Concita DE GREGORIO
Admin:
03/07/2009 22:17
Come tra fratelli
Concita De Gregorio.
Dunque Ignazio Marino è sceso in campo. Un «terzo uomo» corre alla segreteria del Partito democratico accanto a Franceschini e a Bersani. È un outsider, non solo perché la sua storia professionale - è un chirurgo di fama internazionale - è ben più lunga e più ricca di quella politica. Lo è, soprattutto, perché la sua breve storia politica non affonda le radici nelle organizzazioni fondatrici.
È ancora presto per un bilancio, ma dai primi segnali non si può dire che la sua discesa in campo sia stata accolta con una standing ovation. Franco Marini, uno dei padri nobili del partito, ha manifestato con franchezza il timore che questo «terzo uomo» determini una radicalizzazione dello scontro interno. In generale tra gli ex popolari si è diffusa la preoccupazione che lo scienziato Ignazio Marino sposti l'asse culturale del Partito democratico sul tema della laicità facendone non una «condizione» ma un «contenuto» dell'agire politico (così Pier Luigi Castagnetti). Di certo la candidatura di Marino non avrebbe suscitato queste preoccupazioni (e forse non ci sarebbe nemmeno stata) se, per esempio, il Pd fosse stato in grado di assumere una posizione chiara sul tema del testamento biologico. Né se lo stesso Marino - nel pieno del caso di Eluana Englaro - non fosse stato sostituito come relatore di minoranza nella discussione della legge.
Dunque non c'è alcun dubbio che lo scontro interno possa radicalizzarsi. D'altra parte, in questi ultimi giorni - e Marino ancora non era candidato - abbiamo assistito ad asprezze dialettiche e anche a colpi bassi che già sono stati abbondantemente utilizzati ed enfatizzati dai telegiornali e dalla stampa di destra. La prospettiva di trascorrere così i quattro mesi che ci separano dal congresso fa rabbrividire. E, prima di ogni altra cosa, c'è da augurarsi che tutti - «giovan»i e «vecchi» - dedichino le loro energie al dibattito sui contenuti e sulle regole, anziché sulle persone. L'alternativa è, chiunque vinca, una vittoria amara e, in definitiva, il fallimento o la mutilazione del progetto.
Un primo passo in questa direzione costruttiva sarebbe leggere per intero il «manifesto» di Ignazio Marino. In particolare la parte finale: «Il fiume deve scorrere dentro gli argini e ogni persona per contare si deve iscrivere al Partito democratico e partecipare con il proprio voto alla fase congressuale, e scegliere il candidato». In altre condizioni sarebbe un'assoluta ovvietà. Un tale si candida alla segreteria di un partito e lancia un appello affinché la gente si iscriva. Ci mancherebbe altro. Se non fosse che, nello specifico del Partito democratico, quell'appello dice una banale verità. Dice che c'è una parte del Pd (dei suoi potenziali elettori, dei suoi potenziali futuri dirigenti) che ancora non ha trovato la porta d'ingresso. Ha un forte potenziale non simbolico a questo proposito il sostegno a Marino che viene da Pippo Civati e dei giovani del Lingotto.
E dunque apriamo, spalanchiamo, quella porta. E litighiamo, anche ferocemente, ma come si litiga tra fratelli. I nemici sono altrove.
Non possiamo permetterci di essere nemici di noi stessi.
da unita.it
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29/08/2009 22:07
La guerra lercia
Concita De Gregorio
Un assaggio della guerra che ci aspetta in autunno. Non sporca, lercia. La battaglia finale di un uomo malato, barricato nel delirio senile di onnipotenza che sta trascinando al collasso della democrazia un paese incapace di reagire: un uomo che ha comprato col denaro, nei decenni, cose e persone, magistrati, politici e giornalisti, che ha visto fiorire la sua impunità e i suoi affari dispensando come oppio l'illusione di un benessere collettivo mai realizzato. Dall'estero guardano all'Italia come un esempio di declino della democrazia, una dittatura plutocratica costruita a colpi di leggi su misura e di cavalli eletti senatori. Vent'anni di incultura televisiva - l'unico pane per milioni - hanno preparato il terreno. Demolita la scuola, la ricerca, il sapere. Distrutte l'etica e le regole. Alimentata la paura. Aggrediti i deboli.
