché si veda come stanno le cose. Dunque si attraversi il più dignitosamente possibile questo purgatorio. Senza indugiare a prendersela con i passanti che si divertano a occupare il Pd come un'allegra e sguarnita palestra di scorribande. Ma questa è l'altra faccia del desiderio di avere un partito "di tutti", e non di qualche apparato. La nottata deve passare: qualcuno ne verrà fuori sobrio, e proverà a prendersi cura della baracca. Come nella Prova d'orchestra, sarà tentato di agitare troppo la bacchetta, e gli sbronzi di poco fa saranno mogi e con la coda fra le gambe. Purché arrivi, questa mattina dopo, e l'impressione di una cosa che ricomincia e si fa seria. Non è pessimismo il mio: è che ho appena sentito uno di quelli che fanno la propria parte da tanto tempo e senza alcun interesse personale, e provava a esprimere il suo stato d'animo dopo le discussioni sul presunto stupratore romano e la sortita di Grillo e non so che altra ultima notizia. Mi ha detto: "Noi che abbiamo a cuore... - non so nemmeno più che cosa abbiamo a cuore". E' stato zitto un momento, poi ha sospirato: "Però a cuore".
(13 luglio 2009)
da repubblica.it
Admin:
Quarant’anni dopo
Sofri, Casalegno e la violenza in Lc «Quando non sei più innocente»
Gentile direttore,
ho letto l’intervista ad Andrea Casalegno. Vorrei dire che cosa penso dei punti cruciali, che vengono presentati come se rivelassero qualcosa. A cominciare dal legame fra Leonardo Marino e me. La cui evidenza è stata fin dall’inizio (dal 1988, quando fui arrestato) il filo conduttore della vicenda: il figlio chiamato Adriano, i soldi che gli avevo dato... Mi chiesero come mai gli avessi dato dei soldi, se non per comprare il suo silenzio. Perché me li aveva chiesti, spiegai, perché gli ero affezionato, perché era povero e ne aveva bisogno per la sua famiglia: e documentai cifre e circostanze. In Lotta Continua, dice Andrea, tutti pensano che Marino dica la verità. Non so. Però so la verità. Non ebbi il colloquio che Marino mi attribuì, non gli diedi alcun mandato. Io lo so, e lo sanno per certo coloro che furono testimoni dei miei movimenti nella circostanza in cui Marino volle collocare il colloquio. Non diedi alcun mandato, e dunque non coinvolsi Lotta Continua — tutte le sue persone, compreso Andrea Casalegno — nella responsabilità di un omicidio.
Di tutte le altre responsabilità mi sono fatto carico, e non certo per difendermi in un tribunale. La mia condanna— che continuo a scontare — autorizza chiunque lo voglia a dichiararmi mandante provato dell’omicidio di Calabresi. Ma la condanna non cambia la verità, né la mia saldezza nel sostenerla. Dice Andrea — pensiero che dà il titolo alla pagina — che «il germe della violenza c’era già alle origini», dunque prima della strage di piazza Fontana; e critica la definizione del 12 dicembre del ’69 come la data della «perdita dell’innocenza». Io l’ho detto da tempo. In particolare, proprio in un’intervista al Corriere del 2 aprile 2004. «Così abbiamo perduto l’innocenza. Ma oggi mi interrogo sulla sensatezza di questa formula... Si tratta dell’idea: chi è innocente scagli la prima pietra. È l’espediente che Gesù usa per non fare lapidare l’adultera.
Questo stratagemma evoca un problema morale straordinario: è proprio vero che chi è innocente può scagliare la prima pietra? Noi oggi ci comportiamo così nei confronti del racconto di piazza Fontana. Innocenti come eravamo, toccava a noi per diritto, diritto che è divenuto poi la nostra dannazione, tirare la prima pietra. Poi quando l’hai scagliata non sei più innocente. E non a caso poi ne tiri un’altra e un’altra ancora. Fino a divenire un lanciatore di pietre. Quasi un lapidatore: persino a noi successe.
