Concita DE GREGORIO
Admin:
11/06/2009 22:45
Concita De Gregorio
Ombre e palme
Mentre il leader beduino Gheddafi attraversava Roma paralizzata dalla sua visita a bordo di una limousine color sabbia del deserto, le tendine decorate da palme - un'ambulanza, tre camionette dei carabinieri, sedici auto di scorta contenenti tra l'altro decine di amazzoni al seguito - duecento metri più in là, a Montecitorio, l'aula del Parlamento italiano che a differenza di quello libico rappresenta una democrazia votava una legge voluta dal premier e dettata dal suo ministro Alfano che impedisce, di fatto, di usare per le indagini le intercettazioni telefoniche, uno dei più efficaci strumenti di lotta al crimine in un'epoca in cui i piccioni viaggiatori non si usano più e le lettere di carta sono parecchio in disuso, pizzini a parte. Mentre il presidente di tutte le Afriche intratteneva il sindaco Alemanno, in origine componente del medesimo partito fascista che uccise l'eroe di cui Gheddafi porta la foto appesa al petto, dicendo che «l'America nell'86 non si è comportata diversamente da Bin Laden» - affermazione sulla quale alcuni potranno trovarsi eventualmente d'accordo, difficile che ci rientrino Frattini e Berlusconi - 21 parlamentari dell'opposizione nascosti dal voto segreto contribuivano ad approvare quella che l'Associazione nazionale magistrati chiama la legge bavaglio. «Avremo le mani legate», dicono i giudici. Il Parlamento approva. Mentre il colonnello invocava il dialogo coi terroristi e proponeva di abolire i partiti «aborto della democrazia» (poi fermava il chilometrico corteo per salutare una coppia di sposi con lui festosissimi, un tifoso della Roma gli regalava la sua maglia) tre consiglieri del Csm, in un palazzo vicino, si dimettevano dai loro incarichi per protesta contro le parole del ministro della Giustizia, il medesimo Alfano di cui sopra. In aula, intanto, boati e cartelli dai banchi dell'opposizione: la libertà di informazione è morta oggi.
È stata una giornata così: molto materiale per i tg, parecchio folklore cupo, sirene spiegate e cartelli, urla e sit in, il mondo fuori e il mondo dentro il Palazzo. La visita di Gheddafi si conclude oggi con l'incontro con centinaia di donne imprenditrici e «di successo», non è una battuta, è vero. Lui poi ripartirà, avendo lasciato a chi ci governa in cambio di tanto imbarazzato silenzio almeno qualche promessa di contratti miliardari. Sempre a parlare di soldi si finisce, sempre quello il motore e il bavaglio. In fondo nel nostro piccolo sappiamo di cosa si tratta.
In redazione abbiamo invitato ieri i giovani delle scuole di formazione politica per un forum a chiusura della serie «Le belle bandiere» - proposte e critiche, voci delle nuove generazioni per «il partito che vorremmo». Mai come in questo momento (all'indomani delle elezioni, alla vigilia di un nuovo cantiere da aprirsi in vista del congresso) c'è bisogno di ascoltare e capire le indicazioni di chi si è sentito ed è stato finora escluso. Le soluzioni che propongono, la strada che indicano. Scrivono Federica Fantozzi e Mariagrazia Gerina che i giovani chiedono un ritorno al partito «porta a porta», non modello Vespa: modello Pci. Parlano dei nonni, meno dei padri. D'Alema intanto indica in Pier Luigi Bersani il suo candidato. La partita, ufficialmente, è aperta.