È una povera Italia, un piccolo paese quello che assiste impotente all'assalto finale alle voci del dissenso condotto da un manipolo di body guard del premier armate di ministeri, di aziende e di giornali. L'ultimo assunto ha avuto il mandato di distruggere la reputazione del "nemico". Scovare tra le carte gentilmente messe a disposizione dei servizi segreti, controllati dal premier medesimo, dossier personali che raccontino di figli illegittimi e di amanti, di relazioni omosessuali, come se fosse interessante per qualcuno sapere cosa accade nella vita di un imprenditore, di un direttore di giornale, di un libero cittadino. Come se non ci fosse differenza tra il ruolo di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, un uomo che del suo "romanzo popolare" di buon padre di famiglia ha fatto bandiera elettorale gabbando milioni di italiani e chi, finito di svolgere il suo lavoro, va a letto con chi vuole - maggiorenne, sì - in vacanza con chi crede. La battaglia d'autunno sarà questa: indurre gli italiani a pensare che non c'è differenza tra il sultano e i suoi sudditi, tra il caudillo e i suoi oppositori. Non è così: la parte sana di questo paese lo sa benissimo.
Un anno fa arrivavo in questo giornale scrivendo che avrei voluto diventasse "il nostro posto". Non immaginavo sarebbe stata una trincea di montagna. Mentre cresceva, l'Unità è stata oggetto di una campagna denigratoria portata avanti dal presidente del Consiglio e dai suoi alleati, da giornali compiacenti non solo - purtroppo - nel centrodestra. Anziché difendersi e reagire compatto il fronte dell'opposizione si è diviso in guerre fratricide. Mentre si alimentano i veleni e le calunnie su di noi i nostri lettori sono cresciuti, negli ultimi mesi, del 25 per cento, caso unico nel panorama editoriale. I cittadini ci sono: leggono, capiscono. Mentre l'aggressione diventava personale (scritte intimidatorie sotto casa, telefonate notturne, le nostre vite sotto scorta) ci venivano offerte da emissari dei poteri opachi videocassette e carte contenenti "le prove" di gesta erotiche dei nostri aggressori. Materiale schifoso, alcove filmate all'insaputa dei protagonisti. Naturalmente le abbiamo respinte. Il sesso tra adulti, di chi non lo baratti con seggi e presidenze, non ci interessa. Questo è quello che ci aspetta, però. Sappiatelo. Una guerra lercia.
da unita.it
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10/10/2009 22:24
La ricetta dell'unita'
Concita De Gregorio
Oggi il Pd va al congresso. Lo chiude, per meglio dire: la convenzione chiude il congresso che si è svolto nei circoli e proclama i candidati alle primarie: i tre che conoscete. È il primo atto di un processo che si concluderà con la scelta del leader dell'opposizione, cioè l'uomo (avremmo voluto poter scrivere «o la donna») che dovrà affrontare e possibilmente sconfiggere Silvio Berlusconi. Un passaggio fondamentale per il Paese. Ecco, diciamocelo: la tensione politica, l'attesa, l'aria che si respira, non corrisponde alla portata dell'evento. Di certo perché il complicato regolamento che il Pd si è dato sposta tutto alle primarie alle quali potranno partecipare tutti, iscritti e non. Forse perché, ancora, la dilagante per così dire personalità del presidente del Consiglio è riuscita a oscurare oltre che l'immagine del nostro paese nel mondo anche la nostra capacità di concentrarci, quando occorre, sugli obiettivi per il futuro. È il momento di farlo.