La campagna contro Calabresi diventò una specie di lapidazione... In realtà innocenti non lo eravamo. La verità è che l’innocenza come condizione originaria è molto difficile da trovare. Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza... la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’avevamo già tirata». E alla domanda: «Vuole dire che la violenza era già dentro il movimento?», risposi: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima...».
Ricordato questo, trovo sconcertante l’opinione di Andrea che «la strategia della tensione ebbe un certo ruolo nel precipitare il Paese negli anni di piombo». La strategia della tensione e delle stragi segnò un mutamento sconvolgente nella temperie umana e civile dell’Italia, nel nostro stato d’animo e nel nostro orizzonte politico. Solo alcuni di noi — quasi per una deformazione psicologica — continuano a seguire quello che si dice, settimana dietro settimana, 35 anni dopo!, al processo bresciano su piazza della Loggia: autopsia delle colpe dello Stato nelle stragi, agghiacciante quanto sfinita. E comunque, per allora e per oggi, penso che qualunque delitto privato sia incomparabile col delitto commesso da chi ha il monopolio pubblico della forza.
Andrea Casalegno ha raccontato in un libro l’assassinio di suo padre e una storia di famiglia piena di dolore. Mi dispiace molto, e mi dispiace il sentimento che leggo nelle sue parole. Quando Carlo Casalegno fu assassinato, ne provai rabbia e pena. Anni fa scrissi ad Andrea per ricordare un episodio: «Una volta — nel 1976— ritenni che tuo padre, in un commento, avesse ingiustamente addebitato a Lotta Continua il favoreggiamento verso scelte armate clandestine. Io reagii prendendo il telefono — ero a Roma — e chiamando tuo padre, col quale ebbi una conversazione vivace e aspra, nella quale però fu reciproco il riconoscimento della sincerità e forza delle convinzioni rispettive. (Forse, nelle parole di apprezzamento che tuo padre mi rivolse, c’era soprattutto il riflesso della sua sollecitudine e rispetto per te)». Quanto a chi in quegli anni passò la linea, Andrea tiene a ripetere che si può diventare ex di qualunque cosa, ma un assassino rimane per sempre un assassino. Io non lo penso: penso che ciascuno possa cambiare, e che anche un assassino possa diventare una persona che ha commesso un assassinio. Che non solo il calendario cristiano, ma la nostra società dimostri largamente, per fortuna, che questo avviene.
Adriano Sofri
04 novembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Admin:
COMMENTI
Caso Cucchi sono tutti colpevoli
di ADRIANO SOFRI
SI CHIAMANO celle di sicurezza. Ci si sta al sicuro. Si può star sicuri che Stefano Cucchi fu picchiato, e che in capo a cinque giorni morì. Sul resto non c'è alcuna sicurezza. Sul resto, ordinario e allucinante com'è, niente si può escludere. Nemmeno che Stefano Cucchi sia stato picchiato due, tre volte. Nemmeno che si siano dati il turno, a picchiarlo, carabinieri e agenti penitenziari, che a turno da giorni se ne accusano.
Al punto cui sono arrivate le indagini, il pestaggio sarebbe avvenuto la mattina del 16 ottobre, nel sotterraneo del tribunale romano, e gli autori, indagati per omicidio preterintenzionale, sarebbero tre agenti della polizia penitenziaria, tre uomini fra i quaranta e i cinquant'anni. Gli inquirenti hanno creduto di aggiungere che "i carabinieri sono estranei". (Alla vigilia il capo della Procura non aveva detto che il detenuto era restato quella mattina nelle mani della polizia giudiziaria che l'aveva arrestato, cioé i carabinieri?) E, indagando per omicidio colposo tre medici del reparto penitenziario dell'ospedale Pertini - il primario e due dottoresse - gli stessi inquirenti hanno definito l'avviso "un eccesso di garanzia".