da unita.it
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Congresso Pd, Chiamparino rinuncia: «Troppo solo»
di Concita De Gregorio
«Ci ho pensato seriamente fino a stamattina. Ero a un passo dall’accettare questa candidatura che in così tanti, soprattutto dal popolo democratico, mi chiedevano. Poi mi sono fermato un momento, una breve pausa di solitudine, e ho sentito uno strano silenzio. Il silenzio della politica, perché c’è un’aspetto emotivo importante - quando si deve prendere una decisione come questa - e c’è un aspetto politico decisivo. Avrei corso per vincere, naturalmente, non per fare da candidato di colore in una partita a due. E per vincere c’è bisogno del sostegno del popolo democratico, naturalmente, degli amici e dei compagni ma soprattutto c’è bisogno del partito. Così mi sono messo in attesa di qualche telefonata rivelatrice. Non sono arrivate. Non ho sentito non dico Letta ma neppure Fioroni, non ho sentito nessuno di coloro che stanno preparando il congresso, né D’Alema, certo, né Fassino: da Piero, per meglio dire, non ho sentito una parola chiara e poiché ci conosciamo e ci stimiamo da quarant’anni, ho capito».
Sergio Chiamparino è nel suo ufficio di sindaco. «Sto guardando la posta. Può sembrare una sciocchezza, ma è decisivo, per me, rispondere ai cittadini. Lo faccio ogni giorno. Se fossero mancati pochi mesi alla scadenza del mandato, anche un anno, avrei potuto tirare la carretta ma due anni no, due anni sono tanti e non si può fare il segretario e il sindaco di una città come questa. Così se mi fossi candidato - lo avrei fatto, ripeto, per vincere - avrei dovuto interrompere il mandato. Non è il momento, non mi pare proprio che lo sia. Sarebbe stato un rischio lasciare Torino adesso, con queste condizioni politiche al Nord. Non abbiamo bisogno di interrompere quello che funziona.
«Certo, servirebbe anche un grande slancio alla guida del Pd. Di un rinnovamento vero, di un progetto deciso. È per questo che sono stato tentato. Ho creduto che la mia candidatura, se adeguatamente sostenuta, avrebbe potuto sbloccare un meccanismo fatale, far uscire questa campagna precongressuale dalla logica dello scontro frontale, degli eserciti schierati per cui l’unica domanda che si sente è “tu con chi stai” e non “tu cosa vuoi, come intendi realizzarlo”. Mi pare che sia questo invece che si vuole: lo scontro. Io avrei potuto mettermi al servizio del partito per evitarlo, non ho nessun interesse a fare il terzo uomo di facciata per avere un po’ di visibilità. Non ne ho davvero bisogno. Ho molto da lavorare, non mi basta il tempo. Ho sentito forte la spinta che viene dal basso. Capisco e vedo quanto grande sia l’area del malcontento, di quelli che non vogliono andare ad una conta che replica vecchi schemi e antichi dualismi. Ma un partito nuovo e un progetto forte non si fanno mettendo insieme il malcontento. Non serve e non basta.
Ci vuole coraggio, coesione, bisogna che le forze si uniscano e non si dividano: bisogna, bisognerebbe che ciascuno si chiedesse qual è il bene comune, l’obiettivo che lo realizza, e che si mettesse al servizio di quella causa persino suo malgrado. Non siamo ancora pronti. Il partito è insieme fluido e rigido. Potrebbero essere due virtù, risultano due difetti. È fluido laddove avrebbe bisogno di struttura, è rigido dove servirebbe elasticità. Ho capito, nelle ore del mattino, che la mia candidatura sarebbe stata funzionale alla legittimazione del duello e non sarebbe servita ad evitarlo. I candidati sono entrambe persone di grandissimo valore.
Non capisco perché si debba procedere per eliminazione e non per unione delle forze. So che moltissimi dei giovani che si affacciano oggi alla vita politica e molti dei meno giovani che se ne sono allontanati disillusi si aspettavano da me un gesto e mi dispiace non poter soddisfare la loro aspettativa ma in queste condizioni si sarebbe rivelata un boomerang. Avrebbe portato all’ennesima frustrazione. La speranza è un sentimento positivo, non le si può lasciare un angolo come palestra. Bisogna investire sulla forza di chi si aspetta da noi scelte chiare e coraggiose. Avere coraggio e chiarezza nel farlo. Verrà il tempo. Ho altri due anni da sindaco di una città magnifica, molto lavoro e nessun risentimento».