Seguiremo minuto per minuto i giorni che ci separano dal 25 ottobre: se le donne, tutte le donne che a migliaia hanno spedito ieri la nostra cartolina per il premier, le donne rassegnate e disilluse sapranno ribellarsi dipenderà soprattutto dal loro voto - come è accaduto nel recente passato - l'esito delle primarie e, di conseguenza, della capacità di portare l'opposizione al governo di questo Paese. Vi proponiamo con Pietro Spataro una sorta di guida, un vocabolario del Pd. Attenzione alla lettera U. Non solo perché la parola prescelta coincide con la testata del nostro giornale. Ma perché davvero oggi, davanti all'irresponsabile e violenta aggressività di chi governa, l'Unità è indispensabile. Non si può fare senza.
Ovvio, certo. Facile a dirsi. Eppure sul giornale di oggi proponiamo in qualche modo un metodo. È il trentesimo compleanno di Bobo, il personaggio di Sergio Staino che rappresenta le ambizioni, le frustrazioni, le speranze e le rabbie di ciascuno di noi. Bene. La prima notizia "unitaria" è che Bobo ha un mucchio di amici. È questa la «festa a sorpresa» che vi abbiamo annunciato ieri. I migliori scrittori satirici e vignettisti italiani tornano oggi o si affacciano per la prima volta sulle nostre pagine.
Bobo, col suo fare burbero e col suo candore ha avuto la capacità di farli ritrovare. Bobo con la sua fatica e i suoi sorrisi amari. Bobo che da trent'anni guarda il mondo sgombro da pregiudizi. A partire dai valori che lui - un personaggio immaginario - ha saputo mantenere più saldi di tanti personaggi reali che, tra l'altro, avrebbero il dovere istituzionale di farlo. Anche ieri pomeriggio Bobo prima di entrare nella sua vignetta qui accanto ha letto in anteprima il giornale che avete nelle mani: l'intervista in cui Tullio De Mauro, oggi che il Tar boccia il ministro Gelmini, spiega la «pandemia del lavoro precario» che da vent'anni ammala la scuola.
L'ironia con cui Goffredo Fofi racconta il proliferare consolatorio di festival della cultura. La piazza contro l'omofobia, i lavoratori dell'Innse che rientrano in fabbrica.
Ecco la ricetta per l'unità. Ed ecco anche la ricetta de l'Unità. Parlare chiaro. Parlare forte. Non avere paura delle proprie idee, né delle proprie paure.
da unita.it
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17/12/2009 22:36
Le ragioni del dissenso
Concita de Gregorio
Disturba se parliamo dell'Italia? Ora che il presidente del Consiglio è tornato a casa possiamo distogliere l'attenzione dai bollettini medici del San Raffaele, augurargli pronta guarigione e riprendere a dire quel che succede nelle nostre vite. Senza essere accusati di essere anti-italiani, mi auguro. Senza rischiare di finire nella lista dei cattivi, dei terroristi, dei mandanti morali solo perché - stando ai fatti, come ogni giornale dovrebbe fare, poi commentandoli - raccontiamo il terribile disagio di un numero crescente di cittadini. Sofferenza e a volte disperazione responsabili, quelle sì, di un clima esasperato che la sottovalutazione di chi governa - «povertà percepita», ricordate? «disfattisti, menagrami» - non fa che enfatizzare. In Parlamento ieri i dipendenti del ministero di Giustizia lamentavano di non avere gli strumenti per lavorare. Nei giorni precedenti hanno manifestato per strada i pompieri, i poliziotti, gli insegnanti, gli agricoltori, i ricercatori, la guardia di finanza, i lavoratori del pubblico impiego. La lista è lunghissima. Nel terzo trimestre dell'anno sono scomparsi 500 mila posti di lavoro. Mezzo milione di persone a casa senza stipendio. Sui tetti, sulle gru, sui moli, ai cancelli delle fabbriche ci sono in queste ore i lavoratori della Merloni, della Fiat di Pomigliano d'Arco, della