Nel balletto di versioni dei giorni scorsi, i magistrati hanno deciso di fondarsi sulla testimonianza del detenuto "africano, clandestino", che avrebbe visto coi propri occhi e poi raccolto le parole di Cucchi: "Guarda come mi hanno ridotto". Altri argomenti, per il momento, restano inspiegati.
Resta inspiegato il primo referto medico, redatto a piazzale Clodio in quello stesso 16 ottobre, secondo cui Cucchi "riferisce di una caduta dalle scale alle 23 della sera precedente": sera in cui era chiuso in una caserma di carabinieri. I quattro agenti penitenziari - colleghi, certo, dei tre indiziati - che lo accompagnano quel pomeriggio a Regina Coeli completano a loro volta la frase detta al detenuto testimone: "Guarda come mi hanno ridotto ieri sera". Ieri sera vuol dire i carabinieri. Questa mattina vuol dire forse i carabinieri, forse gli agenti penitenziari, che si accusano a vicenda.
È difficile decidere se questo grottesco rinfacciarsi versioni e colpe renda più spregevole la trama che ha schiacciato Cucchi, o induca ad apprezzare, coi tempi che corrono, il fatto che almeno né carabinieri né poliziotti penitenziari negano che il giovane uomo fragile sia stato pestato e spezzato a morte. Fragile: dunque da custodire più rispettosamente e premurosamente. Abbiamo ascoltato un bel repertorio di porcherie nei giorni scorsi. Che Cucchi era tossicodipendente, ovvietà pronunciata come se fosse un'aggravante, o un'attenuante dei suoi massacratori.
La tossicodipendenza è una sciagura per chi ci incappa e per chi gli vuol bene, e diventa un danno per tutti quando il fanatismo proibizionista esalta gli affari illegali. In Italia oggi è una ragione per finire nelle celle "di sicurezza", o di galera, o nei letti di contenzione dei manicomi giudiziari - come per il coetaneo di Cucchi morto in cella a Parma, Giuseppe Saladino, che aveva rubato "le monetine dei parchimetri" - o nel reparto confino dell'ospedale Pertini. È bello, è edificante, è spettacolare che questo succeda mentre si propone di abolire, più o meno, i processi, per i ricchi e potenti. È bello e istruttivo che, per adescare l'opinione intontita, si proclami che dall'abolizione dei processi saranno esclusi i reati di maggior allarme e "i recidivi". I "recidivi" sono i tossicodipendenti, che spacciano al minuto o rubano per la dose, e spacciano di nuovo e rubano per la prossima dose, e così via.
Stefano Cucchi era uno dei tanti nostri ragazzi che possono aver spacciato per la loro dose, e non sono meno meritevoli del nostro amore e delle nostre cure. Era anche sieropositivo, ha osato dire qualcuno. Non lo era: ma non importa niente. Importa che ancora, in questo paese, persone che danno il proprio nome a leggi fautrici di dolore e delitti pronuncino il nome di una malattia come quello di una condanna. Il paese in cui si tratta ancora una malattia come una vergogna è un paese di cui vergognarsi.
Dovremmo dirlo, che siamo sieropositivi. E che nessuno chieda a nessuno se è vero o no: non cambia niente. Stefano Cucchi era un giovane uomo inerme dal viso dolce e dal corpo esposto: un corpo così è fatto per essere stretto da un abbraccio materno, per essere accarezzato da una sorella, per sentirsi la mano di un padre sulla spalla. Non per "essere scaraventato in terra e, dopo aver sbattuto violentemente il bacino procurandosi una frattura dell'osso sacro, colpito a calci", secondo la ricostruzione - provvisoria, parziale, vedrete - degli inquirenti.