01 luglio 2009
da unita.it
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«Una candidatura anti apparato»
di Concita De Gregorio
Il tavolo di Ignazio Marino è coperto di lettere, mail, biglietti. «Sono consigliere e sindaco, ho contribuito a fondare il Pd, non ho ancora preso la tessera: aspetto, per farlo, la sua candidatura». «Sono una studentessa universitaria, la prego, Marino, abbiamo bisogno di lei». Il tenore è questo. Elettori e simpatizzanti del Pd, delusi o disillusi in attesa di ricredersi, persone con un piede sulla soglia: prendo la tessera solo se lei si candida, dicono. «Sento molto forte la spinta che viene dall’elettorato, davvero è qualcosa di palpabile: c’è un grande desiderio di rinnovamento e di nuovo inizio, parole chiare sui valori e sulle scelte, niente più logica della “posizione prevalente”. Sento bisogno di coraggio. Le persone che incontro nelle piazze, negli ospedali, nelle scuole chiedono di essere ascoltate, vogliono essere rappresentate da qualcuno che sfugga alla logica tutta autoreferenziale degli apparati e delle oligarchie. Del resto non c’è chi non veda come questo tipo di confronto allontani il consenso. È come chiudersi in una stanza mentre fuori, in piazza e per strada, se ne stanno andando tutti».
In queste ore Marino è molto preoccupato dalla notizia, anticipata ieri nella rubrica «Il congiurato» de l’Unità, del patto stretto da Gianni Letta con le gerarchie vaticane: un patto che anticipa la discussione sul testamento biologico da ottobre a luglio in modo tale da far passare quel «progetto dissennato» nel silenzio e col favore dell’estate. Sarebbe questa, si dice a Palazzo, la prima moneta di scambio che il clero ha preteso dal governo come condizione per ricucire con il Berlusconi degli scandali sessuali e del Bari-gate. «Ecco che di nuovo si fa un gioco di potere e di interessi sulla pelle dei cittadini. E l’opposizione? Lo denuncia, si prepara alle barricate? Non mi pare».
In effetti c’è uno strano silenzio attorno all’ufficio del senatore a Sant’Ivo alla Sapienza. I notabili di partito sono molto, molto intimoriti da una sua eventuale decisione. La notizia, filtrata sui giornali in queste ore, di una possibile alleanza fra Marino e la generazione dei quarantenni (Pippo Civati e gli altri del Lingotto) nel nome del cambiamento e contro l’eterno conflitto fra Ds e Margherita, fra Ds e Ds, la possibilità che chi non ha conti personali da saldare possa unirsi in una campagna comune cresce nel tam tam delle stanze di chi prepara il congresso. Marino è molto tentato, moltissimo. «Giorni fa fuori dalla sala operatoria mi sono messo a scrivere un testo, una sorta di indice delle questioni sulle quali mi piacerebbe che il congresso discutesse».
Una sorta di manifesto programmatico, in verità. Si parla di diritti civili, di meritocrazia e di laicità. Comincia così: «Come molti ragazzi della mia generazione preparavo gli esami di medicina in compagnia di un mito, un medico anche lui, Che Guevara, un poster nella mia camera. Crescendo ho affiancato a quella la foto di Berlinguer pubblicata da l’Unità nel giorno in cui morì. In quegli stessi anni in cui si formava la mia coscienza di adulto consolidavo le mie convinzioni di credente su principi che non escludevano la partecipazione al fermento sociale degli anni Settanta. Anni dopo, vivendo e lavorando negli Usa, mi sono ritrovato a curare con il trapianto di fegato decine di veterani del Vietnam, soldati contro i quali avevo manifestato da ragazzo». Il Foglio ha pubblicato il testo dicendo che si tratta di «una requisitoria che vale come una candidatura». Non c’è dubbio che sia così. «Dove sono finiti i temi che riguardano la vita di ognuno? Il diritto al lavoro, a un salario dignitoso, alla casa, la gestione dei rifiuti nelle grandi aree metropolitane, i treni per i pendolari, i cinquecento ospedali a rischio sismico, il milione di persone che ogni anno emigra dal sud al Nord per curarsi, gli oltre 200 mila precari di una scuola sempre più povera, la giustizia senza risorse che costringe le persone nel limbo dell’incertezza?».