Fincantieri, della Yamaha di Lesmo. I 49 pionieri della Innse hanno fatto scuola. In ogni città se alzate gli occhi vedete striscioni, cartelli. La flessibilità ha aumentato le differenze sociali, dice il rapporto sulle disuguaglianze economiche presentato ieri al Nens: il 10 per cento delle famiglie possiede la metà della ricchezza del Paese. La metà degli italiani ne possiede il 9,7 per cento. Una forbice sudamericana d'altri tempi, cifre da paese in via di sviluppo. In questo contesto il governo proroga fino al 30 aprile lo scudo fiscale concepito per far rientrare a prezzo di una mancia i denari di chi ha evaso le tasse nascondendo all'estero le sue ricchezze. Chi ha pagato regolarmente sta dentro quella metà di italiani che vive onestamente, spesso con poco o pochissimo. Chi non ha pagato sta in quel 10 per cento che vive disonestamente con molto o moltissimo. Siamo di nuovo al punto: non servono, in Italia, nuove leggi. Basterebbe applicare quelle che ci sono e controllare che siano rispettate, eventualmente punire chi non lo fa. Basterebbe volerlo. Basterebbe non essere della partita di chi evade.
All'origine del dissenso verso chi governa c'è normalmente una condizione materiale vissuta come ingiusta e diseguale. Il dissenso, la critica sono strumenti di espressione dati in democrazie a chi altri non ne ha. A chi non dispone di televisioni e di giornali, per esempio: ai cittadini. Quando Schifani dice che Facebook diffonde il terrorismo peggio che negli anni Settanta mette un'altra pietra all'edificio della censura, quella di cui Lukashenko, a cui Umberto De Giovannangeli dedica la seconda puntata sugli amici imbarazzanti del premier, è maestro. A Repubblica, ad Anno Zero ai colleghi del Fatto auguriamo di continuare a fare il loro lavoro con libertà. Ce lo auguriamo per noi, il vostro straordinario sostegno ci rafforza di giorno in giorno. Grazie.
da unita.it
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Virzì, ridare le parole alle cose negli anni dell'Italia perduta
di Concita De Gregorio
Non c'è niente di cui abbiamo più bisogno. Ridare un nome alle cose. Daccapo, rinominarle come quando dopo un'epidemia, una perdita di memoria collettiva arriva un superstite con le etichette e le attacca alle cose: tavolo, sedia, lampada, penna. Guardate: pen-na. Serve a scrivere. Ecco. In un tempo in cui davvero non sappiamo più di cosa parliamo quando parliamo d'amore (di Chiesa e di carità cristiana? di regole e diritto di famiglia? di politica per farci un partito?) Paolo Virzì ha fatto un film che riassegna un posto ai sentimenti: il loro posto.
Confuso eppure chiarissimo, scalcinato e indistruttibile, agrodolce, semplicissimo, definitivo, talmente piccolo da contenere una persona sola e così grande da farci entrare tutti. Un film che parla di vita mentre racconta la morte, di cose che funzionano al collasso, di bellezza inconsapevole, la bellezza senza silicone e senza restauri quella delle donne che «intrampolano» sui tacchi e scoppiano nei vestiti, che ridono e piangono ma mai in favore di telecamera, sempre e solo per sé, quella dei palazzi quadrati in una città di vento, dei giardinetti spelacchiati e dei tinelli con la specchiera dove i bimbi crescono di quello che c'è, pazienza se è poco.
Un posto qualunque che però è un posto preciso e vero invece, è Livorno: la più anonima e scalcagnata delle città, la più brutta di Toscana - «cosa c'ha che non ti piace Livorno?». «Tutto» - e invece liquida e lucida nelle notti sui Fossi, ariosa dei giorni, una città che è un posto di transito dove tutto passa e tutto in qualche storto modo resta e a chi ci vive sembra sempre di ballare. Di fare il bagno al mare, «che fa tanto bene».