Né per giacere senza soccorso, sottratto alla vista dei suoi e del mondo, dentro una branda d'ospedale carcerario, coi medici, donne e uomini (fa sempre più impressione che tocchi a donne), che lo ignorano, che forse scherzano sulle sue ossa rotte e sporgenti, che dicono che rifiuta cure e farmaci, e scrivono solo in capitulo mortis che aveva dichiarato dall'inizio di volere il proprio avvocato, e di non voler mangiare e non voler bere solo per quell'infimo fra i diritti: una confessione di fatto, che non ha impedito agli stessi medici di continuare a mentire e a manipolare la verità quando il ragazzo era morto. Abbiano pure il loro "eccesso di garanzia", in cambio. Anche questa è una creatività italiana: chiameremo di sicurezza le celle dei pestaggi, ci vanteremo della garanzia in eccesso. Del resto, siamo ancora all'inizio. Non sarà facile, per l'omicidio di Cucchi, trovare il non colpevole.
© Riproduzione riservata (14 novembre 2009)
da repubblica.it
Admin:
Anticipazione
Displaced person
di Adriano Sofri -
Tecnicamente profughi.
Senza carta d'identità (sul confine tra Haiti e Repubblica Dominicana come nel canale di Sicilia).
In realtà, siamo tutti a casa nostra e forestieri. E non è un paradosso
Mi pare che sia un po' decaduto, fra gli insulti, l'epiteto di "spostato". Si diceva molto, soprattutto nel meridione. Voleva dire balordo, mezzo matto. O scemo del tutto.
Ora si usano piuttosto perifrasi come "fuori di testa", imparentate all'effetto di qualche droga. L'idea del movimento, dell'andare fuori, c'è sempre. In "spostato" era più pregnante il rapporto col posto. È importante il posto. Si dice di una persona che "è a posto". Si dice: "Tutto a posto?". Spostato è uno che ha perduto il suo posto.
Uno fuori luogo, un pesce fuor d'acqua. La traduzione letterale, nell'inglese universale, è displaced person. Non una formula generica, ma il modo tecnico di nominare chi non ha più una casa, una patria. E nemmeno una carta d'identità. Displaced person, abbreviato in DP: così si dice nelle organizzazioni internazionali.
Prima di scrivere questo testo ho guardato le fotografie degli evacuees forzati nella Repubblica Dominicana, e le ho riguardate, e poi ho cercato di rintracciare una storia degli spostati, di imparare qualcosa e raccontarlo anche a voi che leggete. Meglio che imbastire un ennesimo tema benintenzionato sui diritti umani e chi ne è spogliato. Una ricerca senza pretese, si capisce, di quelle permesse da un giro sulla Rete. Sono partito da quel nome di displaced person, che sapevo applicato nel secondo dopoguerra europeo a un numero ingente di ebrei. Tra il ‘45 e il ‘52, oltre 250mila ebrei europei superstiti alla Shoah vissero in campi di raccolta in Germania, Austria e Italia. C'è un dettaglio agghiacciante: in parecchi casi, si trattava degli stessi campi di concentramento in cui erano stati deportati, ora riconvertiti sotto l'amministrazione degli Alleati e dell'Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration).
A proposito del posto, c'è quell'altra espressione: "Stai al posto tuo!".
Un'intimazione che viene facile rivolgere a inferiori e servi, che non dimentichino con chi hanno a che fare. E agli ebrei: "Non ho niente contro gli ebrei, purché stiano al loro posto". Gli ebrei, per definizione, non ce l'hanno il loro posto. Sono erranti, displaced, spostati. Un mio amico dice che non gli è mai così chiaro che cosa voglia dire essere ebreo come quando sente pronunciare quell'avvertimento: "Stai al tuo posto!". È durante la Seconda guerra mondiale che si inaugura l'espressione displaced person, e si diffonde soprattutto all'indomani, quando si gonfiano le migrazioni di profughi dall'Europa centrale e orientale. A quanto pare, a coniarla fu Eugene M.Kulischer. Kulischer (1881-1956), studioso di demografia e storia, di origine ebraica, figlio a sua volta di uno storico russo. La sua è la biografia esemplare di una persona displaced.
Prima lascia la Russia sovietica, nel 1920, alla volta della Germania.
da repubblica.it
Navigazione