Il Pd, dice Marino, non è il fine, ma lo strumento: il fine è il bene del Paese. Dunque si candiderà? Il senatore sorride, chiede ancora qualche ora di tempo: «Vorrei fare qualcosa di utile per tutti, portare il mio contributo fuori dalle logiche di potere. I meccanismi congressuali blindano i movimenti di chi non sia già irregimentato. Però forse qualcosa si può fare. Mi lasci ancora un paio di giorni, ho una paziente che aspetta un trapianto: vado, torno e poi ne parliamo».
02 luglio 2009
da unita.it
Admin:
01/07/2009 22:34
Un premier due morali
Concita Di Gregorio
Chissà. Forse è l'ennesimo complotto. O una specie di maledizione. Ma di nuovo - mentre s'interroga sull'ennesima tragedia causata dall'incuria e dal caos normativo - il paese è costretto ad occuparsi della doppia morale del presidente del Consiglio. Lo schema è sempre lo stesso. Il Noemigate ci ha fatto constatare che il sostenitore del family day, l'uomo che bacia la mano al papa, l'ispirato difensore dei valori della cristianità non disdegna d'accompagnarsi a ragazze delle quali potrebbe essere il nonno e di trascorrere una notte con una squillo pagata da altri. Ieri abbiamo abbiamo dovuto scoprire che il fustigatore delle «toghe rosse», il castigatore dei pubblici ministeri che partecipano a dibattiti di carattere politico, il perseguitato dalla giustizia, intrattiene rapporti amichevoli e conviviali con i magistrati che dovranno decidere sulla legittimità costituzionale della legge che l'ha reso immune dalla giustizia medesima. Quel «lodo Alfano» che, tra l'altro, è all'origine di una delle sentenze più innovative della storia giudiziaria italiana: la punizione di un corrotto (l'avvocato Mills) ma non del suo corruttore. La notizia era filtrata qualche tempo fa. Ieri è stata solennemente confermata dal governo. Nelle prime settimane dello scorso mese di maggio il presidente del Consiglio è andato a cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella il quale, per tenergli compagnia, si era premurato di invitare anche Paolo Maria Napolitano, un altro dei giudici che dovranno decidere sulla legittimità della più famosa delle leggi ad personam. Si trattava, naturalmente, di una bicchierata tra amici e non si è parlato nel modo più assoluto del lodo Alfano. E infatti c'erano persone totalmente disinteressate alla questione, Gianni Letta, il senatore Carlo Vizzini e anche, casualmente, il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Non è finita. Perché ieri, dopo che era scoppiata la polemica sulla reale natura del party, il giudice Mazzella ha fatto sentire la sua voce. Si è cosparso il capo di cenere per la sconcertante gaffe? Si è dimesso? Figuriamoci. Il giudice Mazzella - per sottolineare la sua indipendenza - ha scritto una vibrante lettera alla presidenza del Consiglio dei ministri. Parole di fuoco: «Caro Silvio, siamo oggetto di barbarie ma ti inviterò ancora a cena». Lo racconta Claudia Fusani.