Mentre la politica avvilisce, il Paese imbruttisce, i sentimenti collettivi intorpidiscono e la direzione di marcia (dove si va, con chi, chi guida?) è così vaga che è meglio non pensarci e andare al bar a far colazione col cornetto esce "La prima cosa bella", l'ultimo film di quello che i critici indicano come il vero erede della grande tradizione della commedia all'italiana, il regista che ci ha raccontato gli scontri di classe quel che resta della borghesia gli operai di provincia la chimera del successo tv la paranoia macabra dei call centre. E dunque cosa fa oggi Virzì, in questa landa desolata? Un film di denuncia, un film sulla politica del malaffare e delle leghe, un film sulla crisi economica? Nemmeno per sogno. Fa (con Francesco Bruni, coautore di sempre, e con Francesco Piccolo) l'unica cosa che abbia senso: fa reset, come col computer.
Daccapo. Ricominciamo da capo. Una storia vera e semplicissima che comincia negli anni Settanta e arriva a stamattina, parte dalla Castiglioncello di Dino Risi e Mastroianni e ci torna adesso, sul lungomare di libeccio dove sono rimaste solo le tamerici e i cavalloni, quelli uguali. Dice: mare, desiderio, vergogna, paura, bellezza, morte, zucchero, fratelli. Ci mette l'etichetta. Una mamma bellissima che ti rovina la vita e te la riempie, un padre che di suo ci mette le botte della gelosia, due bambini da tirarsi dietro scappando sempre per mano, sempre cantanto, via bimbi si canta? Non è nulla, cantiamo.
Stefania Sandrelli così brava non l'avete vista mai: a letto nell'hospice un momento prima di morire che fa ridere e innamora, che scappa per andare al cinema e al figlio quarantenne dice ti serve nulla amore? Mutande, calzini?, poi mangia lo zucchero filato. Michela Ramazzotti, la madre da giovane, è un fiore selvatico una tromba d'aria al largo dell'Elba, uno spettacolo della natura che uno la guarda e dice: da dove viene, a chi somiglia? I due fratelli, Claudia Pandolfi e Valerio Mastrandrea, sono bravi da sembrare veri: belli mentre sono brutti, pieni di dispetto nell'amore e di segreti facili da riconoscere anche per chi non li nomina mai, i segreti di ciascuno.
Tutti gli attori sono diretti così da risultare tagliati al millimetro, Dario Ballantini e Marco Messeri, i livornesi: il giornalista lacchè col parrucchino Emanuele Barresi, il vicesindaco Giorgio Algranti, la professoressa di liceo Lucilla Serchi. Alcuni di loro sono davvero questo nella vita. Una professoressa, una cassiera del cinema, un medico di cure palliative, un regista, un portuale. I costumi, di Ella Pescucci, un capolavoro dell’anima: dev’essere stato bello per una superstar come lei tornare sul lungomare di Rosignano da dove è partita.
Così quando il film finisce si canta "la prima cosa bella" per una settimana, ci si sente che anche quando va male si può sempre dire «però ci siamo tanto divertiti», si pensa che bisognerebbe ritelefonare alla zia Lina e tornare a casa, ogni tanto. La casa di quando eravamo bambini. Perché non ha proprio senso arrendersi, mai. Né davanti alla chemio né davanti al fallimento di un progetto né davanti alla vita quando il mondo fuori è quello che è, dove niente è più al suo posto e non si sa come farcelo tornare. Ecco come: ricominciando da dove siamo partiti, dal nostro posto, prendendo i bimbi per mano e attraversando la strada di notte, non importa se è buio e se fa vento. La luce è dentro, basta accenderla.
11 gennaio 2010
da unita.it
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