Inauguriamo oggi le pagine di Unità Estate al centro del giornale. Seguendo il filo del riavvicinamento fra generazioni (più di tutti ci piace quello fra nonni e nipoti) abbiamo provato a mescolare le culture, portare i vecchi e i giovani sullo stesso terreno e vedere se si parlano, in cosa si capiscono. Nel «Calendario del popolo» abbiamo chiesto alle nostre firme più illustri di declinare in modo semplice e chiaro una «parola da salvare». Oggi trovate «Libro» di Vincenzo Cerami. Giovanni Nucci racconta Shakespeare a chi non l'ha letto o l'ha dimenticato. Comincia con Giulio Cesare, in tema di complotti. Due pagine sono dedicate allagrafic novel su Peppino Impastato, la prima di una serie di storie che pubblicheremo a puntate. Accanto le rubriche di Andrea Camilleri, Fortebraccio, Jovanotti. Molto altro arriverà.
da unita.it
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Pd, Marino: pronto l'appello agli elettori
di Concita De Gregorio
L’appuntamento è stasera a Verona. Pippo Civati e una delegazione di giovani democratici, quelli del Lingotto, incontra Ignazio Marino. Vanno da lui nell’ospedale dove opera, vanno a parlare della struttura da dare a un cammino comune: la terza candidatura prende forme in queste ore. Marino è pronto. Il suo "manifesto" è già in rete, si sta studiando un appello agli elettori: i giovani portano in dote la speranza in un partito “aperto” che sappia rianimare la passione in chi l’ha smarrita, il senatore il suo carisma e la sua credibilità, una visione “americana” di partito dei talenti, l’essere «estraneo alla logica delle correnti» come sottolinea il suo consigliere Goffredo Bettini che giusto ieri al Caprainica, seduto ad ascoltare Veltroni, diceva di lui: «Macché solo un chirurgo, è molto più abile politicamente di quanto si possa pensare, è una persona onesta e libera ma insieme acuta e sottile, doti che difficilmente si coniugano. Il mio cuore batte per lui, per l’amore che porto allo spirito del progetto del Pd».
Mentre Bettini parlava al Capranica del «suo candidato» Ignazio Marino limava il testo di un appello agli elettori che vedrà la luce nelle prossime ore. La saldatura col gruppo dirigente di “giovani” (i quarantenni in questo paese sono considerati tali) parte, sul piano strategico, da un appello al tesseramento. «Contiamoci», dicevano i democratici del Lingotto. «Facciamo un passo l’uno incontro all’altro», dice Marino. Si rivolge agli elettori, ai sostenitori, ai delusi: a tutti quelli che sono con un piede sulla soglia dell’impegno politico. «Potremmo incontrarci a metà del ponte, noi e chi ci chiede con forza di impegnarci: un passo a testa. Noi verso l’impegno, loro verso il sostegno a questo impegno. Dobbiamo essere in tanti, solo così potremo partire». Il primo passo sarà dunque un appello al tesseramento. Una cosa del tipo: tutti quelli che chiedono un rinnovamento del partito battano un colpo adesso, mostrino di esserci. Vadano al circolo vicino e prendano la tessera.
In questo modo la candidatura di Marino e il sostegno di Civati e del gruppo del Lingotto assumerebbe due segni: il primo, quello di un obiettivo contributo al tesseramento che langue a quota 300 mila (qualcuno dice 400, non esistono dati ufficiali) e che rafforzerebbe la consistenza degli iscritti al Pd, cosa che a nessuno può dispiacere. Il secondo, quello di «contare» davvero la quota dei sostenitori del “terzo uomo” e di consentirgli di avere accesso al congresso, dove solo gli iscritti voteranno i candidati alla segreteria. Al congresso serve un numero minimo di consensi (un pacchetto di tessere) che in questo momento Marino e Civati non hanno, essendo entrambi estranei alle correnti che controllano e sollecitano il reclutamento. Chiamare al tesseramento chi altrimenti - nello scontro frontale fra Bersani e Franceschini, quello che Anna Finocchiaro definisce «una guerra ad eccessivo tasso di testosterone» - non avrebbe aderito al Pd è quindi la porta d’accesso di Marino al congresso e ad una sua successiva presenza alle primarie. E’ chiaro che poi, alle primarie appunto, la voce degli elettori può rovesciare l’esito del congresso. Siamo al primo passo. Marino e i quarantenni di Civati da una parte, i loro sostenitori dall’altra. Una settimana e sapremo quanti sono.
03 luglio 2009
da lastampa.it
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